Categoria: Corte di giustizia CE
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CONCLUSIONI DELL’AVVOCATO GENERALE

ELEANOR SHARPSTON

presentate il 18 dicembre 2014 (1)

Causa C‑65/14


«Politica sociale – Direttiva 92/85/CEE – Sicurezza e salute delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento – Indennità di maternità durante il congedo di maternità – Periodo contributivo minimo di 120 giorni lavorativi su un periodo di 6 mesi – Interruzione – Dipendente pubblico di ruolo che prende congedo per motivi personali al fine di iniziare a lavorare nell’ambito di un’attività subordinata – Direttiva 2006/54/CE – Parità di trattamento fra uomini e donne sul lavoro»

 

Fonte: Sito web Eur-Lex

 

© Unione europea, http://eur-lex.europa.eu/

 


Charlotte Rosselle

contro

Institut national d’assurance maladie-invalidité (INAMI) e

Union nationale des mutualités libres

[domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dal Tribunal du travail de Nivelles (Belgio)]

1.        Ai sensi del diritto belga, una lavoratrice ha diritto all’indennità di maternità solo se, durante i sei mesi che precedono il suo congedo di maternità, ha lavorato per almeno 120 giorni. La sig.ra Rosselle, che ha lavorato nella regione Fiamminga, ha fatto domanda per tale indennità. Sebbene abbia lavorato per diversi anni, la sua domanda è stata respinta perché il suo status lavorativo era cambiato e non aveva completato il periodo contributivo minimo richiesto da quando aveva iniziato il nuovo impiego. Il Tribunal du travail de Nivelles (Giudice del Lavoro di Nivelles; in prosieguo: il «giudice del rinvio») (Belgio) chiede ora assistenza alla Corte sull’interpretazione del secondo periodo dell’articolo 11, punto 4, della direttiva maternità (2), che stabilisce che gli Stati membri non possono in alcun caso imporre a tal fine periodi di lavoro preliminare superiori a dodici mesi immediatamente prima della data presunta del parto (nascita). Il giudice del rinvio chiede anche se il rifiuto di accordare l’indennità di maternità alla sig.ra Rosselle costituisca discriminazione fondata sul sesso e violi in tal modo la direttiva sulla parità di trattamento (3). Il presente rinvio, pertanto, dà alla Corte l’opportunità di chiarire ulteriormente come la tutela accordata alla lavoratrice gestante (o alla lavoratrice puerpera o in periodo di allattamento) si ponga in relazione alla tutela di cui godono le lavoratrici rispetto alla discriminazione fondata sul sesso in materia di occupazione e impiego.

 

Normativa

 

Il diritto dell’Unione europea

 

2.        La direttiva maternità è pensata per promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (articolo 1, paragrafo 1).

 

3.        Il considerando 9 del preambolo di tale direttiva stabilisce che la protezione della sicurezza e della salute di tali lavoratrici non deve svantaggiare le donne sul mercato del lavoro e non pregiudica le direttive in materia di uguaglianza di trattamento fra gli uomini e le donne.

 

4.        L’articolo 2 della direttiva maternità definisce «lavoratrice gestante» «ogni lavoratrice gestante che informi del suo stato il proprio datore di lavoro, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali»; definisce inoltre come «lavoratrice puerpera», e «lavoratrice in periodo di allattamento», le lavoratrici ritenute tali ai sensi delle legislazioni e/o prassi nazionali che informino del loro stato il proprio datore di lavoro, conformemente a dette legislazioni e/o prassi (4).

 

5.        L’articolo 8 della direttiva maternità, intitolato «Congedo di maternità», dispone quanto segue:

«1.      Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché le lavoratrici di cui all’articolo 2 fruiscano di un congedo di maternità di almeno quattordici settimane ininterrotte, ripartite prima e/o dopo il parto, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali.

2.      Il congedo di maternità di cui al paragrafo 1 deve includere un congedo di maternità obbligatorio di almeno due settimane, ripartite prima e/o dopo il parto, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali».

 

6.        L’articolo 11 riguarda i diritti connessi con il contratto di lavoro delle lavoratrici protette.

 

7.        Ai sensi dell’articolo 11, punto 2, devono essere garantiti sia i diritti connessi con il contratto di lavoro delle lavoratrici protette in congedo di maternità sia il mantenimento di una retribuzione e/o il versamento di un’indennità adeguata alle lavoratrici. L’articolo 11, punto 3, stabilisce che tale indennità è ritenuta adeguata «se assicura redditi almeno equivalenti a quelli che la lavoratrice interessata otterrebbe in caso di interruzione delle sue attività per motivi connessi allo stato di salute, entro il limite di un eventuale massimale stabilito dalle legislazioni nazionali» (5). Ai sensi dell’articolo 11, punto 4, gli Stati membri hanno la facoltà di subordinare il diritto alla retribuzione o all’indennità «al fatto che la lavoratrice interessata soddisfi le condizioni previste dalle legislazioni nazionali per usufruire del diritto a tali vantaggi»; ma tali condizioni «non possono in alcun caso prevedere periodi di lavoro preliminare superiori a dodici mesi immediatamente prima della data presunta del parto».

 

8.        Lo scopo della direttiva sulla parità di trattamento, basata sull’articolo 141, paragrafo 3, del Trattato CE (attualmente articolo 157, paragrafo 3, TFUE), è assicurare l’applicazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e di impiego, compreso il principio della parità delle retribuzioni per uno stesso lavoro o per un lavoro di pari valore (considerando 4 del preambolo e articolo 1).

