Cassazione Penale, Sez. Unite, 18.09.2014, n. 38343 - Thyssenkrupp “Guida alla lettura” a cura di Arianna Arganese |
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Nesso di causalità fra omesse condotte doverose ed eventi lesivi e suo accertamento nei reati omissivi impropri e commissivi mediante omissione (punti 3, 4, 22, 27 in diritto) |
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PAROLE CHIAVE: Valutazione dei rischi – Documento di valutazione dei rischi – Obbligo giuridico - Autonormazione |
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SOMMARIO: Fatti di causa - Questioni di diritto - Soluzione adottata - Riferimenti giurisprudenziali - Essenziali Riferimenti bibliografici |
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Fatti di causa |
Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, presso lo stabilimento di Torino della ThyssenKrupp, divampava un terribile incendio, che interessava la linea denominata APL5, dedicata alle fasi di ricottura e decapaggio di enormi rotoli di acciaio, nel quale persero la vita sette operai. Sostanzialmente non controverso è lo sviluppo delle circostanze che determinarono l’innesco e lo sviluppo dell’incendio: il primo innesco riguardò carta accartocciata vicino al punto di sfregamento tra il nastro di acciaio in lavorazione con i bordi dell’impianto posto a quota +3 metri che, infiammatasi, precipitò sul piano sottostante, ove si trovavano spezzoni di carta e ristagni di olio di laminazione che alimentarono l’incendio. Nell’arco di circa dieci minuti l’incendio coinvolse tutta la carta e l’olio esistenti sul pavimento. I lavoratori, avvedutisi dopo alcuni minuti di quanto accadeva, si precipitarono fuori dal pulpito nel quale si trovavano e, con gli estintori a breve gittata, tentarono di spegnere le fiamme, provando pure ad utilizzare una manichetta dalla quale tuttavia l’acqua non fuoriusciva, ma vennero investiti da una nuvola incandescente di olio nebulizzato (flash fire), che si espanse improvvisamente per un’ampiezza di 12 metri, senza lasciare loro possibilità di scampo. Le misure avviate per spegnere l’incendio si rivelarono inefficaci ed esso divampò ulteriormente e fu domato solo dopo un lungo e laborioso intervento dei vigili del fuoco. Dalle primissime indagini dopo l’incendio emerse un complessivo degrado dell’impianto e la parziale inefficienza degli strumenti di spegnimento, tanto che gli ispettori dell’Asl riscontrarono ben 116 irregolarità e constatarono la mancata manutenzione delle attrezzature, il danneggiamento di parti elettriche, l’accumulo di materiale infiammabile. Della morte dei sette operai venivano chiamati a rispondere, a vario titolo: l’Amministratore delegato e membro del Comitato esecutivo (c.d. Board) della società, esercente lo stabilimento di Torino, con delega per la produzione e la sicurezza sul lavoro, il personale, gli affari generali e legali; due Consiglieri del Consiglio di Amministrazione e membri del Comitato esecutivo (c.d. Board) della società, con delega, l’uno, per il settore commerciale ed il marketing e, l’altro, per l’amministrazione, finanza, controllo di gestione, approvvigionamenti e servizi informativi; il Direttore dello stabilimento sito in Torino; e due Dirigenti con funzioni, rispettivamente, di Direttore dell’Area Tecnica e Servizi, con competenza nella pianificazione degli investimenti in materia di sicurezza antincendio anche per lo stabilimento di Torino e di Responsabile dell’Area EAS (ecologia, ambiente e sicurezza) e Responsabile del Servizio di Prevenzione e protezione dello stabilimento sito in Torino; nonché e la società, in qualità di persona giuridica, in persona del legale rappresentante, ai sensi dell’art. 25-septies, del d.lgs. n. 231/2001. In particolare, l’accusa formulava i seguenti capi d’imputazione: A) tutti gli imputati, in concorso tra loro, del reato di cui all’art. 437, cc. 1 e 2, c.p., per aver omesso di dotare la linea di ricottura e decapaggio denominata APL5 di impianti ed apparecchi destinati a prevenire disastri ed infortuni sul lavoro; ed in particolare di adottare un sistema automatico di rivelazione e spegnimento degli incendi, di cui emergeva la necessità in considerazione dell’alto rischio dovuto alla presenza di olio idraulico in pressione, olio di laminazione e