REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
CORTE D'APPELLO DI TRENTO
SEZIONE PENALE


Composta dai signori magistrati:
Dott. CARMINE PAGLIUCA - PRESIDENTE
Dott. IOLANDA RICCHI - CONSIGLIERE
D.ssa ANNA MARIA CREAZZO - CONSIGLIERE
ha pronunciato alla pubblica udienza la seguente

SENTENZA

nei confronti di
1) P.L. nt. a *** residente ad Appiano sulla Strada del Vino - via ***
Non sofferta carcerazione preventiva
LIBERO - CONTUMACE

2) T.G. nt. a *** residente a Trento fraz. ***
Non sofferta carcerazione preventiva
LIBERO - CONTUMACE

IMPUTATI
P., T., (C., M. e M. non appellanti)
per il reato p. e p. dagli artt. 113, 590, 1° e III comma c.p. perché, nelle qualità di seguito descritte, per colpa generica consistita in imprudenza e negligenza nonché per colpa specifica consistita in violazione dell'art. 2087 c.c. e di norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro cagionavano lesioni personali comportanti la incapacità di dedicarsi alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai 40 giorni, quindi da considerarsi lesioni gravi, a P.G., caporeparto della linea di produzione "creme" e "rossi" presso lo stabilimento di Trento della T. S.p.A.
P.L. era amministratore delegato della T. S.p.A. e datore di lavoro;
T.G. era un preposto, responsabile della produzione e del servizio di prevenzione e protezione.
M.M. e M.D. erano gli amministratori della M. S.r.l., società costruttrice del ribaltacassoni R. e di fatto impegnata a supervisionare e dirigere l'installazione dello specifico macchinario presso lo stabilimento della T.;
la M. S.r.l. emetteva altresì la dichiarazione di conformità CE del ribalta cassoni R. di data 31.3.2006.
C.R. era il presidente del consiglio di amministrazione della R. & C. S.p.A. società che aveva costruito e fornito l'impianto di lavorazione frutta ***, di cui faceva parte il ribaltacassoni R., aveva provveduto mediante propri tecnici all'avviamento e al collaudo, emettendo la dichiarazione di conformità CE dell'intera linea purea frutta di data 29.3.2006.

La dinamica dell'infortunio è la seguente:
il P., in occasione di un anomalo funzionamento della macchina ribaltacassoni R. - facente parte come elemento di testa dell'impianto di lavorazione frutta ***, accedeva al retro della macchina stessa, la cui rete di protezione era aperta da tempo mediante la rimozione di un elemento poiché era stato già necessario procedere a frequenti interventi e riparazioni; P. introduceva capo e torace sotto la parte mobile del decatastatore e del corpo di ribaltamento della macchina ribaltacassoni per controllare e allineare un sensore fotoelettrico nel tentativo di eliminare la causa del disservizio; la macchina improvvisamente si rimetteva in moto colpendo l'infortunato e causandogli "trauma-cranio-facciale-cerebrale da schiacciamento".

L'infortunio si verificava poiché P. e T., in violazione della prescrizione prevista dall'art. 35 comma 1 e comma 4 lett. b) del D.Lgs. 19 settembre 1994 n. 626, mettevano a disposizione dei lavoratori dipendenti presso lo stabilimento di Trento della T. S.p.A. una macchina ribaltacassoni R. inidonea ai fini della sicurezza in quanto priva di protezione adeguata ad impedire l'accesso degli operatori agli organi in movimento; inoltre non davano disposizioni affinché venisse montata e utilizzata correttamente: in particolare, il datore e il preposto non disponevano affinché si montasse sulla apposita rete di protezione una porta interbloccata come previsto nel progetto del fabbricante M. S.r.l., tolleravano invece che venisse rimosso in modo permanente un elemento della rete di protezione per consentire ai lavoratori di entrare agevolmente nell'area protetta a riparare i frequenti guasti cui la macchina era stata soggetta anche nei giorni precedenti l'infortunio (la porta interbloccata o altro meccanismo equivalente avrebbe arrestato la macchina ogniqualvolta gli operatori l'avessero aperta per avvicinarsi agli organi lavoratori della macchina, così evitando l'infortunio).

