Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 23 aprile 2004, n. 7717 - Infortunio in itinere e uso del mezzo privato "necessitato"


 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. Giovanni PRESTIPINO - Presidente -
Dott. Alberto SPANO' - Consigliere -
Dott. Giovanni MAZZARELLA - Consigliere -
Dott. Francesco Antonio MAIORANO - Rel. Consigliere -
Dott. Camilla DI IASI - Consigliere -
ha pronunciato la seguente
SENTENZA


sul ricorso proposto da:
GEAF SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA C.SO TRIESTE 87, presso lo studio dell'avvocato BRUNO BELLI, che lo rappresenta, e difende unitamente all'avvocato ANTONIO GIOVATI, giusta delega in atti;
- ricorrente -
contro
INAIL - ISTITUTO NAZIONALE PER L'ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA IV NOVEMBRE 144, rappresentato e difeso dagli avvocati FRANCO QUARANTA, ADRIAMA PIGNATARO, giusta delega in atti;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 88/2001 della Corte d'Appello di BOLOGNA, depositata il 06/03/01 - R.G.N. 695/2000;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/10/03 dal Consigliere Dott. Francesco Antonio MAIORANO;
udito l'Avvocato QUARANTA;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Pietro ABBRITTI che ha concluso per il rigetto del ricorso.




Fatto

Con ricorso alla Corte di Appello di Bologna la G.E.A.F. Srl. proponeva appello avverso la sentenza del giudice del lavoro di Parma, con cui era stata rigettata la sua domanda proposta nei confronti dell'INAIL per la declaratoria che l'incidente stradale subito in data 2/8/96 dal dipendente R.D'E. (mentre si recava al lavoro con la propria autovettura) non era qualificabile come infortunio sul lavoro e quindi che l'Istituto aveva erroneamente aumentato il tasso di premio per il 1998 dal 41 al 51 per mille, in relazione all'incremento, dell'andamento infortunistico aziendale conseguente al verificarsi di quell'infortunio; secondo il ricorrente l'uso del mezzo proprio da parte del lavoratore non era giustificato, essendo la zona servita da mezzi pubblici adeguati in relazione all'orario di lavoro ed alla possibilità per il lavoratore di fruire di un orario flessibile.

L'INAIL contrastava il gravame e la Corte d'Appello lo rigettava, sul rilievo che la tutela assicurativa per gli infortuni c.d. "in itinere" (che il lavoratore, cioè, subisce per andare dalla sua abitazione al luogo di lavoro, o per tornare) operava solo quando l'ubicazione di tale luogo, o particolari esigenze derivanti dalle modalità della prestazione lavorativa o dalle richieste del datore di lavoro, imponessero di seguire determinati percorsi o di utilizzare mezzi di trasporto diversi da quelli pubblici ordinari; non esisteva una generale copertura assicurativa e l'infortunio in itinere era indennizzabile solo quando era strettamente connesso con la prestazione dell'attività lavorativa. Al fine di valutare l'indennizzabilità di un tale infortunio era necessario valutare: a) se i mezzi pubblici coprissero o meno l'intero percorso; b) se gli orari di tali servizi fossero o meno compatibili con l'orario di lavoro; c) se le condizioni dei servizio pubblico fossero tali da creare rilevante disagio per il lavoratore, prolungando oltre misura la sua assenza dalla famiglia; d) se il datore di lavoro avesse predisposto o meno i servizi necessari in caso di pernottamento (vitto, alloggio ecc.); e) se fosse o meno salvaguardato il diritto del cittadino alla libera scelta del luogo di abitazione.

Nel caso di specie, il primo giudice aveva accertato che i mezzi di trasporto pubblico, colleganti Parma, luogo di abitazione del lavoratore, e Celestano, luogo di lavoro, non consentivano al R.D'E. di "rispettare l'orario di entrata" e quindi aveva esattamente qualificato il fatto come infortunio in itinere, in stretto nesso causale con la prestazione lavorativa, precisando che non poteva "pretendersi da un lavoratore che egli sopporti un disagio" eccessivo, costituito dal notevole prolungamento dell'assenza dello stesso dall'ambito familiare. Né rilevanti erano le considerazioni svolte dalla difesa dall'appellante circa la possibilità di spostare l'orario di entrata ed uscita di 30 minuti, perché nessun obbligo in tal senso poteva ravvisarsi in testa al lavoratore e nessun accordo sul punto era intervenuto fra le parti. L'appello quindi doveva essere rigettato.