carta imbevuta di olio. Fatto dal quale sono derivati un disastro (incendio), di cui ai capi C e E, ed un infortunio sul lavoro che ha determinato la morte di sette operai, evento rubricato ai capi B e D, nonché lesioni personali in danno di altri; B) Al solo Amministratore delegato, imputato del reato di cui agli artt. 81 e 575 c.p., per aver cagionato volontariamente la morte dei lavoratori, essendosi rappresentata la possibilità del verificarsi di infortuni anche mortali, in quanto a conoscenza delle contingenze già riportate nel capo A) e di aver accettato tale rischio, giacché, in virtù dei poteri decisionali inerenti alla sua posizione apicale, nonché della specifica competenza e delega in materia di sicurezza sul lavoro, prendeva la decisione di posticipare l’investimento antincendio, sebbene lo stabilimento si trovasse in una situazione di crescente insicurezza; C) Al solo Amministratore delegato, imputato del reato di incendio doloso di cui all’art. 423 c.p., per aver cagionato nella linea APL5 un incendio violento, rapido e di vaste proporzioni dal quale derivava la morte dei lavoratori, in quanto, pur informato della concreta possibilità del verificarsi di incendi, ometteva di adottare le misure tecniche, organizzative, procedurali i prevenzione e protezione contro gli incendi; contestandogli di non aver adeguatamente valutato il rischio di non aver organizzato percorsi informativi e formativi nei confronti dei lavoratori, di non aver installato un sistema automatico di rilevazione e spegnimento degli incendi, nonostante la situazione i crescente abbandono ed insicurezza dello stabilimento; tutte condotte derivanti dalla decisione di posticipare l’investimento antincendio; D) Ai membri del Comitato esecutivo, ai due Consiglieri del Consiglio di amministrazione, ai due Dirigenti ed al Direttore dello stabilimento, imputati del reato di cui all’art. 61 c.p., n. 3 e art. 589, cc. 1, 2 e 3, c.p., per aver cagionato per colpa la morte dei lavoratori, con le aggravanti della violazione delle norme di sicurezza sul lavoro e di aver agito nonostante la previsione dell’evento; E) Ai membri del Comitato esecutivo, ai due Consiglieri del Consiglio di amministrazione, ai due Dirigenti ed al Direttore dello stabilimento, imputati del reato di incendio colposo cui all’art. 61 c.p., n. 3 e artt. 449 e 423 c.p., per aver cagionato l’incendio, a causa delle condotte colpose riportate al capo D), con l’aggravante della previsione dell’evento; In primo grado, la Corte di Assise di Torino, sezione seconda, con sentenza del 14.11.2011 (ud. 15.04.2011), n. 31095, in accoglimento delle richieste della Procura della Repubblica, affermava la responsabilità degli imputati in ordine ai reati loro ascritti, condannando l’Amministratore delegato della società ad una pena di anni 16 e mesi 6 di reclusione per i delitti di omicidio volontario plurimo (artt. 81, c. 1 e 575 c.p.), incendio doloso (art. 423 c.p.) e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro aggravata dall’evento (art. 437, c. 2, c.p.); gli altri cinque imputati, Amministratori e Dirigenti dell’impresa, a pene comprese tra 13 anni e 6 mesi di reclusione e 10 anni e 10 mesi di reclusione, per i delitti di omicidio colposo plurimo (art. 589, cc. 1, 2 e 3 c.p.) e incendio colposo (art. 449 c.p., in relazione all’art. 423 c.p.), entrambi aggravati dalla previsione dell’evento, e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro (art. 437, c. 2, c.p.); nonché, in solido tra loro e con il responsabile civile, al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili; nonché, ai sensi dell’art. 25-septies del d.lgs. n. 231/2001, la società ThyssenKrupp Acciai speciali Terni S.p.A., alla sanzione pecuniaria di un milione di euro (ex artt. 9, 10 e 12, c. 2, lett. a), disponendo, oltre alle sanzioni interdittive della esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi per la durata di 6 mesi (ex art. 9, c. 2, lett. a), e del divieto di pubblicizzare beni o servizi per la durata di 6 mesi (ex art. 9, c. 2, lett e) ed alla confisca del profitto del reato per una somma di 800 mila euro (ex art. 19), la pubblicazione della sentenza sui quotidiani di diffusione nazionale. Impugnata dalle difese degli imputati, la sentenza di primo grado veniva parzialmente riformata in appello