Categoria: Giurisprudenza amministrativa (CdS, TAR)
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Corte dei Conti, Sez. Veneto, 15 dicembre 2015, n. 214 - Mobbing


 

 

 

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE DEI CONTI
SEZIONE GIURISDIZIONALE PER IL VENETO

composta dai seguenti magistrati:
dott. Guido CARLINO Presidente
dott. Natale LONGO Giudice
dott. Gennaro DI CECILIA Giudice relatore
ha pronunciato la seguente
SENTENZA


nel giudizio di responsabilità, iscritto al n°29893 del registro di Segreteria, promosso ad istanza della Procura Regionale presso la Sezione Giurisdizionale della Corte dei Conti per il Veneto nei confronti di:
T. Vincenzo, Codice Fiscale , nato a  e residente ad , al tempo dei fatti Comandante della Polizia Municipale del Comune di Oderzo (TV), il quale ha eletto domicilio presso l'avv.to , Codice Fiscale , del Foro di Venezia, con studio legale in , San Donà di Piave (VE).
VISTI l'atto di citazione della Procura Regionale, depositato in Sezione il 31/10/2014, e la comparsa di costituzione in giudizio del convenuto, depositata il 18/6/2015;
VISTI ed ESAMINATI gli atti e i documenti del processo;
CHIAMATA la causa nella pubblica udienza del 9 luglio 2015, celebrata con l'assistenza del Segretario, dott. Stefano Mizgur, nella quale sono stati sentiti il magistrato relatore, dott. Gennaro Di Cecilia, nonché il rappresentante del Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale dott.ssa Chiara Imposimato e l'Avv. , per il convenuto..

Fatto

1) Posizione processuale della Procura attrice.
Con atto depositato nella Segreteria della Sezione il 31 ottobre 2014, ritualmente notificato mediante consegna a mani proprie del destinatario, avvenuta l'11 novembre 2014, la Procura Regionale ha citato a comparire in giudizio, con gli avvertimenti di rito, il Magg. T. Vincenzo, all'epoca dei fatti Comandante della Polizia Municipale del Comune di Oderzo (TV), per sentirlo condannare al risarcimento del danno cagionato al Comune di Oderzo (TV), quantificato in 51.150,02 euro, oltre alla rivalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT, agli interessi legali decorrenti dal deposito della sentenza fino all'effettivo soddisfo ed alle spese di giustizia, queste ultime da devolvere in favore dello Stato.
La specifica e concreta notizia di danno è costituita da un esposto-segnalazione, pervenuto alla Procura il 30/05/2011, prot. n. 3721 (doc.1), effettuato dal Segretario Generale del Comune di Oderzo con cui si comunicava, allegandola in copia (doc. 1 - allegato 1), la sentenza parziale n. 276 del 13 maggio 2011, pronunciata dal Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Treviso, nel giudizio promosso con ricorso dal sig. L.B. (doc. 1 - allegato 2), con la quale, in parziale accoglimento del medesimo, dichiarava che il sig. L.B., nel periodo compreso tra l'anno 1998 e l'anno 2004, era stato oggetto di una condotta persecutoria posta in essere dal Comandante della Polizia Municipale del Comune di Oderzo.
Nell'accertare tale condotta, detta sentenza disponeva la rimessione in fase istruttoria della causa, onde esperire una consulenza medico legale al fine di accertare l'esistenza del nesso di causalità e l'entità del danno alla persona, lamentato dal ricorrente, quale effetto della citata condotta persecutoria.
Con successiva nota pervenuta l'11 febbraio 2013, prot. n. 941 (doc. 2), il Comune di Oderzo comunicava, trasmettendola in copia, anche la sentenza definitiva n. 25 dell'11 gennaio 2013 emessa dal Tribunale di Treviso, con la quale era stato accolto il ricorso del sig. L.B. e condannato il Comune di Oderzo al pagamento di 30.913,00 euro, a titolo di risarcimento e connessi oneri accessori, nonché alla rifusione delle spese legali avversarie, la cui esatta quantificazione, al 31 gennaio 2013, è stata di euro 4.000,00.
La Procura riferiva anche che il Comune aveva deciso di non interporre appello avverso tale decisione sulla base di un parere contenuto nella relazione del Prof. Avv. , legale esterno dello stesso Comune (doc. 2; pagine 5 - 8), il quale aveva esplicitato come il ricorso del sig. L.B. mirava all'accertamento del demansionamento in conseguenza dell'assegnazione al servizio esterno dopo anni di attività di tipo amministrativo e lamentava condotte riconducibili al mobbing da parte del Comandante della Polizia Municipale dell'epoca.
Domanda di accertamento del demansionamento che è stata, tuttavia, respinta (attesa la legittimità delle scelte operate con l'atto amministrativo organizzativo ed all'equivalenza o fungibilità delle mansioni svolte all'esterno dell'ufficio, rientranti nel profilo professionale di istruttore di vigilanza; v. pagg. III e IV della sentenza civile), contrariamente a quella relativa al mobbing, accolta anche sulla scorta delle numerose testimonianze rese nel corso del giudizio che, univocamente, ne avevano confermato la sussistenza.
Nei riferiti termini si è espressa la C.T.U. - disposta dal Giudice del Lavoro - che ha attestato come la condizione psicopatologica del sig. L.B., causata da un comportamento vessatorio del Comandante dei Vigili urbani, andava inquadrata nella sfera del danno biologico che aveva avuto la durata complessiva di nove mesi: per i primi tre mesi, nella misura del 50% "con grado medio di sofferenza" e per i successivi sei mesi del 25% "con sofferenza di grado lieve".
La pronuncia del giudice del lavoro n. 25 del 2013 del Tribunale di Treviso registrava la soccombenza del predetto Comune, condannato a pagare in favore della parte ricorrente le somme in precedenza indicate, avendo ritenuto sussistente un danno non patrimoniale; danno che è stato liquidato sulla base dell'indirizzo assunto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nel considerare compreso nel danno biologico anche il danno morale, il danno esistenziale, il danno estetico e quello al pregiudizio della capacità lavorativa generica.
Il legale del Comune di Oderzo, quindi, consigliava al Sindaco di non interporre appello in quanto:
“sarebbe necessario contestare i dati sui quali, appunto, il Giudice si è basato: dati che, tuttavia, non appaiono di facile critica, poggiando su testimonianze provenienti dai testi di ambo le parti in giudizio e sulla consulenza d'ufficio condivisa pure dai cc.tt.pp.".
Il Comune di Oderzo, al fine di liquidare le somme derivanti dalla pronuncia di condanna del giudice ordinario, ha assunto la deliberazione del Consiglio Comunale n. 14 del 13 marzo 2013 (doc. 3), avente ad oggetto il "Riconoscimento debito fuori bilancio derivante dalla sentenza del Tribunale di Treviso pronunciata all'esito del giudizio R.G.N. 1242/2005, corredata da copia della relativa documentazione".
L'ente locale, a seguito di apposita richiesta istruttoria, con nota pervenuta il 9 maggio 2013, prot. n. 3214 (doc. 4), trasmetteva alla Procura: la Consulenza Tecnica di Ufficio, posta alla base della sentenza n. 25 del 2013 del Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Treviso; l'ordine di servizio del 19/08/1988; l'ordine di servizio del 30/08/1989; il documento recante la nomina a responsabile di servizio del 15/03/1994; l'avviso di selezione del 22/08/2001; la sanzione disciplinare n. 2902 del 1996; la relazione neuropsicologica medico-legale del 12/03/2004; la richiesta di mobilità del 5/07/2001; la lettera a.r. del 31/05/2004; la lettera a.r. del 7/7/2004; le osservazioni scritte del Comune di Oderzo del 6/08/2004; la copia verbale di mancato accordo 26/10/2004; il fascicolo sub. a) usque ad d); il prospetto riassuntivo completo delle spese sostenute dal Comune ammontanti ad euro 51.150,02, di cui euro 20.340,00 capitale liquidato in sentenza; euro 409,14 rivalutazione; euro 4.459,93 interessi dall'1/1/2004 all'11/3/2013; euro 5.033,60 spese legali liquidate in sentenza (cassa avvocati e Iva compresa); euro 726,00 per spese C.T.U. e ausiliario rimborsate a controparte; euro 726,00 spese C.T.U. e ausiliario sostenute direttamente dal Comune in corso di causa; euro 3.630,00 spese C.T.P. del Comune; euro 15.825,55 spese legali del difensore del Comune; i mandati di pagamento emessi a favore del lavoratore ricorrente di euro 30.968,67 del 30 aprile 2013, relativi al debito fuori bilancio; i mandati di pagamento emessi a favore del C.T.U. di euro 181,50 (25/10/2011) + 181,50 (25/01/2012) + 363,00 (26/3/2012); il mandato di pagamento emesso a favore del C.T.P. di euro 3.630,00 del 30/01/2012; i mandati di pagamento a favore del legale del Comune di euro 3.672,00 (1/08/2006) + 306,00 (8/4/2013) + 3.978,00 (8/4/2013) + 7.869,55 (8/4/2013); il Regolamento di organizzazione degli Uffici e dei Servizi del Comune di Oderzo, in vigore dal 7 febbraio 1997 al 4 dicembre 2000, ed il medesimo Regolamento, in vigore dal 4 dicembre 2000 al 10 febbraio 2005.
Il Segretario comunale, con nota pervenuta in Procura il 15 gennaio 2014, prot. 308 (doc. 5), faceva pure presente che il comune, all'epoca dei fatti, non era dotato di un Regolamento disciplinante il Servizio di Polizia Municipale, ex art. 7 della Legge 7 marzo 1986, n. 65; mentre il Corpo di Polizia Municipale era stato istituito con deliberazione della Giunta Comunale n. 137 del 30 giugno 2004, demandando l'organizzazione ed il funzionamento dello stesso ad apposito regolamento al tempo non ancora adottato.
Successivamente, il Tribunale di Treviso, con nota pervenuta il 13 febbraio 2014, prot. n. 1162 (doc. 6), trasmetteva copia della sentenza n. 276 del 2011, unitamente al fascicolo processuale, contenente le testimonianze rese nel corso del giudizio civile di risarcimento dei danni.
L'odierno convenuto, all'esito dell'invito a fornire deduzioni (doc. 8), ha avanzato richiesta di accesso agli atti, debitamente concesso in data 25/9/2014 (doc. 9), e ha depositato in Procura memorie difensive, pervenute in data 13 ottobre 2014, prot. 6648 (doc. 10), e non ha chiesto di essere sentito personalmente.
La Procura erariale ha ritenuto che le deduzioni difensive articolate dal convenuto non hanno determinato un mutamento della ricostruzione complessiva della vicenda, con la conseguenza che risultavano permanere inalterati i presupposti per l'esercizio, nei suoi confronti, dell'azione di responsabilità amministrativo-contabile.
In punto di diritto, la Procura ha affermato che dall'istruttoria espletata emerge in modo evidente la responsabilità in capo all'odierno convenuto, nei confronti del quale risultano sussistenti tutti gli elementi costitutivi della responsabilità amministrativo-contabile.
In particolare, sotto il profilo della giurisdizione di questa Corte ha ricordato il rapporto di servizio sussistente tra il Comune di Oderzo (TV) - ente danneggiato - e l'odierno convenuto, autore delle condotte illecite - in ragione del quale si è verificato l'evento pregiudizievole, posto che il sig. T. ha ricoperto l'incarico di Comandante della Polizia Municipale del citato Comune dall'1 febbraio 1970 al 29 febbraio 2004, lasso temporale in cui è compresa la condotta illecita. Secondo la Procura deve ritenersi sussistente, in modo incontrovertibile, il nesso di causalità tra le condotte gravemente colpose e l'evento lesivo (danno erariale) in applicazione delle teorie della condicio sine qua non e della causalità adeguata civilisticamente intesa (ex multis, pronuncia delle Sezioni Unite n. 577 del 2008). Il Requirente ritiene condotte dell'odierno convenuto hanno generato un danno non patrimoniale indiretto al comune, quale soggetto inciso che ha dovuto sostenere integralmente le spese del risarcimento del danno disposto dall'A.G.O. e le altre spese connesse (C.T.U., C.T.P., spese del legale del Comune, spese legali di controparte, etc.), derivante dalle condotte mobbizzanti ed illecite commesse dal sig. T..
Esse, pertanto, si rivelano causa diretta e consequenziale del danno non patrimoniale arrecato al Comune di Oderzo, sussistendo, nella specie, la causalità materiale tra condotta ed evento lesivo (condotta mobbizzante a danno del sig. L.B. e conseguente lesione subita dallo stesso), nonché la causalità giuridica tra evento lesivo ed il danno (lesione e connesso risarcimento sostenuto dalla Amministrazione di riferimento a seguito del giudizio civile).
Al sig. T. vanno ascritte condotte connotate da atti persecutori realizzati e protratti nel corso del tempo (mobbing), così come riconosciuto dalla C.T.U. e dalle due sentenze civili del Tribunale di Treviso di condanna al risarcimento dei danni del Comune di Oderzo, richiamando a sostegno sia giurisprudenza della Corte di Cassazione (sentenza n. 6474 del 2012), che di questa Corte (Sezione Giurisdizionale per il Piemonte n. 141 del 2012 e sentenza n. 493 del 2012 della Sezione Giurisdizionale per il Lazio).
E ciò anche sulla base del criterio di causalità, formulato ex ante o secondo il principio della c.d. prognosi postuma, dovendosi ritenere ampiamente prevedibile il concretizzarsi di un danno erariale, in conseguenza del riconosciuto risarcimento dei danni, derivante da comportamenti (commissivi od omissivi) compiuti dal Comandante dei Vigili in un considerevole lasso temporale. La Procura ha ritenuto vada affermata anche l'esistenza dell'elemento psicologico in capo al sig. T. che - con le sue condotte illecite e foriere di danno erariale - ha materialmente arrecato il danno al sig. L.B., dipendente del predetto Ente in qualità di istruttore di vigilanza, risarcito direttamente dal Comune quale datore di lavoro, come emerge chiaramente dalla sentenza n. 276/2011 del Giudice del lavoro del Tribunale di Treviso, atteso che quel dipendente "nel periodo compreso tra il 1998 e il 2004 è stato oggetto di una condotta persecutoria posta in essere dal capo della Polizia Municipale del Comune di Oderzo".
Al sig. T., cui era richiesta diligenza e coscienziosità, comportante un grande rigore, in relazione al ruolo rivestito di Comandante della Polizia Municipale, incombeva l'obbligo di assicurare la massima attenzione possibile, in ragione dello specifico incarico ricoperto all'interno della struttura, volta alla tutela della sicurezza del lavoratore.
Non certo, come evidenziato nella citata sentenza, una condotta ostile (pag. V della sentenza) con particolare riferimento alla volontà di far desistere il sig. L.B. dalla partecipazione ad un concorso indetto al fine di far conseguire una progressione verticale. La stessa modifica delle mansioni, pur legittima, sembra sia stata attuata per mettere in difficoltà il sig. L.B., assegnatario da ormai diversi anni di funzioni ben specifiche.
La stessa pronuncia ha ritenuto dimostrato, inoltre, l'atteggiamento persecutorio del Comandante nei confronti del sig. L.B. sulla base di riscontro testimoniale (pag. III della sentenza).