 

9.        Il considerando 23 del preambolo di tale direttiva fa riferimento alla giurisprudenza della Corte che stabilisce che qualsiasi trattamento sfavorevole nei confronti della donna in relazione alla gravidanza o alla maternità costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso e chiarisce che la direttiva sulla parità di trattamento include tale trattamento.

 

10.      Ai sensi della direttiva sulla parità di trattamento, vi è «discriminazione diretta» in una «situazione nella quale una persona è trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto un’altra persona sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga» [articolo 2, paragrafo 1, lettera a)] e «discriminazione indiretta» in una «situazione nella quale una disposizione, un criterio o una prassi apparentemente neutri possono mettere in una situazione di particolare svantaggio le persone di un determinato sesso, rispetto a persone dell’altro sesso, a meno che detta disposizione, criterio o prassi siano oggettivamente giustificati da una finalità legittima e i mezzi impiegati per il suo conseguimento siano appropriati e necessari» [articolo 2, paragrafo 1, lettera b)].

 

11.      Ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 2, lettera c), la discriminazione comprende «qualsiasi trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della [direttiva maternità]».

 

12.      L’articolo 5, che si trova nel secondo capo del titolo II della direttiva sulla parità di trattamento («Parità di trattamento nel settore dei regimi professionali di sicurezza sociale»), dispone quanto segue:

«Fermo restando quanto disposto dall’articolo 4, nei regimi professionali di sicurezza sociale è vietata qualsiasi discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso, specificamente per quanto riguarda:

a)      il campo d’applicazione di tali regimi e relative condizioni d’accesso;

b)      l’obbligo di versare i contributi e il calcolo degli stessi;

c)      il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni da corrispondere per il coniuge e per le persone a carico, nonché le condizioni relative alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni».

 

13.      L’articolo 14, paragrafo 1, che si trova nel terzo capo del titolo II della direttiva sulla parità di trattamento («Parità di trattamento per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro»), dispone in particolare:

 

«È vietata qualsiasi discriminazione diretta o indiretta fondata sul sesso nei settori pubblico o privato, compresi gli enti di diritto pubblico, per quanto attiene:

a)      alle condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo, compresi i criteri di selezione e le condizioni di assunzione indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione;

(…)».

 

14.      Si dichiara espressamente che la direttiva sulla parità di trattamento (v. articolo 28) non pregiudica le misure relative alla protezione della donna, in particolare per quanto riguarda la gravidanza e la maternità e le disposizioni, tra l’altro, della direttiva maternità (6).

 

Il diritto belga

 

15.      Ai sensi dell’articolo 128 della legge del 14 luglio 1994 sull’assicurazione medico‑sanitaria obbligatoria e sulle relative indennità (in prosieguo: la «legge del 1994»), letto in combinato disposto con l’articolo 203 del regio decreto del 3 luglio 1996 recante esecuzione della legge del 1994 (in prosieguo: il «regio decreto»), il pagamento dell’indennità di maternità in Belgio è sottoposto a due condizioni. In primo luogo, la lavoratrice, nel corso di un periodo di sei mesi precedenti alla data in cui ottiene il diritto alle prestazioni (7), deve aver lavorato per almeno 120 giorni lavorativi. In secondo luogo, ella deve fornire la prova che durante tale periodo i contributi previdenziali relativi alle indennità sono stati effettivamente versati.

 

16.      Il regio decreto dispone che la persona che, nel periodo di trenta giorni successivo alla data in cui le sue dimissioni volontarie come dipendente pubblico hanno effetto, acquisisce lo status di persona che ha diritto all’indennità di maternità, è dispensata dal periodo contributivo minimo a condizione che sia stata impiegata per un periodo continuo di almeno sei mesi come dipendente pubblico (8). Allo stesso modo, la legge del 20 luglio 1991, recante disposizioni sociali e varie, dispensa i dipendenti pubblici licenziati dal periodo contributivo minimo.

 

Contesto fattuale, procedimento e questione pregiudiziale

 

17.      La sig.ra Rosselle ha iniziato a lavorare come insegnante nella Comunità fiamminga nel settembre 2003. È stata nominata come dipendente pubblico di ruolo dalla Comunità fiamminga nel settembre 2008.

 

18.      Il 1° settembre 2009, la sig.ra Rosselle ha ottenuto una messa in aspettativa per motivi personali come dipendente pubblico (9) al fine di insegnare nell’ambito di programmi di immersione linguistica nella Comunità francese (10), dove ha lavorato nell’ambito di un’attività subordinata. A quel tempo era già incinta.

 

19.      Il congedo di maternità della sig.ra Rosselle è iniziato l’11 gennaio 2010 (11) ed ella ha partorito il 2 febbraio 2010. La sig.ra Rosselle ha presentato all’Union nationale des mutualités libres (in prosieguo: l’«UNM»), organismo mutualistico cui è affiliata, domanda di indennità di maternità durante il suo congedo di maternità.

 

20.      Il 23 febbraio 2010, l’UNM ha respinto tale richiesta sulla base del fatto che la sig.ra Rosselle aveva iniziato a lavorare nell’ambito di un’attività subordinata (invece che come dipendente pubblico di ruolo) il 1° settembre 2009. Nel momento in cui il suo congedo di maternità è iniziato, non aveva maturato il periodo contributivo minimo imposto dal diritto nazionale. La decisione stabiliva inoltre, in sostanza, che il diritto belga dispensa da tale requisito solo i dipendenti pubblici licenziati (ma non i dipendenti pubblici in aspettativa).