L'infortunio si verificava poiché M.M. e M.D. violavano l'art. 6 co. 3 del D.Lgs. 19 settembre 1994 n. 626 provvedendo a dirigere l'installazione dell'impianto di lavorazione frutta *** e anche del ribaltacassoni R. senza montare la porta interbloccata, o altro meccanismo equivalente, in difformità da quanto indicato nel progetto e nel manuale di istruzioni elaborati dalla stessa M. S.r.l.

L'infortunio si verificava poiché C.R. violava l'art. 6 co. 2 del D.Lgs. 19 settembre 1994 n. 626 fornendo e certificando la conformità CE dell'impianto di lavorazione frutta ***, pur mancando la porta interbloccata o altro meccanismo equivalente nella rete di protezione del ribaltacassoni R.
La R. & C. S.p.A. aveva altresì provveduto alla effettuazione e supervisione del montaggio della linea purea frutta.
In Trento il ***.
APPELLANTI
Gli imputati avverso la sentenza del Tribunale di Trento in composizione monocratica n. 851/09 del 15/12/2009 che dichiarava gli imputati colpevoli del reato loro ascritto e con le att. gen., li condannava, ciascuno, alla pena di Euro 1.000,00 di multa, oltre alle spese in solido tra loro.
Udita la relazione della causa fatta alla pubblica udienza dal Presidente Dott. Carmine Pagliuca.
Sentito il Procuratore Generale dr. Stefano Diez che ha concluso chiedendo la conferma della responsabilità penale salvo la riduzione della pena.
Sentito il difensore di fiducia avv. L.F., di Trento per l'imputato P. che richiede l'accoglimento dei motivi di appello.
Sentito il difensore di fiducia avv. S.F., di Trento per l'imputato T. che richiede l'accoglimento dei motivi di appello.

