SENATO DELLA REPUBBLICA
XVII LEGISLATURA
Giunte e Commissioni

Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, con particolare riguardo al sistema della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro

RELAZIONE INTERMEDIA SULL’ATTIVITÀ SVOLTA
approvata dalla Commissione nella seduta del 16 febbraio 2016
(Relatrice: senatrice FABBRI)
 

Comunicata alla Presidenza il 14 marzo 2016 
 

INDICE
INCHIESTE SU SPECIFICHE VICENDE ATTIVATE E CONCLUSE DALLA COMMISSIONE
Premessa
Alcune riflessioni sugli strumenti utilizzabili dalle Commissioni d’inchiesta e sul principio del cd. doppio binario
Inchieste concluse
1. Inchiesta, attivata ai sensi del combinato disposto dell’articolo 4, comma 1, della delibera istitutiva del 4 dicembre 2013 e dell’articolo 11, comma 2, del regolamento interno, in ordine ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino
2. Inchiesta, attivata ai sensi del combinato disposto dell’articolo 4, comma 1, della delibera istitutiva del 4 dicembre 2013 e dell’articolo 11, comma 2, del regolamento interno, in merito alla morte della bracciante agricola, signora Paola Clemente, avvenuta il 13 luglio 2015 ad Andria
I SOPRALLUOGHI DELLA COMMISSIONE
Sopralluogo a Milano
Sopralluogo ad Alessandria e Casale Monferrato
Sopralluogo a Taranto
L’Assemblea nazionale sull’amianto
Programma delle attività di valutazione delle politiche pubbliche nei settori di competenza della Commissione
Allegato: Audizioni effettuate dalla Commissione

 

INCHIESTE SU SPECIFICHE VICENDE ATTIVATE E CONCLUSE DALLA COMMISSIONE
 

Premessa

La Commissione infortuni ha deliberato in quattro casi l’attivazione di inchieste: in data 3 giugno 2015 l’attivazione di una specifica inchiesta in merito ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino; in data 8 settembre 2015 l’attivazione di una specifica inchiesta in merito alla morte di una bracciante agricola, Paola Clemente, il 13 luglio 2015 ad Andria mentre lavorava all’acinellatura dell’uva; in data 27 luglio 2015 l’attivazione di una specifica in chiesta in merito all’incidente verificatosi il 24 luglio 2015 presso la fabbrica di fuochi d’artificio «Bruscella Fireworks» a Modugno; in data 28 ottobre 2015 infine è stata approvata l’attivazione di una specifica inchiesta sul tema della sicurezza sul lavoro negli impianti di estrazione di idrocarburi, in particolare nella zona dell’Adriatico, la predetta inchiesta è stata ampliata in data 19 gennaio 2016 estendendola anche alle restanti attività estrattive (cave, miniere, eccetera).