 

21.      La sig.ra Rosselle ha presentato ricorso contro tale decisione dinanzi al giudice del rinvio, che chiede una pronuncia pregiudiziale sulla seguente questione:

 

«Se il regio decreto (…), recante esecuzione della [legge del 1994], nel suo titolo III, capitolo III, sezioni 1 e 2, violi [la direttiva maternità] e [la direttiva sulla parità di trattamento], in quanto non prevede una dispensa dal periodo [contributivo minimo] per il dipendente pubblico messo in aspettativa per motivi personali che si trova in congedo di maternità, mentre la prevede, invece, per il dipendente pubblico dimissionario e per il dipendente pubblico licenziato».

 

22.      Osservazioni scritte sono state presentate dalla sig.ra Rosselle, dall’UNM, dal governo belga e dalla Commissione europea. Non essendone stata fatta richiesta, non si è tenuta udienza.

 

Valutazione

 

Osservazioni preliminari

 

23.      Risulta evidente dall’ordinanza di rinvio che in Belgio vi è una lacuna normativa per i dipendenti pubblici che partoriscono poco dopo aver ottenuto l’aspettativa per motivi personali. Diversamente dai dipendenti pubblici dimissionari o licenziati, i dipendenti pubblici che iniziano a lavorare nell’ambito di un’attività subordinata dopo aver ottenuto la messa in aspettativa per motivi personali hanno diritto all’indennità di maternità solo dopo aver maturato un nuovo periodo contributivo minimo.

 

24.      La questione centrale nel presente rinvio in sostanza è se una tale modifica nello status lavorativo possa costituire un valido fondamento, ai sensi del secondo periodo dell’articolo 11, punto 4, della direttiva maternità, per imporre ad una lavoratrice che vuole ottenere l’indennità di maternità di maturare un nuovo periodo contributivo minimo, anche ove ella abbia già lavorato in modo continuato per diversi anni. La questione quindi non è il periodo contributivo minimo in quanto tale ai sensi del diritto belga (120 giorni lavorativi su un periodo di sei mesi), che è ben al di sotto del periodo massimo stabilito dalla direttiva maternità, ma piuttosto la modalità in cui tale periodo viene applicato.

 

25.      La risposta a tale questione non è rilevante solo in una fattispecie come quella oggetto del procedimento principale. Diversamente dalla sig.ra Rosselle, la lavoratrice interessata potrebbe non aver ancora maturato il periodo contributivo minimo nel momento in cui ha ottenuto la messa in aspettativa per motivi personali e ha iniziato a lavorare nell’ambito di un’attività subordinata. Anche in tale contesto è fondamentale accertare se, al fine di rispettare il limite stabilito dal secondo periodo dell’articolo 11, punto 4, della direttiva maternità il periodo di occupazione precedente a tale modifica sia stato preso in considerazione.

 

26.      Il giudice del rinvio chiede inoltre se vi sia una discriminazione, per quanto riguarda il diritto ad un’indennità di maternità, tra dipendenti pubbliche che, come la sig.ra Rosselle, hanno partorito dopo aver ottenuto la messa in aspettativa per motivi personali e hanno iniziato a lavorare nell’ambito di un’attività subordinata e dipendenti pubbliche che hanno partorito dopo essere state licenziate o dopo aver rassegnato le dimissioni. Le osservazioni scritte toccano anche la questione se una persona nella situazione della sig.ra Rosselle debba essere trattata allo stesso modo di una dipendente pubblica che partorisca conservando il suo status di dipendente pubblico «in attività». A mio avviso, tuttavia, ciò che il giudice del rinvio vuole accertare è se negare l’indennità di maternità alla sig.ra Rosselle costituisca una discriminazione fondata sul sesso e sia pertanto proibito ai sensi della direttiva sulla parità di trattamento.

 

27.      Infine, sebbene la questione non venga specificamente sollevata nell’ordinanza di rinvio, devo mettere in chiaro fin dall’inizio che le norme contenute nel secondo periodo dell’articolo 11, punto 4, della direttiva maternità e nell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva sulla parità di trattamento a mio avviso hanno un effetto diretto verticale.

 

28.      È giurisprudenza costante della Corte che in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiano, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, esse possono essere invocate dai singoli dinanzi al giudice nazionale nei confronti dello Stato membro (12). L’articolo 11, punto 4, della direttiva maternità è univoco nel vietare agli Stati membri di sottoporre il diritto all’indennità di maternità a periodi di lavoro preliminare superiori a dodici mesi immediatamente prima della data presunta del parto. È vero che gli Stati membri conservano la competenza di definire periodi contributivi minimi per l’ottenimento dell’indennità di maternità, ma tale competenza non può in alcun modo pregiudicare tale divieto (13). Allo stesso modo, l’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva sulla parità di trattamento esclude in via generale ed in termini inequivocabili qualsiasi discriminazione basata sul sesso nei settori in essa ricompresi (14).

 

29.      Inoltre, tra gli enti ai quali possono essere applicate disposizioni di una direttiva in grado di produrre un effetto diretto si annovera un organismo che, indipendentemente dalla sua forma giuridica, è stato incaricato, con un atto della pubblica autorità, di prestare, sotto il controllo di quest’ultima, un servizio di interesse pubblico e che dispone a questo scopo di poteri che eccedono i limiti di quelli risultanti dalle norme che si applicano nei rapporti tra singoli (15).

 

30.      Spetta al giudice del rinvio verificare se l’UNM soddisfa tali condizioni (16). Le informazioni a disposizione della Corte sembrano indicare che sia effettivamente così, poiché l’UNM è responsabile per la concessione o per il rifiuto delle prestazioni di maternità in Belgio. Se ciò è corretto, la sig.ra Rosselle può avvalersi dell’articolo 11, punto 4, della direttiva maternità e dell’articolo 14, paragrafo 1, della direttiva sulla parità di trattamento nel richiedere la sua indennità nel procedimento principale.