Il Requirente ha opinato che la responsabilità è da addossarsi integralmente al Comandante della Polizia Municipale, avendo egli violato l'art. 9 della Legge 7 marzo 1986, n. 65, con cui, in via esclusiva, è stata attribuita al Comandante della Polizia Municipale la responsabilità della disciplina del Corpo.
In proposito ha ricordato che il Corpo della Polizia Municipale, ai sensi dell'art. 2 della Legge 7 marzo 1986, n. 65, dipende, invero, direttamente dal Sindaco o dall'Assessore delegato, escludendo la figura del Segretario comunale dalla gestione della struttura.
Inoltre, il Sindaco ha esclusivamente compiti di vigilanza in merito all'attuazione del servizio in conformità alle direttive dell'amministrazione comunale, mentre la responsabilità della gestione del personale è da attribuirsi esclusivamente al Comandante, cui compente l'adozione integrale dei provvedimenti di organizzazione del servizio e del personale.
Il Codice etico europeo per la Polizia, adottato con Raccomandazione (REC 2001-10) del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa del 19 settembre 2001 (doc. 7), sancisce, a tal proposito, che l'organizzazione delle forze di Polizia deve garantire l'integrità del personale (artt. 20 e 31-34). Conclusivamente, la Procura ha ritenuto che nella fattispecie vada acclarata la colpa grave che connota la condotta antigiuridica del convenuto, richiamando la nozione distintamente delineata da questa Sezione Giurisdizionale Regionale con la sentenza n. 460 del 2012, inquadrata in una concezione normativa della colpevolezza, cioè al giudizio di rimproverabilità per l'atteggiamento antidoveroso della volontà che era possibile non assumere, esprimendo il rapporto di contraddizione tra la volontà del soggetto e le norme consistente nell'aver violato un criterio medio di diligenza.
Criterio che deve essere più o meno elastico per adattarsi alle circostanze del caso concreto, abbandonato la concezione psicologica della colpa, non correlata ad una mera violazione di legge, anche se di notevole importanza, o ad una qualsiasi manifestazione di negligenza, imprudenza o imperizia, ma ad un comportamento che denoti dispregio delle elementari, o comunque più comuni, regole di prudenza, tale, cioè, da integrare un alto tasso di probabilità rispetto alla verificazione dell'evento dannoso.
Colpa grave efficacemente definita dalla Sezione Emilia - Romagna, sentenza n. 95 del 2012 e dallo stesso Consiglio di Stato, nella sentenza n. 1320 del 2013, sia pure nell'ambito dell'illecito amministrativo, ma valevole anche per il caso dell'accertamento della colpa, secondo un criterio relativistico dell'agente modello o all'homo eiusdem condicionis et professionis, e, infine, dalla Suprema Corte con sentenza n. 16237 del 2013, secondo cui la colpa è una figura soggettiva d'impronta marcatamente normativa.
In particolare, sul grado di colpa ha richiamato, da ultimo, la consolidata e condivisibile giurisprudenza della Corte dei conti (Sez. III d'Appello n. 491 del 2014), secondo cui, non essendo possibile configurare un generale criterio di valutazione della colpa grave, occorre far riferimento al grado di anomalia e di incompatibilità dei comportamenti concreti rispetto agli schemi normativi astratti, ivi compreso il dovere di svolgere i propri compiti con il massimo di lealtà e diligenza.
Pertanto, a dire della Procura, il sig. T., con inescusabile negligenza, imprudenza ed imperizia, si è reso responsabile di atti persecutori in danno del sig. L.B. e si è, quindi, considerevolmente discostato dalla condotta esigibile ex ante in ragione del ruolo ricoperto e delle mansioni svolte in concreto all'interno della struttura amministrativa, in aperta violazione del principio di cui all'art. 43 c.p. che prevede che "il delitto...è colposo, o contro l'intenzione, quando l'evento, anche se preveduto, non è voluto dall'agente e si verifica a causa di negligenza o imprudenza o imperizia, ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline" (Sez. Giur. Veneto, n. 20 del 2014).
La Procura ha ricordato, in particolare, episodi specifici contenuti nelle testimonianze desunte dal verbale dell'udienza istruttoria del 13/04/2006, da cui si evince quanto segue:
- il Comandante della Polizia Locale ha esercitato indebite pressioni sul sig. L.B., al fine di costringerlo a non partecipare alla selezione interna per la progressione verticale, presumibilmente allo scopo di favorire un altro concorrente-dipendente (Del Ros);
- il sig. L.B., precedentemente incaricato della gestione dei verbali al Codice della Strada (uno dei ruoli principali all'interno di una Polizia Locale), è stato successivamente spostato in altro ufficio, con dotazioni informatiche obsolete, modificando le mansioni (con una riduzione del carico di lavoro pari al 70 - 80% - v. pag. 7 teste );
- il sig. L.B., dopo aver svolto per diversi anni il proprio lavoro, prevalentemente all'interno degli uffic,i è stato assegnato ad incarichi esterni. Il Comandante ha giustificato tale spostamento a seguito dell'assunzione, da parte del Comune, di un nuovo Vice-comandante.
Con la conseguente osservazione che le testimonianze rese (ad eccezione di quella del Comandante) sono concordi nel riportare l'atteggiamento persecutorio ed il demansionamento del sig. L.B., per cui è evidente che il danno è stato cagionato dalla condotta persecutoria del Comandante nei confronti del sig. L.B..
Inoltre, in una testimonianza è stato dato conto che il Comandante aveva un atteggiamento "aggressivo" nei confronti di tutto il personale.
Infine, nell'atto di citazione sono riportate articolate repliche alle deduzioni difensive formulate dall'odierno convenuto nella memoria difensiva seguita all'invito rivoltogli, rilevandone analiticamente l'infondatezza e la contraddittorietà ad ulteriore sostegno della tesi accusatoria prospettata.
2) Sintetiche deduzioni elaborata dall'odierno convenuto in sede di invito a dedurre, riportate nella citazione.
Nella memoria difensiva, pervenuta in Procura in data 13 ottobre 2014, prot. 6648 (doc. 10) dal sig. T. (pag. 6) è stato citato un episodio relativo alla mancata notifica dei verbali di accertamento, oggetto del rapporto del 6/09/1994 redatto dal sig. L.B., nel quale quest'ultimo ha ammesso l'errore della omissione della verbalizzazione e conseguente notificazione di alcune violazioni ai relativi responsabili, assumendosi la piena responsabilità della stessa omissione.
Nella citata memoria è stato sostenuto, altresì, che, in merito alla vicenda in precedenza menzionata, il sig. T. non ha adottato alcun provvedimento disciplinare nei confronti del sig. L.B., avendo ritenuto "accettabile" la sua giustificazione nella nota prot. n. 3-riservato del 7/09/1994 inviata al Sindaco. Quanto da ultimo descritto dimostrerebbe l'infondatezza dell'attività persecutoria nei confronti dello stesso L.B..
Nella deduzioni difensive è stato dichiarato, inoltre, che al sig. L.B. non è stata irrogata alcuna sanzione disciplinare; tuttavia va precisato sul tema che al sig. L.B., in data 1 marzo 1996 è stata irrogata la sanzione della censura da parte della Commissione disciplina. Nel verbale della Commissione (doc. 4; pagine 26-27) si prende atto che il sig. L.B., oltre ad essersi assunto le proprie responsabilità, ha prontamente risarcito il danno; il mancato intervento del Comandante è dovuto, pertanto, esclusivamente al fatto che il sig. L.B. si era assunto autonomamente le proprie responsabilità e aveva spontaneamente risarcito l'Ente, subendo, comunque, una sanzione disciplinare.
Nella memoria difensiva (pag. 6), al fine di dimostrare l'assenza di qualsiasi persecuzione posta in essere dal Comandante T., è stato dichiarato, altresì, che quest'ultimo non ha mai richiesto alcuna visita fiscale durante le assenze dal servizio del sig. L.B.. Tale affermazione è priva di riscontro normativo in quanto l'Amministrazione comunale era tenuta a trasmettere alla A.U.L.S.S. competente la certificazione medica del dipendente assente, così come previsto dall'art. 23, comma 9, del C.C.N.L. 1994 - 1997 comparto EE.LL. (vigente all'epoca dei fatti) “l'azienda o l'ente dispone il controllo della malattia ai sensi delle vigenti disposizioni di legge di norma fin dal primo giorno di assenza, attraverso l'azienda sanitaria locale territorialmente competente". Tali procedure, negli Enti locali, sono gestite direttamente dall'ufficio del personale. La richiesta di una visita fiscale, pertanto, non è una mera discrezionalità del Responsabile del servizio, ma è un obbligo a carico dell'Ente.
Nelle deduzioni il sig. T. ha lamentato, inoltre, che il Comune di Oderzo, a seguito della sentenza di primo grado del Giudice del Lavoro di Treviso, non ha proposto ricorso avverso la citata pronuncia, non si comprenderebbero, pertanto, le motivazioni in base alle quali l'Ente locale non ha proposto una transazione fin dall'inizio della vicenda giudiziaria, prima di giungere alla sentenza.
3) Ulteriori considerazioni della Procura nel libello introduttivo.
Le contestazioni mosse dal convenuto, invero, appaiono contraddittorie in quanto, nella memoria difensiva, il sig. T., inizialmente, ha contestato la decisione del Giudice del Lavoro di Treviso (pag. 3), che ha respinto la domanda del sig. L.B. in merito al demansionamento ed ha accolto, invece, quella relativa al mobbing; successivamente, ha contestato al Comune di aver resistito in giudizio senza tentare una transazione, aggravando conseguentemente il danno erariale derivato dal risarcimento disposto dal giudice.
Ad avviso della Procura, la condotta dell'Ente locale è stata posta in essere con coscienziosità e diligenza, in quanto, se vi fosse stata una transazione con il dipendente, la pretesa di risarcimento di quest'ultimo sarebbe stata presumibilmente maggiore, in quanto avrebbe ricompreso sia il mobbing, sia il demansionamento; appare infatti chiaro che l'Ente, resistendo in giudizio, ha, in concreto, conseguito un livello di sicura utilità limitando il definitivo pregiudizio.
Giova, sul tema, ricordare il principio enunciato dalla Sezione Giurisdizionale Toscana, nella sentenza n. 51 del 2014, la quale ha statuito che: "Né può ritenersi censurabile l'attività del Comune di (omissis) che non ha interposto impugnativa avverso la sentenza del giudice di primo grado, atteso che la mancata impugnazione della parte pubblica condannata costituisce scelta discrezionale non illogica e priva di determinazione di un'autonoma serie causale idonea a “spezzare” il nesso causale tra il comportamento del (omissis) ed il danno causato. Infatti, il ricorso alla tutela giudiziaria da parte di un ente pubblico rientra nelle facoltà discrezionali dell'Amministrazione e, pertanto, di solito non può essere sindacato dal giudice contabile, salvo che per irragionevolezza quando sia evidente la temerarietà di un comportamento processuale".
Il Comune di Oderzo, quindi, nell'ambito della propria autonomia decisionale, si è, comunque, avvalso di un parere legale esterno al fine di valutare l'opportunità di proporre ricorso avverso la sentenza del Giudice del lavoro di Treviso. L'Ente locale ha, quindi, supportato le proprie determinazioni mediante uno specifico parere legale; la richiesta della consulenza legale esterna denota, invero, la scrupolosità e la particolare diligenza dell'Amministrazione comunale nel gestire la vicenda giudiziale in parola. Nella citata consulenza è messa in evidenza, invero, la non opportunità di una eventuale impugnativa avverso la citata sentenza, in quanto “al fine di proporre appello, sarebbe necessario poter contestare i dati sui quali, appunto, il Giudice si è basato: dati che, tuttavia, non appaiono di facile critica, poggiando su testimonianze provenienti dai testi di ambo le parti in giudizio e sulla consulenza d'ufficio condivisa pure dai cc.tt.pp". (estrema aleatorietà del risultato).
La memoria difensiva ha contestato, altresì, la statuizione del Giudice del Lavoro, in quanto la testimone sig.ra F.S., nella propria deposizione, ha dichiarato che i rapporti tra il sig. T. ed il sig. L.B. erano "normali" e che quest'ultimo era stato trasferito in un altro ufficio, senza, tuttavia, subire un demansionamento, in quanto l'arredo e gli strumenti informatici in dotazione erano i medesimi rispetto alla precedente collocazione logistica del dipendente; la teste ha dichiarato, inoltre, che il volume di lavoro era rimasto analogo. Nelle note difensive è stato messo in risalto, inoltre, che la testimonianza non ha evidenziato alcuna questione problematica nei rapporti che intercorrevano tra il Comandante ed il suo subalterno.
In realtà, detto teste ha anche riferito di non essere stata testimone di quanto contestato all'odierno convenuto, non negando, pertanto, che ciò possa essere accaduto, ma semplicemente limitandosi a dichiarare di non essere a conoscenza dei fatti in argomento.
In merito alla tipologia di lavoro la teste ha menzionato unicamente il carico di lavoro del sig. L.B., andando a considerare esclusivamente il profilo quantitativo e non l'ambito qualitativo. Va considerato, nella specie, che la sig.ra S., ha ricoperto il ruolo di istruttore amministrativo, quindi, pur se collocata nell'ambito del Comando di Polizia Locale, la stessa non era incardinata nella struttura gerarchica degli operatori della Polizia Locale e non era, pertanto, in grado di fornire informazioni qualificate in merito ai rapporti interni alla struttura gerarchica della citata forza di Polizia.
Le altre testimonianze, sono state, al contrario, rese da soggetti appartenenti alla Polizia Locale, e le stesse deposizioni sono state univoche nel confermare la condotta vessatoria dell'odierno convenuto nei confronti del sig. L.B..
Nelle deduzioni difensive è stato, inoltre, omesso di dare conto che nella consulenza del C.T.U. è stato attestato (pag. 14 della perizia): "sembra oggi possibile affermare che i disturbi lamentati dal L.B. per un periodo all'incirca di nove mesi, possano venire ascritti ad una condizione patologica disfunzionale in diretta conseguenza della situazione di grave conflittualità che aveva vissuto nell'ambiente di lavoro durante il periodo 1998-04”.
Infine, per quanto concerne il segmento dell'elemento oggettivo della responsabilità amministrativa riferito al danno ed alla sua tipologia, la Procura ha ritenuto che la fattispecie rientri nell'ipotesi del danno indiretto, la cui nozione è stata ben tratteggiata da questa Sezione nella decisione n. 54 del 2010 e consegue all'esistenza dell'obbligo giuridico di risarcire il nocumento cagionato al terzo; obbligo che può discendere o da una libera determinazione della stessa Amministrazione o dall'autorità cui l'ordinamento conferisce l'accertamento contenuto in sentenza (Sezione Terza centrale n. 281/2008, n. 57/2008; Sezione Seconda centrale n. 227/2008).
In particolare, la Procura ha ricordato come il danno da mobbing sia fattispecie risalente, quanto alla natura giuridica, alla responsabilità datoriale, di tipo contrattuale, prevista dall'art. 2087 del codice civile, che pone a carico del datore di lavoro l'onere di adottare, nell'esercizio di impresa, tutte le misure necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del prestatore di lavoro (CdS. n. 1609 del 2013 - Cassazione, Sezione lavoro, 25 maggio 2006, n.1244).