Alcune riflessioni sugli strumenti utilizzabili dalle Commissioni d’inchiesta e sul principio del cosiddetto «doppio binario»
In due casi, quindi, la Commissione di inchiesta ha deciso di avvalersi della possibilità di attivare gli strumenti processual-penalistici (ossia sull’incendio di Fiumicino e sul caporalato)
Va precisato, sul piano generale, che nella prassi delle Commissioni di inchiesta si può) riscontrare come in alcuni casi esse rinunzino ad utilizzare i poteri spettanti all’autorità giudiziaria, preferendo avvalersi di poteri informali e non coercitivi nei confronti delle persone coinvolte. Si tratta di un’autolimitazione dei poteri della Commissione rispetto a quanto previsto all’articolo 82 della Costituzione, che è ispirato al principio del parallelismo dell’inchiesta parlamentare con quella giudiziaria (sia pure nella consapevolezza delle diversità di scopi tra tali due ambiti, come ha sottolineato anche la Corte costituzionale, nella sentenza n. 231 del 1975) e che prevede pertanto una sorta di rinvio «recettizio» alla normativa processual-penalistica vigente.
La questione dei confini entro cui le Commissioni possano modulare i propri poteri di inchiesta, attraverso la potestà regolamentare interna, sembra comunque rilevante, atteso che se da un lato l’accrescimento dei poteri oltre la soglia codicistica impatterebbe con l’esigenza di garanzia dei terzi interessati, dall’altro l’autolimitazione dei poteri stessi potrebbe creare risvolti problematici rispetto alle garanzie delle forze politiche di opposizione, suscettibili di essere inficiate da un’inchiesta parlamentare con poteri inquisitori eccessivamente compressi.
Va preliminarmente evidenziato che il minimo comun denominatore di tutte le tipologie di inchieste pubbliche (giudiziarie, parlamentari amministrative) può essere individuato essenzialmente in due elementi di fondo, il primo dei quali è costituito dalla sussistenza di un apparato conoscitivo tecnicamente neutrale, mentre il secondo dalla attuazione coattiva del processo conoscitivo, sia pure con una gradazione diversa della coercitiva stessa, per quel che concerne specificamente l’inchiesta amministrativa.
Nell’ordinamento italiano, il modello di cui all’articolo 82 della Costituzione, che sancisce il parallelismo tra i poteri delle Commissioni d’inchiesta e quelli dell’autorità giudiziaria, riveste un carattere vincolante non solo per le Commissioni istituite con semplice deliberazione, ma anche per quelle di origine legislativa, attesa la funzione di garanzia di tale disciplina sia per i diritti dei singoli che per quelli dell’opposizione.
In altri termini, il principio del parallelismo espleta la propria efficacia vincolante nei confronti del legislatore per quel che concerne l’estensione massima dei poteri della Commissione con rilevanza esterna, lasciando, invece, libero il Parlamento di scegliere, nel concreto espletamento di tali funzioni, le forme più congrue per l’inchiesta stessa.
La Corte costituzionale ha sancito al riguardo il principio del «doppio binario». Nella storica sentenza n. 231 del 1975, partendo dalla diversa connotazione teleologica del potere di inchiesta del Parlamento rispetto a quello spettante all’autorità giudiziaria, è stata invero riconosciuta alla Commissione di inchiesta la facoltà di prescegliere modi di azione «esenti dai formalismi giuridici» (ai quali è, invece, soggetta l’autorità giudiziaria).
Il riconoscimento della possibilità per la Commissione di scegliere anche moduli informali ha legittimato l’uso del potere regolamentare interno da parte delle Commissioni di inchiesta, appunto per pianificare e regolare la «libertà delle forme» e quindi per connotare eventualmente in senso diminutivo i poteri, rispetto al maximum consentito (appunto i poteri dell’autorità giudiziaria).
Nella sentenza n. 231 del 1975, la Corte delinea il diverso profilo teleologico che caratterizza l’inchiesta parlamentare rispetto a quella condotta dall’autorità giudiziaria, evidenziando che il compito delle Commissioni parlamentari di inchiesta non è quello di «giudicare», ma solo di raccogliere elementi e informazioni utili all’esercizio delle funzioni delle Camere. Le relazioni conclusive, approvate dalla Commissione di inchiesta, non producono alcuna modificazione giuridica, come avviene, invece, per gli atti giurisdizionali. In altri termini, l’articolo 82 della Costituzione ha attribuito alla Commissione di inchiesta solo gli stessi poteri istruttori dell’autorità giudiziaria e non, quindi, i poteri inerenti all’attività giudicatrice della stessa.
In tal prospettiva, la diversa configurazione del profilo teleologico si riflette sulla possibile diversità dei mezzi di cui possono avvalersi le Commissioni di inchiesta, rispetto a quelli utilizzati dall’autorità giudiziaria. Chiarisce la Corte costituzionale che la previsione, di cui all’articolo 82 della Costituzione (stessi poteri e stessi limiti), è volta a consentire alle Commissioni di inchiesta di superare, all’occorrenza anche coercitivamente, gli ostacoli nei quali le stesse potrebbero imbattersi nell’esercizio delle proprie funzioni. Tale connotazione coercitiva dei poteri inerenti all’inchiesta parlamentare non esclude la facoltà per le Commissioni di scegliere modalità di azione più duttili ed esenti da formalismi giuridici.
I regolamenti interni delle Commissioni d’inchiesta recepiscono il principio della libertà delle forme, disponendo che esse possano procedere all’acquisizione di documenti, notizie ed informazioni nei modi che ritengano più opportuni, anche mediante indagini conoscitive e libere audizioni. In particolare, viene previsto che l’escussione dei testi possa avvenire, a seconda dei casi, mediante libere audizioni o mediante testimonianze formali.
In effetti, apparirebbe illegittima l’ipotetica esclusione della possibilità di utilizzare, per l’esame dei testimoni, le modalità formali previste dalle norme processualistiche, in alternativa alle modalità informali della libera audizione, con la conseguenza che i testimoni potrebbero rifiutarsi di deporre, senza che la Commissione sia in grado di disporre l’esame formale dei testi e, in caso di persistente rifiuto, di ordinarne l’accompagnamento coattivo.
In tal caso (meramente ipotetico), la preclusione della possibilità di escutere formalmente i testi inciderebbe negativamente sull’efficienza dell’inchiesta, intesa come attitudine della stessa ad accertare oggettivamente determinati fatti. Non a caso, nessun regolamento interno delle Commissioni di inchiesta esclude la possibilità per la Commissione di decidere (in alternativa alle modalità della libera audizione) l’escussione di un teste secondo le modalità processualistiche.
Il regolamento della Commissione d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro precisa inoltre che i magistrati incaricati di procedimenti relativi agli stessi fatti che formano oggetto dell’inchiesta sono sempre sentiti nella forma della «libera audizione». Per quanto possa sembrare scontato che tra l’esercizio della funzione giurisdizionale e l’esercizio dell’inchiesta non vi siano rapporti, tale affermazione è contraddetta dall’esame accurato delle situazioni concrete. Possono, infatti, verificarsi circostanze nelle quali il Parlamento, nell’esercizio dei propri poteri di inchiesta, si trovi ad avere rapporti con magistrati, al fine ad esempio di acquisire dagli stessi notizie in loro possesso. Il principio di divisione dei poteri e l’indipendenza della magistratura sancita dall’articolo 104 della Costituzione si pongono in tal caso come un argine ai poteri istruttori della Commissione di inchiesta, nel senso che la stessa non può) convocare un magistrato come teste per i fatti appresi nell’esercizio delle proprie funzioni e non può, conseguentemente, disporne l’accompagnamento coattivo, nel caso in cui questi si rifiuti di deporre. In particolare, in un caso è stato audito dalla Commissione il dottor Cantelmo, in merito ai profili di tutela della salute e sicurezza sul lavoro connessi all’amianto, inerenti all’ex Isochimica di Avellino.
Per quanto riguarda, invece, l’utilizzo, da parte della Commissione di inchiesta, dello strumento degli accertamenti tecnici non ripetibili (ex articolo 360 del codice di procedura penale), si evidenzia che, nella maggior parte dei casi, i regolamenti interni delle Commissioni stesse non disciplinano espressamente tale attività, a differenza di quanto avviene, invece, per l’esame dei testi.
Relativamente a tali accertamenti, è stato sollevato un conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato - volto a lamentare una presunta interferenza della Commissione stessa nelle attività dell’autorità giudiziaria - sul quale la Corte costituzionale si è pronunciata con sentenza n. 26 del 2008. In particolare, nel caso di specie, la «Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Roma ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin», relativamente ad una decisione assunta dalla predetta Commissione, volta a procedere autonomamente ad accertamenti tecnici sulla vettura sulla quale viaggiava Ilaria Alpi al momento della sua uccisione, con esclusione della possibilità di analogo intervento da parte dell’autorità giudiziaria.
La Procura lamentava che la predetta decisione della Commissione di inchiesta è suscettibile di impedire all’autorità giudiziaria l’esercizio dell’attività di indagine, volta a «raccogliere tutti gli elementi necessari ai fini delle proprie determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione penale», con palese violazione del principio della obbligatorietà dell’azione penale, «sancito dall’articolo 112 della Costituzione, oltre che di quelli di indipendenza ed autonomia della magistratura (ex artt. 101, 104, e 107 Cost.)». Il conflitto di attribuzione in questione ruotava intorno alla valutazione se quegli accertamenti, effettuati sulla vettura sopracitata, dovessero essere sottoposti ad uno svolgimento almeno congiunto, come richiesto dalla procura di Roma.
A fronte di tali argomentazioni la Camera dei deputati ha rilevato che gli atti compiuti da una Commissione di inchiesta sono «perfettamente utilizzabili dall’Autorità giudiziaria», e ciò in conseguenza del pieno «parallelismo tra i poteri e le limitazioni» che entrambe incontrano nell’esercizio delle rispettive funzioni. Osserva, inoltre, che nel caso di specie la Commissione «non solo non ha opposto ostacoli» alla trasmissione alla Procura delle risultanze dell’indagine peritale espletata, «ma ha messo a disposizione della ricorrente la stessa vettura sulla quale gli accertamenti erano stati eseguiti».
Contrariamente a quanto sostenuto dalla Procura, la Camera dei de-putati esclude che il principio di leale collaborazione potesse essere osservato solo con la rinuncia della Commissione a procedere autonomamente, ben potendo essere seguite altre strade, esse pure capaci di salvaguardare le prerogative di entrambi i poteri a confronto.
La Corte costituzionale nella predetta sentenza ha chiarito che la Commissione di inchiesta - «certamente legittimata a disporre lo svolgimento di accertamenti tecnici non ripetibili, potendo nell’espletamento delle indagini e degli esami ad essa demandati esercitare gli stessi poteri dell’autorità giudiziaria»- avrebbe dovuto, però, «salvaguardare le prerogative della ricorrente autorità giudiziaria, anch’essa titolare di un parallelo potere d’investigazione, costituzionalmente rilevante». La Corte sottolinea la diversità degli scopi dei poteri d’indagine spettanti, rispettivamente, alle Commissioni parlamentari d’inchiesta ed agli organi della magistratura requirente, «che impone di ritenere che l’esercizio degli uni non possa mai avvenire a danno degli altri (e viceversa)», evidenziando che «il normale corso della giustizia non può essere paralizzato a mera discrezione degli organi parlamentari, potendo e dovendo arrestarsi unicamente nel momento in cui l’esercizio di questa verrebbe illegittimamente ad incidere su fatti soggettivamente ed oggettivamente ad essa sottratti e in ordine ai quali sia stata ritenuta la competenza degli organi parlamentari». La Corte conclude, evidenziando la necessita di uno svolgimento congiunto dell’accertamento tecnico irripetibile in questione.
Al di là del caso degli accertamenti tecnici non ripetibili, la Commissione infortuni ha operato sempre ispirandosi al principio di leale collabo-razione col potere giudiziario, sancito dalla Consulta.
Nel concreto espletamento dei poteri inquisitori, un’altra questione che si pone è quella inerente all’utilizzo della polizia giudiziaria (per lo svolgimento, ad esempio, di ispezioni, perquisizioni o sequestri), la quale, per espressa previsione costituzionale, è assoggettata funzionalmente alla disponibilità diretta dell’autorità giudiziaria (articolo 109 della Costituzione).
La dottrina si è interrogata sul rapporto intercorrente tra il richiamo per relationem ai poteri dell’autorità giudiziaria, di cui all’articolo 82 della Costituzione e la disposizione contenuta all’articolo 109 della Costituzione.
Secondo alcuni, l’articolo 109 della Costituzione si connoterebbe come un limite del potere di inchiesta delle Camere, attesa la valenza inalienabile di tale potere, riconosciuto alla magistratura. Di conseguenza, seguendo tale impostazione dottrinaria, qualora la Commissione di inchiesta intenda procedere ad un’ispezione, ad una perquisizione o ad un sequestro, dovrebbe rivolgersi all’autorità giudiziaria, chiedendo alla stessa di dare disposizioni volte a consentire l’utilizzo della polizia giudiziaria.
Secondo altra dottrina, il potere di disporre direttamente della polizia giudiziaria, riconosciuto alla magistratura dall’articolo 109 della Costituzione, rientra tra i poteri attribuiti per relationem (ex articolo 82 della Costituzione) alla Commissione di inchiesta, ravvisandosi un rapporto di integrazione tra le due norme costituzionali in questione.
In realtà, la dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dalla magistratura non può trasmettersi, ex articolo 82 della Costituzione, alla Commissione di inchiesta, atteso anche il carattere di lex specialis dell’articolo 109 rispetto all’articolo 82 della Costituzione. Tuttavia, va anche rilevato che a fronte di una richiesta della Commissione di inchiesta, rivolta all’autorità giudiziaria, finalizzata ad ottenere la disponibilità della polizia giudiziaria per l’espletamento di una determinata attività, la procura non potrebbe rigettare l’istanza senza giustificato motivo, atteso il principio di leale collaborazione tra i poteri, richiamato dalla Corte costituzionale in relazione allo specifico rapporto tra inchiesta giudiziaria e inchiesta parlamentare.
Nel caso della Commissione infortuni il nodo problematico in questione è stato superato all’origine, in quanto la Commissione dispone attualmente della collaborazione di due ufficiali di polizia giudiziaria, dei quali può) avvalersi per l’espletamento dei propri compiti.