 

L’articolo 11, punto 4, della direttiva maternità preclude una norma quale quella applicata alla sig.ra Rosselle nel procedimento principale?

 

31.      L’articolo 11, punto 4, della direttiva maternità chiarisce che gli Stati membri sono liberi di subordinare il diritto alla retribuzione o all’indennità di maternità al fatto che la lavoratrice interessata soddisfi le condizioni per usufruire del diritto. Tali condizioni non possono tuttavia prevedere «periodi di lavoro preliminare superiori a dodici mesi immediatamente prima della data presunta del parto».

 

32.      Il giudice del rinvio, in sostanza, chiede assistenza su come debbano essere interpretate le parole «periodi di lavoro preliminare». Nel rispondere a tale domanda, è necessario prendere in considerazione la formulazione, la struttura e gli scopi dell’articolo 11, punto 4, della direttiva maternità.

 

33.      L’articolo 11, punto 4, non contiene indicazioni sul fatto che la modifica dell’occupazione o dello status occupazionale possa costituire un valido motivo per imporre al lavoratore di maturare un nuovo periodo contributivo minimo. Al contrario, il riferimento a «periodi di lavoro» al plurale nella maggior parte delle versioni linguistiche in cui l’articolo 11, punto 4, della direttiva maternità è stato adottato nel 1992 sembra indicare che tali modifiche non incidano sul limite stabilito da tale disposizione (17).

 

34.      Il riferimento al «lavoro» preliminare nel secondo periodo dell’articolo 11, punto 4, è strettamente correlato alle categorie di lavoratrici che la direttiva maternità vuole tutelare (18). La nozione di «lavoratore» in tale direttiva non può essere interpretata diversamente in ogni ordinamento giuridico nazionale, ma ha portata a livello dell’Unione (19). Tale nozione dev’essere definita in base a criteri obiettivi, che caratterizzino il rapporto di lavoro sotto il profilo dei diritti e degli obblighi delle persone interessate. Orbene, la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione di quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione (20).

 

35.      Una volta che queste ultime condizioni sono soddisfatte, la natura del rapporto giuridico intercorrente fra il lavoratore ed il datore di lavoro – status di diritto pubblico o contratto di diritto privato – è irrilevante quanto alla questione se una persona debba essere considerata un lavoratore (21).

 

36.      Al 1° settembre 2009 (la data in cui ha ottenuto la messa in aspettativa per motivi personali), la sig.ra Rosselle aveva lavorato come insegnante per diversi anni, prima a contratto (da settembre 2003) poi come dipendente pubblico di ruolo (da settembre 2008). Ha poi iniziato a lavorare nell’ambito di un’attività subordinata per la Comunità francese fino all’11 gennaio 2010, quando è iniziato il suo congedo di maternità. In tale contesto, a mio avviso non vi sono dubbi sul fatto che, quando ha partorito, la sig.ra Rosselle aveva lavorato per oltre dodici mesi ai sensi del secondo periodo dell’articolo 11, punto 4, della direttiva maternità e che pertanto quest’ultima disposizione preclude una norma quale quella di cui trattasi nel procedimento principale.

 

37.      Tale interpretazione è coerente con l’oggetto e lo scopo del secondo periodo dell’articolo 11, punto 4.

 

38.      Ai sensi dell’articolo 8 della direttiva maternità, gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché le lavoratrici fruiscano di un congedo di maternità di almeno quattordici settimane ininterrotte, ripartite prima e/o dopo il parto, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali. Il congedo di maternità è inteso a garantire, da un lato, la difesa della condizione biologica della donna durante e dopo la gravidanza e, dall’altro, la protezione delle particolari relazioni tra la donna e il suo bambino durante il periodo successivo alla gravidanza e al parto, evitando che dette relazioni siano turbate dal cumulo degli oneri derivanti dal contemporaneo svolgimento di un’attività lavorativa (22).

 

39.      Il diritto al congedo di maternità tuttavia sarebbe senza effetto se non fosse accompagnato dal mantenimento di una retribuzione o, almeno, dal versamento di un’indennità adeguata (23). Di conseguenza, benché l’articolo 11, punti 2 e 3, della direttiva maternità non implichi un obbligo di mantenere integralmente la retribuzione durante il congedo di maternità, il legislatore dell’Unione ha voluto garantire che la lavoratrice fruisca, durante tale congedo, di un reddito di importo per lo meno equivalente a quello della prestazione prevista dalle normative previdenziali nazionali in caso di interruzione delle sue attività per motivi di salute (24). Il rispetto della protezione minima è suscettibile di controllo giurisdizionale (25).

 

40.      Una norma quale quella in questione nel procedimento principale si pone evidentemente in contrasto con tali obiettivi. Rende difficile per la lavoratrice a cui si applica andare in congedo di maternità (almeno oltre il periodo di congedo obbligatorio) se vuole mantenere un reddito sufficiente. Svolgere un’attività lavorativa in tali circostanze non solo ha un impatto negativo sulla condizione biologica della donna nel corso della gravidanza e successivamente ad essa, ma turba la relazione speciale con il suo bambino durante il periodo successivo al parto. Le lavoratrici che più probabilmente subiranno un impatto negativo sono quelle che appartengono alle categorie più vulnerabili (per esempio, lavoratrici che ricevono una retribuzione minima e che vivono da sole o con figli a carico), che non sono probabilmente in grado di permettersi di vivere senza l’indennità di maternità durante il congedo di maternità.