Svolgimento del processo e motivi della decisione

P.L. e T.G. sono stati condannati dal Tribunale Monocratico di Trento, previa concessione delle attenuanti generiche, alla pena di Euro 1.000,00 di multa per il reato di lesioni colpose gravi in danno P.G., commesso in Trento il ***.
Il P. era dipendente, in qualità di capo reparto della linea di produzione "creme e rossi", della ditta T. S.p.A. di cui amministratore delegato era P.L e preposto, responsabile della produzione e del servizio di prevenzione, il secondo imputato T.G.
Secondo quanto riportato in sentenza, quel giorno il P., constatato un anomalo funzionamento della macchina ribaltacassoni R., facente parte, come elemento di testa, dell'impianto di lavorazione della linea "***", si recò sulla sua parte posteriore e vi poté accedere superando la rete di protezione, dalla quale era stato da tempo rimosso un elemento (perché anche in precedenza, più volte, si era reso necessario passare per effettuare interventi e riparazioni), con il seguito che egli introdusse capo e torace sotto la parte mobile del corpo di ribaltamento, per raggiungere ed allineare un sensore fotoelettrico; mentre egli faceva questo, la macchina improvvisamente si mise in moto e lo colpì, cagionandogli un trauma cranio-facciale-cerebrale da schiacciamento, con malattia di durata superiore ai 40 giorni.
Del fatto sono stati ritenuti responsabili gli attuali imputati (altri hanno patteggiato la pena separatamente) perché nelle rispettive qualità, avevano messo a disposizione dei dipendenti una macchina non idonea ai fini della sicurezza e consentito, anche attraverso la tollerata rimozione di un elemento della recinzione, il libero accesso alle sue parti in movimento, come assolutamente vietato dalle norme antiinfortunistiche ed in particolare dall'art. 35 co. 1 e 4 lett. b) del D.Lgs. 626/1994. Era stato, inoltre, loro rimproverato di non aver dato disposizioni affinché venisse montata sulla rete di protezione una porta interbloccata, vale a dire un microinterruttore a sicurezza attiva, come previsto nel progetto della ditta fabbricante M. S.r.l.; porta che, alla sua apertura per il passaggio, avrebbe dovuto arrestare la macchina, così impedendo in radice la possibilità di contatti con parti in movimento e, quindi, la verificazione di incidenti come quello occorso al P.
Contro la sentenza sono stati interposti rituali appelli.
Il difensore di P.L. chiede, in principalità, assolversi l'imputato con ampia formula e deduce:
- Che l'imputato non era amministratore della T., ma solo delegato alla gestione commerciale della società, retta da un consiglio di amministrazione, di cui era presidente il padre A.P.; conseguentemente, secondo il difensore, egli non può essere chiamato a rispondere dell'incidente, essendo destinatario delle norme antinfortunistiche il solo consiglio di amministrazione o il suo Presidente. In ogni caso le responsabilità in materia antinfortunistica erano state delegate al coimputato T., che aveva accettato la delega e, se quest'ultima non fosse considerata valida (come ritenuto dal primo giudice), esse resterebbero in capo al consiglio delegante e non ad un terzo, quale P.L., delegato ad altro.
- Che la macchina era stata acquistata dalla ditta R. & C. che ne aveva garantito la conformità CE, per cui non può rimproverarsi all'imputato l'esistenza di irregolarità che egli nemmeno conosceva, quale l'inesistenza del microinterruttore che, invece, doveva far parte della macchina e che con essa era stato pagato.
- Che al P. nessuno aveva mai riferito che il pannello della rete di protezione era stato rimosso. Sul punto il teste M. (consulente esterno di T., delegato a controllare le operazioni di montaggio e messa in funzione della macchina) ha detto che fino al 5 agosto il pannello era al suo posto, così smentendo le dichiarazioni dei testi P. e a., che avevano collocato la rimozione a poco dopo il montaggio del macchinario, ultimato nel giugno 2006.