E' passata a delinearne il concetto, alquanto indeterminato, ancorché si possa considerare tale danno quell'insieme di condotte vessatorie e persecutorie del datore di lavoro o, comunque, emergenti nell'ambito lavorativo concretizzanti la lesione della salute psico-fisica e dell'integrità del dipendente e che postulano, ove sussistenti, una adeguata tutela anche di tipo risarcitorio (Cass. Sezione Lavoro, n.1307 del 2010).
Attesa la indeterminatezza della nozione, ha dedotto come la giurisprudenza si è preoccupata di indicare una serie di elementi e/o indizi caratterizzanti il fenomeno del mobbing dai quali far emergere la concreta sussistenza di una condotta offensiva, come tradottasi con atti e comportamenti negativamente incidenti sulla reputazione del lavoratore, sui suoi rapporti umani con l'ambiente di lavoro e sul contenuto stesso della prestazione lavorativa, richiedendo che l'azione offensiva posta in essere a danno del lavoratore debba essere sistematica, frequente e posta in essere con una serie prolungata di atti e comportamenti ostili e avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione o rivelare intenti meramente emulativi (secondo il costante orientamento interpretativo della Corte di Cassazione, Sezione lavoro n.4774/2006; Cass. n. 3785 del 2009 e Cass. n. 19814 del 2013).
Di contro, non si ravvisano gli estremi del mobbing nell'accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell'ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria, essendo in particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche che pure sono frequenti nel mondo del lavoro.
Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio.
Anche la giurisprudenza contabile, indagando il fenomeno del mobbing con particolare riferimento all'ambito della responsabilità amministrativo-contabile (Sez. Friuli Venezia Giulia n. 56 del 2013 - Sez. Lazio n. 562 del 2012 e n. 647 del 2013 - Sez. Calabria n. 228 del 2013 - Sez. Sicilia n. 298 del 2012), qualificandolo nell'atteggiamento aggressivo attuato per escludere un membro da un gruppo di appartenenza, la ritiene condotta generalizzata che si manifesta in ambienti ristretti (famiglia, lavoro, squadre sportive, collegi, scuole, carceri, ecc...) e che si concretizza in una serie di comportamenti illeciti, e, talora, anche formalmente leciti (sia dal punto di vista civile, che penale e disciplinare), indirizzati verso un determinato soggetto da parte di uno o più appartenenti al medesimo gruppo aventi lo scopo di indebolire l'equilibrio psico-fisico della vittima e di emarginarla.
Per una definizione generale nel diritto italiano di mobbing, la Procura ha, infine, ricordato la sentenza della Corte Costituzionale n. 359/2003, secondo cui con questa espressione si indicano "atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo".
Responsabilità del datore di lavoro che trova fondamento, come detto, nell'art. 2087 c.c., che impone allo stesso di adottare le misure per la tutela del lavoratore nella sua integrità psico-fisica e nella sua personalità morale nel rispetto dei principi costituzionali enunciati dagli artt. 2, 3 e 32 Cost..
In conclusione, il danno erariale, da attribuirsi all'odierno convenuto, è pari ad euro 51.150,02, quale importo relativo alle spese sostenute dal Comune di Oderzo in ragione delle condotte persecutorie poste in essere dal sig. T..
Ammontare complessivo del danno - arrecato dalla condotta gravemente colposa dell'odierno convenuto - che potrà subire variazioni, anche in aumento, in relazione all'emergere di ulteriori circostanze e, comunque, lo stesso danno deve essere incrementato della rivalutazione monetaria, degli interessi e delle spese di giustizia, facendo, altresì, salva una diversa quantificazione in aumento o in diminuzione, ovvero a diversa somma, anche maggiore, ritenuta dovuta dalla Sezione.
4) La posizione del convenuto in giudizio.
Il convenuto, rappresentato e difeso dall'Avv. , si è costituito in giudizio mediante memoria depositata il 18/6/2015 con la quale, ricostruendo il quadro fattuale ma offrendo, con opposti esiti rispetto alla Procura, un'esegesi del contenuto intrinseco dell'accertamento avvenuto in sede civile completamente e sostanzialmente diverso, ha chiesto il rigetto o, in via subordinata, il parziale accoglimento della domanda proposta nei suoi confronti contestandone ogni punto nei termini di seguito, seppure brevemente, esplicitati.
Nel ricordare il lodevole servizio prestato per 34 anni, come emerso all'atto del commiato dell'allora sindaco di Oderzo in data 8/3/2004, la difesa del dott. T. ha, preliminarmente, censurato, ritenendola erronea, la condotta del Comune che, confortato da un parere espresso dal proprio legale di fiducia, nel quale si prospettava una via di uscita, che consiste nel sacrificio della posizione del dipendente il cui comportamento sarebbe stato causa della sentenza, non ha invece ritenuto opportuno proporre impugnazione avverso una sentenza tutt'altro che inattaccabile e profondamente ingiusta nei confronti l'odierno convenuto, sottoponendola a rivalutazione dei fatti e delle risultanze documentali, confidando invece in una pronuncia di questa Corte, resa a seguito di doverosa ed autonoma valutazione dei fatti e delle ipotesi di responsabilità configurate a carico del convenuto, capace di restituire giustizia.
Nell'illustrare dettagliatamente le proprie difese, essa ha ritenuto come l'impostazione seguita dalla Procura apparisse viziata anzitutto da una concezione dell'istituto del mobbing eccessivamente dilatata, al punto da ricomprendere in tale figura comportamenti che, viceversa, con il mobbing hanno ben poco a che fare.
A tal proposito e mettendo in guardia il Collegio da atteggiamenti finalizzati a mera "ripicca" posti in essere da soggetti asseritamente lesi dall'azione del datore di lavoro o del superiore gerarchico, in questo caso, ha richiamato una pronuncia della Corte di cassazione (Cass. civ., sez. lav., 15 maggio 2015, n. 10037), ritenuta particolarmente emblematica poiché individua una serie di "parametri di riconoscimento", o elementi sintomatici, che debbono essere congiuntamente e contemporaneamente presenti ai fini della configurazione del mobbing. Per cui non può esservi mobbing: se non in un dato contesto ambientale ostile nei confronti di un soggetto; se i comportamenti illegittimi non perdurano per un tempo ragionevolmente sufficiente; se la frequenza dei comportamenti illegittimi è tangibile e concreta, non sporadica; se le azioni vanno persino oltre l'illegittimità amministrativa, assumendo un carattere di vera e propria ostilità; se vi è un marcato dislivello tra antagonisti; se si registra una progressione "a fasi" del comportamento mobbizzante; se, cosa forse più importante, sussiste un intento realmente persecutorio nei confronti del soggetto che si assume mobbizzato.
Ciò conformemente alla giurisprudenza del giudice amministrativo, anche recente (ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 16.4.2015, n. 1945), che si mostra meglio in grado di percepire le peculiarità di un ambiente di lavoro presso la pubblica amministrazione rispetto al giudice ordinario che si occupa di impiego pubblico da un numero relativamente ridotto di anni e, naturalmente, alla produzione dello stesso giudice contabile che richiede, perché possa configurarsi tale fenomeno, un rigoroso accertamento della situazione che si verifica solo in presenza di gravi fatti o pratiche dirette ad isolare o espellere il dipendente, oggetto di dileggio e di soprusi, dall'ambiente di lavoro intaccandone gravemente la sua sfera di equilibrio, menomandone la capacità lavorativa e la fiducia in se stesso e provocando catastrofe emotiva, depressione e talora persino il suicidio" (così Corte conti, sezione terza centrale d'appello, 25 ottobre 2005).
Inoltre, ha ritenuto che un atteggiamento dell'amministrazione presso la quale prestano servizio i protagonisti, attivi e passivi, della vicenda non è indifferente ai fini della configurazione e, soprattutto, della ripartizione della responsabilità (così, ad esempio, Corte conti, sez. reg. Calabria, n. 228/2013).
Occorre, in definitiva, la situazione di una gravità assoluta (persino incredibile in certe circostanze, come l'uso reiterato del potere disciplinare, giungendo persino al licenziamento illegittimo del dipendente, nel caso esaminato da Corte conti, sez. reg. Campania, 27 novembre 2014, n. 1612), o la palese umiliazione, costante e prolungata nel tempo, alla quale viene sottoposto un determinato dipendente; mai la condanna consegue all'accertamento di situazioni di semplice incomprensione o incompatibilità di carattere, o a fronte di evidenze testimoniali non univoche, o in presenza di episodi eterogenei e comunque isolati (cfr. ad esempio Corte conti, Sez. reg. Friuli Venezia Giulia, 13 settembre 2013, n. 56).
Del resto, la difesa ha precisato che alcune fra le pronunce menzionate sono state citate anche dalla Procura regionale (pag. 26 dell'atto di citazione), senza però esercitare alcuna valutazione critica onde escluderne la perfetta sovrapponibilità al caso di specie.
Indi, è passata allo svolgimento delle numerose critiche mosse alle sentenze civili, sia di natura parziale che definitiva di condanna al risarcimento del danno, emesse dal Tribunale di Treviso, ritenendo viziata la motivazione che le sostiene sotto molteplici profili, rilevandone la sua incongruità, lacunosità e stringatezza nella parte dedicata al sedicente mobbing, in tutto una trentina di righi, ritenendo che non risultano affatto integrati quei "parametri tassativi di riconoscimento del mobbing" individuati dalla giurisprudenza.
In particolare, ha osservato come il giudice civile sia incorso in estrema frettolosità nel valutare le deposizioni testimoniali, limitandosi a menzionare due testimonianze favorevoli al danneggiato, secondo le quali i rapporti tra il comandante ed i sottoposti erano afflitti da atteggiamenti prepotenti e autoritari da parte dell'odierno convenuto, e che il sig. L.B. sarebbe stato più volte rimproverato.
Ha riportato, poi, la vicenda di un concorso relativamente al quale il comandante avrebbe dissuaso, mediante l'esercizio di indebite pressioni, il L.B. dalla partecipazione, mentre ha ascritto alla sostituzione delle mansioni subita un intento persecutorio, citando una sentenza sul mobbing, mentre nulla si motiva in riferimento alla durata, alla frequenza, all'andamento, all'intento persecutorio.
Per incomprensibili ragioni non sono state, invece, considerate le testimonianze della sig.ra Sforzin, nonostante lavorasse fianco a fianco del L.B. sullo stesso piano e fosse a conoscenza dei fatti in qualità di testimone diretto in grado di riferire circa il volume quali-quantitativo delle mansioni svolte e dei rapporti intercorrenti tra il dipendente ed il comandante, definiti "normali", nonostante il contrario avviso del Procuratore che riteneva la Sforzin non incardinata nella struttura gerarchica degli operatori di polizia municipale.
Analogamente per lo stesso T., pur se il medesimo non è stato riconosciuto incapace a testimoniare, ex art. 246 c.p.c.
Ha sottolineato lo sforzo compiuto dalla Procura nell'atto di citazione, consapevole della pochezza delle argomentazioni contenute in sentenza, di aggiungere valutazioni ulteriori, asserendo (pagg. 17, 18 atto di citazione) che il L.B. è stato spostato in altro ufficio con dotazioni informatiche obsolete (in questo caso è addirittura sbagliato il nome del teste); che il L.B. è stato assegnato ad incarichi esterni dopo aver lavorato per alcuni anni prevalentemente all'interno degli uffici.
Sorprendentemente e con dispiacere, la difesa ha rilevato che in citazione è stato ritenuto che "le testimonianze rese (ad eccezione di quella del comandante) sono concordi nel riportare l'atteggiamento persecutorio ed il demansionamento del sig. L.B.".
Infine, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice civile, ha dedotto la sostanziale inattendibilità delle testimonianze sfavorevoli al proprio assistito rese dai testi Omissis, a ciò forse indotti, a distanza di anni, dall'istintivo collegamento dell'apertura del procedimento disciplinare a loro carico nel corso del quale l'odierno convenuto non rinvenne elementi di prova dell'addebito, ma ammonì tutti i vigili in ordine al divieto di svolgere attività lavorativa non autorizzata.
Quanto al primo, evidenziandone l'atteggiamento di particolare acredine nutrita nei confronti del sig. T., ne ha eccepito la sostanziale irrilevanza sia perché il Lazzaro ha dichiarato di aver lavorato per il comune di Oderzo sino al 2002, quanto meno limitatamente al biennio successivo; sia perché, pur precisando lo svolgimento alternato di periodi di lavoro all'esterno con periodi nei quali è stato addetto prevalentemente al servizio interno e ricordando che da un certo momento il L.B. è stato spostato in un'altra stanza, lamentandosi di non aver molto da fare, non solo non appaiono dette circostanze sintomo di vessazione o, peggio, di persecuzione, ma esse si limitano a riferire lamentele del L.B. più che impressioni proprie del teste.
Infine, il Lazzaro riferisce "de relato" o "per sentito dire" che il mutamento di mansioni sarebbe stato conseguenza del mutato atteggiamento del comandante nei confronti del L.B., e che il comandante trattava male tutti i sottoposti, escludendo, così, che un tale atteggiamento fosse "riservato" esclusivamente al L.B..
Analogamente per la deposizione del teste , forse l'unica sfavorevole al T., che ha esordito sostenendo di non aver mai avuto un buon rapporto con il comandante T., riferendo che il rapporto tra T. e L.B. si sarebbe andato deteriorando, in particolare in occasione di un concorso (che per vero, per ammissione stessa del ricorrente, viene indetto nel mese di agosto 2001); riferisce che il comandante avrebbe ricordato al L.B. un pregresso procedimento disciplinare.
Sta per vero, secondo il patrocinatore, che il signor L.B. era stato sottoposto a procedimento disciplinare per ritardi e omissioni nella redazione dei verbali di infrazione al Codice della strada, circostanza dimostrabile per tabulas (doc. 8-9-10).
Che non è stato il signor T. il protagonista della promozione del procedimento disciplinare; né il soggetto che ha irrogato la sanzione, non avendone la competenza, essendosi pronunciata, sul punto, una commissione presieduta da un magistrato.
Anzi, in quest'ultima vicenda il T. non ha mostrato alcuna ostilità nei confronti del L.B., arrivando anzi a giustificarne il comportamento ritenendo accettabili le motivazioni fornite dall'incolpato circa la lamentata intempestiva notificazione di verbali relativi ad infrazioni al Codice della strada (cfr. doc. 8), sebbene il procedimento avesse avuto il suo naturale corso con epilogo nel provvedimento di irrogazione della sanzione disciplinare.
A tale segnalazione il Comandante rispondeva in data 7 settembre 1994 (cfr. doc. 9), affermando di aver chiesto lumi al soggetto preposto alla verbalizzazione degli avvisi di accertamento, cioè proprio al signor L.B., e di ritenere accettabile la giustificazione fornita dal medesimo.