 

41.      Per tali ragioni, non accolgo l’argomentazione del governo belga relativa al fatto che la sig.ra Rosselle non abbia contribuito nello specifico al regime di previdenza sociale nell’ambito di un’attività subordinata per almeno sei mesi (26). Tale argomentazione presuppone una distinzione tra diversi status lavorativi. Come viene illustrato nel procedimento principale, accoglierla renderebbe inefficace il limite imposto agli Stati membri dal secondo periodo dell’articolo 11, punto 4, della direttiva maternità.

 

42.      Aggiungo che il risultato sarebbe diverso se la sig.ra Rosselle avesse ottenuto la messa in aspettativa per motivi personali il 1° settembre 2009 senza iniziare una nuova attività. Come ho rilevato, la direttiva maternità è tesa a tutelare le donne che si trovano in un rapporto di impiego. Di conseguenza, la protezione minima accordata dal secondo periodo dell’articolo 11, punto 4, presuppone che la donna che vuole ottenere l’indennità sia una «lavoratrice» al momento in cui richiede tale prestazione (27). Tale disposizione riguarda ovviamente solo la protezione minima. Nulla vieta ad uno Stato membro di stabilire che un’interruzione dell’impiego (eventualmente fino ad un periodo di tempo massimo) non influisca sul diritto ad un’indennità di maternità (28).

 

La direttiva sulla parità di trattamento preclude una norma quale quella applicata alla sig.ra Rosselle nel procedimento principale?

 

43.      Di norma, una «discriminazione diretta» ai sensi dell’articolo 2, paragrafo 1, lettera a), della direttiva sulla parità di trattamento presuppone che la persona interessata dimostri di essere trattata meno favorevolmente in base al sesso di quanto un’altra persona sia, sia stata o sarebbe trattata in una situazione analoga e che tale trattamento sia relativo all’occupazione e all’impiego. L’articolo 2, paragrafo 2, lettera c), di tale direttiva chiarisce che qualsiasi trattamento meno favorevole riservato ad una donna per ragioni collegate alla gravidanza o al congedo per maternità ai sensi della direttiva maternità costituisce discriminazione fondata sul sesso (29).

 

44.      Come ho detto, il secondo periodo dell’articolo 11, punto 4, della direttiva maternità preclude una norma quale quella in questione nel procedimento principale (30). Pertanto, in senso stretto, non è necessario accertare se la norma comporti un trattamento meno favorevole correlato con la gravidanza o con il congedo di maternità in uno dei settori ricompresi nella direttiva sulla parità di trattamento. A fini di completezza, devo cionondimeno esaminare tale questione.

 

45.      L’articolo 5 della direttiva sulla parità di trattamento non sembra rilevare nel contesto del presente rinvio. Tale disposizione riguarda la parità di trattamento nei regimi professionali di sicurezza sociale e vieta, in particolare, la discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda il campo d’applicazione di tali regimi e relative condizioni d’accesso, l’obbligo di versare i contributi e il calcolo degli stessi e il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni da corrispondere per il coniuge e per le persone a carico, nonché le condizioni relative alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni. Se è vero che il procedimento principale riguarda il diritto all’indennità di maternità, che è una prestazione previdenziale, tale prestazione, per la sua stessa natura, riguarda solo le donne.

 

46.      La Commissione rileva, tuttavia, che la norma in questione nel procedimento principale disincentiva le donne dipendenti pubblici di ruolo dall’andare in congedo per motivi personali al fine di cominciare a lavorare nell’ambito di un’attività subordinata durante i sei mesi che precedono l’inizio del loro congedo di maternità. Comporta pertanto una discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, vietata dall’articolo 14 della direttiva sulla parità di trattamento.

 

47.      Al fine di esaminare tale argomentazione, è necessario accertare se e in che misura una lavoratrice quale la sig.ra Rosselle sia in una situazione comparabile a quella di un lavoratore maschio.

 

48.      È giurisprudenza consolidata che le donne che usufruiscono del congedo di maternità «si trovano in una situazione specifica, la quale richiede che venga loro concessa una tutela speciale, ma che non può essere assimilata a quella di un lavoratore, né a quella della lavoratrice effettivamente presente sul posto di lavoro» (31). Allo stesso modo, la situazione di una donna in congedo di maternità non è assimilabile a quella di un lavoratore in congedo di malattia (32). Per tale ragione, una donna non ha necessariamente il diritto di ricevere una retribuzione piena durante il suo congedo di maternità, a condizione che l’importo della prestazione non sia così esiguo da vanificare lo scopo del congedo di maternità, vale a dire tutelare le lavoratrici prima e dopo il parto (33).

 

49.      Inoltre, sebbene l’articolo 11, punto 3, della direttiva maternità disponga che l’indennità di maternità deve essere almeno equivalente a quella che la lavoratrice interessata otterrebbe in caso di assenza dovuta allo stato di salute, il considerando 18 del preambolo di tale direttiva chiarisce che ciò è un mero elemento tecnico di riferimento che non deve essere interpretato nel senso di un’analogia tra la gravidanza e la malattia. Pertanto, la situazione di una lavoratrice quale la sig.ra Rosselle durante la sua gravidanza e il suo congedo di maternità non è assimilabile a quella di un uomo temporaneamente assente dal lavoro a causa del suo stato di salute. Diversamente dal governo belga, ritengo quindi non rilevante, nel considerare la possibilità di discriminazione diretta, che in Belgio l’accesso all’indennità di maternità e l’accesso all’indennità di malattia (anche da parte di un lavoratore maschio) dipendano entrambi dallo stesso periodo contributivo minimo, applicato in modo analogo.