- Che al momento dell'infortunio il collaudo della macchina non era stato ancora effettuato ed esso competeva al costruttore.
- Che, come dichiarato dal teste C., quando la macchina non funzionava, egli ne dava notizia al solo P. e, per altro verso, la teste M.P. ha riferito di aver concordato direttamente col P. suoi interventi con brugole per allineare le cellule fotoelettriche e ciò per sottolineare che quelle operazioni avvenivano all'insaputa degli imputati e su iniziativa dei dipendenti, che sapevano anche bene della esistenza di un grosso interruttore generale istantaneo, detto fungo, a meno di 4 metri dal varco nella recinzione, che avrebbe potuto essere utilmente azionato, a prevenzione di qualsiasi pericolo; in presenza di malfunzionamento, invece, lo stesso P. avrebbe dovuto chiamare i tecnici della R. & C. e non operare direttamente in maniera empirica.
- Che, secondo il consulente del P.M., nulla di quanto accertato dipendeva da difetti di manutenzione, ma solo di costruzione e di installazione ed il P. non aveva tra i suoi compiti né la manutenzione, né altro attinente al funzionamento.
- Che, in definitiva, si era trattato di assunzione volontaria di un rischio da parte del dipendente, all'insaputa dei responsabili, come tale integrante un comportamento abnorme e per se stesso scriminante per la posizione dell'imputato.
In subordine il difensore chiede che vengano definite le percentuali di incidenza dei contributi colposi dei coimputati e della stessa vittima, con conseguente riduzione della pena al minimo.
Il difensore di T.G. parimenti chiede l'assoluzione dell'imputato con ampia formula e deduce:
- Che il Tribunale ha errato nel considerare T. quale preposto addetto alla sicurezza, non avendo egli mai rivestito questo ruolo, come, ad avviso del difensore, deve ricavarsi dal verbale redatto dal Dott. M., responsabile UOPSAL, il 6-10-2006, laddove si dice che datore di lavoro era L.P.; che non esistevano dirigenti d'azienda; che preposto era il T. e che non esistevano deleghe di funzioni in materia di prevenzione ed infortunistica. Egli era solo un preposto, come tale tenuto ad osservare e far rispettare gli ordini dati dai superiori e dal datore di lavoro, ma senza alcun potere decisionale o dispositivo in materia di prevenzione infortuni. Secondo il Testo Unico n. 81 del 2008 il preposto è anche caricato di un ruolo con poteri di iniziativa che non erano previsti dalla precedente normativa, costituita dal D.Lgs. 626/1994; ciò ad avviso del difensore avrebbe tratto in inganno il giudice che ha applicato una previsione di legge più gravosa, successiva all'epoca di verificazione del fatto.
Il T., pertanto, non potrebbe essere considerato destinatario della norma antiinfortunistica di cui all'art. 35 del D.Lgs. 626/1994; egli, per il suo ruolo, avrebbe dovuto solo avvertire il datore di lavoro del cattivo funzionamento del macchinario e ciò aveva fatto, senza che altro sia da lui esigibile. Competeva, invece, al P.L., datore di lavoro, legale rappresentante e firmatario del contratto di fornitura, intervenire su costruttori ed installatori per ottenere perfette messe a punto della macchina.
- Che in questo caso ruolo determinante ebbe lo stesso infortunato che, pur essendo molto esperto per aver seguito corsi e per essere il preposto a quel macchinario, agì poi in maniera sconsiderata, intervenendo su di esso senza che alcuno dei responsabili glielo avesse chiesto e senza nemmeno attivare il pulsante di stand by, di cui conosceva bene esistenza e funzione. In più, trovandosi quel giorno i tecnici della R. & C. sul posto, egli avrebbe dovuto provocare il loro intervento e non assumere iniziative dirette, ad alto rischio.
In subordine chiede che venga fatta una ripartizione percentuale delle responsabilità anche rispetto alla parte lesa, con diminuzione della pena al minimo.