dalla Prima Corte di Assise d’Appello di Torino, la quale, con sentenza del 27.05.2013 (ud. 28.02.2013), n. 6, disattendendo le conclusioni della Corte di Assise in tema di dolo eventuale, riqualificava i fatti contestati all’Amministratore delegato, di cui al capo B), in omicidio colposo ai sensi dell’art. 589 c.p., cc. 1, 2 e 3 e dell’art. 61, c.p., n. 3, e di cui al capo C), in incendio colposo, ai sensi dell’art. 449 c.p. e dell’art. 61, n. 3, c.p., entrambi aggravati dalla previsione dell’evento; per tutti, il reato di incendio colposo veniva ritenuto assorbito in quello di cui all’art. 437, cc. 1 e 2, c.p., rubricato al capo A), e riconosciuto il concorso formale tra i reati di cui agli artt. 437 e 589 c.p.; per l’effetto le pene venivano rideterminate in senso più favorevole per tutti gli imputati; mentre le statuizioni nei confronti della società, di cui al d.lgs. n. 231/2001 venivano integralmente confermate. Avverso la sentenza di secondo grado veniva proposto ricorso per cassazione, sia dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Torino nei confronti di tutti gli imputati, che dagli imputati. L’Ufficio per l’esame preliminare dei ricorsi della Prima sezione della Corte di Cassazione, cui il processo era stato assegnato, trasmetteva gli atti al Primo Presidente esponendo le divergenze giurisprudenziali sull’individuazione della linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, segnalando l’opportunità che fosse trattato dalle Sezione Unite, anche per chiarire se “la irragionevolezza del convincimento prognostico dell’agente circa la non verificazione dell’evento comporti o meno la qualificazione giuridica dell’elemento psicologico del delitto in termini di dolo eventuale”. Il Primo Presidente della Corte di Cassazione, con decreto del 29.11.2013, riscontrata l’esistenza di dissonanze nella giurisprudenza di legittimità a proposito della evocata linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, valutata altresì l’importanza anche di altre questioni afferenti alla posizioni di garanzia, particolarmente nelle strutture complesse e ad elevato rischio, assegnava il ricorso alle Sezioni Unite. |
Questioni di diritto |
Verificare in quali termini l’infortunio possa essere causalmente imputato ad uno o più garanti della sicurezza, per non aver adottato una condotta doverosa. |
Soluzione adottata |
1. Causalità nei reati omissivi impropri [punti 8, 9] Le discussioni sulla causalità vengono solitamente precedute dall'evocazione della nota sentenza delle Sezioni Unite, 11.09.2002 (ud. 10.07.2002) n. 30328, Franzese, dalla quale, tuttavia, non di rado, si traggono principi ed enunciazioni opposte. Ad oltre dieci anni da tale importante e condivisa pronunzia, si pone la necessità di una breve messa a fuoco ed attualizzazione di alcune questioni di principio, anche alla luce della recente esperienza giuridica. Come è noto, l’ordinamento accoglie la concezione condizionalistica della causalità cui è strettamente legato il giudizio logico controfattuale, necessario per riscontrare l’effettivo rilievo condizionante del fattore considerato: se dalla somma degli antecedenti si elimina con il pensiero la condotta umana ed emerge che l’evento si sarebbe verificato comunque, allora essa non è condizione necessaria; se invece, eliminata mentalmente l’azione, emerge che l’evento non si sarebbe verificato, allora occorre ritenere che fra l’azione e l’evento esiste nesso di condizionamento. Nei reati omissivi impropri il meccanismo controfattuale viene posto in opera immaginando la condotta mancata e verificando se la sua adozione avrebbe impedito la produzione dell’evento. Naturalmente, il procedimento di eliminazione mentale, per poter funzionare, presuppone che siano già note le regolarità scientifiche od esperenziali che governano gli accadimenti oggetto d’interesse. Nell’ambito dei reati commissivi mediante omissione tale indagine si rivela spesso particolarmente problematica, in quanto l’azione umana è una parte naturalisticamente reale, certa, della spiegazione dell’evento; è quindi chiaro quale parte degli accadimenti occorre sottrarre per porre in opera il giudizio controfattuale e la relativa operazione logica è solitamente priva di aspetti problematici. Al contrario nei reati omissivi, dal punto di vista