Cassazione Penale, Sez. Unite, 18.09.2014, n. 38343 - Thyssenkrupp

Guida alla lettura” a cura di Arianna Arganese

La responsabilità da reato dell’ente in materia di sicurezza: colpa organizzativa delle società, onere della prova, interesse o vantaggio, obbligo del modello organizzativo (punti 59, 60, 61, 62, 63, 65 in diritto)

PAROLE CHIAVE: Responsabilità amministrativa delle persone giuridiche – art. 25-septies del d.lgs. n. 231/2001 – Colpa organizzativa Modelli organizzativi e di gestione – Organismo di vigilanza – Interesse/vantaggio dell’ente

SOMMARIO: Fatti di causa - Questioni di diritto - Soluzione adottata - Riferimenti giurisprudenziali - Essenziali Riferimenti bibliografici

Fatti di causa

Nella notte tra il 5 e il 6 dicembre 2007, presso lo stabilimento di Torino della ThyssenKrupp, divampava un terribile incendio, che interessava la linea denominata APL5, dedicata alle fasi di ricottura e decapaggio di enormi rotoli di acciaio, nel quale persero la vita sette operai.

Sostanzialmente non controverso è lo sviluppo delle circostanze che determinarono l’innesco e lo sviluppo dell’incendio: il primo innesco riguardò carta accartocciata vicino al punto di sfregamento tra il nastro di acciaio in lavorazione con i bordi dell’impianto posto a quota +3 metri che, infiammatasi, precipitò sul piano sottostante, ove si trovavano spezzoni di carta e ristagni di olio di laminazione che alimentarono l’incendio. Nell’arco di circa dieci minuti l’incendio coinvolse tutta la carta e l’olio esistenti sul pavimento.

I lavoratori, avvedutisi dopo alcuni minuti di quanto accadeva, si precipitarono fuori dal pulpito nel quale si trovavano e, con gli estintori a breve gittata, tentarono di spegnere le fiamme, provando pure ad utilizzare una manichetta dalla quale tuttavia l’acqua non fuoriusciva, ma vennero investiti da una nuvola incandescente di olio nebulizzato (flash fire), che si espanse improvvisamente per un’ampiezza di 12 metri, senza lasciare loro possibilità di scampo. Le misure avviate per spegnere l’incendio si rivelarono inefficaci ed esso divampò ulteriormente e fu domato solo dopo un lungo e laborioso intervento dei vigili del fuoco.

Dalle primissime indagini dopo l’incendio emerse un complessivo degrado dell’impianto e la parziale inefficienza degli strumenti di spegnimento, tanto che gli ispettori dell’Asl riscontrarono ben 116 irregolarità e constatarono la mancata manutenzione delle attrezzature, il danneggiamento di parti elettriche, l’accumulo di materiale infiammabile.

Della morte dei sette operai venivano chiamati a rispondere, a vario titolo: l’Amministratore delegato e membro del Comitato esecutivo (c.d. Board) della società, esercente lo stabilimento di Torino, con delega per la produzione e la sicurezza sul lavoro, il personale, gli affari generali e legali; due Consiglieri del Consiglio di Amministrazione e membri del Comitato esecutivo (c.d. Board) della società, con delega, l’uno, per il settore commerciale ed il marketing e, l’altro, per l’amministrazione, finanza, controllo di gestione, approvvigionamenti e servizi informativi; il Direttore dello stabilimento sito in Torino; e due Dirigenti con funzioni, rispettivamente, di Direttore dell’Area Tecnica e Servizi, con competenza nella pianificazione degli investimenti in materia di sicurezza antincendio anche per lo stabilimento di Torino e di Responsabile dell’Area EAS (ecologia, ambiente e sicurezza) e Responsabile del Servizio di Prevenzione e protezione dello stabilimento sito in Torino; nonché e la società, in qualità di persona giuridica, in persona del legale rappresentante, ai sensi dell’art. 25-septies, del d.lgs. n. 231/2001.