Avverso questa pronuncia propone ricorso per cassazione GEAF Srl, fondato su due motivi.

Resiste l'INAIL con controricorso.



Diritto


Lamentando, col primo motivo, violazione e falsa applicazione degli art. 2 e 210 DPR n. 1124 del 30/6/65, art. 12 D. L.vo n. 38 del 23/2/00, art. 1175 e 1375 c.c., nonché omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, deduce il ricorrente che la Corte d'Appello ha sbagliato a qualificare il fatto come infortunio indennizzabile. I fatti sono pacifici in causa: il luogo di lavoro, Celestano, è quotidianamente servito da mezzi pubblici da e verso Parma, luogo di residenza del lavoratore (fra cui uno con partenza da Parma alle 7,10 ed arrivo alle ore 8,05; uno, per il ritorno, in partenza da Celestano alle ore 17,35 con arrivo alle ore 18,35); l'incidente (verificatosi alle ore 7,35, mentre il R.D'E., "avvezzo a viaggiare ad alta velocità ed a condurre il mezzo in modo «sportivo»", si trovava alla guida della propria auto) è stato riconosciuto come infortunio sul lavoro ed in conseguenza di ciò l'INAIL ha comunicato prima il mutamento dell'andamento infortunistico aziendale e poi l'aumento del premio.

La Corte territoriale non ha fatto corretta applicazione dei principi di diritto in tema di infortunio in itinere, mi quanto l'uso del mezzo privato non era "necessitato", nel senso che doveva essere necessariamente usato per raggiungere il posto di lavoro, stante l'impossibilità di usare mezzi pubblici; cosa questa ribadita anche dall'art. 12 del D. L.vo n. 38/00 secondo cui l'assicurazione per gli infortuni sul lavoro "opera anche nel caso di utilizzo del mezzo privato, purché necessitato". E' quindi esclusa la indennizzabilità in caso di libera "scelta del lavoratore, determinata da ragioni di soggettiva opportunità". Il lavoratore non aveva la necessità, di usare la sua macchina e quindi la decisione è errata.

La soluzione non muta neanche se la detta necessità venga interpretata in termini relativi, nel senso che l'uso del mezzo privato venga consentito non solo nel caso in cui sia oggettivamente "necessitato" per l'assenza di mezzi pubblici, ma anche quando la fruizione di tali mezzi comporti un notevole disagio, personale o familiare, che non sia esigibile in base alla economia del rapporto di lavoro, o alle regole di correttezza e buona fede. In questo caso va ricercato il giusto equilibrio fra le esigenze dell'azienda, che non può essere tenuta a farsi carico di tutte le questioni attinenti alla vita privata del lavoratore e che sfuggono alla sua capacità e possibilità di organizzazione o gestione, e quelle del lavoratore. La Corte territoriale ha commesso un errore di giudizio, accogliendo un concetto di "necessità" irragionevolmente relativo ed incorrendo in una discrepanza fra la regola astratta enunciata e quella in effetti applicata. Secondo il Tribunale se l'uso del mezzo pubblico comporti la permanenza fuori da casa per un'ora in più al giorno, vi sarebbe un aggravio eccessivo non esigibile dal lavoratore, così come non si potrebbe imporre allo stesso l'obbligo di fruire della flessibilità dell'orario di lavoro per renderlo compatibile con gli orari del servizio pubblico di trasporto. Entrambe le giustificazioni non sono condivisibili, perché un'ora in più lontano dalla famiglia non è un peso eccessivo, così come non lo è un leggero spostamento dell'orario di lavoro (di appena 30 minuti, recuperabili con una più ridotta pausa pranzo).

Lamentando, col secondo motivo, violazione e falsa applicazione dell'art. 91 CPC deduce il ricorrente che dalla fondatezza del primo motivo di ricorso deriva l'erroneità della sentenza nel capo relativo alla sua condanna alle spese, per i due gradi di giudizio.

Il ricorso è infondato.