naturalistico, si è in presenza di un nulla, di un non facere; la condotta doverosa che avrebbe potuto in ipotesi impedire l’evento deve essere rigorosamente descritta, definita con un atto immaginativo, ipotetico, fondato precipuamente su ciò che accade solitamente in situazioni consimili, ma considerando anche le specificità del caso concreto; pertanto, alla stregua di tale base ricostruttiva occorre determinare se l’azione doverosa avrebbe avuto concrete chances di salvare il bene protetto o di annullare il rischio. È chiaro che un così complesso giudizio, per il suo carattere ipotetico e prognostico, è per sua natura esposto a margini d’incertezza, pertanto si è ritenuto in passato che, in sede di accertamento, non possa raggiungere lo stesso livello di rigore esigibile nell’ambito della causalità commissiva. Sul punto è intervenuta la Cassazione, a Sezioni Unite, con la nota sentenza n. 30328 del 2012, (Franzese), la quale ha evidenziato l’autonomia dogmatica e la forte componente normativa della causalità omissiva, determinata dalla clausola di equivalenza di cui all’art. 40 c.p., dal copioso nucleo normativo concernente la disciplina della posizione di garanzia, infine, nei reati colposi, dagli specifici doveri di diligenza, senza che, però, tale autonomia in chiave normativa giustifichi l’erosione del paradigma causale nell’omissione. Lo statuto logico del rapporto di causalità rimane sempre quello condizionale controfattuale: occorrerà quindi verificare se, qualora si fosse tenuta la condotta doverosa e diligente, il singolo evento di danno non si sarebbe verificato o si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. Ne consegue che il problema delle valutazioni probabilistiche non deve condurre ad intaccare l’unitario modello condizionali stico, ma va colto e risolto nella sua sede propria, che è quella dell’accertamento della connessione causale nella specificità di ciascun caso considerato. Emerge così appieno la centralità dell’accertamento del nesso causale. Anche per quanto riguarda il momento dell’accertamento del nesso causale, la citata sentenza a Sezioni Unite ha ritenuto utopistico un metodo fondato su strumenti di tipo deterministico e nomologico-deduttivo, cioè affidato esclusivamente alla forza esplicativa di leggi scientifiche universali o dotate di un coefficiente probabilistico prossimo ad uno, considerando tale metodo insufficiente a governare, da solo, il complesso contesto del diritto penale, che si trova di fronte le manifestazioni più varie della realtà. Preferibile, viceversa, è un modello di indagine causale che integra abduzione ed induzione, cioè l’ipotesi (l’abduzione) circa la spiegazione degli accadimenti e la concreta, copiosa caratterizzazione del fatto storico (l’induzione). Induzione ed abduzione s’intrecciano dialetticamente: l’induzione (il fatto) costituisce il banco di prova critica intorno all’ipotesi esplicativa; la prospettiva è quella di una ricostruzione del fatto dotata di alta probabilità logica, ovvero di elevata credibilità razionale, laddove l’espressione “probabilità logica” esprime il concetto che la constatazione del regolare ripetersi di un fenomeno non ha significato solo sul terreno statistico, ma contribuisce ad alimentare l’affidamento sulla plausibilità della generalizzazione desunta dalla osservazione dei casi passati. Tale concetto, nel suo nucleo concettuale, può essere utile nei giudizi della giurisprudenza, atteso che anche qui si è in presenza di una base fattuale o induttiva costituita dalle prove disponibili, e si tratta di compiere una valutazione relativa al grado di conferma che l’ipotesi ha ricevuto sulla base delle prove: se tale grado è ritenuto “sufficiente” l’ipotesi è attendibile e quindi può essere assunta come base della decisione. Quanto all’identificazione del grado di conferma o probabilità logica dell’ipotesi ricostruttiva del fatto prospettata dall’accusa, la quale possa considerarsi “sufficiente” per vincere la presunzione d’innocenza e giustificare legalmente la condanna dell’imputato, si è ribadito che, essendo la condizione necessaria requisito oggettivo della fattispecie criminosa, essa deve essere dimostrata con rigore secondo lo standard probatorio dell’“oltre il ragionevole dubbio” che il giudizio penale riserva agli elementi