Il T. ha precisato che la modifica delle mansioni del L.B. gli è stata sollecitata dal Sindaco, sempre in un contesto di piena legittimità amministrativa; che la dotazione strumentale del sig. L.B. è rimasta equivalente; che i rapporti tra i due sono stati cordiali; che fu il L.B. a decidere di non partecipare al menzionato concorso; che l'affidamento di incarichi esterni al L.B. non rappresentava un'eccezione, dopo l'assunzione di un vice-comandante (da parte dell'amministrazione, non del signor T. ...), posto che tutti i vigili svolgevano funzioni esterne: che il signor  lavorava in ufficio, avendo acquisito la categoria D (cfr. dichiarazioni testimoniali, doc. 4, e doc. 11).
Ha sottolineato l'assoluta arbitrarietà della decisione per quanto concerne la individuazione del periodo nel quale sarebbe stato posto in essere il comportamento qualificato in termini di mobbing (1998-2004), sia laddove si ritenesse concretare un'ipotesi di mobbing il trasferimento del dipendente al piano superiore - evento verificatosi nell'anno 2002, sia se il riferimento principale fosse alla questione del concorso al quale il L.B. non ha partecipato, indetto nel mese di agosto 2001.
Infine, la difesa del convenuto non ha risparmiato critiche nemmeno alla C.T.U. espletata nel processo civile, la cui indagine ha incontrato il limite di un giudizio di mera probabilità riferito ad una patologia che, peraltro, si sarebbe protratta per soli nove mesi, avendo il L.B. ritrovato una situazione di benessere, fatalmente influenzato dalla ricostruzione dei fatti accolta dal Tribunale nella sentenza parziale e caratterizzato dalla ripetizione delle argomentazioni dell'allora ricorrente, che sono riferite sovente al problema della mancata assegnazione di una qualifica superiore (cfr. pag. 8 CTU), cioè ad un profilo che non è stato accolto dal Tribunale.
Col quarto motivo il convenuto ha eccepito la totale assenza di dolo o colpa grave, pur volendo prescindere dall'inesistenza del mobbing, non rinvenendosi la minima prova che il Comandante abbia inteso perseguitare il signor L.B., né che egli abbia palesato grave negligenza o imperizia nell'esercizio delle proprie funzioni, anche in considerazione del maggior rigore con il quale deve essere valutata la responsabilità amministrativa rispetto alla responsabilità civile, ragione principale sulla quale la sentenza dal Tribunale trevigiano si fonda e che, inter alios acta, non può dispiegare effetti di giudicato nei confronti dell'odierno convenuto.
Né che sia l'unico responsabile per i fatti che si sarebbero verificati, quasi a configurare il Corpo di Polizia municipale alla stregua di un potere autonomo, del tutto svincolato dalla organizzazione del Comune.
Circostanza insostenibile attesa la posizione del Comandante di "responsabile di posizione organizzativa", cioè di uno dei settori nei quali si articola l'organizzazione interna dell'apparato amministrativo comunale e, pertanto, in assenza di dirigenti, le posizioni apicali erano - all'epoca - quelle dei responsabili delle posizioni organizzative, tutti chiamati a rispondere al Segretario comunale, peraltro anche Direttore Generale, ai sensi dall'art. 97, comma 4 del TUEL (d.lgs. n. 267/2000) di sovraintendere "allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti" e di coordinarne l'attività.
Con un quinto motivo, infine, nella denegata ipotesi di accoglimento anche parziale delle domande formulate dalla Procura, ha prospettato il concorso causale di altri soggetti non convenuti nel presente giudizio e l'esercizio del potere riduttivo, apparendo insostenibile che mai alcuna segnalazione della incresciosa vicenda è giunta al Sindaco o al segretario-direttore generale; circostanza che dimostrerebbe, indirettamente, che nessun comportamento di particolare gravità è stato posto in essere dal Comandante T..
Con riferimento al potere riduttivo invocato, in applicazione dell'art. 83 R.D. n. 2440/1923 e dell'art. 52 del R.D. n. 1214/1934, il convenuto ha dedotto che vi sarebbe ampio spazio al suo esercizio sia per effetto dei precedenti di onorata carriera svolta; sia dell'opinabile decisione dell'Amministrazione, composta da soggetti non in carica nel periodo 1998-2004 ed ignari evidentemente dei fatti, di non proporre impugnazione delle sentenza civili; sia, infine, per la manifesta carenza di motivazione delle sentenze civili che costituiscono fonte di presunto danno erariale.
Pertanto, il patrocinio del convenuto ha rassegnato le seguenti conclusioni: in via principale, disattesa ogni avversa istanza o eccezione, respingersi, per i titoli e le argomentazioni dedotte nel presente atto, ogni domanda proposta nei confronti del signor Vincenzo T.;.
in via subordinata,
1) nella denegata ipotesi di accoglimento, anche parziale, delle domande proposte nell'atto di citazione nei confronti del signor Vincenzo T. ridursi l'importo di quanto dallo stesso dovuto, in ragione di un minore apporto causale rispetto al quantum e alla percentuale di addebito come quantificata in atto di citazione;
2) nella denegata ipotesi di accoglimento, anche parziale, delle domande proposte nell'atto di citazione nei confronti del signor Vincenzo T., ridursi l'importo di quanto dallo stesso dovuto, in applicazione dell'art. 83 R.D. n. 2440/1923 e dell'art. 52 del R.D. n. 1214/1934.
In ogni caso, con vittoria di spese; in via istruttoria,
- assumersi prova testimoniale articolando diversi capitoli ed indicando quali testi i signori  (all'epoca istruttore amministrativo presso il Comune di Oderzo),  (all'epoca istruttore amministrativo presso il Comune di Oderzo),  (all'epoca vigile urbano con la qualifica di istruttore presso la polizia municipale di Oderzo),  (Sindaco di Oderzo sino al 28.5.2001);
- nella denegata ipotesi in cui vi fosse contestazione in ordine al doc. 6, a firma sig.ra , ha chiesto venga ammessa prova per testi della signora su altri capitoli, specificamente indicati.
All'odierna pubblica udienza di discussione, il Procuratore regionale, dopo aver brevemente ripercorso la vicenda giudiziale contenuta nell'atto di citazione, ha svolto, in fatto ed in diritto, le ragioni su cui si fonda la sua richiesta risarcitoria, specificamente contestando i motivi dedotte dalla controparte, concludendo in conformità alla citazione proposta, non opponendosi alla richiesta di applicazione del potere riduttivo dell'addebito.
Per converso, il difensore del convenuto ha chiesto l'accoglimento delle conclusioni in precedenza rassegnate, svolgendo articolate argomentazioni anche alla luce dei recenti arresti giurisprudenziali in materia, invocando l'assoluzione del proprio assistito o, in subordine, il riconoscimento del contributo causale offerto dalle condotte degli altri organi comunali, nonché l'esercizio del più ampio potere riduttivo dell'addebito, soprattutto in considerazione dei favorevoli precedenti di carriera del convenuto e, in via istruttoria, insistendo per l'ammissione e l'assunzione di prova per testi formulata ed articolata nella memoria di costituzione, cui si riportava integralmente.
Al termine della discussione la causa, ormai matura, è stata trattenuta per la decisione.

Diritto


1. In via pregiudiziale, il Collegio, rilevandone la superfluità, non ravvisa alcuna necessità di supplementi istruttori, onde irrobustire ed integrare il materiale probatorio esistente in atti, come ad esempio l'ulteriore prova per testi espressamente dedotta dalla difesa del convenuto, poiché ritiene che gli elementi acquisiti nel presente processo e le evidenze istruttorie derivanti dalla prova per testi e dalla consulenza tecnica d'ufficio, disposte nel precedente giudizio civile e qui utilizzabili, si rivelano idonei e sufficienti a consentire un'avveduta decisione (ex multis, Cass. SS.UU., 13 novembre 2012, 19704; Sez. Giur. Veneto, n. 1096/2012).
2. Il Collegio, non rinvenendo questioni agitate dalle parti nel processo da esaminare e risolvere in via pregiudiziale o preliminare, secondo un rigoroso ordine logico-giuridico, preliminare di merito (artt. 187, co.3, 276, co. 2 e 279, co. 2, c.p.c., applicabili nel processo davanti alla Corte dei conti in virtù del c.d. rinvio dinamico contenuto nel R.D. n. 1038/1933 che lo regola), può pervenire direttamente all'esame del merito della vicenda giudiziale.
Come riferito in narrativa, la fattispecie in esame riguarda la vicenda che vede coinvolto il convenuto sig. Vincenzo T., Maggiore, in qualità di Comandante della Polizia Municipale del Comune di Oderzo (TV), presunto responsabile di un asserito danno c.d. indiretto provocato al predetto comune presso cui, all'epoca dei fatti, era incardinato e prestava attività lavorativa con rapporto di lavoro dipendente, in servizio dall'1 febbraio 1970 al 29 febbraio 2004 -quantificato in 51.150,02 euro, oltre alla rivalutazione monetaria secondo gli indici ISTAT, agli interessi legali decorrenti dal deposito della sentenza fino all'effettivo soddisfo ed alle spese di giustizia, queste ultime da devolvere in favore dello Stato.
Tanto, in conseguente della condanna riportata dal Comune di Oderzo (TV) ed emessa dal Giudice civile, in funzione di giudice del lavoro, del Tribunale di Treviso il quale disponeva il pagamento, in favore del sig. L.B. Lino, a sua volta dipendente della Polizia Municipale del Comune di Oderzo e gerarchicamente collocato in posizione inferiore rispetto al T., della somma di euro 20.340,00 euro, oltre alla rivalutazione monetaria per l'anno 2012 e agli interessi al tasso legale dal 2004 al pagamento effettivo" a titolo di risarcimento danni da mobbing, oltre al rimborso delle spese di lite liquidate in complessivi 4.000 euro ed alle spese di consulenza tecnica d'ufficio.
Per completezza espositiva, va precisato che, in realtà, le pronunce del Giudice del lavoro sono due: con la prima sentenza, di natura parziale, n. 276 del 13 maggio 2011, pronunciata nel giudizio promosso con ricorso dal sig. L.B. (doc. 1 - allegato 2), l'Autorità giudiziaria adita, in parziale accoglimento del medesimo, dichiarava che il sig. L.B., nel periodo compreso tra l'anno 1998 e l'anno 2004, era stato oggetto di una condotta persecutoria posta in essere dal Comandante della Polizia Municipale del Comune di Oderzo.
Nell'accertare tale condotta, la sentenza disponeva la rimessione in fase istruttoria della causa, onde esperire una consulenza medico legale al fine di accertare l'esistenza del nesso di causalità e l'entità del danno alla persona lamentato e subito dal ricorrente, quale effetto della citata condotta persecutoria perpetrata ai suoi danni.
Con la successiva sentenza definitiva n. 25 dell'11 gennaio 2013 emessa dal Tribunale di Treviso, con analoga funzione giurisdizionale, era stato accolto il ricorso del sig. L.B. e condannato il Comune di Oderzo al pagamento di 30.913,00 euro, a titolo di risarcimento e connessi oneri accessori, nonché alla rifusione delle spese legali avversarie, la cui esatta quantificazione, al 31 gennaio 2013, è stata di euro 4.000,00.
Deve subito osservarsi che con la prima delle due sentenze, quella parziale emessa ex art. 279, co. 2, n. 4, c.p.c., il Giudice del Lavoro ha accertato numerosi comportamenti, reiterati nel tempo, nell'ambito dell'ambiente lavorativo del ricorrente (ndr. L.B.), che sono stati qualificati ed inquadrati nel fenomeno del c.d. "mobbing" anche a seguito della disposta c.t.u. escludendo, per converso, la sussistenza del preteso "demansionamento", come si esporrà tra breve.
3. In generale, occorre precisare che con tale termine, la cui origine è tipicamente anglosassone (" to mob", che significa assalire, aggredire in gruppo) e che costituisce una branca dell'etologia (etimologicamente, studio scientifico e rappresentazione dei comportamenti degli animali -ed esseri umani- e branca psicologica che analizza e classifica i diversi tipi di caratteri), si identifica quell'atteggiamento aggressivo attuato per escludere un membro da un gruppo di appartenenza, si vuole indicare una condotta generalizzata che si manifesta in ambienti ristretti (famiglia, lavoro, squadre sportive, collegi, scuole, carceri ecc ...) e che si concretizza in una serie di comportamenti illeciti, ma talora anche formalmente leciti (sia dal punto di vista civile, che penale e disciplinare), rivolti verso un determinato soggetto da parte di uno o più appartenenti al medesimo gruppo aventi lo scopo di indebolire l'equilibrio psico-fisico della vittima e di emarginarla.
Si tratta di un fenomeno che trova una certa diffusione nel mondo del lavoro, ma che solo recentemente è stato oggetto di attenzione e di approfondimento da parte della giurisprudenza, penetrando nella pratica giudiziaria, circostanza che gli è valso l'appellativo di espressione "ubiquitaria”.
Esso rientra fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate, secondo quanto affermato nell'ordinamento giuridico vigente e nel diritto italiano dalla Corte Costituzionale e recepito dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione (vedi, per tutte, Corte Cost n. 359 del 2003; Cass., 5 novembre 2012, n. 18927 e Cass., Sez. L., n. 17698/2014).
Una definizione generale nel diritto italiano di mobbing risalire, infatti, alla sentenza della Corte Costituzionale n. 359/2003, in base alla quale con questa espressione si indicano "... atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo". Questa dinamica presuppone l'esistenza di uno o più soggetti attivi e di un soggetto passivo destinatario e vittima di tali comportamenti. Le condotte "... possono essere commissive o omissive e possono estrinsecarsi sia in atti giuridici veri e propri sia in semplici comportamenti materiali aventi in ogni caso, gli uni e gli altri, la duplice peculiarità di poter essere, se esaminati singolarmente, anche leciti, legittimi o irrilevanti ... e tuttavia di acquisire comunque rilievo quali elementi della complessiva condotta caratterizzata nel suo insieme dall'effetto e talvolta, secondo alcuni, dallo scopo di persecuzione e di emarginazioni", mentre la vittima può subire conseguenze psicologiche quali sindrome da stress postraumatico, oppure può adottare comportamenti che incidono sul rapporto di lavoro tali da determinarne la cessazione (dimissioni, allontanamento di fatto dal posto di lavoro o licenziamento).
Secondo la Corte Costituzionale, il mobbing può addirittura portare la vittima a porre in essere condotte giuridicamente illecite quali reazioni alla persecuzione e all'emarginazione, mentre la Corte di Cassazione sembra spingersi a ravvisare una provocazione nella condotta mobbizzante che giustifica la reazione del lavoratore (sent. 13/9/2012, n. 15353)..
Ai fini dell'accertamento positivo della situazione ambientale da cui si può dedurre l'esistenza di mobbing a danno di un lavoratore (e per legittimare la conseguente richiesta di risarcimento danni avanzata dal medesimo) la Corte di Cassazione ha enucleato gli elementi caratterizzanti tale condizione (Cass. Civ, Sez. Lav., 17.02.2009, n. 3785; Cass., 26/3/2010, n. 7382; Cass., 21 maggio 2011 n. 12048 e Cass. Sez. L., n. 18927/2012). Essi possono così riassumersi: a) una serie di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti e o anche leciti se considerati singolarmente, che con intento vessatorio siano posti in essere in modo sistematico e prolungato contro il dipendente da parte del datore di lavoro o di altri dipendenti, sottoposti al suo potere direttivo; b) l'evento lesivo della salute, della personalità o della dignità del dipendente; c) il nesso eziologico tra le descritte condotte e il pregiudizio subito dalla vittima nella sua integrità psico-fisica e/o nella propria dignità; d) l'intento persecutorio unificante di tutti i comportamenti lesivi.