In particolare, l’accusa formulava i seguenti capi d’imputazione:

A) tutti gli imputati, in concorso tra loro, del reato di cui all’art. 437, cc. 1 e 2, c.p., per aver omesso di dotare la linea di ricottura e decapaggio denominata APL5 di impianti ed apparecchi destinati a prevenire disastri ed infortuni sul lavoro; ed in particolare di adottare un sistema automatico di rivelazione e spegnimento degli incendi, di cui emergeva la necessità in considerazione dell’alto rischio dovuto alla presenza di olio idraulico in pressione, olio di laminazione e carta imbevuta di olio. Fatto dal quale sono derivati un disastro (incendio), di cui ai capi C e E, ed un infortunio sul lavoro che ha determinato la morte di sette operai, evento rubricato ai capi B e D, nonché lesioni personali in danno di altri;

B) Al solo Amministratore delegato, imputato del reato di cui agli artt. 81 e 575 c.p., per aver cagionato volontariamente la morte dei lavoratori, essendosi rappresentata la possibilità del verificarsi di infortuni anche mortali, in quanto a conoscenza delle contingenze già riportate nel capo A) e di aver accettato tale rischio, giacché, in virtù dei poteri decisionali inerenti alla sua posizione apicale, nonché della specifica competenza e delega in materia di sicurezza sul lavoro, prendeva la decisione di posticipare l’investimento antincendio, sebbene lo stabilimento si trovasse in una situazione di crescente insicurezza;

C) Al solo Amministratore delegato, imputato del reato di incendio doloso di cui all’art. 423 c.p., per aver cagionato nella linea APL5 un incendio violento, rapido e di vaste proporzioni dal quale derivava la morte dei lavoratori, in quanto, pur informato della concreta possibilità del verificarsi di incendi, ometteva di adottare le misure tecniche, organizzative, procedurali i prevenzione e protezione contro gli incendi; contestandogli di non aver adeguatamente valutato il rischio di non aver organizzato percorsi informativi e formativi nei confronti dei lavoratori, di non aver installato un sistema automatico di rilevazione e spegnimento degli incendi, nonostante la situazione i crescente abbandono ed insicurezza dello stabilimento; tutte condotte derivanti dalla decisione di posticipare l’investimento antincendio;

D) Ai membri del Comitato esecutivo, ai due Consiglieri del Consiglio di amministrazione, ai due Dirigenti ed al Direttore dello stabilimento, imputati del reato di cui all’art. 61 c.p., n. 3 e art. 589, cc. 1, 2 e 3, c.p., per aver cagionato per colpa la morte dei lavoratori, con le aggravanti della violazione delle norme di sicurezza sul lavoro e di aver agito nonostante la previsione dell’evento;

E) Ai membri del Comitato esecutivo, ai due Consiglieri del Consiglio di amministrazione, ai due Dirigenti ed al Direttore dello stabilimento, imputati del reato di incendio colposo cui all’art. 61 c.p., n. 3 e artt. 449 e 423 c.p., per aver cagionato l’incendio, a causa delle condotte colpose riportate al capo D), con l’aggravante della previsione dell’evento;

In primo grado, la Corte di Assise di Torino, sezione seconda, con sentenza del 14.11.2011 (ud. 15.04.2011), n. 31095, in accoglimento delle richieste della Procura della Repubblica, affermava la responsabilità degli imputati in ordine ai reati loro ascritti, condannando l’Amministratore delegato della società ad una pena di anni 16 e mesi 6 di reclusione per i delitti di omicidio volontario plurimo (artt. 81, c. 1 e 575 c.p.), incendio doloso (art. 423 c.p.) e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro aggravata dall’evento (art. 437, c. 2, c.p.); gli altri cinque imputati, Amministratori e Dirigenti dell’impresa, a pene comprese tra 13 anni e 6 mesi di reclusione e 10 anni e 10 mesi di reclusione, per i delitti di omicidio colposo plurimo (art. 589, cc. 1, 2 e 3 c.p.) e incendio colposo (art. 449 c.p., in relazione all’art. 423 c.p.), entrambi aggravati dalla previsione dell’evento, e omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro (art. 437, c. 2, c.p.); nonché, in solido tra loro e con il responsabile civile, al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili; nonché, ai sensi dell’art. 25-septies del d.lgs. n. 231/2001, la società ThyssenKrupp Acciai speciali Terni S.p.A., alla sanzione pecuniaria di un milione di euro (ex artt. 9, 10 e 12, c. 2, lett. a), disponendo, oltre alle sanzioni interdittive della esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi per la durata di 6 mesi (ex art. 9, c. 2, lett. a), e del divieto di pubblicizzare beni o servizi per la durata di 6 mesi (ex art. 9, c. 2, lett e) ed alla confisca del profitto del reato per una somma di 800 mila euro (ex art. 19), la pubblicazione della sentenza sui quotidiani di diffusione nazionale.

