Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 18 dicembre 2015, n. 25563 - Rachipatia: il fattore extralavorativo è stato ritenuto causa efficiente esclusiva della malattia


 

Presidente: MACIOCE LUIGI Relatore: BLASUTTO DANIELA Data pubblicazione: 18/12/2015

Fatto


Con sentenza depositata il 16.2.2010 la Corte di appello dell'Aquila ha confermato la sentenza che aveva respinto la domanda proposta da DM.S. nei confronti dell'INAIL per il riconoscimento di una rendita da malattia professionale.
Il C.t.u. nominato in primo grado, le cui conclusioni venivano condivise dalla Corte di appello, aveva escluso l'origine professionale della denunciata tecnopatia (rachipatia), avuto riguardo al lavoro di idraulico svolto dal DM.S. dal 1985 al 1996 e successivamente di operaio comunale addetto alla manutenzione del fondo stradale delle reti viarie comunali e di pulizia dei margini; in particolare, il C.t.u. aveva ritenuto che le lavorazioni praticate, implicanti un modesto sovraccarico biodinamico del rachide, non avessero potuto provocare la degenerazione del disco intervertebrale responsabile dell'espulsione di un'ernia lombare compresa fra L5-S1 e che invece ciò fosse imputabile a "meiopragia" non dipendente dalle lavorazioni espletate.
Per la cassazione di tale sentenza il DM.S. propone ricorso affidato ad un solo motivo. Resiste l'INAIL con controricorso. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Diritto