 

50.      Cionondimeno, come osserva correttamente la Commissione, la «situazione specifica» di una lavoratrice che usufruisce del congedo di maternità non pregiudica il divieto di discriminazione nei confronti di un lavoratore di sesso femminile nella sua mera qualità di lavoratore. Trattare una lavoratrice in modo sfavorevole in relazione alla gravidanza può avere un impatto solo sulle donne: costituisce, pertanto, una discriminazione diretta fondata sul sesso (34).

 

51.      Quindi, per esempio, nella sentenza Gillespie e a., la Corte ha chiarito che il principio di non discriminazione «impone che la lavoratrice che permane dipendente durante il congedo di maternità fruisca, anche in modo retroattivo, di un aumento di stipendio deciso tra l’inizio del periodo remunerato con lo stipendio di riferimento [vale a dire lo stipendio che serve come riferimento per il calcolo dell’indennità di maternità] e la fine del congedo di maternità, al pari di qualunque altro lavoratore». Infatti, escludere la lavoratrice da detto aumento durante il congedo di maternità «la discriminerebbe unicamente come lavoratore poiché, se non fosse stata incinta, la donna avrebbe normalmente fruito dell’aumento» (35).

 

52.      Allo stesso modo, la Corte nella sentenza Thibault (36) ha sostenuto che la direttiva 76/207/CEE del Consiglio (37) avrebbe dovuto portare ad una parità sostanziale più che formale. Di conseguenza, «una donna che subisce un trattamento sfavorevole per quanto riguarda le sue condizioni di lavoro, nel senso che viene privata del diritto di ricevere il suo rapporto informativo annuale e, conseguentemente, di ottenere una promozione, a causa di un’assenza per maternità è vittima di una discriminazione che ha origine nella sua gravidanza e nel suo congedo di maternità» e «[u]n comportamento del genere costituisce una discriminazione direttamente basata sul sesso (…)» (38). La Corte ha ripetuto in svariate occasioni che una limitazione imposta alle opportunità di una donna di essere promossa a causa della sua gravidanza costituiscono discriminazione fondata sul sesso (39).

 

53.      A mio avviso, dall’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva sulla parità di trattamento si può dedurre che tale ragionamento si applica all’evoluzione della carriera in generale. Ai sensi di tale disposizione, è vietata qualsiasi discriminazione tra uomini e donne per quanto attiene alle loro «condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro, sia dipendente che autonomo (…) indipendentemente dal ramo di attività e a tutti i livelli della gerarchia professionale, nonché alla promozione» (40). Di conseguenza, le donne dovrebbero essere in grado di cogliere nuove opportunità di carriera al pari degli uomini.

 

54.      Una norma quale quella applicata nel procedimento principale probabilmente disincentiverebbe le donne dipendenti pubblici di ruolo dal prendere un’aspettativa per motivi personali al fine di iniziare a lavorare nell’ambito di un’attività subordinata durante i sei mesi che precedono l’inizio del congedo di maternità. Ai sensi di tale norma, accettare il nuovo lavoro nell’ambito di un’attività subordinata conclude il periodo del precedente impiego, riporta a zero il computo del periodo e costituisce il punto d’inizio di un nuovo periodo contributivo minimo. La conseguenza potrebbe essere – come nella presente causa – che la lavoratrice perde il suo diritto all’indennità di maternità durante il suo congedo di maternità.

 

55.      Potenzialmente per la lavoratrice interessata sussistono effetti negativi non solo immediati, quali il fatto di essere obbligata a svolgere un lavoro che non riflette pienamente le sue qualifiche o di essere privata di uno stipendio maggiore e di un miglior equilibrio tra il lavoro e la vita privata di cui potrebbe godere con il nuovo lavoro (41). La sua carriera potrebbe essere danneggiata anche nel lungo periodo. Vi è la possibilità (per esempio) che insegnare in lezioni di immersione linguistica nella Comunità francese aumenti le probabilità di una successiva promozione nella Comunità fiamminga; o che tale esperienza venga valutata positivamente da datori di lavoro privati nell’ambito della formazione professionale e dell’insegnamento delle lingue straniere.

 

56.      Per tali ragioni, concordo con la Commissione sul fatto che la norma in questione nel procedimento principale comporta un trattamento meno favorevole nei confronti delle lavoratrici in relazione all’accesso al lavoro e pertanto costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso ai sensi dell’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva sulla parità di trattamento.

 

Conclusioni

 

57.      Per tutte le ragioni che precedono, suggerisco che la Corte risponda alla questione sollevata dal Tribunal du travail de Nivelles come segue:

 

Tanto il secondo periodo dell’articolo 11, punto 4, della direttiva 92/85/CEE (direttiva maternità), come modificata, quanto l’articolo 14, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2006/54/CE (direttiva sulla parità di trattamento) ostano a che uno Stato membro si rifiuti di accordare l’indennità di maternità ad una lavoratrice sulla base del fatto che, avendo ella ottenuto la messa in aspettativa per motivi personali in qualità di dipendente pubblico per iniziare a lavorare nell’ambito di un’attività subordinata, il suo status lavorativo si è modificato ed ella non ha maturato il periodo contributivo minimo richiesto dal diritto nazionale dal momento in cui ha iniziato il nuovo lavoro, se tale lavoratrice aveva già lavorato per più di dodici mesi immediatamente prima della data presunta del parto.

 

1 –          Lingua originale: l’inglese.

 

2 –      Direttiva 92/85/CEE del Consiglio, del 19 ottobre 1992, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute sul lavoro delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento (decima direttiva particolare ai sensi dell’articolo 16, paragrafo 1 della direttiva 89/391/CEE) (GU L 348, pag. 1) (in prosieguo: la «direttiva maternità»), come modificata (al momento rilevante di cui al procedimento principale) dalla direttiva 2007/30/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2007 (GU L 165, pag. 21).