Impugnata dalle difese degli imputati, la sentenza di primo grado veniva parzialmente riformata in appello dalla Prima Corte di Assise d’Appello di Torino, la quale, con sentenza del 27.05.2013 (ud. 28.02.2013), n. 6, disattendendo le conclusioni della Corte di Assise in tema di dolo eventuale, riqualificava i fatti contestati all’Amministratore delegato, di cui al capo B), in omicidio colposo ai sensi dell’art. 589 c.p., cc. 1, 2 e 3 e dell’art. 61, c.p., n. 3, e di cui al capo C), in incendio colposo, ai sensi dell’art. 449 c.p. e dell’art. 61, n. 3, c.p., entrambi aggravati dalla previsione dell’evento; per tutti, il reato di incendio colposo veniva ritenuto assorbito in quello di cui all’art. 437, cc. 1 e 2, c.p., rubricato al capo A), e riconosciuto il concorso formale tra i reati di cui agli artt. 437 e 589 c.p.; per l’effetto le pene venivano rideterminate in senso più favorevole per tutti gli imputati; mentre le statuizioni nei confronti della società, di cui al d.lgs. n. 231/2001 venivano integralmente confermate.

Avverso la sentenza di secondo grado veniva proposto ricorso per cassazione, sia dal Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Torino nei confronti di tutti gli imputati, che dagli imputati. L’Ufficio per l’esame preliminare dei ricorsi della Prima sezione della Corte di Cassazione, cui il processo era stato assegnato, trasmetteva gli atti al Primo Presidente esponendo le divergenze giurisprudenziali sull’individuazione della linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, segnalando l’opportunità che fosse trattato dalle Sezione Unite, anche per chiarire se “la irragionevolezza del convincimento prognostico dell’agente circa la non verificazione dell’evento comporti o meno la qualificazione giuridica dell’elemento psicologico del delitto in termini di dolo eventuale”. Il Primo Presidente della Corte di Cassazione, con decreto del 29.11.2013, riscontrata l’esistenza di dissonanze nella giurisprudenza di legittimità a proposito della evocata linea di confine tra dolo eventuale e colpa cosciente, valutata altresì l’importanza anche di altre questioni afferenti alla posizioni di garanzia, particolarmente nelle strutture complesse e ad elevato rischio, assegnava il ricorso alle Sezioni Unite.

Questioni di diritto

Se sia configurabile ed in quali termini la responsabilità amministrativa dell’ente.

Soluzione adottata

La Suprema Corte, dopo aver illustrato le articolate argomentazioni in tema di responsabilità da reato dell’ente, confermano la condanna della società ex art. 25-septies, del d.lgs. n. 231/2001 e le pene inflitte in entrambi i gradi del giudizio di merito.

Rilevano, infatti, le Sezioni Unite, che tutti i presupposti richiesti dalla normativa in tema di responsabilità amministrativa risultano integrati e provati dall’accusa: gli amministratori apicali sono stati ritenuti responsabili di omicidio colposo commesso con violazione delle norme sulla sicurezza del lavoro; i reati sono stati commessi nell’interesse o a vantaggio dell’ente, che dal mancato adeguamento dell’impianto nell’unità produttiva di Torino, destinata all’imminente chiusura, ha conseguito un indubbio risparmio economico; la società non ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, un modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire reati come quello verificatosi, né si è dotata di un adeguato organo di vigilanza che vigilasse sul funzionamento e l’osservanza di tale modello.

Peraltro, proprio la carenza sotto il profilo dell’autonomia del controllo dell’organismo di vigilanza ha comportato anche il mancato riconoscimento della riduzione di cui all’art. 12, co. 3, del d.lgs. n. 231/2001, desumendo tale carenza dal fatto che un proprio dirigente fosse, al contempo, componente dell’organismo di vigilanza e responsabile di due settori sottoposti al controllo del medesimo organismo: secondo la Corte, infatti, l’accettazione di tale evidente conflitto di interessi denotava la propensione della società verso la configurazione del modello dell’organo di controllo in termini burocratici di facciata e non di effettiva prevenzione dei reati, rendendo di fatto inidoneo il modello organizzativo approvato dalla società prima dell’apertura del dibattimento. La composizione di tale organo, al quale deve sempre essere garantita l’autonomia dell’iniziativa di controllo da ogni interferenza o di condizionamento, così come previsto dall’art. 6, lett. b), del d.lgs. n. 231/2001, è essenziale perché il modello possa ritenersi efficacemente attuato.