Con unico motivo il ricorrente denuncia "violazione e falsa applicazione del d.lgs. 38/2000, delle tabelle ad esso allegate, dell'art. 41 c.p., degli artt. 115 e 116 c.p.c., nonché dell'art. 152 disp. att c.p.c.; omessa, insufficiente, contraddittoria motivazione (art. 360 nn. 3 e 5 c.p.c.)", per avere la Corte di appello: 1) prestato acritica adesione alla c.t.u. di primo grado, senza specificamente motivare in ordine ai rilievi contenuti della relazione tecnica di parte, allegata al ricorso in appello, e senza disporre la rinnovazione delle operazioni peritali; 2) condiviso le
conclusioni peritali basate su una metodologia valutativa errata, trascurando di considerare che, in presenza di infermità invalidante derivante da fattori concorrenti, sia di natura professionale che extraprofessionale, opera il principio di equivalenza causale di cui all'art. 41 c.p., per cui deve essere riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell'evento, salvo che uno o più fattori assurgano a causa efficiente esclusiva; 3) condannato il ricorrente alle spese processuali, pur avendo il ricorrente "prodotto, sia in primo grado che in appello, dichiarazione sostitutiva di certificazioni attestanti il reddito", in violazione dell'art. 152 disp. att. c.p.c..
Il ricorso è infondato.
Occorre premettere che è ammissibile la richiesta nel giudizio d'appello di rinnovazione della consulenza tecnica d'ufficio ove si contestino le valutazioni tecniche del consulente fatte proprie dal giudice di primo grado, poiché non viene chiesta l'ammissione di un nuovo mezzo di prova. Il giudice, peraltro, se non ha l'obbligo di motivare il diniego, che può essere anche implicito, è tenuto a rispondere alle censure tecnico-valutative mosse dall'appellante avverso le valutazioni di ugual natura contenute nella sentenza impugnata, sicché l'omesso espresso rigetto dell'istanza di rinnovazione non integra un vizio di omessa pronuncia ai sensi dell'art. 112 cod. proc. civ., ma, eventualmente, un vizio di motivazione in ordine alle ragioni addotte per rigettare le censure tecniche alla sentenza impugnata (Cass, n. 5339 del 2015).
Nel caso di specie, la Corte di appello ha implicitamente respinto la richiesta di rinnovazione delle operazioni peritali, ritenendo che le censure svolte dall'appellante fossero sostanzialmente infondate a fronte di una c.t.u. medico-legale correttamente svolta e condivisibile sul piano logico e valutativo. A fronte di ciò, l'odierno ricorrente ha del tutto omesso di riportare nel ricorso per cassazione il testo della c.t.u. medico-legale, almeno nei passaggi salienti e non condivisi, limitandosi ad opporre le critiche svolte nell'atto di appello, di cui si lamenta il mancato esame e la lacuna motivazionale.
Al riguardo va osservato che, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, la parte ricorrente che lamenti l'acritica adesione del giudice di merito alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio non può limitarsi a far valere genericamente lacune di accertamento o errori di valutazione commessi dal consulente o dalla sentenza che ne abbia recepito l'operato, ma, avuto riguardo al carattere limitato del giudizio di cassazione, ha l'onere di indicare specificamente le circostanze e gli elementi rispetto ai quali invoca il controllo di logicità, trascrivendo integralmente nel ricorso almeno i passaggi salienti e non condivisi della relazione e riportando il contenuto specifico delle critiche ad essi sollevate, al fine di consentire l'apprezzamento dell'incidenza causale del difetto di motivazione (Cass. n. 16368 del 2014, n. 13845 del 2007). La sola contestazione dell'esattezza delle conclusioni dell'espletata consulenza mediante la pura e semplice contrapposizione ad esse delle diverse valutazioni espresse dal consulente tecnico di parte non è sufficiente, di per sé, ad evidenziare alcun errore delle prime - con conseguente insufficienze della motivazione della sentenza che ad esse si sia limitata a riferirsi -, ma solo la diversità dei giudizi formulati dagli esperti (cfr. Cass. n. 7078 del 2006).
Il ricorrente non ha riportato il contenuto della c.t.u., né della sentenza di primo grado, onde consentire a questa Corte di valutare la fondatezza della doglianza svolta in sede di ricorso per cassazione, ossia se le censure mosse dal Consulente di parte e poste a base dell'atto di appello (invece trascritte) fossero sufficientemente specifiche e puntuali rispetto alle valutazioni diagnostiche e alle conclusioni espresse dal Consulente tecnico d'ufficio, tali cioè da richiedere che il Giudice di appello fosse tenuto ad argomentare le ragioni per le quali aveva ritenuto infondati i rilievi medico-legali. Sul punto, dunque, il ricorso è inammissibile ex art. 366 n. 6 c.p.c..
Quanto al secondo ordine di censure, va precisato che il vizio, denunciabile in sede di legittimità, della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, è ravvisabile in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nell'omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico che si traduce in un'inammissibile critica del convincimento del giudice, e ciò anche con riguardo alla data di decorrenza della richiesta prestazione (Cass. n. 1652 del 2012). La giurisprudenza di questa Corte è del tutto consolidata al riguardo (cfr. ex multis, Cass. n. 569 del 2011; n. 8654 del 2008, 9988 del 2009, n. 15796 del 2004).
Nella specie, le censure del ricorrente si risolvono in un mero dissenso in ordine alla esclusione della derivazione causale della malattia dalle lavorazioni praticate. Parte ricorrente non denuncia deficienze diagnostiche o affermazioni illogiche o scientificamente errate, ma si duole del giudizio valutativo condotto alla stregua della documentazione medica agli atti. La censura finisce così per risolversi in una inammissibile critica delle conclusioni medico-legali e nella altrettanto inammissibile proposta di una soluzione diversa.
Ad avviso del C.t.u., le lavorazioni cui il ricorrente era addetto implicavano un modesto sovraccarico biodinamico del rachide e non potevano costituire causa della degenerazione del disco intervertebrale e dell'espulsione dell'ernia lombare. Privo di pertinenza è dunque il richiamo del principio di equivalenza causale di cui all'art. 41 c.p., atteso che il fattore extralavorativo è stato ritenuto causa efficiente esclusiva della malattia. Sul punto, il motivo si rivela così privo di attinenza al "decisum" in relazione alla previsione di cui all'art. 366, n. 4 c.p.c. (Cass. n. 21490 del 7 novembre 2005, 9 ottobre 1998 n. 9995, 26 marzo 2010 n. 7375), avendo la sentenza specificamente motivato, sintetizzando le conclusioni espresse dal C.t.u., circa le ragioni che avevano portato ad escludere la derivazione causale (o concausale) della rachipatia dall'attività lavorativa espletata dal ricorrente.
Quanto, infine, alla doglianza vertente sulla presunta violazione dell'art. 152 disp. att. cod. proc. civ. per l'esonero dal pagamento delle spese processuali, a prescindere dalla inammissibile formulazione della censura in modo promiscuo con le precedenti, deve ritenersi che ai fini dell'esonero dal pagamento delle spese è richiesta, fin dall'atto introduttivo del giudizio, l'apposita dichiarazione sostitutiva di certificazione attestante il possesso delle condizioni reddituali previste dalla norma (ex multis, Cass. nn. 10875/2009; Cass. 17197/2010; Cass. 13367/2011, 16284/2011, 21630/2013). Poiché non risulta riprodotto dal ricorrente l'atto introduttivo del giudizio (cfr. Cass. S.U. 22726 del 2011, sull'onere del ricorrente per cassazione di riprodurre atti e documenti contenuti nel fascicolo di parte), non vi sono elementi per potere ritenere comprovati i presupposti per l'esonero dal pagamento delle spese processuali.
Pertanto, il ricorso va respinto.
In difetto di autocertificazione in ordine al possesso delle condizioni reddituali, anche le spese del giudizio di legittimità sono regolate secondo il principio della soccombenza e vengono liquidate nella misura indicata in dispositivo per esborsi e compensi professionali, oltre spese generali in misura del 15 per cento del compenso totale per la prestazione, ai sensi dell'art. 2 del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, e accessori di legge.

P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in € 100,00 per esborsi ed €2.000,00 per compensi, oltre spese generali nella misura del 15% e accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 19 novembre 2015