costitutivi del fatto di reato. Il giudice è impegnato nell’operazione logico-esplicativa alla stregua dei percorsi indicati dall’art. 192, del c.p.p., (commi 1 e 2) quanto al ragionamento sull’evidenza probatoria, e dall’art. 546, del c.p.p., (comma 1, lett. e), per la doverosa ponderazione del grado di resistenza dell’ipotesi di accusa rispetto alle ipotesi antagoniste o alternative, in termini conclusivi di “certezza processuale” o di “alta probabilità logica” della decisione. Accanto ai ragionamenti esplicativi, che guardano il passato e tentano di spiegare le ragioni di un accadimento, di individuare i fattori che lo hanno generato, esistono, tuttavia, pure ragionamenti predittivi, che riguardano la verificazione di eventi futuri, quando il giudice si trova a chiedersi cosa sarebbe accaduto se un’azione fosse stata omessa o se, al contrario, fosse stato tenuto il comportamento richiesto dall’ordinamento: si tratta di ragionamenti controfattuali che riguardano sia la causalità materiale sia l’evitabilità dell’evento che qualifica la giuridica rilevanza della colpa. La distinzione dei due indicati ragionamenti è di grande quanto ignorata importanza e va acquisita al patrimonio dei principi guida nell’intricata materia, anche perché differente è il peso che vi ha il coefficiente probabilistico che caratterizza le leggi scientifiche e più in generale le informazioni generalizzanti utilizzate. Nell’ambito dei ragionamenti esplicativi noi giungiamo ad esprimere giudizi causali sulla base di generalizzazioni causali congiunte con l’analisi di contingenze fattuali; in tale ambito il coefficiente probabilistico della generalizzazione scientifica o esperienziale non è solitamente molto importante. Occorre tuttavia considerare che assai spesso accade che un evento possa trovare la sua causa, alternativamente, in diversi fattori; in tale ipotesi il problema dell’indagine causale è, nella maggior parte dei casi, quello della pluralità delle cause; pertanto, può essere plausibilmente risolto solo cercando nell’ambito delle prove disponibili, i segni, i fatti, che solitamente si accompagnano a ciascun ipotizzabile fattore causale e la cui presenza o assenza può quindi accreditare o confutare le diverse ipotesi prospettate. Il ragionamento probatorio è dunque di tipo ipotetico, congetturale: ciascuna ipotesi causale viene messa a confronto, in chiave critica, con le particolarità del caso concreto che potranno corroborarla o falsificarla; sono le contingenze concrete del fatto storico, i segni che noi vi scorgiamo, che possono in alcuni casi consentire di risolvere il dubbio e di selezionare una accreditata ipotesi eziologica, a meno che dai reperti fattuali tragga alimento un’alternativa, plausibile ipotesi esplicativa. Come si vede, l’affidabilità di un assunto è temprata non solo e non tanto dalle conferme che esso riceve, quanto dalla ricerca disinteressata e strenua di fatti che la mettano in crisi, che la falsifichino. Ciò vuol dire che le istanze di certezza che permeano il processo penale impongono al giudice di svolgere l’indicata indagine causale in modo rigoroso. Occorre un approccio critico: la teoria del caso concreto deve confrontarsi con i fatti, non solo per rinvenirvi i segni che vi si conformano, ma anche e forse soprattutto per cercare elementi di critica, di crisi. Peraltro la dialettica di cui si parla non è contesa verbale ma confronto tra l’ipotesi e i fatti; e tra le diverse ipotesi, alla ricerca della più accreditata alla luce delle concrete contingenze di ciascuna fattispecie. Ne consegue che la valutazione che si conclude con il giudizio di elevata probabilità logica, di credibilità razionale dell’ipotesi esplicativa, ha un ineludibile contenuto valutativo, sfugge ad ogni rigida determinazione quantitativa, manifestandosi con essa il prudente apprezzamento ed il libero seppure non arbitrario convincimento del giudice. Tale elaborazione concettuale, accreditata anche dalla citata pronuncia delle Sezioni Unite, è andata incontro ad alcuni inconvenienti che si registrano frequentemente nella prassi e di cui occorre prendere atto, per tentare di emendarli. Da un lato, la probabilità logica viene spesso confusa con la probabilità statistica che, invece, esprime il coefficiente numerico della relazione tra una classe