La circostanza poi che, nelle società di capitali, oggi, per effetto di sopravvenuta modifica normativa, anche il collegio sindacale, il consiglio di sorveglianza e il comitato per il controllo della gestione possano svolgere la funzione di organismo di valutazione non mettono affatto in crisi la primaria istanza di indipendenza dell’organo, trattandosi di apparati dotati di centralità ed autonomia, come emerge dall’art. 2399, lett. e), cod. civ.

Quanto al trattamento sanzionatorio, questo viene integralmente confermato dalle Sezioni Unite, le quali rilevano come, contrariamente a quanto dedotto dalla difesa, i giudici di merito, nella modulazione delle sanzioni, abbiano fatto leva non solo e non tanto sulla drammaticità degli eventi, ma anche sulla gravità della colpa e sulla consolidata avversione della società a costruire procedure decisionali e gestionali trasparenti.

- La natura giuridica della responsabilità amministrativa degli enti

La natura del nuovo sistema sanzionatorio è tema dibattuto in dottrina, che, come la giurisprudenza, è divisa in tre orientamenti: secondo alcuni, infatti, si sarebbe di fronte ad una responsabilità di tipo amministrativo, in aderenza, del resto, all’intestazione della normativa; secondo altri, invece, la responsabilità in questione sarebbe sostanzialmente di tipo penale; un ultimo indirizzo, cui le Sezioni Unite con la pronuncia in esame aderiscono, reputa che si sia in presenza di un tertium genus, che coniuga i tratti essenziali del sistema penale e di quello amministrativo, prevedendo un’autonoma responsabilità dell’ente in caso di commissione, nel suo interesse o a suo vantaggio, di uno dei c.d. reati presupposto, da parte di un soggetto che riveste una posizione apicale, sul presupposto che il fatto-reato «è fatto della società, di cui essa deve rispondere».

- Compatibilità della disciplina legale con i principi costituzionali dell’ordinamento penale.

Al riguardo la Suprema Corte, nel ripercorrere i principi del d.lgs. n. 231/2001, richiamandosi a consolidata giurisprudenza, ha respinto le eccezioni di costituzionalità sollevate dalla società ricorrente, confermando le conclusioni dei giudici di merito circa l’inesistenza di alcun vulnus costituzionale, sottolineando che tale disciplina ha introdotto un sistema di responsabilità colpevole basato sulla colpa d’organizzazione della persona giuridica.

È senz’altro da escludere che sia violato il principio della responsabilità per fatto proprio. Il reato commesso dal soggetto inserito nella compagine dell’ente, in vista del perseguimento dell’interesse o del vantaggio di questo, è sicuramente qualificabile come “proprio” anche della persona giuridica, e ciò in forza del rapporto di immedesimazione organica che lega il primo alla seconda: la persona fisica che opera nell’ambito delle sue competenze societarie, nell’interesse dell’ente, agisce come organo e non come soggetto da questo distinto; né la degenerazione di tale attività funzionale in illecito penale è di ostacolo all’immedesimazione.

Parimenti è da escludere che il sistema violi il principio di colpevolezza. Di certo, però, tale principio deve essere considerato alla stregua delle peculiarità della fattispecie, affatto diversa da quella che si configura quando oggetto dell’indagine sulla riprovevolezza è direttamente una condotta umana. Qui il rimprovero riguarda l’ente e non il soggetto che per esso ha agito e la responsabilità della persona giuridica si aggiunge e non sostituisce quella delle persone fisiche, che resta regolata dal diritto penale comune. Sarebbe dunque vano e fuorviante, secondo le Sezioni Unite, andare alla ricerca del coefficiente psicologico della condotta invocato dal ricorrente; ciò tanto più quando l’illecito presupposto sia colposo giacché la colpa presenta essa stessa connotati squisitamente normativi che ne segnano il disvalore.

Il datore di lavoro/ente, in quanto persona giuridica, risponderà, pertanto, di omicidio colposo per colpa d’organizzazione. Il legislatore, infatti, orientato dalla consapevolezza delle connotazioni criminologiche degli illeciti ispirati da organizzazioni complesse, ha inteso imporre a tali organismi l’obbligo di implementare le cautele necessarie a prevenire la commissione di alcuni reati, adottando iniziative di carattere organizzativo e gestionale. Tali accorgimenti vanno consacrati in un documento, un modello organizzativo e di gestione che individua i rischi e delinea la misure atte a contrastarli. Non aver ottemperato a tale obbligo fonda il rimprovero, la colpa d’organizzazione.