Conclusione sostanzialmente ribadita dalla recente sentenza, sempre del Giudice di legittimità (Cass., Sez. L., del 10/2/2015, n. 10037, relativa alla condanna di un Comune e di un dipendente, in conseguenza di un comportamento mobbizzante perpetrato ai danni di un'altra dipendente), citata, peraltro, nella propria memoria di costituzione dalla difesa del convenuto, secondo cui debbono sussistere, contestualmente, tutti e sette i parametri tassativi individuati di riconoscimento del mobbing "che sono l'ambiente, la durata, la frequenza, il tipo di azioni ostili, il dislivello tra gli antagonisti, l'andamento secondo fasi successive, l'intento persecutorio".
Per integrare gli estremi del mobbing è, quindi, richiesto che l'azione offensiva posta in essere a danno del lavoratore deve essere sistematica, frequente e posta in essere con una serie prolungata di atti e avere le caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione o rivelare intenti meramente emulativi e persecutori (Cass. Sez. L., n.4774/2006; Trib. Civ. Roma, n.69/2008 e, quelle fondamentali che, tra le prime, avevano individuato i parametri universali applicabili sia al settore del pubblico impiego -oggi anche "privatizzato" o "contrattualizzato", che privato, Trib. Civ Torino, Sez. III, del 16 novembre 1999 e del 30 dicembre 1999).
Per converso, non si ravvisano gli estremi del mobbing nell'accadimento di episodi che evidenziano screzi o conflitti interpersonali nell'ambiente di lavoro e che per loro stessa natura non sono caratterizzati da volontà persecutoria, essendo in particolare collegati a fenomeni di rivalità, ambizione o antipatie reciproche, contumelie che pure sono partiche frequenti nel mondo del lavoro, come ricordato dalla Procura (cfr. pag. 25 della citazione).
4. Giova ricordare, inoltre, che la responsabilità del datore di lavoro trova fondamento nell'art. 2087 c.c. disposizione normativa che impone, al medesimo, di adottare le misure necessarie per la tutela del lavoratore nella sua integrità psico-fisica e nella sua personalità morale nel rispetto dei principi costituzionali enunciati dagli artt. 2, 3 e 32 Cost.
Infine, si evidenzia come il datore di lavoro è sempre responsabile qualora i fatti integranti la condotta di mobbing siano posti in essere da un dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima, perché su di lui incombono i doveri enunciati dall'art. 2049 c.c. (Responsabilità dei padroni e dei committenti), non potendo invocare a proprio favore o discolpa l'alterità dei comportamenti illeciti se sia rimasto colpevolmente inerte nella rimozione del fatto lesivo (Cass. Civ., Sez. Lav., 9 settembre 2008, n. 22858).
Il Collegio rileva, ancora, come i comportamenti lesivi della sfera giuridica e, in particolare, della personalità del soggetto "passivo" possano estendersi e realizzarsi anche tra colleghi di lavoro, senza che questo comporti il venir meno della responsabilità del datore di lavoro (mobbing di tipo "verticale"), con riguardo alla fattispecie di mobbing c.d. "orizzontale", come la Suprema Corte ha avuto modo di chiarire in altro caso sottoposto al suo esame: "Il datore di lavoro è obbligato a risarcire al dipendente il danno biologico conseguente a una pratica di mobbing posta in essere dai colleghi di lavoro, ove venga accertato che, pur essendo a conoscenza dei comportamenti scorretti posti in essere da questi ultimi, non si sia attivato per farli cessare" (Cass. Sez. Lav., n. 1471/2013).
Anche la giurisprudenza contabile si è confrontata numerose volte, ancorché recentemente, col fenomeno del mobbing con particolare riferimento alla ripercussione delle conseguenza che da tale condotta possono scaturire nell'ambito del riconoscimento della responsabilità amministrativo- contabile di dipendenti e amministratori (per tutte, Sez. Giur. Friuli Venezia Giulia n. 56 del 2013; Sez. Giur. Lazio n. 562 del 2012 e n. 647 del 2013; Sez. Giur. Calabria n. 228 del 2013; Sez. Giur. Sicilia n. 298 del 2012; Sez. Giur. Piemonte, n. 135 del 2013; Sez. Giur. Lazio, n. 330 del 2015).
5. Operata tale premessa di generale inquadramento della fattispecie astratta nel panorama dell'ordinamento giuridico, sulla scorta delle considerazioni di diritto e della ricostruzione dei fatti materiali che precedono e seguono, il Collegio ritiene che la domanda della Procura Erariale sia sostanzialmente fondata e meriti di essere accolta, sebbene nei termini di seguito precisati.
Nella fattispecie concreta, invero, il danno patrimoniale dedotto in citazione consegue, come anticipato, ad un giudizio civile, il cui epilogo è avvenuto con sentenza parziale n. 276 del 2011 e con sentenza definitiva n. 25 del 2013, entrambe emesse dal Tribunale trevigiano, Sezione Lavoro, quest'ultima divenuta definitiva ed irretrattabile per mancata impugnazione nei termini processuali consentiti, di condanna del Comune di Oderzo per l'accertata sussistenza di una condotta di mobbing ad opera del convenuto nei confronti del dipendente inserito nell'unita organizzativa o servizio di cui il T. era responsabile in qualità di attributario di posizione organizzativa (cfr. pag. 25 della memoria difensiva del convenuto), cioè di uno dei settori nei quali si articola l'organizzazione interna dell'apparato amministrativo comunale, come del resto confermato dalla stessa difesa del convenuto.
E ciò, sebbene tale circostanza sia stata, in parte, contestata dalla Procura sulla base della presunta "autonomia", semmai soggetta solamente alla vigilanza sindacale in merito all'attuazione del servizio in conformità alle direttive dell'amministrazione comunale.
Ciò non toglie, tuttavia, che l'autonomia del Corpo di polizia municipale riceve diretta tutela dalla Legge n. 65/1986, la cui previsione non è stata posta in discussione dalla difesa del convenuto, ma che questo non priva certo il Servizio dal suo inserimento "organico" nel plesso amministrativo dell'ente locale, con conseguente assoggettamento al Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, approvato con D. Lgs. 18/8/2000, n. 267 e s.m. e i. oltreché alla normazione secondaria contenuta nello statuto e nei regolamenti dell'ente locale per quanto non diversamente stabilito.
E' appena il caso di ricordare, in proposito, che, ai sensi della L. 7 marzo 1986, n. 65 -Legge-quadro sull'ordinamento della polizia municipale-prevede (art. 9) "Il comandante del Corpo di polizia municipale è responsabile verso il sindaco dell'addestramento, della disciplina e dell'impiego tecnico-operativo degli appartenenti al Corpo" (comma 1) e che "Gli addetti alle attività di polizia municipale sono tenuti ad eseguire le direttive impartite dai superiori gerarchici e dalle autorità competenti per i singoli settori operativi, nei limiti del loro stato giuridico e delle leggi", e che "Il sindaco o l'assessore da lui delegato, nell'esercizio delle funzioni di cui al precedente articolo 1, impartisce le direttive, vigila sull'espletamento del servizio e adotta i provvedimenti previsti dalle leggi e dai regolamenti" (art. 2).
Va evidenziato, come confermato da nota del Segretario comunale in atti, che all'epoca dei fatti il Comune non era ancora dotato di un Regolamento disciplinante il Servizio di Polizia Municipale, previsto dall'art. 7 della Legge 7 marzo 1986, n. 65.
5.1 Circa i rapporti intercorrenti tra il giudizio contabile e quello civile, va, preliminarmente, affermata la piena autonomia tra il giudizio civile e quello contabile, e in particolare tra l'azione di responsabilità amministrativa, nei casi di danno indiretto, rispetto al giudizio civile instaurato con azione di responsabilità per danno, sia esso di natura contrattuale o da inadempimento (art. 1218.c.c.) che extracontrattuale o aquiliana o da illecito (art. 2043 c.c.) o precontrattuale (art. 1337 c.c.), operando essi su piani ontologicamente distinti in virtù dei generali principi di autonomia e di separatezza che caratterizzano le rispettive giurisdizioni .cui è devoluta la cognizione dell'accertamento di tali forme di responsabilità diverse per presupposti, azioni, oggetto e finalità (artt. 102 e 103 Cost., in relazione all'art. 13, R.D. 12/7/1934, n. 1214, come successivamente ampliato dall'art. 1, co. 4, L. 14/1/1994, n. 20; artt. 18 e ss. D.P.R. 10/1/1957, n. 3 e s.m. e i.; art. 93 D. Lgs. del 18/8/2000, n. 267; ex multis, Cass., SS.UU. Civili, 21/3/2001, n. 123 e Sez. II, 28/5/2001, n. 7242; Corte conti, Sez. III Centr. d'Appello, 1710/2001; Sez. I Centr. D'Appello, 2/10/2002, n. 178/A).
Difatti il giudizio civile è finalizzato alla reintegrazione del patrimonio del soggetto privato leso o, nel caso della responsabilità per fatto illecito, al risarcimento del danno, mentre l'azione del P.M. contabile si ricollega al rapporto di servizio di natura pubblicistica intercorrente tra l'Amministrazione ed l'amministratore o il dipendente che ha direttamente od indirettamente causato un danno all'erario (Corte dei conti, Sez. II App., n. 319/1999).
Ne consegue la necessità di una nuova valutazione del fatto illecito, nel presente giudizio di responsabilità per danno erariale, non solo sotto il profilo della violazione del diritto del terzo, ma anche per la verifica degli elementi costitutivi della responsabilità amministrativa, sia di carattere oggettivo (condotta, commissiva od omissiva, evento dannoso e nesso di causalità) che soggettivo (dolo o colpa grave).
E ciò perché nessuna forza vincolante del giudicato formatosi, sia in senso materiale che formale (artt. 2909 c.c. e 324 e ss. c.p.c.) può ritenersi derivi dalla irretrattabilità dell'accertamento dei fatti materiali o storici avvenuto nel richiamato giudizio civile in ragione del principio di originarietà e di parità dei diversi ordini giurisdizionali e della sostanziale autonomia e separazione dei giudizi, recentemente affermato da Cass., SS.UU. n. 1768/2011, fatta eccezione di determinati tipi formali di pronuncia per ipotesi tassativamente prescritte (cfr. efficacia delle statuizioni contenute in alcuni tipi sentenze penali, ex artt. 651 e ss. c.p.p.).
Invero, per consolidato -e condivisibile- orientamento della giurisprudenza della Corte dei conti, nessun vincolo può derivarne per il giudice contabile, pur potendo egli avvalersi delle statuizioni contenute nelle sentenze civili emesse ed allegate comunque -al pari del contenuto di ogni altro atto o documento versato in un diverso processo e delle prove ivi raccolte- per essere liberamente valutate come elementi o argomenti di prova onde valorizzarne l'autonomo rilievo probatorio ai fini della formazione del suo libero e prudente apprezzamento e convincimento, ai sensi dell'art. 116, co. 1, c.p.c., potendo costituire essi indizi gravi, precisi e concordanti tali da concorrere ad integrare il complessivo aspetto o quadro indiziario, di profilo presuntivo ed argomentativo, secondo il paradigma degli artt. 2727 e 2729 c.c., finanche laddove non si sia ancora formata una sentenza di merito dotata di autorità di giudicato (C.conti, SS.RR., 2/3/1992, n. 754/A e 2/10/1997, n. 68; Sez. I Centr., 4/12/2000, n. 343 e Sez. II Centr, n. 21/11/2000, n. 365; Sez. Giur. Abruzzo, 12/10/2010, n. 461; Corte conti, Sez. Prima d'appello, n. 3 del 2011 e n. 133 del 2004; Sez. Terza d'appello n. 75 e n. 371 del 2005 e Cass., Sez. V, sentenza n. 21271 del 2008 e copiosa giurisprudenza ivi richiamata).
Per cui l'intervenuta pronuncia del giudice civile in merito ai medesimi fatti dedotti e dai quali è scaturito il presunto danno indiretto non impedisce al Collegio che tali fatti siano apprezzarli e valutarli anche in maniera diversa (C. conti, Sez. IIIA sent. n. 468 del 15.07.2005; id. Sez. II, n. 361 del 20.09.2010).
5.2 Nessun rilievo riveste l'eccezione del convenuto formulata in ordine alla mancata partecipazione al processo civile -adombrata dal convenuto, soprattutto in relazione all'ampio arco di tempo trascorso dagli eventi intervenuti prima del suo pensionamento che potrebbe, in qualche modo, aver contribuito ad obnubilarne il ricordo- al fine di dedurre la sostanziale violazione del principio del contraddittorio, corollario di quello fondamentale di difesa costituzionalmente presidiato (art. 24 Cost.), ritenendolo inevitabilmente inciso e compresso o menomato e soverchiamente gravoso da esercitare, ben potendo, ex adverso, il convenuto, recuperare tale prerogativa difensiva, pienamente o integralmente, sui fatti circostanziati che costituiscono origine e presupposto o antecedente logico del danno erariale contestato nel successivo giudizio di responsabilità instaurato fornendo idonee giustificazioni e confutando, in tutto o in parte, l'assenza dei presupposti integranti la responsabilità erariale contestatagli (in termini, C. conti, Sez. I, n. 71 del 28.03.1994; id., Sez. Emilia Romagna, n. 1207 del 27.09.2005; id., Sez. II n. 1 del 09.01.2008).
Del resto, è appena il caso di rilevare il potenziale difetto di legittimazione passiva del convenuto nel giudizio civile incardinato dinanzi al Giudice del lavoro, incompetente a conoscere dell'azione risarcitoria del danno non patrimoniale da responsabilità per inadempimento (evidentemente tale trattandosi di danno biologico, in questo caso, ai sensi artt. 2049 e 2059 del c.c.) nei confronti di un soggetto (T.) che non sia il datore di lavoro (lo è, invece, il Comune di Oderzo), anche se può, in generale, esercitarsi l'azione diretta congiuntamente nei confronti della P.A. (Stato ed enti pubblici) qualora sussista anche la responsabilità di quest'ultima (art. 2049 c.c.).
Fatta salva, comunque, l'eventuale azione di rivalsa o di regresso del danno, risarcito al terzo in sede civile, esperita in sede di responsabilità amministrativo-contabile dinanzi alla Corte dei conti nei confronti del dipendente che lo ha determinato e che è personalmente obbligato a risarcirlo, solo ove commesso, però, con dolo o colpa grave (argomentando ex comb. disp. art. 28 e 103 Cost. e artt. 18, 19, 22 e 23 del T.U.P.I., approvato con D.P.R. n. 3/1957, questi ultimi richiamati da quello più recente approvato con D. Lgs. n. 165/2001 e s.m. e i., art. 55), quale ingiusta lesione di un interesse economicamente valutabile di pertinenza dello Stato -o della P.A. in generale (in termini, Cass., SS.UU., 4/1/1980, n. 2).