Gli appelli sono infondati e vanno respinti.
È assolutamente pacifico in fatto che (come si legge anche nella relazione tecnica del consulente degli imputati) l'infortunio avvenne durante la fase di collaudo del complesso macchinario, la cui installazione era terminata ai primi di giugno del 2006 ed il cui collaudo era iniziato il 12 giugno, ma non si era potuto concludere rapidamente per la insorgenza di problemi vari che avevano richiesto interventi e messe a punto integrative; addirittura le operazioni si conclusero, poi, nel settembre di quell'anno, dopo la verificazione dell'incidente.
A tenore di quanto previsto nella conferma d'ordine in data 18-1-2006, si era stabilito che l'avviamento delle macchine dovesse avvenire "immediatamente dopo la conclusione del montaggio" e dovesse essere effettuato "da personale dell'acquirente, sotto la supervisione di due tecnici specializzati R. & C., per un periodo totale di 2 giorni (consecutivi) per le prove in bianco e di 5 giorni per il funzionamento con prodotto"; il che vuol dire che, nella situazione ideale, dopo massimo 7 giorni dall'inizio, il collaudo si sarebbe dovuto concludere. Non andò così, ma va subito evidenziato che la lungaggine fu diretta conseguenza anche della complessità della messa a punto che non poteva essere pienamente verificata e convalidata se non facendo funzionare a pieno regime la catena produttiva secondo le aspettative della ditta committente che era e rimaneva l'unica a dover gestire la linea di produzione, nella quale il R. si inseriva come un segmento di operatività automatizzata iniziale, destinata ad essere poi seguita dalle fasi di scarico, lavaggio, ecc., del tutto estranee agli interessi ed alle competenze dei tecnici della R.C. (il processo, nei termini ora detti, è ben schematizzato nella detta consulenza di parte - pag. 8 -).
Se si considera che l'obiettivo di produzione, cui doveva contribuire il macchinario in questione, era di 20 tonnellate/ora di purea di frutta (come si legge nella consulenza B. pag. 13), si comprende bene quale fosse il livello di mobilitazione di risorse necessarie a gestire il pieno regime, che era imprescindibile perché una seria verifica di perfetto funzionamento dell'insieme potesse essere fatta.
Ma, se è vero questo, altrettanto evidente si presenta che anche durante il collaudo (tranne la primissima fase "in bianco" - cioè senza movimentazione di frutta - limitata a due soli giorni) la catena produttiva esprimeva già un pieno funzionamento operativo ed esso era ovviamente gestito dalla ditta committente, che era l'unica che avrebbe dovuto procurare le ingenti quantità di materie prime e dare poi sbocco al prodotto lavorato. Sostenere, perciò, che la fase di collaudo fosse sotto la esclusiva responsabilità della ditta costruttrice che gestiva anche i dipendenti messi a disposizione dalla T.F., come se fossero dipendenti suoi - perché distaccati - ai fini della sicurezza, con esclusione di ogni posizione di garanzia dei responsabili della T.F. medesima, è cosa, inesatta e contraria alla realtà della situazione accertata (basta ricordare quanto ha detto M.P., del Consiglio di amministrazione della T.F.: "L'impianto doveva essere collaudato in azienda; ... doveva essere in grado di lavorare 20 tonnellate di frutta all'ora; ... La R.C. non avrebbe mai potuto mettere in produzione così tanta frutta per conto suo").
Deve dirsi, invece, che la particolarità delle complessive operazioni da compiere, facendo coesistere normale ciclo produttivo e collaudo, aggiungeva responsabili ai fini della sicurezza e di certo non ne sottraeva.
Opinare diversamente implicherebbe il dover ammettere che la R.C. potesse autonomamente occuparsi del ciclo produttivo mentre era in corso il collaudo e gestire indipendentemente dalla T.F. materie prime e prodotto finito, fino a divenire diretta ed esclusiva responsabile dei dipendenti altrui, fatti distaccare alla bisogna, come sarebbe assurdo anche solo immaginare.
Ciò già delinea con nettezza che, in conclusione, l'operaio infortunato, anche per la sua esperienza, era stato incaricato di seguire quella fase di lavorazione sotto la direzione dei suoi diretti ed ordinari responsabili, quanto alla messa in opera ed allo sviluppo del ciclo produttivo e sotto la supervisione tecnica degli esperti della R.C., per la parte relativa alla concomitante messa a punto delle macchine, nell'ambito delle complessive operazioni di collaudo. Ciò comportava che garanti della sua sicurezza erano non solo i suoi sovraordinati della T., ma anche i responsabili della R.C. incaricati di sovrintendere alle attività per le quali il personale della ditta cliente era stato messo anche a loro disposizione.
Questo va detto in linea generale, ma non importa in questa sede entrare nel merito delle responsabilità di terzi ulteriori; ai fini qui di rilievo, invece, interessa verificare se una implicazione degli attuali imputati possa essere ravvisata.
Ritiene la Corte che la risposta debba essere necessariamente affermativa.