INCHIESTE CONCLUSE

1. Inchiesta, attivata ai sensi del combinato disposto dell’articolo 4, comma 1, della delibera istitutiva del 4 dicembre 2013 e dell’articolo 11, comma 2, del regolamento interno, in ordine ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino
In data 3 giugno 2015 la Presidente ha sottoposto alla Commissione la proposta di deliberare, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 11, comma 2 e dell’articolo 15, comma 1 del Regolamento interno della Commissione, l’attivazione di una specifica inchiesta, in merito ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino.
In merito al predetto evento la Commissione potrà avvalersi, oltre che degli strumenti «parlamentari» (previsti dal combinato disposto dell’articolo 16, comma 1 del regolamento interno della Commissione, e dell’articolo 48 del regolamento del Senato) anche dei poteri dell’autorità giudiziaria, ai sensi dell’articolo 82 della Costituzione, nonché dell’articolo 4, comma 1, della delibera istitutiva del 4 dicembre 2013.
Di volta in volta la Presidente potrà valutare i moduli procedurali più efficaci per l’accertamento dei fatti, adottando l’atto che apparirà più appropriato per le finalità investigative (ad esempio, ispezione, perquisizione, sequestro, assunzione di informazioni ai sensi dell’articolo 362 del codice di procedura penale, eccetera) e avvalendosi quindi, se del caso, anche dei mezzi previsti dal codice di procedura penale (taluni dei quali sono richiamati anche dal regolamento interno della Commissione agli articoli 15, comma 1, secondo periodo, 16, comma 2, 17 e 18). Ha avvertito, quindi, che dopo il dibattito avrebbe posto ai voti, ai sensi dell’articolo 11, comma 2 del regolamento interno della Commissione, la proposta di attivare una specifica inchiesta in merito ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino, nei termini sin qui illustrati, e di dare altresì mandato alla Presidente di adottare di volta in volta l’atto che apparirà pili appropriato per le finalità investigative (ad esempio ispezione, perquisizione, sequestro, assunzione di informazioni ai sensi dell’articolo 362 del codice di procedura penale, eccetera). Ha fatto infine presente che l’audizione dei rappresentanti di Aeroporti di Roma S.p.A. (ADR), effettuata il 19 maggio 2015, non è risultata soddisfacente per le risposte fornite dagli auditi, che su taluni profili hanno assunto un atteggiamento evasivo. Peraltro, non si comprende come in pochi minuti si sia potuto sviluppare un incendio di così ampie dimensioni. Tali circostanze saranno oggetto di verifica da parte della Commissione.
Ha fatto poi presente che nella giornata del 4 giugno 2015 una delegazione della Commissione, composta dalla Presidente e dai senatori Borioli e Pelino, avrebbe effettuato un sopralluogo a Fiumicino, sopralluogo poi avvenuto in data 4 giugno 2015.
La Presidente quindi, previa verifica del numero legale, ha posto ai voti, ai sensi dell’articolo 11, comma 2 del Regolamento interno della Commissione, la proposta di attivare una specifica inchiesta in merito ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino, nei termini sin qui illustrati, e di dare altresì mandato alla Presidente di adottare di volta in volta l’atto che apparirà pili appropriato per le finalità investigative (ad esempio ispezione, perquisizione, sequestro, assunzione di informazioni ai sensi dell’articolo 362 del codice di procedura penale, eccetera). La Commissione ha approvato all’unanimità l’attivazione dell’in-chiesta.
In data 19 gennaio 2016 la Commissione ha approvato, con modificazioni, all’unanimità la proposta di relazione conclusiva dell’inchiesta - presentata nella seduta del 12 gennaio 2016 - in merito ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino.

Relazione definitiva circa l’inchiesta in merito all’incendio verificatosi presso l’aeroporto di Fiumicino il 6-7 maggio 2015

Onorevoli Senatori,
la presente relazione integra quella intermedia approvata dalla Commissione in data 27 luglio 2015 circa l’accertamento dei fatti, delle cause, delle conseguenze per la salute dei lavoratori e dei profili di sicurezza del lavoro emersi a seguito dell’incendio verificatosi presso il terminal T3 dell’aeroporto di Roma Fiumicino Leonardo Da Vinci nella notte tra il 6 e 7 maggio 2015.