di condizioni ed una classe di eventi ed è quindi scevra da contenuti valutativi. Per evitare fraintendimenti, il concetto di probabilità logica può essere sostituito con quello di corroborazione dell’ipotesi, alludendosi con ciò al resoconto che sintetizza l’esito della discussione critica sulle prove, alimentata dai segni di conferma o di confutazione delle ipotesi esplicative. Dall’altro, proprio l’indicato contenuto valutativo, discrezionale dell’idea di probabilità logica ha aperto la strada a degenerazioni di tipo retorico nell’uso di tale strumento concettuale: si propone una qualunque argomentazione causale e si afferma apoditticamente che essa è, appunto, dotata di alta probabilità logica, così eludendo l’esigenza di una ricostruzione rigorosa del nesso causale, che si risolve in un vizio logico soggetto al sindacato di legittimità; occorre pertanto che la componente valutativa sia soggetta ad un rigido controllo critico, costituito da una rigorosa attenzione ai fatti ed ai dettagli di ciascuna contingenza quali fattori di superamento di ciò che di astratto, retorico, fumoso può esservi in tale elaborazione concettuale. Nell’ambito dei reati omissivi impropri il ragionamento si articola diversamente e dà luogo ad un’interferenza predittiva: il giudice, infatti, svolge tale tipo di ragionamento di carattere previsionale, anche se si rivolge al passato, quando, nell’ambito della causalità omissiva, si interroga in ordine alla evitabilità dell’evento per effetto delle condotte doverose mancate. Anche in tale ambito vi è comunque un fatto, di cui occorre dare una spiegazione complessiva, prima di interrogarsi sul ruolo causale dell’omissione e in questa prima parte dell’indagine causale si utilizza quasi sempre il modello esplicativo ipotetico. All’interno, poi, del contesto fattuale così investigato va poi inserita la condotta umana doverosa che è, invece, mancata: si tratta di un giudizio predittivo, di una prognosi, interrogandosi su ciò che sarebbe accaduto se l’agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta. In questo ragionamento, tuttavia, insorgono peculiari difficoltà: l’omissione costituisce un nulla dal punto di vista naturalistico, sicché nel giudizio controfattuale inseriamo una condotta astratta, idealizzata; inoltre per prevedere ciò che sarebbe accaduto nel singolo caso oggetto del processo è di grande importanza conoscere cosa accade nei casi simili e, quindi, rivolgersi alle generalizzazioni formatesi a proposito del nesso causale, se esistenti, avvalendosi di generalizzazioni scientifiche o esperienziali in chiave eminentemente deduttiva e di un coefficiente probabilistico della regolarità causale inteso come probabilità statistica. In breve il giudizio di certezza del ruolo salvifico della condotta omessa presenta i connotati del paradigma indiziario, si fonda anche sull’analisi della caratterizzazione del fatto storico e culmina nel già detto giudizio di elevata probabilità logica, id est di corroborazione dell’ipotesi. Tale soluzione rende praticabile il giudizio d’imputazione dell’evento, allontanando la prospettiva di indiscriminata impunità anche per condotte omissive gravemente trascurate e dannose. Anche qui, tuttavia, occorre ribadire il pericolo di degenerazioni di tipo retorico che, come si riscontra talvolta nella prassi, imprimono arbitrariamente il suggello dell'elevata probabilità logica su ragionamenti probatori che rimangono altamente incerti quanto al carattere salvifico delle condotte mancate; e che non si confrontano adeguatamente con le particolarità della fattispecie concreta. Anche in tale ambito, il rischio di ingannevoli distorsioni del giudizio può essere evitato solo attraverso una serrata ricerca - prima - ed analisi - poi - delle contingenze nel caso concreto che in qualche caso, ma non sempre, possono consentire di superare in chiave induttiva il tratto probabilistico (in chiave numerica) dell'inferenza deduttiva. 