6. Orbene, dall'esame delle risultanze istruttorie, comprensive degli atti processuali versati nel giudizio civile e del contenuto dei provvedimenti giurisdizionali che lo concludono, il Collegio ritiene di poter trarre il ragionevole convincimento che, nella fattispecie concreta, si siano effettivamente verificati quegli incresciosi episodi d'intolleranza, di disagio, discriminatori e vessatori, tali da integrare gli estremi del mobbing nei confronti del Sig. B.L., tradottisi in una lesione di diritti fondamentali della personalità del lavoratore, bene c,d. immateriale per eccellenza, inteso, soprattutto, quale strumento di estrinsecazione della dignità e della professionalità del dipendente ed esigenza umana di manifestare la propria utilità e le proprie capacità nel contesto lavorativo (in termini, per tutte, Cass., Ord. 18/5/2012, n. 7963).
Bene significativo, questo, al punto di essere ritenuto meritevole di particolare tutela da parte dell'ordinamento giuridico e la cui lesione è produttiva di danno biologico, tipologia che ha trovato la sua prima definizione in ambito legislativo per effetto dell'art. 5, co. 3, L. n. 57/2001, quale "lesione all'integrità psico-fisica della persona suscettibile di accertamento medico-legale". Orbene, numerosi sono i fattori che depongono per un tale apprezzamento.
6.1 Innanzitutto, la lettura integrale delle sentenze civili emesse dal giudice del lavoro; soprattutto, si diceva, la prima, quella non definitiva o parziale n. 276/2011, dal cui esame si evince, piuttosto agevolmente, come tali comportamenti perpetrati dal T. siano consistiti in frequenti e reiterati critiche al suo operato, contrasti, richiami, alterchi, dileggi e vibrati rimproveri verbali al dipendente L.B. mossi, peraltro, alla presenza di altri dipendenti e colleghi che ne hanno riferito le circostanze.
La ricostruzione dei fatti con esse operate deve ritenersi prevalentemente e sufficientemente provata -sotto il profilo dell'an- mentre le conclusioni cui pervengono, in relazione alle risultanze istruttorie, sono tali che nessuna ragionevole censura o rimprovero può loro muoversi obiettivamente.
Preliminarmente, in esito all'istruttoria eseguita, appaiono convergenti le dichiarazioni testimoniali rese, nella fase istruttoria civile ed all'udienza del 13/4/2006, da due dei testi escussi,  e  (v. processi verbali in doc. All. 4 alla memoria T., pagg. da 9 a 15) -dichiarazioni che il Collegio non ha motivo di ritenere inattendibili o non persuasive al pari del giudizio evidentemente formulato dallo stesso giudice civile -poiché del tutto concordanti e convincenti in quanto provenienti da soggetti che, nonostante la presunta acredine - contrariamente dedotta dalla difesa del T. come nutrita dai testi e sfociante in apparenti intenti ritorsivi, erano più vicini e prossimi al L.B., in quanto colleghi di lavoro rivestenti analoga qualifica di "istruttori di vigilanza" all'interno del Corpo di Polizia Municipale.
In proposito, il Collegio rileva che, a ben vedere, il giudice del lavoro (cfr. pag. 31 dell'allegato verbale di escussione testi) ha anche rigettato l'eccezione di incapacità del teste, sollevata dal difensore del Comune resistente, non ravvisando, allo stato degli atti, un'ipotesi di responsabilità diretta del teste e riservando la valutazione della sua attendibilità.
La conclusione cui è giunto il G.I. va confermata dovendosi escludere ogni più recondita o residua perplessità circa una possibile incompatibilità o incapacità a testimoniare da parte dei colleghi di lavoro del L.B. in assenza di titolarità di interesse specifico e diretto di questi nella causa che avrebbe potuto legittimare una loro partecipazione al giudizio (arg. ex artt. 100 e 246 e ss. c.p.c.) e, soprattutto, in considerazione dell'ampio utilizzo dei mezzi di prova posti a disposizione del lavoratore attesa la difficoltà oggettiva di provare detti comportamenti mobbizzanti, anche ricorrendo alle testimonianze dei colleghi delle presunte vittime (Cass., Sez. IV. Pen, sent. 10/6/2009, n. 23923).
Non dissimilmente da quanto avviene, secondo il consolidato orientamento della Corte, in materia di prova del danno da demansionamento (Cass. SU 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass. SU 24 marzo 2006, n. 6572 del 2006; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832; Cass. 26 novembre 2008, n. 28274) e nella giurisprudenza amministrativa in materia di mobbing (Cons. Stato, 21 aprile 2010, n. 2272).
Prove testimoniali, pertanto, validamente assunte ed utilizzabili quelle acquisite nel processo civile svoltosi avanti al Giudice del Lavoro, le quali valorizzano, confermandone l'assunto, che nei confronti del dipendente furono realizzati dei comportamenti "mobbizzanti" da parte del Comandante T., superiore gerarchico diretto del B.L., come riferito dai testi ed esplicitato in un passaggio della sentenza n. 276/2011 (pagg. II e ss.), riportata in stralcio o sintesi, secondo cui i rapporti con il comandante della Polizia municipale erano afflitti da atteggiamenti autoritari e tendenti ad umiliare i sottoposti.
Emerge dalle deposizioni che nei confronti del L.B. il comandante aveva atteggiamenti particolarmente odiosi, assoggettandolo a continui rimbrotti, censure e controlli esasperanti al punto da formulare giudizi negativi che, in un'occasione, aveva impedito di conseguire vantaggi economici, circostanza verificatasi anche per altri colleghi
Particolare riscontro testimoniale ha trovato quanto affermato dal L.B. in ordine ad una vicenda relativa ad un concorso interno bandito per la progressione di carriera, in occasione del quale egli sarebbe stato dissuaso a parteciparvi proprio dal comandante, il quale aveva addotto un suo precedente disciplinare "impeditivo", dimostrando chiaramente agli occhi degli altri istruttori di preferire un altro candidato, il sig. , risultato poi, in concreto, unico partecipante nonché vincitore del predetto concorso.
Inoltre, sebbene le variazioni delle mansioni accertate -ritenute fungibili ed equivalenti a quelle di istruttore amministrativo collocato nella medesima area di inquadramento nonostante di diverso profilo professionale (artt. 2103 c.c. e 52 del D. Lgs. n. 165/2001, nel testo vigente ratione temporis antecedente alla riforma c.d. Brunetta, novella contenuta nell'art. 62, co. 1, D. Lgs. n. 150 del 2009)- di per sé non siano state considerate integranti gli estremi del demansionamento del dipendente, poiché evidentemente rientranti nell'esercizio del c.d. jus vaiandi riservato al datore di lavoro o, per esso, al superiore gerarchico, tuttavia sono eloquenti e sintomatiche contribuendo, come fatto storico autonomamente valutabile da quel e da questo giudice del merito, a delineare un quadro di rilevante e progressiva ostilità del superiore gerarchico nei confronti del sottoposto.
Invero, anche la scelta organizzativa della sottrazione e sostituzione delle mansioni interne con quelle esterne, dopo un significativo lasso temporale di servizio, maggiormente gradite - comportante una lamentata inoperosità dal dipendente, che veniva spostato fisicamente in diverso ufficio, oltre all'assegnazione di più modesta dotazione di risorse strumentali adeguate (arredamento e computer) - seppure di per sé legittima, in concreto assumeva una valenza obiettivamente pregiudizievole per l' L.B. dal sapore decisamente "persecutorio, soprattutto se sommato agli altri episodi di svilimento, critica, umiliazione professionale riferita dai testi maggiormente attendibili e presumibilmente più informati", come rilevato dallo stesso giudice del lavoro (pag. IV e V della sentenza richiamata).
La stessa gravità della condotta afflittiva subita dal L.B. non può ritenersi certo temperata per effetto dell'esistenza di un clima di generale tensione, anziché di serenità che è compito rientrante espressamente tra i doveri del superiore gerarchico e responsabile della direzione di un'unità operativa o di un servizio.
L'esistenza di un atteggiamento persecutorio, di palese e costante umiliazione ed emarginazione, oltreché di un progressivo degrado, prolungato nel tempo, che contraddistinguono i rapporti interpersonali correnti tra il comandante ed il L.B., costituiscono un coacervo di elementi che, oltre a costituire terreno di fertile valutazione del giudice, ben possono aver indotto quest'ultimo all'auto-disistima e a quello stato di prostrazione psichica lamentato dal ricorrente e confermato, in sede civile, dalla disposta consulenza tecnica d'ufficio.
Né tale conclusione può ritenersi infirmata o confutata dalla testimonianza, di presunto contrario tenore, resa dalla sig.ra Sforzin, ritenuta dalla difesa del convenuto a conoscenza dei fatti quale testimone oculare diretto, non apparendo logicamente contrastante con il contenuto delle deposizioni rese dagli altri testi le affermazioni "che i rapporti tra il comandante e il L.B. erano normali" e "che non è mai stata testimone di alcun episodio di comportamento negativo del comandante nei confronti dei vigili".
Al riguardo osserva il Collegio che tali affermazioni non debbano ritenersi necessariamente contrastanti o divergenti da quella rese dagli altri due testi e colleghi, che rimangono maggiormente significative, attendibili e concludenti per questo e quel giudice civile per le ragioni di prossimità e di colleganza dapprima evidenziate, indipendentemente dalla temporanea e poco dirimente e significativa "contiguità" fisica di postazione lavorativa nell'ambito della struttura amministrativa che costituisce, nell'economia generale, un valore decisamente "cedevole".
E ciò ricordando il principio di diritto, del tutto pacifico nella giurisprudenza, secondo cui spetta dl giudice del merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (in tal senso Cass. 12 febbraio 2008, n. 3267, Cass. 27 luglio 2008, n.2049 e da ultimo Cass. 25 maggio 2012, n. 8298). Impregiudicato, ovviamente, l'eventuale vaglio di legittimità che consente la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice precedentemente investito (Cass., SS.UU., n. 13045/97).
7. Infine, tale convincimento trova ampio e definitivo, quanto obiettivo, riscontro -soprattutto in assenza di elementi concreti di segno contrario offerti e capaci di smentire o confutare le risultanze istruttorie o di ribaltare il primo decisum- nella consulenza tecnica medico-legale disposta dal dott. , giudice del lavoro nel cennato giudizio civile, iscritto al n. 1242/2005, le cui conclusioni sono state recepite integralmente dal giudicante e vanno, dinanzi a questa giurisdizione, confermate.
Invero, tale strumento di ricerca della prova espletato in sede civile costituisce valido supporto tecnico per il Collegio onde condividere le argomentazioni ivi svolte e le conclusioni cui il consulente (con l'ausilio di altro specialista debitamente autorizzato dl G.I.) è pervenuto, nel rispetto del contraddittorio della parti costituite e rappresentate durante il suo espletamento, orientamento fatto proprio anche dal giudice civile.
Particolare menzione tra le risultanze istruttorie del giudizio civile deve, infatti, accordarsi alla consulenza medico-legale espletata dal dott.  , specialista in Medicina Legale e delle Assicurazioni e in Neurologia, coadiuvato dall'ausiliario dott. D.  , Specialista in Medicina Legale e Psichiatria Forense, previa autorizzazione del G.I., tesa ad accertare e quantificare i danni -opportunamente integrato con riferimento a tutte le voci richieste e in applicazione del principio di giurisprudenziale di unitarietà del danno biologico- derivati all'integrità psico-fisica della persona del ricorrente L.B. in conseguenza delle condotte realizzate persecutorie riferibili al Comandante della Polizia Municipale, .
In particolare, l'accertamento diagnostico, conclusosi il 5/12/2011, eseguito sulla base di visita diretta ma anche sull'esame della copiosa documentazione sanitaria allegata e sui dati anamnestici (familiari, fisiologici e lavorativi), pur escludendo all'attualità segni tangibili di patologia psichiatrica del periziato, ha posto in risalto, sotto il profilo etiopatogenetico, quanto meno in termini di elevata plausibilità, probabilità e verosimiglianza essendo l'esame fortemente influenzato dal tempo risalente dei fatti da apprezzare (oltre un decennio), che i disturbi lamentati dal sig. B.L. per un periodo all'incirca di 9 mesi possano venire ascritti ad una condizione patologica disfunzionale in diretta conseguenza della situazione di grave conflittualità che aveva vissuto nell'ambiente di lavoro durante il periodo 1998-2004 (pag. 14 della C.T.U.).
Dall'accurata indagine peritale eseguita su basi anamnestiche non disgiunta dall'esame critico della documentazione sanitaria acquisita, il Collegio è convinto che la vita relazionale e lavorativa del B.L. era stata assolutamente normale e priva di eventi traumatici prima dell'insorgenza della patologia e nel periodo antecedente le vicissitudini lavorative in questione, pressappoco fino al 1999-2000, non avendo avuto il paziente la necessità di rivolgersi a specialisti neurologi o psichiatri in assenza di predisposizione genetica alla malattia.
Secondo il C.T.U. e l'ausiliario si ravvisava la possibilità di ritenere che, proprio a causa della condizione di disagio, il paziente avesse avuto successivamente bisogno di ricorrere al supporto di sanitari specialisti ed assumere terapia farmacologica per riuscire a far fronte ad una condizione di improvvisa deflessione del tono dell'umore che si accompagnava ad una sindrome ansiosa con molesta irritabilità ed insonnia (pag. 13 C.T.U.).
La relazione precisava che, non essendo consentito ai consulenti di stabilire con "esattezza" il periodo di durata effettiva dei disturbi per via del quadro psicopatologico che è possibile ricostruire solamente “ex post" e descritti i quadri psicopatologici principali che possono instaurarsi in situazioni analoghe, essenzialmente di due distinte fattispecie cliniche: a) disturbo dell'adattamento; b) disturbo post-traumatico da stress, tuttavia, in sintesi, ritenevano che era plausibile ricondurre il caso di specie al c.d. disturbo dell'adattamento con umore depresso che meglio si attaglia ai sintomi emotivi e comportamentali clinicamente rilevanti che si erano determinati nel soggetto in risposta ad uno o più fattori stressanti (entro tre mesi dall'insorgenza del o dei medesimi), recensiti fra l'altro al tempo dai sanitari specialisti ai quali il periziato si era rivolto (v. pagg. 14 e 15 della C.T.U.).
In definitiva, era pertanto possibile pervenire alla formulazione di un giudizio medico-legale di ""condizione psicopatologica transitoria da inquadrare nella sfera del c.d. danno biologico temporanea rispetto alla complessiva integrità del soggetto -(dimostrata all'esito del colloquio sostenuto con il periziato, col conforto dell'ausiliario dott. D.  )- con durata complessiva di nove mesi; per i primi tre mesi, nella misura del 50% “con grado medio di sofferenza” e “con sofferenza di grado lieve’" per i successivi sei mesi, in misura del 25%, collocando il pregiudizio, di natura transeunte, nella fascia 1-15% delle tabelle indicative delle forme analoghe che si siano, invece, cronicizzate (pag. 16 C.T.U.)""
