8 Il dovere di tutela.
Il "dovere di tutela" in capo al datore di lavoro nei confronti delle persone che lavorano alle sue dipendenze, nel luogo di lavoro da lui diretto ed organizzato, discende non solo dalla normativa di settore, di cui il D.Lgs 626/94 è, insieme ad altre leggi e regolamenti, espressione, ma altresì dalla norma generale di cui all'art. 2087 codice civile: "L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro"; così la Corte di Cassazione nella sentenza n. 23944 del 23/6/2010: "È principio non controverso quello secondo cui il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, assicurando anche l'adozione da parte dei dipendenti delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa; tale obbligo dovendolo ricondurre, oltre che alle disposizioni specifiche, proprio, più generalmente, al disposto dell'art. 2087c.c." (e v., tra le altre, anche la sentenza Corte di Cassazione n. 18628/2010).
Ancora prima, questo dovere lo troviamo nella nostra Carta Fondamentale, all'art. 41 della Costituzione: "L'iniziativa economica privata è libera.
Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana"
.
Ancora, la Corte di Cassazione enuclea tale dovere direttamente non solo dal diritto alla salute, costituzionalmente tutelato (v. art. 32), ma dal principio di solidarietà di cui all'art. 2 della Costituzione: "La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale"; così affermando (v. sentenza n. 41985/2003): "La conoscenza e il rispetto delle norme antinfortunistiche costituisce per l'imprenditore la manifestazione più significativa del rispetto del dovere di solidarietà imposto dall'art. 2 della Carta Costituzionale...solidarietà che, per l'imprenditore, non può non consistere, anzitutto, nella non superficiale conoscenza e nel più scrupoloso rispetto delle norme destinate a garantire la incolumità e la integrità del lavoratore...delle norme, cioè, che garantiscono, sotto l'aspetto della incolumità e dell'integrità, la persona, che è il valore per eccellenza della Carta Costituzionale".
E non della sola Carta Costituzionale: il diritto alla vita della persona, alla sua incolumità ed integrità fisica, è il primo ed assoluto tra i "diritti inviolabili" dell'uomo; la Corte lo deve sottolineare, ricordando che la materia della "sicurezza" sul lavoro altro non costituisce che un insieme di precetti normativi volti a ribadire tale fondamentale tutela, di fonte legislativa primaria, ma sulla quale si fonda ogni società civile; tutela necessariamente "affidata", in questo settore, al datore di lavoro perché non solo è colui che decide, organizza, sceglie, progetta, valuta, agisce, investe, ma anche perché è l'unico a "conoscere" come, in concreto, si articoli la sua attività economico-produttiva, come e quando cambi o si modifichi, di conseguenza quali siano i "rischi" che i lavoratori concretamente corrano alle sue dipendenze e quali cautele siano necessarie per eliminarli e, quando ciò non sia tecnicamente possibile, ridurli. È evidente, ma non di meno appare utile rammentare l'assoluta necessità - perché il sistema di "tutela" si compia effettivamente - della consapevolezza, da parte del datore di lavoro, dell'importanza della sua analisi, della sua valutazione, delle conseguenti cautele da lui - doverosamente ed obbligatoriamente - individuate ed apprestate, il tutto da compiersi con la indispensabile "trasparenza" e con un atteggiamento opposto a quello che, purtroppo, in questo dibattimento è emerso, come già esposto e come sarà esposto ancora in prosieguo. Atteggiamento di sottovalutazione, di trascuratezza della materia "sicurezza" in generale e, in particolare, della "sicurezza antincendio": quella che, per la tutela dell'incolumità dei lavoratori, appariva la più urgente e pressante nello stabilimento di Torino, come si è accertato nel presente dibattimento e, come si vedrà infra, nonostante i solleciti provenienti, proprio sulla sicurezza antincendio soprattutto per le linee di ricottura e decapaggio, alla THYSSEN KRUPP AST anche dalla casa-madre, nonché il consistente "budget" da quest'ultima stanziato a questo scopo (v. infra capitolo 12).
Atteggiamento, inoltre, tendente a minimizzare - nonostante la piena conoscenza e consapevolezza - i rischi concreti, quando non a cercare di occultarli non evidenziandoli nei prescritti documenti, nonostante l'esistenza di norme "tecniche" che li descrivevano in dettaglio, come si esporrà infra.
La Corte non ignora una ipotizzabile difficoltà, per il datore di lavoro, di conoscere effettivamente come comportarsi - in particolare rispetto alla sua responsabilità penale - a fronte di un dovere generale di solidarietà e di una espressione di ampio contenuto quale quella di cui all'art. 2087 c.c.; in particolare, un dovere generale ed una espressione di ampio contenuto si prestano, apparentemente, ad entrare in collisione con il fondamentale principio di "determinatezza" della responsabilità penale: il cittadino-imprenditore deve conoscere effettivamente il suo obbligo, omettendo il quale -e accertato il nesso di causalità fra tale obbligo omesso e l'evento - deve rispondere.
La Corte ritiene che i due - fondamentali - profili debbano, ma altrettanto in concreto "possano", nella interpretazione ed applicazione delle norme, contemperarsi: perché il dovere generale di tutela, derivante dalla Costituzione e dall'art. 2087 c.c., funge da - elementare, ma altrettanto fondamentale -criterio interpretativo per tutta la legislazione in materia di sicurezza e di salute dei lavoratori, a cominciare dal D.Lgs 626/94 - v. nelle prioritarie enunciazioni di cui all'art. 3: "misure generali di tutela" - passando per i decreti ministeriali (su cui v. sopra e infra), per giungere alle norme "tecniche" (v. infra), le quali ultime, riproducendo lo "stato dell'arte" (nel nostro caso, relativo alla materia di prevenzione antincendio), costituiscono il "contenuto" preciso del rinvio alla "tecnica" ed alle "conoscenze acquisite in base al progresso tecnico" come indicate all'art. 2087 c.c. e all'art. 3 D.Lgs 626/94.