1. Gli atti dell’inchiesta
La Commissione ha proceduto alle audizioni dei rappresentanti della società ADR (concessionaria del sistema aeroportuale della capitale), dei rappresentanti della ATI Gruppo ECF impianti tecnologici e costruzioni Spa - NA.GEST Global Service (appaltatrice della manutenzione dell’impianto di condizionamento presso l’aeroporto), dei rappresentanti sindacali di CGIL, CISL, UIL, CUB trasporti, USB, della dottoressa Musmeci (responsabile del dipartimento ambiente dell’Istituto Superiore di Sanita- ISS), del dottor Vito Riggio (presidente ENAC), del sindaco di Fiumicino Esterino Montino, del Comandante provinciale dei vigili del fuoco ingegner Marco Ghimenti, del responsabile distaccamento dei vigili del fuoco di Fiumicino ingegner Antonio Perazzolo, della dottoressa Proietti e del dottor Chinni dell’ASL Roma D, nonché ad effettuare un sopralluogo presso lo stesso aeroporto in data 4 giugno 2015.
Si è proceduto ad acquisire una serie di atti e documenti dalle società ADR, ADR Engineering, ADR Security, dall’ASL Roma D, dai vigili del fuoco, dall’ISS, dall’ATI Gruppo ECF Spa - NA.GEST Global Service nonché dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Civitavecchia. Dal presidente dell’ENAC è stata prodotta anche la relazione informativa per il consiglio di amministrazione dell’ENAC depositata in esito all’audizione del 7 luglio 2015. Sono stati inoltre acquisiti documenti comunemente reperibili presso siti internet della società ADR e di altri enti privati e pubblici interessati o banche dati pubbliche (ad es. visure camerali).

2. La dinamica dei fatti
In esito dell’audizione dei funzionari dei vigili del fuoco e dei dirigenti dell’ASL Roma D la Commissione aveva ritenuto esaustiva la ricostruzione dei fatti (fedelmente ai propri compiti istituzionali e comunque riservando all’autorità giudiziaria procedente l’accertamento delle singole responsabilità penali) che qui viene sostanzialmente riproposta, ampliata e precisata per le considerazioni finali riassuntive.
All’aeroporto di Roma Leonardo Da Vinci di Fiumicino, all’interno del piccolo vano tecnico E09, di circa 2,50 mq., contenente impianti elettronici (rack di trasmissione dati e telefonia) presso il terminal T3 al piano -1, dalla A.T.I. (ECF-Na.Gest.) - appaltatrice dei lavori di manutenzione degli impianti - mediante ricorso ad un subappalto alla Johnson Control era stato collocato un condizionatore mobile per il raffreddamento dell’aria in sostituzione di altro sistema permanente (fan-coil) disattivato in ragione dei lavori eseguiti in locali adiacenti. Il vano - cui si accedeva soltanto su autorizzazione di ADR o della Polizia di frontiera - era senza ricambio di aria e dotato di una sonda di rilevamento della temperatura ambientale volto a segnalare al centro di controllo ADR il superamento della temperatura (26°-27,5°).
In particolare il 23 gennaio 2015 la Direzione infrastrutture Property e Aree commerciali di ADR, richiedeva ai diversi appaltatori urgentemente di «scollegare/sezionare gli impianti meccanici di condizionamento e di estrazione aria» nel terminal T3; veniva quindi scollegato il fan-coil (si veda comunicazione del 27 gennaio 2015).
Nei mesi successivi (13 aprile e 15 aprile 2015) v’erano segnalazioni di preallarme per temperature superiori alla norma (26°) rilevate anche all’interno del locale E09; successivamente (18 aprile, 21 aprile e 22 aprile 2015) vi erano varie segnalazioni di allarme per temperature superiori (da 27,5° a 30,1°). Seguivano interventi di verifica seguiti dall’installazione di un condizionatore portatile denominato «pinguino».
Si è trattata di una scelta incauta richiesta da ADR, atteso che anche dopo tale istallazione si sono verificati nuovi preallarmi, a dimostrazione della scarsa attenzione anche tecnica con cui si era adottato un rimedio all’interruzione del fan-coil.
L’azienda preposta alla manutenzione si limitava a ripristinare il condizionatore mobile e quindi a reiterare le condizioni che già avevano portato non al raffreddamento ma addirittura al surriscaldamento del locale. Infatti ciò portava a un circuito chiuso di aria fredda-calda sempre all’interno dello stesso locale. Ancora poche ore prima dell’incendio veniva segnalato dai tecnici operativi della manutenzione di ADR con mail del 6 maggio 2015 alle ore 21.11 (tomadr.it) che il «pinguino... spesso si ferma per allarme. La temperatura media è di 28°-30° necessita condizionare il locale», e si evidenzia «che molti tecnici della ditta Ciotola non sono abilitati per accedere ai locali tecnici necessita sollecitare chi di competenza».
Tale chiara segnalazione è indicativa della piena consapevolezza da parte di ADR (quale committente) e dell’A.T.I. ECF-NA.GEST (quale appaltatrice) del rischio di surriscaldamento e dell’inutilità o addirittura pericolosità diretta dell’installazione del «pinguino».
Non segue nelle ore successive alcun intervento nel locale tecnico E09. Ciò dimostra l’incapacità di gestire il rischio (ormai diventato pericolo e imminente danno) con operatività preventiva tra committente e appaltatore. Dalla ricostruzione dei vigili del fuoco emerge che il condizionatore, surriscaldando ulteriormente la temperatura nel locale, chiuso da una porta, innescava la fiamma che trovava rapido sviluppo.
Infatti intorno alla mezzanotte tra il 6 e 7 maggio 2015, dal collegamento tra il condizionatore e la rete elettrica si sviluppava una fiamma con conseguente fuoriuscita di fumo che veniva registrata dalla telecamera di sorveglianza installata all’interno del locale e avvertita dall’esterno del vano da operatori dei vicini esercizi commerciali.
Alle ore 23.59 il fumo invadeva il locale E09 e lo saturava in pochissimi secondi. Nel bar «Gustavo» adiacente al locale E09 veniva notato denso fumo nero fuoriuscire da una griglia dell’impianto di aerazione situata dietro un frigorifero, che di lì a poco esplodeva.
Un primo intervento di contrasto con estintori avveniva da parte di due agenti della Polizia di Stato i cui uffici erano a breve distanza dal luogo delle prime fiamme. Si tratta di un primo intervento urgente, particolarmente coraggioso ma improvvisato e avulso da qualsiasi procedura sistematica di emergenza antincendio.
La segnalazione dell’incendio, quindi, giungeva dalla Polizia di frontiera alla sala operativa dei vigili del fuoco alle ore 00.05 del 7 maggio 2015, ed era attivata la procedura prevista dal «manuale verde» alle ore 00.07. Il primo intervento dei vigili del fuoco avveniva alle ore 00.12.
Si è trattato di ben sette minuti dalla segnalazione della Polizia, e non dalla diffusione di fumo che era stato avvertito evidentemente prima; minuti di certo rilevanti per lo sviluppo dell’incendio, quando un intervento diretto e immediato di addetti alla lotta antincendio avrebbe potuto impedire che la fiamma si propagasse.
Non sono emerse al riguardo misure o procedure di inibizione dello sviluppo di fiamma.
Si badi che le tecniche di ingegneria antincendio attribuiscono pacificamente alla prima segnalazione di surriscaldamento e/o di fumo il valore non soltanto di allarme ma soprattutto una determinante efficacia preventiva dell’ulteriore propagazione e sviluppo del calore in fiamma e, quindi, in fuoco e incendio, atteso che i rilevatori antincendio consentono di allarmare e quindi di intervenire per soffocare qualsiasi fiamma prima che si propaghi.
Alle ore 00.02 del 7 maggio 2015 infatti divampavano le fiamme nel locale e le prime squadre dei vigili del fuoco intervenivano sul posto alle 00.12.
L’accesso dei vigili del fuoco inizialmente avveniva lato landside (dove entrano i passeggeri). Verificato tuttavia che l’area dove si era sviluppato l’incendio verteva lato airside (area sterile oltrefrontiera) e, data la difficoltà di individuare e raggiungere il punto di origine dell’incendio, le operazioni di spegnimento iniziavano con un ritardo di circa 35-40 minuti.
La prima squadra dei vigili del fuoco tentava inutilmente da più accessi di penetrare verso la zona da cui originava il fumo (ballatoio, area transiti, corridoio retrostante i negozi) e quindi doveva adottare una strategia di intervento alternativa sostanzialmente per l’impossibilita di accesso alle scale esterne lato airside. Soltanto alle ore 00.40 le squadre accedevano iniziando lo spegnimento dell’incendio.
Tali operazioni sono state ulteriormente ostacolate dal ritardo nello spegnimento dell’impianto di condizionamento, che ha consentito che l’ossigeno continuasse ad alimentare il rogo.
Quindi riguardo la prevenzione e protezione antincendio è possibile evidenziare due segmenti temporali e logistici che hanno avuto un ruolo determinante nello sviluppo dell’incendio:
1) il primo di almeno sette minuti intercorrente tra lo sviluppo della fiamma e l’intervento della squadra dei vigili del fuoco durante i quali soltanto i due agenti della Polizia di Stato tentavano invano di fronteggiare il fuoco con gli estintori disponibili e di far evacuare i lavoratori e i passeggeri presenti.
2) il secondo di altri 33 minuti dalla richiesta di intervento (circa 40 dall’inizio della fiamma) in cui i vigili del fuoco non riuscivano ad iniziare l’opera di spegnimento perché non potevano entrare e avvicinarsi al luogo teatro dell’incendio.
Si deve notare che per quasi 40 minuti la veloce propagazione dell’incendio per centinaia di metri (il fuoco procedeva alla velocità di dieci metri a minuto) coinvolgeva buona parte del terminal T3, non trovava nessun ostacolo e nessuna forma di efficace contrasto per la sostanziale inesistenza di misure effettive, idonee e proporzionate al volume di fuoco e per l’impossibilita di accesso da parte delle squadre dei vigili del fuoco.
Alle ore 4.40 veniva sospeso il servizio Leonardo Express che collega la stazione Termini a Fiumicino, dove altresì arrivavano treni vuoti per l’evacuazione dello scalo aeroportuale.
Alle 5.36 la Polizia stradale chiudeva le principali strade verso l’aeroporto di Fiumicino per isolare lo scalo e farvi accedere soltanto i mezzi di soccorso (si tratta della Roma-Fiumicino, in direzione aeroporto, e dello svincolo G.R.A. Roma-Civitavecchia).
Nonostante l’intervento di numerose squadre di vigili del fuoco da diversi distaccamenti, il fronte delle fiamme veniva fermato alle ore 5.50 e l’incendio veniva posto sotto controllo alle ore 6.30. Quindi in quasi sei ore le fiamme divoravano la struttura aeroportuale del terminal T3.
Il completo spegnimento di ogni focolaio avveniva alle ore 10.00 circa del 7 maggio. Alle ore 10.10 l’ANAS riapriva le principali vie di comunicazione da e per l’aeroporto, ma il traffico restava congestionato.
Si noti che durante e subito dopo l’evento incendiario si imponeva la chiusura delle autostrade serventi l’aeroporto e la sospensione del traffico aereo fino alle ore 14 del 7 maggio 2015 che nelle settimane successive subirà una drastica riduzione del 40-50 per cento.
Nella giornata del 7 maggio la società ADR, che gestisce in concessione l’aeroporto di Fiumicino, incaricava la multinazionale Belfor, specializzata in recovery disaster, della messa in sicurezza e della bonifica del terminal T3.