La Corte ha già avuto modo di affermare il principio di diritto, secondo cui "ai sensi dell'art. 2 D.P.R. n. 1124 del 1965, l'indennizzabilità dell'infortunio "in itinere", subito dal lavoratore nel percorrere, con mezzo proprio, la distanza fra la sua abitazione ed il luogo di lavoro, postula: a) la sussistenza di un nesso eziologico tra il percorso seguito e l'evento, nel senso che tale percorso costituisca per l'infortunato quello normale per recarsi al lavoro e per tornare alla propria abitazione; b) la sussistenza di un nesso almeno occasionale tra itinerario seguito ed attività lavorativa, nel senso che il primo non sia dal lavoratore percorso per ragioni personali o in orari non collegabili alla seconda; c) la necessità dell'uso del veicolo privato, adoperato dal lavoratore, per il collegamento tra abitazione e luogo di lavoro, considerati i suoi orari di lavoro e quelli dei pubblici servizi di trasporto e tenuto conto della possibilità di soggiornare in luogo diverso dalla propria abitazione, purché la distanza fra tali luoghi sia ragionevole" (Cass. n. 1320 del 1/2/02).

La Corte di Appello si è attenuta a questo principio e quindi la sentenza non merita le censure mosse, che peraltro investono la valutazione di fatto compiuta dal giudice di merito sulla base argomentazioni adeguatamente sviluppate; congrua e convincente è la motivazione sia in relazione alla incompatibilità degli orari dei mezzi pubblici rispetto all'orario di lavoro, sia in relazione al disagio costituito dal prolungamento dell'assenza del lavoratore dalla sua famiglia, giudicato eccessivo, sia infine con riferimento alla possibilità di spostare l'orario di entrata e di uscita dal lavoro, valutata come puramente ipotetica, perché non poteva ravvisarsi la sussistenza di un simile obbligo in testa al lavoratore e nessun accordo in merito era intervenuto fra le parti. Per questa parte quindi la censura va disattesa.

Quanto all'altra critica, relativa alle conseguenze subite dal datore di lavoro per fatti posti in essere dal lavoratore e che sfuggono al suo potere di gestione ed organizzazione, si osserva che la Corte ha affermato il principio di diritto, secondo cui "anche prima dell'entrata in vigore dell'art. 12 del D. Lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, che ha espressamente previsto la indennizzabilità dell'infortunio "in itinere", la riconducibilità di tale infortunio nell'ambito del rischio professionale e dell'assicurazione obbligatoria comportava per il datore di lavoro, in ragione della natura essenzialmente assicurativa della tutela previdenziale antinfortunistica, l'assunzione di tutte le conseguenze contributive derivanti dalla verificazione di quell'evento dannoso e, in particolare, la rilevanza anche di tale infortunio agli effetti del tasso specifico aziendale, che determina - in relazione all'andamento infortunistico aziendale e per le singole lavorazioni assicurate - oscillazioni del tasso medio nazionale dei premi di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali nel settore industriale. Poiché, infatti, la tariffa dei premi, approvata con decreto ministeriale, determina il tasso medio nazionale per ciascuna lavorazione e il tasso specifico aziendale, in relazione all'andamento, parimenti aziendale, di infortuni e malattie professionali, quale risulta dal rapporto tra oneri e retribuzioni, e poiché gli oneri considerati a tal fine sono, fra l'altro, quelli finanziari relativi agli infortuni e alle malattie professionali del periodo di osservazione, fra questi devono essere compresi anche gli oneri relativi alle prestazioni erogate per infortunio "in itinere", in quanto indennizzato dall'INAIL al pari di qualsiasi infortunio sul lavoro a prescindere dalla colpa del datore di lavoro, non avendo questa alcun rilievo ai fini della indennizzabilità dell'infortunio stesso e, quindi, degli oneri considerati dalla Tariffa" (Cass. n. 11792 del 6/8/02).

Il Collegio condivide questo principio e quindi anche sotto questo profilo la censura è infondata. Il primo motivo deve essere perciò disatteso, con conseguente assorbimento del secondo. Le spese vanno poste a carico della società ricorrente e liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

LA CORTE

Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente alle spese, che liquida in Euro 21,00# oltre ad Euro 3000,00 per onorario.

Roma 9 ottobre 2003

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IN DATA 23 APR. 2004