7.1 Non va certo trascurato, in quanto idoneo ad assumere significativo e sintomatico valore, che la bozza della relazione medico-legale, esitata a completamento delle operazioni peritali, il cui inizio era avvenuto il 17/10/2011 alle ore 16,30 con visita e colloquio alla presenza dei C.T.P. nominati dalle parti costituite (dott. C.   per il Comune di Oderzo e il dott. G.  , per il sig. L.B.), è stata regolarmente sottoposta all'esame di questi ultimi, ai sensi e per gli effetti dell'art. 195 c.p.c., senza che venisse sollevata alcuna osservazione critica o contestazione tale da richiedere chiarimenti o supplementi istruttori..
7.2 Vanno, sotto questo profilo, certamente respinte le osservazioni della difesa del convenuto tendenti ad infirmare la valenza di tale consulenza, necessariamente elaborata in termini prognostici ma sorretta, per contro, da corretta rappresentazione dei fatti e della storia clinica del paziente, nonché dotata di congrua e seria motivazione, immune da vizi logici ed ancorata a rigorosi parametri e protocolli di riferimento medico-legale mutuati dalla migliore e diffusa conoscenza medico-scientifica.
Del resto, anche a voler ipotizzare una predisposizione genetica antecedente ed esterna all'ambiente di lavoro, come sembra adombrato dalla difesa nell'udienza di discussione, (circostanza peraltro esclusa dalla consulenza tecnica), il comportamento di mobbing subito dal danneggiata, inteso come insieme generalizzato di azioni emarginanti e vessatorie, si porrebbe, senza diverse conclusioni in termini di responsabilità, secondo generali criteri in tema di nesso causale, come concausa efficiente e determinante della patologia sofferta dalla B. (in termini, Sez. Giur. F.V.G., n. 56 del 2013).
7.3 Il Collegio ritiene, inoltre, di dover svolgere alcune considerazioni.
La prima, attiene al minor periodo di liquidazione del danno biologico disposta dal giudice del lavoro, rispetto a quello complessivamente ed originariamente individuato (1998-2004) recependo le conclusioni cui era pervenuta la disposta C.T.U., circostanza che non fa venir certamente meno il presupposto o parametro cronologico della "durata" della condotta, indispensabile per poter configurare il mobbing, dal momento che si ritiene che essa debba svilupparsi in un arco di tempo "apprezzabile", anche se infrequente o incostante, di almeno sei mesi, secondo il prevalente orientamento seguito dal giudice ordinario di merito (Trib. Roma, Sez. Lav. n. 69/2008 e Trib. Perugia, Sez. Lav., n. 179/2012).
Ma, soprattutto, che indipendentemente dalla frequenza e dalla costanza della condotta, il giudice di merito, pur nell'accertata insussistenza di un disegno persecutorio preciso ed idoneo ad unificare i singoli episodi e, quindi, della configurabilità del mobbing, è tenuto a valutare se alcuni dei denunciati comportamenti, pur non essendo accomunati dallo stesso intento persecutorio, possano, di per sé, essere comunque considerati mortificanti e vessatori per il dipendente stesso (conforme, Cass., 5/11/2012, n. 18927).
Per contro, è inoltre agevole ravvisare che l'iniziale incertezza del periodo "incriminato" e la delimitazione e contenimento del danno liquidato in sede civile sulla base di un giudizio eminentemente e necessariamente deduttivo e prognostico si traduca, in definitiva, in una posizione di maggior favore o vantaggio per le ragioni del convenuto, quale soggetto definitivamente "inciso", benché indirettamente, nel caso di adempimento dell'obbligazione risarcitoria del danno, inizialmente e correttamente adempiuta dal Comune di Oderzo, non meritando complessivamente, pertanto, le critiche mosse sotto tale profilo dalla difesa del convenuto nella memoria di costituzione.
7.4 Alla luce di quanto sin qui esposto, il Collegio ritiene, quindi, che il generale atteggiamento escludente, denigratorio, ingiustificatamente ed eccessivamente aggressivo e foriero di disagevoli condizioni lavorative, posto in essere dal comandante T. deve trovare idoneo inquadramento nel mobbing, essendo, per l'effetto, ampiamente condivisibile la decisione del Giudice del Lavoro di Treviso che ha condannato il Comune di Oderzo al risarcimento, in favore del B.L., del danno biologico da mobbing conseguente all'accertamento della correlativa responsabilità dell'ente locale datore di lavoro per manifesta violazione dell'obbligo di sicurezza che ricade sul datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. onde tutelare la sfera professionale e personale del dipendente, intesa nelle sua varie espressioni (fisica, morale, psicologica, sessuale) costituzionalmente garantite (Cons. Stato, Sez. VI, 20.06.2012, n. 3584).
Decisione del Giudice del Lavoro che, lo si ribadisce per dovizia di informazione, è divenuta incontrovertibile essendo esaurito, per decadenza (art. 327 c.p.c.), il potere di proposizione di impugnazione del Comune soccombente.
Quindi, indipendentemente dall'atto di assegnazione alle mansioni di istruttore amministrativo con sostituzione degli incarichi interni con quelli esterni, ritenuti forse meno gratificanti dal destinatario, giuridicamente qualificabile come atto di c.d. macro-organizzazione dell'ufficio, costituisce corretta inferenza logica delle risultanze istruttorie del giudizio civile -fonti del libero convincimento del giudice del lavoro- ritenere provata la serie di condotte e fatti materiali, a dir poco disdicevoli, determinanti una condizione di prolungato e progressivo stato di disagio, di isolamento e di vessazione del L.B. all'interno del contesto lavorativo.
8. Proseguendo nell'accertamento degli elementi costitutivi della responsabilità amministrativo- contabile, deve considerarsi sussistente innanzitutto il rapporto (giuridico) di servizio esistente tra l'odierno convenuto ed il Comune di Oderzo nel quale il primo era incardinato (rapporto organico) in qualità di Comandante della Polizia Municipale dall'1/2/1970 al 29/2/2004, periodo nel quale ricadeva l'accadimento dei fatti suddescritti, elemento indefettibile ed idoneo a radicare la giurisdizione del giudice contabile.
8.1 Possono considerarsi acclarati, nella fattispecie, anche quegli elementi cc.dd. oggettivi (condotta, evento dannoso e nesso di causalità) sulla scorta dei criteri e dei referenti normativi e dei consolidati arresti giurisprudenziali applicabili in materia.
In particolare, essendosi il Collegio già sufficientemente soffermato sui primi due "segmenti", sotto l'ultimo profilo dell'imputazione del rapporto di causalità dell'evento dannoso in questione, ritiene che nessun ragionevole dubbio possa sorgere sulla sua sussistenza.
Tanto, sia in relazione alla conseguenza diretta del danno rispetto alle descritte condotte fattuali, commissive o omissive, osservate dal convenuto nella vicenda, sia per effetto delle conseguenze risarcitorie determinate dall'avvenuto risarcimento del danno da parte del Comune stabilito dalla condanna del giudice civile del Tribunale di Treviso -da porre a carico del convenuto poiché danno indiretto in via di regresso- sia, infine, per l'insussistenza di concorrenti cause di esclusione, totale o parziale, di tale nesso, non essendo prospettabile la preesistenza di cause patologiche del soggetto -semmai slatentizzatesi per ragioni occasionali- capaci di generare in via esclusiva l'evento lesivo occorsogli, o una particolare labilità emotiva, come accertato dal C.T.U. in sede civile (argomentando ex art. 41, co. 2 e 3, c.p.).
Il Collegio ritiene di conformare il proprio giudizio a quei criteri di regolarità causale, di normalità e di adeguatezza, vale a dire di c.d. causalità umana della condotta -da ritenersi prevedibile - ed evitabile - quale causa dell'evento in base ad un giudizio formulato ex ante o con criterio della c.d. prognosi postuma, ai sensi dell'art. 40 c.p., sulla scorta dell'id quod plerumque accidit ed in termini di diretta e di immediata consequenzialità- che consentono di affermare la sussistenza di un rapporto eziologico della condotta, commissiva ed omissiva, del dipendente o amministratore con il conseguente ingiusto pregiudizio patrimoniale subito dalla P.A. (C.Conti, SS.RR., 4/3/1996, n. 96/A; Cass., 23/4/1998, n. 4186 e n. 6474/2012).
8.2 Tali condotte discriminatorie e riprovevoli, poste a fondamento della condanna del Comune di Oderzo da parte del Giudice del Lavoro, si rivelano antigiuridiche e riconducibili al T. anche sotto il distino profilo squisitamente psicologico, oltreché materiale, conseguentemente integrando l'elemento c.d. "soggettivo" della responsabilità amministrativa contestata dalla Procura poiché realizzate dal convenuto, in qualità di Comandante della Polizia Municipale e superiore gerarchico del L.B., in violazione di quegli obblighi di servizio che proprio la particolare posizione di responsabilità esponenziale ed apicale rivestita nell'ambito dell'apparato pubblico locale contrariamente e maggiormente gli imponeva.
Tanto, senza avvertire, nonostante l'apprezzabile lasso di tempo intercorso (1998-2004) durante il quale tali comportamenti si sono manifestati, l'esigenza di doversi astenere dal reiterare quelle cattive pratiche concretizzatesi in atteggiamenti prevaricatori che generavano quello stato di stress e di sofferenze nell'inferiore gerarchico, poi giudizialmente accertato, aprendo così la strada all'azione risarcitoria esercitata nei confronti del datore di lavoro pubblico (art. 2087 c.c.). Ravvedimento neppure intervenuto, recuperando una condotta alternativa corretta e possibile, nonostante dovesse essere ormai ben nota nel contesto lavorativo, quanto meno a decorrere dal 2000, la circostanza del ricorso del L.B. alle cure di specialisti sanitari in ragione dei disagi che questi rinveniva durante l'attività d'ufficio, fortemente segnata dalla condotta del comandante, come riferito ed accertato (cfr. ampia documentazione sanitaria esaminata durante l'espletamento della C.T.U. ed in essa capillarmente richiamata, in sede diagnostica, anamnestica e di storia clinica del periziato, pagg. 2,3,4 e 5, Doc.2, fasc. P.M.), a dimostrazione della colpevole inazione e insensibilità.
E tuttavia -concordemente a quanto richiesto dalla Procura e sostenuto dalla difesa del convenuto, sebbene in via subordinata solo in caso di denegata assoluzione del proprio assistito- il Collegio reputa che il complessivo comportamento tenuto dal T. e rilevabile dagli atti versati in giudizio denoti una condotta non suscettibile di essere giuridicamente qualificata come intensamente dolosa poiché teleoligicamente preordinata alla realizzazione di un preciso ed univoco disegno persecutorio (illecito) di escludere dal contesto lavorativo o di gruppo il dipendente.
Il Collegio è convinto, del resto, che seppur si volesse aderire al diverso orientamento, nel senso di ritenere indispensabile, per la configurabilità del mobbing, la sussistenza dell'elemento psicologico del dolo rappresentato dal disegno persecutorio capace di unificare tutti i singoli episodi, nemmeno potrebbe pervenirsi a diversa conclusione, nel caso in esame, giacché, una volta escluso il suddetto intento e quindi il mobbing - sulla base di una valutazione delle prove raccolte effettuata sempre nell'ottica della ricerca una "strategia persecutoria", il Giudice del merito, pur nella accertata insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato, è comunque tenuto a valutare se alcuni dei comportamenti denunciati -esaminati singolarmente ma sempre in relazione agli altri- pur non essendo accomunati dal medesimo fine persecutorio, possano essere considerati vessatori e mortificanti per il lavoratore e, come tali, siano ascrivibili alla responsabilità del datore di lavoro che può essere chiamato a risponderne, ovviamente nei soli limiti dei danni a lui imputabili.
Invero, secondo il condivisibile orientamento della Suprema Corte, come risulta dalla stessa definizione del fenomeno, se anche le diverse condotte denunciate dal lavoratore non si ricompongano in un unicum e non risultassero, pertanto, complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l'equilibrio psico-fisico del lavoratore o a mortificare la sua dignità, ciò non escluderebbe che tali condotte o alcune di esse, ancorché finalisticamente non accomunate, possano risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati, di cui si è detto (arg. ex Cass., Sez. L., 5/11/2012, n. 18927 e Cass. Sez. 6 Pen. 8 marzo 2006, n. 31413, ivi richiamata).
Ritiene, pertanto, il Collegio che la condotta serbata dal convenuto sia stata contraria ai più elementari obblighi di servizio informati a principi di correttezza, imparzialità, legalità e buon andamento dell'Amministrazione e, in quanto tale, distante e deviata rispetto a quella conforme al parametro dell'agente modello o dell'homo ejusdem professionis et condicionis di pubblico dipendente, a fortiori se riguarda un soggetto investito di un delicato ruolo all'interno della compagine amministrativa (art. 97 Cost. e L. 7/8/1990, n. 241 e s. m. e i.),
I comportamenti di cui si è dato atto, in relazione agli obblighi giuridici incombenti sul convenuto, debbono infatti tratteggiarsi -sul piano dell'elemento soggettivo- in termini di colpa grave (art. 1, co. 1, L. n. 20/1994 e s.m. e i.) non potendosi, gli episodi considerati e in parte descritti o, più in generale, emergenti dall'istruttoria del processo civile, cui si rinvia per relationem, e del presente giudizio, ritenersi assistiti da un chiaro ed inequivoco intento persecutorio rivolto nei confronti del L.B., anche se reiterati, in quanto sforniti di prova certa e concreta in ordine ai requisiti teleologici e di sistematicità.
Ciò nondimeno, la condotta del T. è rimproverabile collocandosi in aperto contrasto con l'obbligo di diligenza incombente, in generale, sugli amministratori e dipendenti pubblici e, in particolare, degli enti locali, come già previsto dall'art. 13 del D.P.R. n. 3/1957, richiamato dalle disposizioni definitivamente rifluite nel vigente art. 93 del T.U.E.L. applicabile in materia e ratione temporis -ma anche delle disposizioni contenute nella L. 7 marzo 1986, n. 65, Legge-quadro sull'ordinamento della polizia municipale, che conferiscono al comandante della Polizia Municipale la responsabilità della disciplina del Corpo e, naturalmente sebbene implicitamente, il sereno e strumentale svolgimento delle complessive attività ad esso demandate (art. 9)- secondo cui l'attività amministrativa deve essere svolta "curando, in conformità delle leggi, con diligenza e nel miglior modo, l'interesse dell'amministrazione per il pubblico bene", soprattutto in considerazione delle attitudini, capacità ed esperienza presuntivamente possedute e richieste in quello specifico settore cui era preposto da lunghi anni di servizio, inescusabile in quanto prevedibile ed evitabile da parte del trasgressore. (per tutte, cfr. Cass., n. 4587/2009; Cdc, Sez. Giur. Veneto, n. 460/2012 e n. 7/2015; Sez. Giur. Lazio n. 56272012; Sez. Giur. F.V.G., n. 53/2013 e Sez. Giur. Piemonte, n. 61/2014).