La Cassazione, inoltre, esclude che la disciplina che regola la responsabilità da reato dell’ente configuri un’inversione dell’onere della prova, sottolineando che grava comunque sull’accusa l’onere di dimostrare che sia stato commesso il reato presupposto da un soggetto che ricopra, all’interno dell’organizzazione aziendale, una delle posizioni di cui all’art. 5, co. 1, d.lgs. n. 231/2001 e che abbia agito nell’interesse o a vantaggio dell’ente; nonché la mancata adozione e/o efficace attuazione, prima della commissione del fatto, di un valido modello di organizzazione e di gestione idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi; fatta salva la possibilità, per l’ente, di offrire prova liberatoria.

Quanto alle contestazioni di indeterminatezza della fattispecie, le Sezioni Unite, condividendo integralmente le considerazioni svolte al riguardo dalla sentenza d’appello, escludono che la fattispecie configuri un obbligo indeterminato. L’obbligo organizzativo e gestionale imposto all’ente, infatti, sostiene la Suprema Corte, è ben delineato dalla normativa: esso è in realtà sufficientemente orientato dalla legge che segna le linee dettagliate che indirizzano l’ente circa il contenuto del modello da approntare e le caratteristiche che esso e l’organismo di valutazione devono possedere perché il sistema prevenzionale possa dirsi efficacemente adottato. Si tratta di linee che appaiono assimilabili a quelle dettate dal d.lgs. n. 626 del 1994 rispetto all’obbligo di autonormazione imposto al datore di lavoro circa la formulazione del documento di valutazione dei rischi e l’adozione delle misure conseguenti.

- I criteri di imputazione oggettiva dei reati all’ente (interesse e/o vantaggio), in particolare nei reati colposi di evento

L’art. 5 del d.lgs. n. 231/ 2001 detta la regola d’imputazione oggettiva dei reati all’ente, richiedendo che essi siano commessi nel suo interesse o vantaggio.

Secondo l’impostazione prevalente, ispirata anche dalla Relazione governativa al decreto legislativo n. 231/2001, cui aderiscono anche le Sezioni Unite con la presente pronuncia, i due criteri d’imputazione si pongono in rapporto di alternatività, come confermato dalla congiunzione disgiuntiva “o” presente nel testo della disposizione, ritenendosi che il criterio dell’interesse esprima una valutazione teleologica del reato, apprezzabile ex ante, al momento della commissione del fatto, e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo; mentre il criterio del vantaggio abbia una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile ex post, sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito.

Non è mancata, tuttavia, qualche voce dissenziente che ha ritenuto che i due criteri abbiano natura unitaria. Il criterio d’imputazione sarebbe costituito dall’interesse, mentre il vantaggio potrebbe al più rivestire un ruolo strumentale, probatorio, volto alla dimostrazione dell’esistenza dell’interesse.

A seguito della estensione dell’ambito applicativo della normativa in tema di responsabilità amministrativa dell’ente ai reati colposi, operato dall’art 25-septies del d.lgs. n. 231/2001 (introdotto con l’art. 9 della legge n. 123/2007 e successivamente riscritto dall’art. 300 del d.lgs. n. 81/2008), che ha incluso, tra i c.d. reati presupposto, l’omicidio colposo e le lesioni colpose gravi o gravissime commessi con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, si è posto il problema della compatibilità logica tra la non volontà dell’evento, che caratterizza gli illeciti colposi, ed il finalismo che è sotteso all’idea di interesse, rilevando come, nei reati colposi di evento, sia ben difficilmente ipotizzabile un caso in cui l’evento lesivo corrisponda ad un interesse o vantaggio dell’ente. Ciò ha indotto qualcuno a ritenere che, in mancanza di un esplicito adeguamento normativo, la nuova, estensiva disciplina sia inapplicabile.

Le Sezioni Unite, con la pronuncia in esame, ritengono, tuttavia, infondati tali dubbi che, peraltro, si porrebbero in contrasto con la volontà del legislatore di includere anche i reati colposi (di evento) tra gli illeciti che determinino, ricorrendone tutti i presupposti, la responsabilità amministrativa dell’ente, successivamente confermata dal d.lgs. n. 121/2011, col quale è stato introdotto nella disciplina legale l’art. 25-undecies che ha esteso la responsabilità dell’ente a diversi reati ambientali, anch’essi di natura colposa.