Risultanze decisive sul punto le ha fornite l'Ispettore del Lavoro dell'UOPSAL di Trento M.A., che, sentito come teste, ha chiarito che, all'esito delle sue indagini era emerso
- che amministratore delegato della T.F. - come tale datore di lavoro dell'infortunato - era P.L.;
- che in tale azienda non vi era stata, in materia di sicurezza, delega di poteri, rimasti, quindi, in capo all'amministratore delegato;
- che T. era stato designato dal P. quale responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), che involgeva la esplicazione di un ruolo di natura ben diversa da quello del responsabile della sicurezza, che era e rimaneva P.L.;
- che ciò era confermato anche dalle circostanze che proprio quest'ultimo aveva firmato il documento di valutazione dei rischi e designato il responsabile della sicurezza, che sono compiti non delegabili dal datore di lavoro;
- che T. era stato designato pure responsabile della produzione, veste nella quale aveva assunto ruolo determinante nella gestione della linea automatizzata in cui era inserito il R. e, proprio per questo, era stato individuato come preposto alla sicurezza in quella specifica attività;
- che T. era presente quotidianamente nello spazio aziendale in cui avveniva la produzione e così pure P.L., sebbene non con pari frequenza.
Il teste M.P., membro del consiglio di amministrazione della T.F., ha poi dichiarato che i tecnici della R.C. davano istruzioni a T. ed al P. che erano stati messi a loro disposizione (p. 22); che il T. relazionava regolarmente al Dr.L., aggiungendo che T. era sempre presente in cantiere e che L., quando compariva, veniva raggiunto dagli altri che subito gli relazionavano su tutto.
Secondo il M., P.L. si occupava prevalentemente della gestione commerciale dell'azienda; la Corte non mette in dubbio questo, ma rileva solo che per la specificità delle attività svolte in connessione con la messa a punto della nuova linea di produzione, egli aveva assunto posizione di rilievo anche in quell'ambito, al quale erano state estese le sue competenze, con tutti i risvolti in termini di potere operativo e di responsabilità.
Chiariti i ruoli, balza subito evidente che sia P. che T. avrebbero dovuto darsi carico di rilevare le situazioni di pericolo esistenti sul luogo di lavoro ed attivarsi per neutralizzarle, ma, ciò non avevano fatto.
Primaria e palese situazione di pericolo era stata determinata dalla avvenuta rimozione di un elemento della rete di recinzione del macchinario, divenuto direttamente accessibile, come si sarebbe dovuto evitare (art. 35 co. 1 e 4 lett. b) del D.Lgs. n. 626/1994, di cui alla contestazione), essendo esso costituito da parti in movimento.
Secondo gli accertamenti dell'Ispettore del Lavoro quel pannello era stato "già da tempo smontato"; addirittura "da circa un mese". L'affermazione è confermata oltre che dalla parte lesa, dalla teste P.M., collega di lavoro dell'infortunato, che ha riferito che la rimozione risaliva ad una settimana dopo il montaggio. Per l'altro operaio C.M. la rimozione risaliva a circa un mese prima. Solo il collaboratore esterno M.R. ha parlato di regolarità della recinzione alla data del 5 agosto, quando si era assentato per le ferie, ma egli era giunto a dire questo dopo molte insistenze e partendo da una dichiarazione iniziale del seguente tenore: Teste: "Io so che è stata montata ed era recintata, poi, onestamente io ho visto il giorno nel quale c'è stato l'infortunio"; ... P.M.: "Allora lei avrà visto, come tutti gli altri, che era stato tolto quel pannello?" Teste: "cioè, diciamo che non ho fatto caso, perché è nella parte interna". Con queste premesse, di nessuna attendibilità è la più perentoria affermazione contraria successiva, pur cui restano le dichiarazioni degli altri e tutte confermano quanto riferito dall'Ispettore del Lavoro.
L'operaio, in definitiva, proprio quel varco aveva utilizzato per accedere alla zona vietata e mettere mano alla cellula che condizionava il funzionamento del macchinario, come necessario per ripristinare il riavvio del ciclo produttivo.
Sempre dagli accertamenti complessivi dell'Ispettore si è appreso che blocchi improvvisi, per disallineamenti della cellula fotoelettrica, si erano verificati già da tempo e che essi erano stati numerosi anche la mattina stessa dell'infortunio, come rilevato dall'Ispettore medesimo attraverso la consultazione dei dati relativi ad allarmi e anomalie registrati in automatico dal sistema, di cui era stata fatta stampare una copia.
Ciò lascia comprendere perché fosse stata usata la "scorciatoia" della rimozione del pannello: l'operazione serviva a velocizzare gli interventi riparatori e di continua messa a punto.
Per il ruolo, la presenza e la necessaria immanenza, più o meno continua, sia del T. che del P.L., non è nemmeno pensabile che essi non fossero stati a conoscenza dell'esistenza dei problemi generati dai disallineamenti della cellula e delle ripercussioni che essi determinavano sulla continuità del ciclo produttivo, tanto più che si era in fase di collaudo e che di massimo interesse era rilevare subito i difetti del macchinario, denunciarli e sollecitare soluzioni per fronteggiarli.