In definitiva, è inescusabile una grossolana leggerezza e trascuratezza dimostrata nella cura dell'interesse collettivo o pubblico, piegato invece a logiche egoistiche e particolari, capace di configurare gli estremi della colpa grave della condotta del soggetto che avrebbe dovuto e potuto prevedere, con giudizio prognostico, le conseguenze dannose da essa derivanti e l'esercizio dell'azione risarcitoria da parte della vittima del mobbing o della condotta antidoverosa e vessatoria, lesiva di diritti fondamentali della persona, oltre ad una conseguente condanna dell'ente locale, con possibilità di rivalsa nei confronti dell'autore del danno, come poi in concreto avvenuto.
10. Va, peraltro, disattesa la censura della difesa del convenuto, sollevata nei termini di seguito precisati, non assumendo alcun rilievo la circostanza che l'Amministrazione comunale abbia scelto di non impugnare le sentenze del giudice del lavoro di primo grado che avevano condannato l'ente locale al risarcimento in favore del B.L., restando in disparte qualsiasi apprezzamento per l'atteggiamento, quanto meno, "ondivago" della difesa del convenuto che, inizialmente, ha contestato la decisione del Giudice del Lavoro di Treviso (pag. 3), che ha respinto la domanda del sig. L.B. in merito al demansionamento ed ha accolto quella relativa al mobbing mentre, successivamente, ha criticato Comune per aver resistito in giudizio senza tentare una legittima transazione, aggravando, col detto comportamento, le conseguenze dannose destinate a riverberarsi, in definitiva, nella sua sfera giuridica e patrimoniale in caso di condanna in questa sede, integrando una sorta di responsabilità concorrente per fatto colposo del creditore che può ridurne o eliminare addirittura la traslazione della responsabilità sul debitore (art. 1227, co. 1 e 2, c.c.).
In proposito, giova ricordare che la decisione della p.a. di promuovere una controversia o di resistere in un giudizio intrapreso da altri, come ogni altra scelta a carattere discrezionale, non è, infatti, completamente svincolata da qualsiasi sindacato giurisdizionale, ma soggiace al vaglio del giudice contabile che può verificare, non solo se i mezzi liberamente scelti dagli amministratori pubblici siano adeguati oppure esorbitanti rispetto al fine pubblico da perseguire (cfr. ex plurimis Cass. SS.UU. nn. 831 e 20728 del 2012), ma anche la ragionevolezza e la logicità della scelta rispetto agli obiettivi da conseguire ed anche il contrasto della stessa con i criteri di congruità, convenienza ed economicità dell'agire pubblico (cfr. tra le più recenti, C.d.C. Sez. Terza Centrale, sent. n. 151 del 22.2.2013)
Orbene, nel caso di specie trattasi di condotta discrezionale dell'Ente locale esercitata con estrema avvedutezza e diligenza per due distinti motivi.
Il primo, come opportunamente rilevato dalla Procura, è costituito dalla considerazione che se vi fosse stata una transazione del comune con il dipendente, la pretesa di risarcimento di quest'ultimo sarebbe stata presumibilmente maggiore, in quanto avrebbe dovuto liquidare e ricomprendere entrambe le voci risarcitorie collegate alle due diverse tipologie o categorie di danno, vale a dire sia il mobbing sia il demansionamento; per cui appare chiaro che l'Ente, resistendo in giudizio, ha, in concreto, limitato il danno che avrebbe diversamente dovuto risarcire. Per quanto, invece, attiene al secondo, giova ricordare il principio di diritto secondo cui non può censurarsi la condotta dell'ente locale (ma il principio è applicabile alla P.A. in genere) che non ha interposto impugnativa avverso la sentenza del giudice di primo grado, allorquando l'opzione della mancata impugnazione della parte pubblica condannata costituisce scelta discrezionale non illogica e priva di determinazione di un'autonoma serie causale idonea a "spezzare" il nesso causale tra il comportamento del (omissis) ed il danno causato, laddove immune da irragionevolezza e non sia evidente la temerarietà di un comportamento processuale. (principio di recente ribadito da Sez. Giur. Toscana, n. 51 del 2014, richiamata dalla Procura in citazione). Ebbene, nessun vizio di tale portata è possibile rinvenire nella scelta effettuata dal Comune di Oderzo che, confinata nell'ambito o entro i limiti c.d. interni ed incensurabili dal giudice contabile poiché rientranti della propria sfera di autonomia decisionale (c.di riserva di amministrazione), manifestata attraverso la deliberazione si è, comunque e diligentemente, avvalso di un parere pro-veritate di legale esterno, l'Avv.   , che aveva patrocinato il comune nella costituzione in giudizio nella causa contro il L.B., al fine di valutare l'opportunità di proporre ricorso avverso la sentenza del Giudice del lavoro di Treviso.
Pertanto, nessun rimprovero, nemmeno di semplice leggerezza, può essere mosso al predetto comune che ha assunto le sue determinazioni di rinunciare al gravame sulla base di uno specifico e qualificato parere legale; circostanza che, ax adverso, ne denota la scrupolosità per la cura dei propri interessi e la condotta irreprensibile di saggio amministratore, dal momento che tale decisione risulta giustificata non solo in termini di evidenze probatorie, documentali e testimoniali, del giudizio civile, ma anche legittima sotto l'aspetto amministrativo in quanto motivata coerentemente e congruamente sulla base delle risultanze dell'istruttoria amministrativa eseguita, proprio come prescritto dall'art. 3, co. 1, L. n. 241/1990 e s.m. e i.
Tanto, avendo la consulenza evidenziato la non opportunità di una eventuale impugnativa avverso la citata sentenza (n. 25 del 2013 del Tribunale di Treviso) in quanto "al fine di proporre appello, sarebbe necessario poter contestare i dati sui quali, appunto, il Giudice si è basato: dati che, tuttavia, non appaiono di facile critica, poggiando su testimonianze provenienti dai testi di ambo le parti in giudizio e sulla consulenza d'ufficio condivisa pure dai cc.tt.pp".(cfr. Doc. n. 3, pag. 17 e ss. del fasc. di Procura).
11. Passando, infine, alla concreta quantificazione del danno erariale da addebitare al convenuto, il Collegio ritiene che sia indispensabile valutare, innanzitutto, l'eventuale sussistenza di concorso causale di altri soggetti dipendenti o amministratori comunali, operanti all'interno del plesso amministrativo del Comune di Oderzo che, seppure non convenuti nell'odierno giudizio, con la loro condotta attiva od omissiva, hanno contribuito a determinare il danno indiretto conseguente il triste fenomeno registratosi nel contesto lavorativo, attraverso una condotta sostanzialmente omissiva in quanto, pur conoscendo o avendo il dovere giuridico di conoscere i fatti, ed avendone l'autorità, non sono intervenuti per impedire o eliminare detta deprecabile situazione, ripristinando il rispetto della legalità e, correlativamente, della dignità e personalità della vittima del mobbing.
Giova ricordare, preliminarmente, che il Giudice Contabile può apprezzare i comportamenti concorrenti di altri soggetti nell'ambito della valutazione della responsabilità amministrativa per colpa grave che possono aver determinato, in modo concausale, l'insorgenza del danno, al fine di apportare una riduzione della responsabilità del convenuto in giudizio e della loro conseguente condanna risarcitoria.
Dette condotte concorrenti possono essere virtualmente apprezzate, in senso oggettivo, senza necessità di dover ordinare l'integrazione del contraddittorio, non versandosi in cause inscindibili caratterizzate da litisconsorzio necessario, ex art. 102 c.p.c (cfr., tra le tante, Corte dei conti, Sez. Veneto, n. 220/2013 e recente Sez. Giur. Sardegna, n. 8/2015).
Pertanto, le posizioni di soggetti, benché estranei al giudizio ma che questo Collegio reputi abbiano potuto contribuire, in qualche misura, alla determinazione del danno non patrimoniale, non debbono restano senza rilievo, attesa l'incidenza concausale della pluralità di condotte poste in essere da soggetti, seppure di matrice colpose e indipendenti, comunque collegate al fatto dannoso provocato dalla complessa azione amministrativa, sulla base dell'applicazione del principio di equivalenza delle cause (art. 41, co. 1, c.p.), anche se non evocati o rimasti del tutto estranei al giudizio, e del principio di parziarietà, immanente in materia di responsabilità amministrativa (art. 82, co. 2, R.D., n. 2240/1923 e art. 1, co. 1 quater e quinquies, L. 14/1/1994, n. 20).
Va, quindi, riconosciuta a ciascuna condotta un'efficienza causale di cui il giudice deve necessariamente tenere conto nella liquidazione del danno complessivo in modo da determinare la quota di risarcimento del danno virtualmente addebitabile a tali soggetti e non certo ascrivibile esclusivamente ai convenuti in giudizio (per tutte, C.conti, SS.RR. 10/6/1997, n. 56/A; Sez. Giur. Campania, n. 1041/2011; n. 221/2013; n. 438/2014).
Contributo causale, seppure modesto, che si reputa, nel caso che ci occupa, possa essere stato offerto dai vertici politico-amministrativi e dai responsabili della direzione dei servizi, vale a dire dal sindaco p.t. (o dall'assessore eventualmente delegato) e dal Segretario comunale, soprattutto poiché nominato Direttore Generale, ai sensi dall'art. 97, comma 4 del TUEL (D.lgs. n. 267/2000, cui spettava, pertanto, il compito di sovraintendere "allo svolgimento delle funzioni dei dirigenti" e di coordinarne l'attività (ivi compreso, evidentemente, i responsabili della posizioni organizzative in caso di comune privo di posizioni dirigenziali- sostenuto dalla difesa del convenuto, a titolo di culpa in omitiendo -come si diceva, al di là delle mere ipotesi di responsabilità formali o di posizione da ritenersi ormai espunte dall'ordinamento giuridico- per non aver impedito o interdetto tale odioso ed ostile comportamento che danneggiava l'ordinato e sereno disbrigo dell'attività lavorativa e, in definitiva, una corretta, efficace ed efficiente azione amministrativa.
La protrazione nel tempo delle condotte mobbizzanti e le direttive e i compiti di responsabilità e di vigilanza ripartiti tra le due citate figure -si ribadiscono i poteri-doveri dettati dal T.U.E,L. anche in tema di conferimento delle posizioni organizzative (v.,art. 109, co. 2) e quelli specifici riguardanti il Corpo di Polizia Municipale dianzi citati (artt 1, 2 e 9, comma 1, L. 7 marzo 1986, n. 65 -Legge-quadro sull'ordinamento della polizia municipale) rendono alquanto inverosimile e, comunque, ingiustificata la non conoscenza degli episodi o l'indifferenza mostrata in luogo dell'assolvimento del conseguente dovere di attivarsi per l'eliminazione della condotta che generava il fenomeno.
A ciò va aggiunto che all'interno dell'organizzazione amministrativa dell'ente locale coinvolto nei fatti di mobbing mancava completamente un presidio o una struttura di riferimento per i dipendenti cui rivolgersi in caso di gravi episodi persecutori nell'ambito lavorativo, onde ottenere una prima tutela in sede istituzionale quale forma di "filtro" rispetto al più grave ricorso alla giustizia ordinaria (conforme, ancora, Sez. Giur. F.V.G., n. 56 del 2013)
Il peso di queste circostanze esogene, che hanno ben potuto inciso sulla determinazione concausale del danno patito dall'ente locale poi condannato in sede civile, possono essere prese in considerazione per un temperamento nella quantificazione del danno erariale (cfr. Corte dei conti, Sez. Sicilia, n. 2583/2013).
Il Collegio ritiene quindi che detto apporto concausale, riferibile all'apparato, possa condurre ad un abbattimento del quantum debeatur nella misura della dimidiazione del danno originariamente addebitato che, per l'effetto, si riduce a 25.575,01 euro.
Infine, è meritevole di trovare ingresso nel giudizio la domanda, proposta in via subordinata della difesa del T. -al cui accoglimento la Procura non si è opposta, come precisato nelle conclusioni orali rassegnate in udienza- volta all'esercizio del potere riduttivo del danno subito dall'amministrazione di appartenenza, come previsto dall'art. 1, comma 1 bis, della legge n. 20/1994, modificato per effetto della riforma introdotta con la Legge n. 639/1996, che ha riconfermato l'esistenza del potere riduttivo della Corte dei conti, già previsto dall'art. 52 del T.U. approvato con R.D. n. 1214/1934, dall'art. 83 del R.D. n. 2440/1923 e dall'art. 19 del D.P.R. n. 3/1957, secondo il quale il Giudice contabile: "valutate le singole responsabilità può porre a carico dei responsabili tutto o parte del danno accertato o del valore perduto".
Ciò premesso, il Collegio ritiene che l'importo complessivo del danno addebitabile al convenuto vada attenuato in considerazione, rispettivamente,: della valutazione del c.d. rischio in amministrazione, con conseguente ripartizione del danno tra dipendente-amministratore e P.A.; delle dedotte circostanze oggettive (come, ad esempio, il rilevante lavoro svolto e la delicatezza dell'incarico ricoperto, in relazione al titolo di studio, culturale e capacità professionali posseduti unitamente, nella specie, al significativo lasso di tempo decorso dalla condotta illecita contestata) e, soprattutto, soggettive (vita professionale anteatta e, nel caso concreto, specchiata condotta ed ottimi precedenti di carriera e di servizio; esclusione di qualsiasi recidiva, soprattutto specifica, durante l'espletamento degli incarichi ricoperti, sulla base del notorio e dei motivi illustrati in memoria ed integrati nell'udienza di discussione dal suo difensore e che non hanno formato oggetto di specifica contestazione (art. 115 c.p.c.)..
Pertanto, il danno indiretto non patrimoniale risarcibile dal T. nei confronti del Comune di Oderzo (TV) può definitivamente liquidarsi nella misura, ritenuta equa in applicazione del principio stabilito dagli artt. 1226 e 2056 c.c., di 10.000,00 euro, comprensivi di rivalutazione monetaria, oltre ad interessi legali decorrenti dalla data di pubblicazione della presente sentenza fino all'integrale soddisfo e al pagamento delle spese del giudizio, queste ultime in favore dello Stato, secondo il principio della soccombenza (artt. 91 c.p.c.), che si liquidano nella misura indicata in dispositivo.
Devono ritenersi implicitamente disattese le altre allegazioni e argomentazioni svolte dalle parti, prive di autonomo e significativo valore probatorio ed incompatibili con le argomentazioni poste a base della motivazione, sebbene non confutate specificamente, senza che ciò costituisca vizio di omessa o carente motivazione (ex multis, Cass., 29/1/2010, n. 2063 e 25/11/2013, n. 17906).

P.Q.M.

La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale per il Veneto, definitivamente pronunciando,
ACCOGLIE
La domanda attorea e
CONDANNA
Il convenuto T. Vincenzo al risarcimento del danno erariale mediante pagamento, da effettuare in favore del Comune di Oderzo (TV), della somma di euro 10.000,00 (diecimila), comprensivi di rivalutazione monetaria, oltre interessi legali a decorrere dalla data di pubblicazione della presente sentenza e al pagamento delle spese di giudizio, in favore dello Stato, che liquida in euro 994,22 (euro novecentonovantaquattro/22).
Manda alla Segreteria per i conseguenti adempimenti di competenza.
Così deciso in Venezia, nella camera di consiglio del 9 luglio 2015.

Depositata in Segreteria il 15/12/2015