3. L’ambiente di lavoro dopo l’incendio
La società ADR subito dopo l’evento incaricava - oltre la società Belfor specializzata in gravi emergenze - la società HSI Consulting per i rilievi ambientali sulla qualità dell’aria.
La società ADR si assumeva il coordinamento delle operazioni di recupero e bonifica della vasta area coinvolta dall’incendio. Nel corso dell’audizione del dottor Mangano, quale responsabile delle risorse umane di ADR, emerge che tale coordinamento sarebbe stato assunto volontariamente da ADR senza alcuna norma che ne imponesse il relativo obbligo. Si tratta di una considerazione errata atteso che ADR prima e dopo l’incendio avrebbe dovuto coordinare tutti i datori di lavoro presenti e non soltanto ai fini dell’emergenza e del post-emergenza in una struttura che ospita 42 milioni di utenti all’anno, circa 40.000 lavoratori a turno, con oltre 130 datori di lavoro compresenti.
La principale questione che ha impedito il pieno ripristino dell’attività aeroportuale nelle settimane successive è stata costituita non tanto dalla ricostruzione del terminal T3 - che a seguito dei gravi danni necessitava di interventi strutturali da realizzare nel tempo - ma soprattutto dalle condizioni di salubrità dell’aria nelle zone contigue tra cui il molo D a seguito della combustione dei materiali.
Al riguardo dalle audizioni e dalla lettura del corposo carteggio tra i vari enti coinvolti (ARPA, ISS, ASL, ENAC, ADR) emerge un’uniformità dei dati rilevati nel monitoraggio dalla società HSI Consulting, dall’ARPA e dall’ISS ma con una diversa considerazione circa i valori di tollerabilità in un ambiente di lavoro per molte sostanze nocive per la salute (ad esempio toluene, diossina, eccetera) prodottesi a causa dell’incendio.
Da un lato, emergeva una diversa valutazione dei risultati delle analisi ambientali dell’aria circa la considerazione dei limiti di esposizione professionale (sostenuti da ENAC e ADR) ritenuti «inappropriati per ambienti indoor professionali non industriali, ai quali sono ascrivibili gli ambienti di lavoro aeroportuali» (così nella comunicazione dell’ASL Roma D del 20 giugno 2015). Il tema su cui si è dibattuto - attorno ai provvedimenti cautelari reali - verte sul parametro di riferimento per garantire la salute dei lavoratori e di tutte le persone presenti sul luogo di lavoro, sul contesto di riferimento (ambiente industriale o ambiente indoor professionale) e sull’autorità sanitaria cui attingere (OMS o ACGHI).
Al riguardo si legga l’accordo tra Ministero della salute, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano del 27 settembre 2001 (Linee-guida per la tutela e la promozione della salute negli ambienti confinati), la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano approva il documento sulla qualità dell’aria.
Al punto 1) si prevede che per ambiente indoor si devono intendere tutti i luoghi confinati «di vita e di lavoro non industriali...ed in particolare quelli adibiti a dimora, svago, lavoro e trasporto» e comprende tra gli altri «le strutture comunitarie...ed infine i mezzi di trasporto pubblici e/o privati (auto, treno, aereo, nave eccetera)». Di talché non vi possono essere dubbi che l’aeroporto sia da qualificare quale ambiente indoor con la conseguente considerazione di valori più restrittivi. Ciò anche perché «i livelli di concentrazione che gli inquinanti raggiungono all’interno degli edifici generalmente sono uguali o superiori a quelli dell’aria esterna e soprattutto le esposizioni "indoor" sono maggiori di quelle "outdoor", principalmente perché la quantità di tempo trascorso dalle persone all’interno degli edifici, rispetto a quello trascorso all’esterno, e di un ordine di grandezza maggiore» (si veda l’accordo citato, punto 2).
Sul punto si evidenzi comunque che in qualsiasi ambiente di lavoro non è il parametro di riferimento a rendere lecita un’attività ma «l’eliminazione dei rischi e, ove ciò non sia possibile, la loro riduzione al minimo in relazione alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico» e «la sostituzione di ciò che è pericoloso con ciò che non lo è, o è meno pericoloso» (articolo 15, comma 1, lettere c) e f), del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, noto anche come «testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro»).
Sulla base dei dati raccolti prima dall’ARPA e poi elaborati dall’ISS, quindi, l’autorità giudiziaria di Civitavecchia procedeva al sequestro del molo D interessato dalla presenza di sostanze nocive è occupato da attività lavorative. Una volta rientrati i valori entro i limiti indicati dall’ISS, il molo D è stato dissequestrato.