Poiché è certamente vero questo, del tutto consequenziale è ritenere anche che fossero stati ben noti ai predetti, sia il rimedio empirico di accelerazione delle procedure riparatorie, costituito dalla avvenuta rimozione del pannello (come del resto anche direttamente visibile da parte di chi, come gli imputati, abitualmente frequentasse quel luogo di lavoro), sia la prassi instauratasi, di una effettuazione di interventi diretti dello stesso operaio addetto o di altri operai della T.F. che, avendo osservato le semplici modalità operative seguite dai tecnici della ditta produttrice, avevano poi agito a loro imitazione, per guadagnare tempo (P. così ha dichiarato: "È successo ancora che lo facessi io, (mettere a posto la fotocellula) ... e anche dei miei collaboratori").
Sul punto va detto che essendo avvenuta la rimozione del pannello da oltre un mese, certamente gli imputati si erano resi conto di quanto andava accadendo per porre rimedio alle anomalie (T., infatti, era sempre sul posto e L. veniva informato di tutto appena compariva, come si è visto) e, tuttavia, lo avevano tollerato per ovvie ragioni pratiche, che prescindevano completamente dalla necessità di salvaguardare la sicurezza dei dipendenti e che si pongono ora come altrettanti segni rivelatori di responsabilità (PM: "era smontato, come fa a dirlo?"; ISP "Perché abbiamo fatto delle indagini in tal senso, noi abbiamo trovato il pannello smontato, no? Quindi uno poteva dire: "è stato il lavoratore infortunato"; in realtà, dalle nostre indagini, ma questo lo diranno gli altri testimoni, è emerso che quel pannello lì era già da tempo smontato"; PM: "Da quanto tempo?", ISP "Da circa un mese", PM: "e un come mai?", ISP. "Come mai è presto spiegato, perché chiaramente se la macchina ha tante anomalie, è chiaro che io devo poter accedere e siccome queste anomalie... della fotocellula di funzionamento... ti fa 20 anomalie in una mattinata, è chiaro che io devo produrre comunque e, quindi, come faccio a produrre se mi va in continuo blocco di allarme, insomma?"; PM "Quindi per comodità avevano rimosso quel pannello"; ISP "Praticamente per continuare ad intervenire...").
La linearità dell'accaduto e delle sue motivazioni pare del tutto evidente, anche se, in questa valutazione non va omesso di considerare che poco accorta era stata la intraprendenza del P., il quale, ergendosi a manutentore ed a tecnico pari a quelli della ditta venditrice, si era avventurato ad operare in loro vece, con i seguiti di cui si è detto.
Se tali seguiti, però, poterono verificarsi è perché la situazione di pericolo (causa remota) era stata accettata e non rimossa dai responsabili della sicurezza del dipendente che, a vario titolo e livello, erano, appunto, gli attuali imputati.
Essi in particolare, avrebbero dovuto subito ristabilire l'integrità della recinzione e pretendere la installazione della porta interbloccata, prevista dal progetto, ma non realizzata.
Esigere la installazione di quel sistema di sicurezza prima di dare avvio al funzionamento della catena produttiva in fase di collaudo, era nel dovere primario del massimo responsabile aziendale P., che conosceva bene i progetti approvati e che non ignorava certo l'inesistenza della porta. Con essa si sarebbe attuata una protezione radicale che avrebbe messo al sicuro chiunque avesse varcato (anche impropriamente o non avendone titolo) la linea della recinzione. Con l'apertura della porta, infatti, sarebbe stato azionato un interruttore generale automatico che avrebbe bloccato immediatamente il macchinario, preservando chiunque dai pericoli connessi alle sue parti in movimento.
Si è detto che un interruttore a pulsante (il "fungo") con pari efficacia neutralizzatrice esisteva nei paraggi ed avrebbe potuto essere utilmente azionato dal dipendente prima di addentrarsi nella zona protetta; l'osservazione, però, non coglie nel segno perché quel che qui rileva è l'esistenza di congegni idonei ad operare oggettivamente a salvaguardia del garantito e non quelli fondati sulla sua stessa diligenza, perché questi forzatamente rimettono al destinatario della tutela la salvaguardia della sua incolumità, come non è consentito.
L'affermazione di responsabilità degli attuali imputati, pertanto, deve essere senz'altro confermata. Non si tratta di responsabilità esclusiva, ma questo va detto solo per incidens, sia perché, non essendovi costituzione di parte civile, non vi sono aspetti da considerare a fini risarcitoli, sia perché altri responsabili individuati dal P.M. hanno già trattato separatamente il proprio processo e non sono parti in questo. Non vi è spazio né ragione, pertanto, perché questa Corte debba quantificare il grado di colpa di ciascuno, con individuazione di percentuali numeriche, come pure subordinatamente richiesto.
Quanto alle pene, congrue e già molto contenute sono quelle irrogate e non resta qui che confermarle, unitamente alla sentenza nel complesso.

P.Q.M.

Visto l'art. 605 c.p.p.;
Conferma la sentenza impugnata e condanna gli appellanti al pagamento delle spese processuali.
Fissa il termine di giorni 60 per il deposito della sentenza.