 

3 –      Direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego (rifusione) (GU L 204, pag. 3) (in prosieguo: la «direttiva sulla parità di trattamento»).

 

4 –      Nelle presenti conclusioni, farò riferimento a queste tre categorie congiuntamente come «le lavoratrici protette».

 

5 –      Ai sensi del considerando 18 del preambolo della direttiva maternità, la nozione di indennità adeguata in caso di congedo di maternità «deve essere considerata come un elemento tecnico di riferimento per fissare il livello della protezione minima e non dovrebbe in alcun caso essere interpretato nel senso di un’analogia tra la gravidanza e la malattia».

 

6 –      V. anche il considerando 24.

 

7 –      Vale a dire, in via di principio, quando inizia il suo congedo di maternità.

 

8 –      Se è stata impiegata per un periodo inferiore ai sei mesi in tale qualità, tale periodo viene preso in considerazione per il calcolo del periodo minimo di contribuzione.

 

9 –      Tale status consente ad un dipendente pubblico, su richiesta, di sospendere temporaneamente l’attività lavorativa di dipendente pubblico per motivi personali. Un dipendente pubblico in aspettativa ha il diritto di riprendere la sua posizione come dipendente pubblico.

 

10 –      Le classes d’immersion consentono agli studenti della Comunità francese – la cui lingua madre è, in via di principio, il francese – di seguire lezioni in un’altra lingua (normalmente l’olandese).

 

11 –      È pacifico che la sig.ra Rosselle abbia cessato di ricevere stipendi dalla Comunità francese durante il suo congedo di maternità.

 

12 –      V., più recentemente, la sentenza Napoli (C‑595/12, EU:C:2014:128, punto 46 e giurisprudenza citata).

 

13 –      V. per analogia (relativamente ai primi tre paragrafi dell’articolo 11 della direttiva maternità) la sentenza Gassmayr (C‑194/08, EU:C:2010:386, punti da 44 a 46).

 

14 –      V., per analogia, la sentenza Napoli (EU:C:2014:128, punto 48).

 

15 –      V. la sentenza Foster e a. (C‑188/89, EU:C:1990:313, punto 22). La versione inglese «special powers» forse non rappresenta adeguatamente la nozione di «pouvoirs exorbitants» del diritto amministrativo francese che sottende alla versione francese in cui tale sentenza è stata (originariamente) redatta. In almeno una causa successiva, la Corte ha invece utilizzato l’espressione «exceptional powers» (sentenza Kuso, C‑614/11, EU:C:2013:544, punto 32). V. anche la sentenza del Tribunale GDF Suez/Commissione (T‑370/09, EU:T:2012:333, punto 314).

 

16 –      Allo stesso modo, spetta al giudice del rinvio verificare se l’Institut national d’assurance maladie-invalidité (INAMI) (Istituto nazionale di assicurazione malattia-invalidità), anch’esso convenuto nel procedimento principale, rientri tra gli enti nei confronti dei quali possono essere applicate le disposizioni di una direttiva in grado di avere un effetto diretto.

 

17 –      V. le versioni inglese, francese, italiana, greca, portoghese e spagnola. Le altre versioni linguistiche (danese, olandese e tedesco) non pregiudicano tale conclusione poiché utilizzano una forma passiva e pertanto evitano di utilizzare un nome plurale o singolare.

 

18 –      Le lavoratrici autonome (diversamente dalle lavoratrici subordinate) godono della protezione ai sensi della direttiva 2010/41/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 7 luglio 2010, sull’applicazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne che esercitano un’attività autonoma e che abroga la direttiva 86/613/CEE del Consiglio (GU L 180, pag. 1).

 

19 –      Sentenza Kiiski (C‑116/06, EU:C:2007:536, punti 24 e 25).

 

20 –      Sentenza Kiiski (EU:C:2007:536, punto 25 e giurisprudenza citata).

 

21 –      V., in relazione alla libera circolazione dei lavoratori, le sentenze Lawrie-Blum (66/85, EU:C:1986:284, punto 20), e Bettray (344/87, EU:C:1989:226, punto 16). Tale conclusione viene confermata, almeno implicitamente, dalla direttiva 89/391/CEE del Consiglio, del 12 giugno 1989, concernente l’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro (GU L 183, pag. 1), che ha costituito la base per l’adozione della direttiva maternità (v. precedente nota 2). L’articolo 2, paragrafo 1, della direttiva 89/391 stabilisce che tale direttiva concerne «tutti i settori d’attività privati o pubblici (attività industriali, agricole, commerciali, amministrative, di servizi, educative, culturali, ricreative, ecc.)» (il corsivo è mio).

 

22 –      V., in particolare, le sentenze Hoffman (184/83, EU:C:1984:273, punto 25); Boyle e a. (C‑411/96, EU:C:1998:506, punto 41), e CD (C‑17/12, EU:C:2014:169, punto 34).

 

23 –      Considerando 17 del preambolo della direttiva maternità. V. anche la sentenza nella causa Boyle e a. (EU:C:1998:506, punto 30). Anche prima della data in cui gli Stati membri hanno dovuto dare attuazione alla direttiva maternità, la Corte aveva dichiarato che, alla luce del principio di parità di trattamento tra uomini e donne, «(…) l’importo [dell’indennità di maternità] non può esser così esiguo da vanificare lo scopo del congedo di maternità, che è quello di tutelare le lavoratrici prima e dopo il parto» (sentenza nella causa Gillespie e a., C‑342/03, EU:C:1996:46, punto 20).