4. Le cause dell’incendio
Dagli elementi acquisiti durante l’inchiesta emergono una serie di cause tecniche, procedurali e organizzative dell’incendio, una serie di comportamenti attivi e omissivi che hanno contribuito eziologicamente all’evento nonché l’inesistenza e/o l’inefficienza delle misure di prevenzione e protezione antincendio.
Tra le cause tecniche si possono determinare:
1) il collocamento dell’impianto manuale di raffreddamento all’interno di un vano chiuso, non aerato, che portava a un ricircolo interno, a un surriscaldamento e alla fiamma lungo il contatto elettrico;
2) la scelta di tale collocamento in sostituzione di altro sistema disattivato per via dei lavori edili in corso in modo improvvisato o sprovveduto senza alcuna verifica tecnica;
3) l’omessa valutazione del rischio incendio in relazione all’impianto improvvisato e al contesto di collocamento (vedi i materiali presenti, le condizioni dei controsoffitti, il contiguo esercizio commerciale di bar dove v’erano altre fonti di rischio o possibili concause, ad esempio frigoriferi alimentati a gas);
4) il mancato spegnimento dell’impianto di condizionamento che continuava ad emanare aria quando invece le procedure antincendio impongono di soffocare e non di alimentare l’areazione;
5) l’inutilità del rilevamento antincendio se non seguito da un intervento operativo di verifica. Sorprende al riguardo che le procedure non prevedessero un intervento al primo ma soltanto ai successivi allarmi.
Tra le cause procedurali e/o organizzative si possono determinare:
1) l’omessa valutazione del rischio incendio effettiva, completa, esauriente, organica, sistematica e soprattutto concreta in relazione alla complessità della struttura.
Si noti innanzi tutto che tale valutazione per un luogo di lavoro con circa 40.000 lavoratori per turno, facenti capo a circa 130 diversi datori di lavoro, in presenza di 42 milioni all’anno di passeggeri, non è soltanto una ricognizione dell’entità del rischio, delle misure preventive e protettive adottate e da adottare ma anche «l’individuazione delle procedure per l’attuazione delle misure da realizzare nonché dei ruoli dell’organizzazione aziendale che vi debbono provvedere, a cui devono essere assegnati unicamente soggetti in possesso di adeguate competenze e poteri» (articolo 28, comma 2, lettera d), del citato decreto legislativo n. 81 del 2008).
Quindi in relazione alla complessità della struttura e a tutte le persone presenti, a tutta l’attività svolta in quel luogo, una concreta ed esauriente valutazione del rischio non poteva essere la mera sommatoria delle valutazioni del rischio di oltre 130 diversi luoghi di lavoro ma doveva prevedere e attuare un’unica procedura di sicurezza, per l’intera struttura, promossa e coordinata dal datore di lavoro che ospita gli altri datori.
Nel caso specifico, ADR avrebbe dovuto adottare una politica aziendale sulla sicurezza comprensiva di tutti gli aspetti e le interferenze riguardanti anche le attività lavorative esercitate dagli altri datori di lavoro, sia quale committente (ex articolo 26 del decreto legislativo n. 81 del 2008 o per i cantieri, qual è considerata l’attività affidata in appalto all’A.T.I. ECF-NA.GEST. ex articoli 88 e seguenti del decreto legislativo n. 81 del 2008), sia quale soggetto tenuto a garantire «la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o pubblici uffici» ex articolo 18, comma 3, del citato decreto legislativo n. 81 del 2008 (in aeroporto sono presenti diversi uffici pubblici: Forze di polizia, Agenzia delle dogane, servizi sanitari, eccetera), sia infine quale concedente in uso dei locali in cui si svolgono attività commerciali o servizi vari ex articolo 23 del citato decreto legislativo n. 81 del 2008.
2) L’assenza e insufficienza del coordinamento e della cooperazione previsti dal titolo IV del decreto legislativo n. 81 del 2008.
Atteso che l’appalto affidato all’A.T.I. (ECF-NA.GEST.) rientra nel campo di applicazione del citato titolo IV del decreto legislativo n. 81 del 2008 in materia di cantieri temporanei e mobili (così ha previsto anche ADR), a prescindere dalla considerazione se l’installazione del «pinguino» rientrasse o meno nell’oggetto dell’appalto, si noti che l’adozione di tale apparecchiatura (da diverse settimane durante cui c’erano stati diversi preallarmi, allarmi e richieste di interventi) non era stata prevista dal piano operativo di sicurezza (POS) o dal piano di sicurezza e di coordinamento (PSC) e soprattutto non è stata oggetto di alcun intervento da parte del coordinatore per la sicurezza e progettazione (CSP) e dal coordinatore per l’esecuzione (CSE).
Quest’ultimo soggetto nominato dal committente ADR in base all’articolo 92 del decreto legislativo n. 81 del 2008 avrebbe dovuto:
a) verificare «con opportune azioni di coordinamento e controllo, l’applicazione da parte delle imprese esecutrici...delle disposizioni loro pertinenti...e la corretta applicazione delle procedure» (lettera a);
b) verificare «l’idoneità del piano operativo di sicurezza...» e adeguare tale piano «in relazione all’evoluzione di lavori ed alle eventuali modifiche intervenute» (lettera b);
c) soprattutto contestare all’impresa esecutrice le violazioni in materia di sicurezza segnalandole al committente ADR e proponendo l’allontanamento dell’impresa, la sospensione dei lavori o infine la risoluzione del contratto di appalto.
Nulla di tutto questo risulta osservato. E si ricordi che in base all’articolo 93, comma 2, del citato decreto legislativo n. 81 del 2008 «la designazione del coordinatore per la progettazione e del coordinatore per l’esecuzione dei lavori, non esonera il committente o il responsabile dei lavori dalle responsabilità connesse alla verifica dell’adempimento degli obblighi» di cui, anche, all’articolo 92 del citato decreto legislativo n. 81 del 2008.
ADR era ben a conoscenza del pericolo di incendio (come dimostrano le mail e le richieste di intervento inviate fino a poche ore prima dell’incendio) ma non risulta che abbia rilevato alcunché sull’operato del CSE.
Non risulta condivisibile in proposito la tesi consegnata a questa Commissione nella nota inviata dall’A.T.I. ECF-NA.GEST. laddove si esclude la necessita che il pericolo indotto dall’uso del condizionatore mobile dovesse essere oggetto della valutazione dei rischi interferenziali (cosiddetto DUVRI).
Invero si consideri che laddove si applica il titolo IV del decreto legislativo n. 81 del 2008 (norma speciale) in base al principio di specialità (ribadito dall’articolo 298) non si applica l’articolo 26 del medesimo decreto legislativo (norma generale): non perché l’interferenza dei rischi non rileva ma perché viene valutata specificamente nell’ambito del POS e del PSC, con relative responsabilità da parte di committente, responsabile dei lavori, coordinatori, imprese esecutrici e affidatarie. Si leggano gli articoli 96, comma 2, (PSC e POS «costituiscono adempimento» agli articoli 17, 26 e 29) e 89, comma 1, lettera h) del citato decreto legislativo n. 81 del 2008.
A nulla rileva a cosa fosse adibito il locale tecnico e se fosse ad accesso riservato perché comunque apparteneva al luogo di lavoro e comportava un rischio per le persone, l’attività, le strutture (come i fatti purtroppo hanno dimostrato).
3) Il documento di valutazione del rischio di ADR spa e delle altre società collegate ADR Engineering e ADR Security, almeno sotto il profilo antincendio, presenta una visione riduttiva, parcellizzata, astratta.
Tale documento si limita sostanzialmente a descrivere un assetto normativo e a rinviare la soluzione di un evento incendiario all’attivazione di un allarme verso la centrale operativa, non tenendo conto di aspetti formativi, informativi, organizzativi, logistici, emergenziali, sanitari, psicologici, ergonomici tipici di una struttura complessa in cui quotidianamente sono presenti oltre 120.000 lavoratori e almeno altrettanti passeggeri o utenti.
Ciò a dispetto dell’articolo 18, comma 1, lettera t) del decreto legislativo n. 81 del 2008 che per le misure antincendio da adottare impone l’adeguatezza «alla natura dell’attività, alle dimensioni dell’azienda ...e al numero delle persone presenti». Si badi: non lavoratori o dipendenti ma «persone presenti», quindi anche i lavoratori di altri datori e i passeggeri.
La medesima disposizione rinvia all’articolo 43, comma 1, del decreto legislativo n. 81 del 2008 laddove alla lettera e) impone al datore di lavoro di adottare provvedimenti «necessari affinché qualsiasi lavoratore [quindi anche quello non proprio dipendente], in casi di pericolo grave ed immediato per la propria sicurezza o per quella di altre persone [ad esempio i passeggeri] e nell’impossibilita di contattare il competente superiore gerarchico, possa prendere le misure adeguate per evitare le conseguenze di tale pericolo...».
4) L’assenza di squadre antincendio, di soggetti addetti all’emergenza/evacuazione effettivamente operativi sul luogo dell’incendio e quindi l’assenza di monitoraggio su tale personale nei primi momenti dell’evento.
Si noti che per i primi quaranta minuti circa - un tempo lunghissimo che favoriva la propagazione delle fiamme - il contrasto antincendio era autogestito da due agenti di polizia maneggiando gli estintori disponibili e l’evacuazione era improvvisata poiché affidata all’istinto di fuga dei presenti. Da nessuna audizione o documento è emerso l’intervento di lavoratori addetti alla lotta antincendio, all’evacuazione in caso di pericolo, al salvataggio, alla gestione dell’emergenza ai sensi dei citati articoli 43, comma 1, lettera b) e 18, comma 1, lettera b), del più volte citato decreto legislativo n. 81 del 2008.
Invero anche i vigili del fuoco nelle prescrizioni ex decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758 dispongono di «organizzare squadre dedicate di addetti antincendio, in possesso di attestato di idoneità tecnica ...che devono poter svolgere attività di sorveglianza e controllo dell’efficienza dei presidi e sistemi di protezione attivi e passivi» (punto 3 della comunicazione del Comando provinciale vigili del fuoco di Roma inviata ad ADR in data 11 giugno 2015, in cui si riassumono le prescrizioni).
5) L’assenza di una regia unica del primo intervento e dell’evacuazione.
Come osservato nel corso del sopralluogo eseguito dalla Commissione, nel lungo tratto interessato dall’incendio erano normalmente presenti decine di esercizi commerciali, con relativi addetti, nonché passeggeri in proporzione elevatissima rispetto ai dipendenti ADR. Sicché; lo studio, la predisposizione, l’addestramento e l’esecuzione del primo intervento antincendio non poteva essere affidata all’iniziativa autogestita, autonoma di ciascun datore di lavoro esercente l’attività nel luogo concessogli ma doveva essere curata dalla regia di ADR quale ente gestore di tutto l’aeroporto.
6) L’impossibilita di accesso immediato da parte dei vigili del fuoco al luogo dell’incendio.
I vigili del fuoco impiegavano circa quaranta minuti dalla chiamata all’inizio dello spegnimento nonostante fossero sul luogo dopo pochi minuti. Sono tempi di intervento incompatibili con la più grande struttura aeroportuale italiana che stabilmente ha al suo interno una quota di vigili del fuoco: è di tutta evidenza la mancata organizzazione dei «necessari rapporti con i servizi pubblici competenti in materia di primo soccorso, salvataggio, lotta antincendio e gestione dell’emergenza» come preteso dall’articolo 43, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 81 del 2008.
7) L’assenza di valutazione dell’interferenza dell’emergenza con i servizi pubblici, le vie di comunicazione autostradali e ferroviarie funzionali all’aeroporto.
L’entità dell’incendio comportava ingentissimi danni sia nelle prime ore (la chiusura dell’aeroporto, delle autostrade, dei collegamenti ferroviari, il dirottamento del traffico aereo su altri scali) sia nelle settimane successive (la sospensione del traffico aereo nella misura del 4050 per cento, in parte annullato e/o dirottato su Ciampino, che a sua volta rimaneva congestionato).
Si tratta di un ulteriore gravissimo danno che ha concretizzato il pericolo («proprietà o qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni», articolo 2, comma 1, lettera r) del decreto legislativo n. 81 del 2008 e il rischio («proprietà di raggiungimento del livello potenziale di danno...», articolo 2, comma 1, lettera s) del decreto legislativo n. 81 del 2008, che avrebbe dovuto costituire oggetto della valutazione del rischio, delle misure di protezione attuate e delle procedure di sicurezza da adottare ai sensi dell’articolo 28, comma 2, lettere b) e d) del decreto legislativo n. 81 del 2009.