La Corte, pertanto, propone quale unica e possibile lettura quella secondo cui i concetti di interesse e vantaggio, nei reati colposi d’evento, vanno di necessità riferiti alla condotta e non all’esito antigiuridico. È ben possibile, infatti, che una condotta caratterizzata dalla violazione della disciplina cautelare, e quindi colposa, sia posta in essere nell’interesse dell’ente o determini comunque il conseguimento di un vantaggio.

Tale soluzione interpretativa, oltre a essere logicamente obbligata e perfettamente compatibile con il sistema, non ha nulla di realmente creativo, ma si limita ad adattare l’originario criterio d’imputazione al mutato quadro di riferimento, senza che i criteri d’ascrizione ne siano alterati. L’adeguamento riguarda solo l’oggetto della valutazione che coglie non più l’evento bensì solo la condotta, in conformità alla diversa conformazione dell’illecito; e senza, quindi, alcun vulnus ai principi costituzionali dell’ordinamento penale. Ben può essere, infatti, che l’agente violi consapevolmente la cautela o, addirittura, preveda l’evento che ne può derivare, pur senza volerlo, per corrispondere ad istanze funzionali a strategie dell’ente e, quindi, nell’interesse di quest’ultimo; a maggior ragione perfetta è la compatibilità in caso di inosservanza della prescrizione cautelare che determini il conseguimento di un esito vantaggioso per l’ente.

Riferimenti giurisprudenziali

Cass. pen, sez. VI, del 18.02.2010, n. 27735

In particolare:

- Sulla natura giuridica della responsabilità dell’ente ex d.lgs. n. 231/2001 in giurisprudenza si riscontrano indirizzi diversi:

a) in alcune sentenze, sia pure solo incidentalmente, la Cassazione ha affermato la natura amministrativa della responsabilità da reato: Cass. pen., SS.UU. del 23.01.2011, n. 34476; del 30.01.2014, n. 10561; Cass. pen., sez. VI, del 25.01.2013, n. 21192; Cass. pen., sez. IV, del 25.06.2013, n. 42503

b) è orientata in senso penalistico altra, complessa pronunzia delle Sezioni Unite, del 27.03.2008, n. 26654 e, nello stesso senso, Cass. pen., sez. II, del 20.12.2005, n. 3615

c) ritiene, invece, che il d.lgs. n. 231 abbia introdotto un tertium genus di responsabilità rispetto ai sistemi tradizionali di responsabilità penale e di responsabilità amministrativa Cass. pen, sez. VI, del 18.02.2010, n. 27735 e del 09.07.2009, n. 36083.

- Sulla natura unitaria o dualistica dei due criteri d’imputazione oggettiva dei reati all’ente (interesse e/o vantaggio), prevale in giurisprudenza la tesi dualistica, cfr: Cass. pen., sez. II, del 20.12.2005, n. 3615; Cass. pen., sez. V, del 04.03.2014, n. 10265; Cass. pen., sez. VI, del 22.05.2013, n. 24559

Essenziali riferimenti bibliografici

- AA.VV., Responsabilità 231 ovvero il terzo binario del diritto criminale, in Sistema Società on line, 2014, 19.09.2014

- M. Gallo, Caso Thyssen: le nuove frontiere del diritto penale del lavoro, in Guida al lavoro, 16.12.2011, n. 49, p. 67 ss

- M. Gallo, Nella sentenza Thyssen la nuova frontiera della responsabilità penale, in Guida al lavoro, 29.04.2011

- V. Iacouzzi, Margiotta & Partners, La responsabilità da reato dell’ente, in Diritto 24, 2014

- G. Marra, Regolazione del rischio, dolo eventuale e sicurezza del lavoro. Note a margine del caso Thyssen, in I Working Papers di Olympus, 2012, n. 17

- G. Marra, La prevenzione degli infortuni sul lavoro e il caso Thyssenkrupp. I limiti penalistici delle decisioni rischiose nella prospettiva delle regole per un lavoro sicuro, in I Working Papers di Olympus, 2012, n. 8

- P. Pascucci, L’individuazione delle posizioni di garanzia nelle società di capitali dopo la sentenza “ThyssenKrupp”: dialoghi con la giurisprudenza, in I Working Papers di Olympus, 2012, n. 10