Questo è l'attuale sistema su cui si fonda, nel nostro Paese, il tema della sicurezza sul lavoro; la Corte deve qui ricordare che, negli anni '50 dello scorso secolo, le omissioni contestate al datore di lavoro si riferivano, secondo la normativa in allora vigente, a specifiche prescrizioni di singole disposizioni di tipo "tecnico" (ed. valutazione ex lege del rischio); ma tale sistema è stato profondamente modificato, come sopra esposto, tra l'altro non per autonomo impulso interno, ma in attuazione di una serie di direttive europee; a conferma che l'impossibilità, da parte del legislatore, di poter prevedere e quindi indicare come prevenire i rischi in tutte le infinitamente varie realtà economico-produttive, in tutti i diversi "processi produttivi" ed invece la possibilità - ed il conseguente dovere - dell'imprenditore di valutare egli stesso i rischi ed attivarsi per prevenirli nella sua attività economico-produttiva, è constatazione - e patrimonio - comune non solo nel nostro, ma anche negli altri Paesi Europei.
Così insegna la Suprema Corte: "È principio non controverso quello secondo cui il datore di lavoro deve sempre attivarsi positivamente per organizzare le attività lavorative in modo sicuro, garantendo anche l'adozione delle doverose misure tecniche ed organizzative per ridurre al minimo i rischi connessi all'attività lavorativa" (così sentenza n. 23944/2010).
Ecco quindi la sopra illustrata "responsabilizzazione" del datore di lavoro, che peraltro vige da diversi lustri precedenti il caso di specie; ecco che ben si comprende perché non esista una specifica "norma" che indichi espressamente al datore di lavoro come, in tutti i particolari e considerato anche, solo come esempio, il tenore del "piano di emergenza", debba valutare il rischio incendio nella zona di entrata di una linea di ricottura e di decapaggio attrezzata come la Linea 5, inserita nel processo produttivo di uno stabilimento come quello di Torino, in un dato momento storico; e poi espressamente gli imponga di prevedere ed installare, in quell'area, l'impianto x e/o le altre misure y.
Una siffatta "norma" non esiste (né potrebbe esistere, considerate le infinite variabili di ogni singola realtà economico-produttiva); ma alla domanda -legittimamente, più volte, posta dai difensori nel corso del presente dibattimento - in base a quali norme, nel caso di specie, in capo agli attuali imputati (v. infra dettagliatamente) gravasse l'obbligo - omesso - di proteggere anche quell'area (v. anche infra), la risposta deve essere: in base all'obbligo di tutela, precisato dal D.L.gs 626/94 in tutte le sue articolazioni, specificato dai decreti ministeriali in materia - in particolare- antincendio, integrato nel suo contenuto "tecnico" dalle relative norme (v. infra, capitolo 11). Conferma questo concetto, sia pure in diversa fattispecie (cautele antirumore) e sotto il profilo della "spesa", la sentenza della Corte di Cassazione del 29/3/1995 c. Mafredi: "L'eccessiva accentuazione dell'aspetto economico, quale limite decisivo rispetto alla 'concreta attuabilità' delle misure non sembra corrispondere allo scopo perseguito dal legislatore che, invece, in funzione della primaria tutela della salute del lavoratore, si riferisce ad un metodo non restrittivo, dato dalle 'conoscenze acquisite in base al progresso tecnico', partendo dalle quali vanno individuati i parametri di concreta attuabilità di dette misure. La disposizione normativa va, dunque, intesa nel senso della valorizzazione delle conoscenze acquisite 'in base al progresso tecnico', al fine di rapportare ad esso la concreta attuabilità delle misure tecniche, organizzative e procedurali idonee a ridurre al minimo l'incidenza della rumorosità sulla salute dei lavoratori"; in caso contrario si seguirebbe "l'insostenibile principio secondo il quale la tutela della salute dei lavoratori sarebbe affidata all'alea incerta delle possibilità economiche del singolo datore di lavoro".

Ritornando al nostro caso, si deve anche osservare che le omissioni già esaminate sopra, nei vari capitoli, così come quelle relative al documento di valutazione dei rischi ed alla individuazione ed apprestamento delle cautele e delle "misure" (anche consistenti in "impianti" ed "apparecchi", v. nei capitoli successivi) che i vertici aziendali, nel caso di specie, dovevano adottare ed installare e così con riguardo ai singoli reati qui contestati, derivano tutte dalla violazione della normativa di settore; inoltre nessuna - ci si riferisce qui soprattutto alla valutazione dei rischi ed agli "impianti" ed "apparecchi" da installare - può certamente essere ricondotta a recenti "innovazioni tecnologiche", così che neppure si pone, nel caso di specie, la questione della "continua" evoluzione tecnologica rispetto alla quale può non essere facile "tenere il passo" (ancora sotto il profilo della "determinatezza" dell'obbligo in capo all'imprenditore): come si è indicato e si indicherà, si trattava invece di "tecnologia" molto risalente nel tempo ed anche - tra l'altro - di investimenti economicamente limitati (lo si deve qui accennare, solo per ricordare che la "misura" dell'investimento non è considerata, dalla costante giurisprudenza della Corte di Cassazione, "esimente"), non solo considerate le dimensioni dell'impresa ma anche in assoluto: semplici "rilevatori" con dispositivi di "spegnimento" automatico, ed. "sprinkler".