5. L’organizzazione della sicurezza all’interno dell’aeroporto Leonardo Da Vinci
Le peculiarità dell’aeroporto di Fiumicino avrebbero dovuto comportare una diversa organizzazione in materia di sicurezza.
In particolare si consideri che:
a) trattasi del più grande aeroporto italiano con oltre 100 compagnie aeree, decine di milioni di passeggeri all’anno, decine di migliaia di lavoratori per ogni turno di lavoro; quindi il più grande luogo di lavoro del Lazio;
b) L’aeroporto di Fiumicino costituisce un obiettivo sensibile per atti dolosi, non dimentichi degli episodi che lo videro teatro di due gravissimi attentati terroristici di matrice araba; di conseguenza i piani di emergenza devono essere commisurati alle caratteristiche del luogo a prescindere dalle ipotetiche cause;
c) all’interno dell’aeroporto è presente un numero altissimo di lavoratori pubblici e privati, facenti capo ad oltre 130 diversi datori di lavoro che non hanno di regola nessun rapporto tra loro, ma che operano nello stesso luogo e devono condividere le medesime procedure di sicurezza sia per la prevenzione sia per la protezione;
d) vi sono esercitate stabilmente centinaia di attività, eterogenee, pubbliche e private, commerciali e non, di servizio (sanità, logistica, trasporti ferroviari e su gomma) che rendono l’aeroporto un luogo vastissimo e complesso in cui sono presenti le maggiori sinergie di rischio.
Pertanto in una struttura così complessa sia la prevenzione (si pensi alla formazione-informazione-addestramento sull’emergenza di tutti i lavoratori) sia la protezione (adozione e attuazione di un piano di emergenza e di evacuazione, il sistema antincendio, il collegamento con i servizi pubblici) non potevano gestirsi con criteri di mera osservanza burocratica della normativa di sicurezza.
È fondamentale per chi gestisce un aeroporto il governo reale della sicurezza di tutto il luogo attraverso un effettivo coordinamento e cooperazione tra tutti i datori di lavoro compresenti. Ciò in primo luogo per i lavori in appalto o comunque concessi a ditte esterne ex articolo 26 del decreto legislativo n. 81 del 2008 o in base agli articoli 88 e seguenti del medesimo decreto legislativo (se trattasi di cantiere temporaneo o mobile, come nel caso concreto).
Al riguardo la A.T.I. (mandataria Gruppo EFC Spa è mandante NA.- GEST. Global Service Srl) è titolare di un contratto stipulato il 14 febbraio 2014 per la manutenzione, gestione, conduzione di «tutti gli impianti di condizionamento» (capitolato speciale d’appalto, allegato A1) ma dall’oggetto contrattuale sono esclusi gli «impianti e quadri elettrici di centrale o di piano, a monte del quadro a bordo macchina/attrezzatura» (articolo 4).
Di talché il collocamento dell’impianto mobile di raffreddamento rappresenta una decisione che doveva assumersi in esito ad una valutazione del rischio interferenziale (nel PSC e nel POS), con un’opera di coordinamento (dell’appaltatore e del subappaltatore) da parte di ADR spa nonché dopo la verifica anche da parte della citata A.T.I. della sicurezza dell’apparecchiatura installata (che si rivelerà alla base dell’incipit dell’incendio).
Inoltre, ma ancor prima delle singole disposizioni statali, non si poteva trascurare il principio generale - presente in tutte le direttive comunitarie poste a base della normativa in materia di sicurezza del lavoro - che affida indefettibilmente al dominus di un’organizzazione complessa la regia responsabile di tutti gli altri datori di lavoro.