2. Causalità della colpa nei reati commissivi mediante omissione [punto 27] Nell’ambito della causalità omissiva i temi dell'imputazione oggettiva e soggettiva spesso si intrecciano e si confondono. L'esperienza giudiziaria mostra come tra causalità commissiva e causalità omissiva in realtà vi sia un confine netto. Accanto a situazioni sicuramente riconducibili alla causalità omissiva (es. il medico che sarebbe tenuto ad accorrere in ospedale per un urgente intervento chirurgico preferisce restare a casa), vi sono, infatti, molti casi di incerta collocazione (es. il medico interviene, si adopera anche con sollecitudine, ma manca di compiere un atto che era essenziale, come stilare una corretta diagnosi o prescrivere una terapia appropriata; il chirurgo trapianta un organo affetto da tumore senza compiere le indagini preliminari che potrebbero scongiurare tale evenienza; l'imprenditore espone i lavoratori a dosi elevate ed incontrollate di una sostanza nociva, mancando di adottare le misure idonee ad eliminare o ridurre la diffusione del veleno), la giurisprudenza, tuttavia, come osservato dalle Sezione Unite, nella citata sentenza n. 30328 del 2012 (Franzese), parla sempre di causalità omissiva, anche quando, in realtà, si tratta di situazioni di causalità commissiva. A tale proposito, un utile criterio cui affidarsi per inquadrare correttamente la situazione è quello di verificare se nella spiegazione dell'evento abbia avuto un ruolo significativo e preponderante la condotta commissiva o quella omissiva: così, nel caso di errore diagnostico o terapeutico, il fatto che l'agente si sia in qualche modo attivato è alquanto insignificante, ne consegue, quindi, che si ragionerà in termini di causalità omissiva; viceversa, nei casi del trapianto o di esposizione incontrollata a sostanze dannose, il comportamento attivo assume un significato preponderante nella spiegazione dell'evento, pertanto, si configurerà in termini di causalità commissiva. La distinzione tra reati commissivi ed omissivi, in realtà, non rappresenta una mera disquisizione teorica, ma ha rilevanti implicazioni applicative. Si pensi, ad esempio, all'ambito del ragionamento contro fattuale, che nei giudizi giuridici viene condotto con finalità diverse e con differenti standard probatori, sia quando si accerti il ruolo condizionante di un fattore, interrogandosi se, in sua assenza, l'evento si sarebbe ugualmente verificato, e che richiede come standard probatorio quello dell'umana certezza, in conformità al modello della causalità condizionalistica; sia quando si ragioni in tema di evitabilità dell'evento per effetto della condotta prudente e diligente (nell'ambito del distinto giudizio inerente alla causalità della colpa), rispetto al quale, per affermare l'evitabilità dell'evento, è sufficiente che sia accertata una qualificata possibilità di un esito favorevole (si è cioè di fronte ad apprezzamenti di tipo meramente probabilistico, che riguardano l'accertamento della colpa e non della causalità). Mentre nell'ambito della causalità commissiva la distinzione tra i due indicati ragionamenti controfattuali (che si collocano su due piani distinti) è solitamente chiara; nella causalità omissiva tutto diventa più complicato ed oscuro. Qui, infatti, siamo in presenza di un nulla, dal punto di vista naturalistico: occorre inserire nel controfattuale un comportamento (la condotta appropriata, diligente, prudente) che non esiste in natura, e che noi immaginiamo in modo idealizzato, astratto; e chiederci se tale comportamento avrebbe consentito di evitare l'evento con la ragionevole certezza richiesta dallo statuto della causalità condizionalistica. Giungere ad una risposta positiva spesso non è facile, specialmente in alcuni classici contesti particolarmente complicati come quelli della responsabilità medica e dell'esposizione lavorativa a sostanze dannose, caratterizzati dalla complessa interazione tra fattori di diverso segno. Ma ciò che interessa di più è che qui causalità e colpa tendono a sovrapporsi. I ragionamenti controfattuali che nella causalità commissiva erano ben distinti, qui si confondono, si sovrappongono. L'indagine sull'evitabilità dell'evento è in primo luogo un'indagine di tipo causale e richiede, quindi, lo standard della certezza, che nei reati omissivi non è facilmente raggiungibile. Il problema proprio della colpa, che chiamiamo convenzionalmente "causalità della colpa" (cioè utilità del comportamento alternativo lecito), diventa al contempo un problema causale e si carica quindi del connotato di ragionevole certezza proprio della causalità. Di qui la comprensibile ma pur sempre criticabile confusione