 

24 –      Sentenze Boyle e a. (EU:C:1998:506, punto 36), e Terveys- ja sosiaalialan neuvottelujärjestö TSN (C‑512/11 e C‑513/11, EU:C:2014:73, punto 36).

 

25 –      Sentenza Gassmayr (EU:C:2010:386, punto 51).

 

26 –      Le informazioni a disposizione della Corte indicano che la sig.ra Rosselle ha contribuito al regime di previdenza sociale nel settore pubblico fino al 1° settembre 2009.

 

27 –      Ciò viene confermato dalle parole introduttive dell’articolo 11 [«[p]er garantire alle lavoratrici (…)»] nonché dal primo sottoparagrafo del paragrafo 4 di tale disposizione [«(…) hanno la facoltà di subordinare il diritto alla retribuzione o all’indennità (…) al fatto che la lavoratrice interessata soddisfi le condizioni (…) per usufruire del diritto a tali vantaggi»] (il corsivo è mio). Si possono tuttavia incontrare situazioni in cui una donna dovrebbe essere considerata come «lavoratrice gestante» ai sensi della direttiva maternità sebbene non stia effettivamente fornendo prestazioni a favore del suo datore di lavoro e sotto la sua direzione. Nella sentenza Kiiskii, per esempio, la Corte ha sostenuto che una lavoratrice non perde il suo status in conseguenza della fruizione del congedo di educazione (EU:C:2007:536, punti da 27 a 33).

 

28 –      V., per analogia, le sentenze Jiménes Melgar (C‑438/99, EU:C:2001:509, punto 37), e Terveys- ja sosiaalialan neuvottelujärjestö TSN (EU:C:2014:73, punto 37).

 

29 –      Il considerando 9 del preambolo della direttiva maternità e il considerando 23 del preambolo della direttiva sulla parità di trattamento fanno luce sulla stretta correlazione esistente tra questi due strumenti. Mentre il primo stabilisce, tra l’altro, che le misure che proteggono la sicurezza e la salute delle lavoratrici gestanti non devono svantaggiare le donne sul mercato del lavoro, il secondo chiarisce che qualsiasi trattamento del genere costituisce una discriminazione diretta fondata sul sesso.

 

30 –      V., in particolare, infra paragrafo 36.

 

31 –      V. sentenze Gillespie e a. (EU:C:1996:46, punto 17); Abdoulaye e a. (C‑218/98, EU:C:1999:424, punto 20); Alabaster (C‑147/02, EU:C:2004:192, punto 46), e Parviainen (C‑471/08, EU:C:2010:391, punto 40).

 

32 –      Sentenze Boyle e a. (EU:C:1998:506, punto 40), e Saint Prix (C‑507/12, EU:C:2014:2007, punto 29). Nella sentenza McKenna (C‑191/03, EU:C:2005:513, punto 56) la Corte ha stabilito che lo stato di gravidanza non è assimilabile ad uno stato patologico, e che i disturbi e le complicazioni insorgenti durante la gravidanza e comportanti un’incapacità lavorativa rientrano nei rischi inerenti allo stato di gravidanza stesso e partecipano quindi della specificità del medesimo.

 

33 –      Sentenza Gillespie e a. (EU:C:1996:46, punto 20).

 

34 –      V., per esempio, in relazione al licenziamento a causa della gravidanza o per ragioni sostanzialmente fondate su tale stato, le sentenze Handels- og Kontorfunktionœrernes Forbund (C‑179/88, EU:C:1990:384, punto 13); Brown (C‑394/96, EU:C:1998:331, punti 16, 24 e 25), e Mayr (C‑506/06, EU:C:2008:119, punti 46 e 50). In relazione al rifiuto di assumere una donna incinta, vedi la sentenza Dekker (C‑177/88, EU:C:1990:383, punto 12). In relazione alle condizioni per modificare la durata del congedo di educazione nell’ambito di una nuova gravidanza, v. la sentenza Kiiski (EU:C:2007:537, punto 55).

 

35 –      EU:C:1996:46, punto 22. V. anche la sentenza Alabaster (EU:C:2004:192, punti 47 e 48). La Corte ha analogamente stabilito nella sentenza Lewen (C‑333/97, EU:C:1999:512) che escludere i periodi di tutela della maternità dai periodi lavorati ai fini della concessione di una gratifica diretta a compensare retroattivamente il lavoro svolto discriminerebbe il lavoratore di sesso femminile solo nella sua qualità di lavoratore: se essa non fosse stata incinta, tali periodi avrebbero dovuto essere calcolati come periodi lavorati (C‑333/97, EU:C:1999:512, punto 42).

 

36 –      C‑136/95, EU:C:1998:178, punto 32.

 

37 –      Del 9 febbraio 1976, relativa all’attuazione del principio della parità di trattamento fra gli uomini e le donne per quanto riguarda l’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e le condizioni di lavoro (GU L 39, pag. 40). Tale direttiva è stata abrogata e sostituita dalla direttiva sulla parità di trattamento.

 

38 –      Sentenza Thibault (EU:C:1998:178, punto 32).

 

39 –      V., inter alia, le sentenze Sass (C‑284/02, EU:C:2004:722, punti 30, 31 e 58), e Napoli (EU:C:2014:128, punti da 31 a 33).

 

40 –      Articolo 14, paragrafo 1, lettera a). Il corsivo è mio.

 

41 –      Ancora una volta, le categorie più vulnerabili di lavoratrici sono probabilmente più esposte a tali conseguenze sfavorevoli. V. infra paragrafo 40.

 


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