che regna in giurisprudenza tra causalità e colpa in tali contesti. Per tentare di evitare la confusione pare utile segnare alcuni appunti per dirigere l'itinerario del giudizio sull'imputazione. Nei casi dubbi conviene aver preliminarmente chiaro se si sia in un ambito di causalità commissiva od omissiva: la guida, come si è accennato, sarà la considerazione degli aspetti più significativi e giuridicamente rilevanti della condotta, nonché l'eventuale introduzione di un distinto fattore di rischio. Collocata l'indagine nell'ambito della causalità commissiva, occorrerà individuare un'azione e dimostrarne il ruolo condizionalistico attraverso il giudizio controfattuale (es. se il terapeuta non avesse somministrato il farmaco l'evento non si sarebbe verificato nelle condizioni date). Si tratta, in breve, di compiere il giudizio controfattuale della causalità materiale. Si è in presenza di operazione logica priva di risvolti problematici una volta che sia noto lo sviluppo degli accadimenti; e che non di rado non viene neppure espressamente sviluppata nell'argomentazione probatoria, tanto evidente è il suo andamento. Superato il problema della causalità materiale andrà quindi svolto il giudizio sulla colpa, individuando una condotta contraria ad una regola dell'arte che sarebbe valsa a scongiurare l'evento letale (es. testare il farmaco per scongiurare i rischi da allergia): qui la causalità della colpa riguarda la constatazione della probabilistica evitabilità dell'evento per effetto del comportamento alternativo lecito. Ove, viceversa, si sia in ambito di causalità omissiva, l'indagine riguarderà, in primo luogo, il ruolo di garanzia nei termini che si sono sopra accennati. L'ulteriore passaggio logico sarà costituito dall'individuazione di una condotta appropriata ed omessa che avrebbe scongiurato l'esito avverso, sempre attraverso lo strumento logico del giudizio controfattuale. Quest'indagine è, ad un tempo, propria della causalità e della colpa (per rimanere al classico esempio dell'ambito medico, lo statuto condizionalistico della causalità richiede una risposta in termini di logica certezza circa l'esito fausto di una terapia appropriata), benché la sovrapposizione tra causalità e colpa non sia completa. La colpa, infatti, richiede anche un apprezzamento ulteriore, di contenuto squisitamente soggettivo, che implica la considerazione delle peculiarità del caso concreto, della plausibile esigibilità della condotta nelle condizioni date: è la dimensione più propriamente soggettiva della colpa, che rivela l'autonomia del profilo soggettivo del reato ed il suo fondamentale ed ancora non pienamente riconosciuto ruolo nell'ambito del giudizio di colpevolezza. Resta, tuttavia, il fatto che il controfattuale della causalità omissiva e quello della causalità della colpa (id est dell'evitabilità dell'evento) tendono in prima approssimazione a sovrapporsi, ad identificarsi. Ciò significa che, dovendosi risolvere in primo luogo un problema di causalità materiale, la regola di giudizio è quella della ragionevole certezza propria dell'imputazione oggettiva dell'evento; e non quella delle apprezzabili possibilità di successo che caratterizza la causalità della colpa. |
Riferimenti giurisprudenziali |
Cass., Sezioni Unite, 11.09.2002 (ud. 10.07.2002) n. 30328, Franzese |
Essenziali riferimenti bibliografici |
- G. De Falco (a cura di), Rassegna della giurisprudenza - Il RSPP quale garante della sicurezza; Preposto di diritto e preposto di fatto; Omessa valutazione di un rischio ed efficacia causale, in Ambiente e sicurezza sul lavoro, 2014, n. 9, pp. 128-129 - M. Gallo, Caso Thyssen: le nuove frontiere del diritto penale del lavoro, in Guida al lavoro, 16.12.2011, n. 49, p. 67 ss - M. Gallo, Nella sentenza Thyssen la nuova frontiera della responsabilità penale, in Guida al lavoro, 29.04.2011 - A. Guardavilla, Datore di lavoro, dirigente, preposto, delegato e “aree di gestione del rischio”, in http://www.puntosicuro.it, 02.10.2014 - A. Montagna (a cura di), Il disastro della Thyssen: un "ordinario" caso di omicidio colposo, in Diritto penale e processo, 2014, n. 11, pp. 1283-1285 - A. Scarcella, Se più sono i “garanti”, tutti rispondono penalmente delle lesioni subite dall’infortunato, in Quotidiano ambiente e sicurezza, 2014, 7/8, 08.04.2014 |