6. La responsabilità dell’ente (decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231)
Tale principio trova fondamento nella nostra legislazione nell'applicazione della responsabilità degli enti per i reati di lesioni gravi o gravissime e di omicidio colposo secondo il decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231.
Con la legge 3 agosto 2007, n. 123, e poi con il citato decreto legislativo n. 81 del 2008 si chiede agli organi apicali degli enti che vogliono evitare tale responsabilità di attuare efficacemente un modello di organizzazione e di gestione espressione di «una politica aziendale per la salute e sicurezza» (articolo 2, comma 1, lettera dd) del citato decreto legislativo n. 81 del 2008).
Al riguardo possono porsi alcune considerazioni:
1) la prima, in concreto, riguarda la lettura del modello adottato da ADR spa per l’aeroporto di Fiumicino laddove v’è una mera descrizione di misure astratte se non la ripetizione di dati normativi (pag. 9 e parte speciale C), senza evidenziare quali siano gli interventi effettivi per la gestione di un sistema di messa in sicurezza in caso di incendio o altra emergenza al fine di impedire i reati di lesioni o omicidio;
2) ADR è concessionaria dall’ENAC fino al 30 giugno 2044 della gestione dell'intero «sistema aeroportuale della capitale» (Fiumicino e Ciampino) ai sensi della legge 10 novembre 1973, n. 755, e dell’articolo 17, comma 34-bis, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, e del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 21 dicembre 2012, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 301 del 28 dicembre 2012, ed ha come scopo sociale anche la gestione unitaria di tale sistema aeroportuale nonché la progettazione e costruzione delle infrastrutture, le opere di ammodernamento, le manutenzioni, innovazioni, completamenti ed ampliamenti di tale sistema e la gestione dei servizi aeroportuali anche mediante appalti o subconcessioni;
3) ADR è controllata da Atlantia spa che esercita su ADR poteri di direzione e di coordinamento ex articoli 2497 e seguenti del codice civile; ADR a sua volta controlla ed esercita i medesimi poteri su altre società (come ad esempio ADR security srl, Airport Cleaning srl eccetera);
4) ADR ha adottato il codice etico del gruppo Atlantia spa;
5) il modello di organizzazione e di gestione ruota attorno anche al sistema di deleghe e procure (richiamato a pag 13 del M.O.G.).
Di talché si può osservare che il modello di organizzazione e gestione dell’aeroporto di Fiumicino, almeno sotto il profilo della sicurezza, nell’ambito di tutto il gruppo Atlantia, non soltanto per ADR spa, avrebbe potuto avere un’effettiva idoneità a prevenire reati contro la persona in materia di sicurezza del lavoro, se le generiche disposizioni avessero avuto un’efficace attuazione. È compito dell’autorità Giudiziaria procedente accertare se vi sono gli estremi di tale responsabilità di ADR spa e della capogruppo controllante Atlantia spa in ordine ai reati di lesioni almeno gravi cagionate ai lavoratori.
Sul piano normativo si deve rilevare, però, che la responsabilità degli enti è prevista in materia di sicurezza del lavoro soltanto per i reati di lesioni (gravi o gravissime) e di omicidio e non per altri reati quali ad esempio l’incendio, il disastro innominato, l’omissione di cautele antinfortunistiche, eccetera.
Nel caso degli eventi oggetto dell’inchiesta, quindi, la responsabilità de qua si potrà applicare per i reati di lesioni che saranno accertati ma paradossalmente non per il reato di incendio che invece - come insegna il caso di Fiumicino - appare direttamente riconducibile a fattori organizzativi e gestionali della sicurezza.
Si tratta di una lacuna normativa che dovrà essere colmata dal legislatore anche al fine di evitare un’irragionevole e quindi incostituzionale disparita di trattamento tra reati meno gravi (che danno luogo alla responsabilità dell’ente) e reati pili gravi (che invece non danno luogo a tale responsabilità).

7. La normativa antincendio per gli aeroporti
In ordine agli eventi de quibus occorre soffermarsi sull’applicabilità agli aeroporti della normativa antincendio sulla base del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 1° agosto 2011, n. 151, i cui termini di adeguamento sono stati prorogati da ultimo dal decreto-legge 31 dicembre 2014, n. 192, convertito, con modificazioni, dalla legge 27 febbraio 2015, n. 11, al 7 ottobre 2016. Si tratta di termini imminenti, se si considerano gli adempienti necessari, è già oggetto di proroghe.
Il decreto del Ministro dell’interno 17 luglio 2014, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 173 del 28 luglio 2014, prevede la normativa tecnica di prevenzione incendi per le aerostazioni con superficie aperta al pubblico superiore a 5000 mq, come appunto l’aeroporto Leonardo Da Vinci di Fiumicino.
In proposito si deve evidenziare che in data 11 settembre 2014 ADR spa presentava istanza di valutazione del progetto relativo al terminal T3 ottenendo «parere favorevole ma con prescrizioni» da parte del Comando provinciale dei vigili del fuoco di Roma.
Si noti che dopo l’incendio i vigili del fuoco in data 11 maggio 2015 rilevano che «lo stato dei luoghi rappresentato nella documentazione tecnica allegata all’istanza non corrisponde fedelmente a quello in essere al momento dell’evento, trattandosi di un progetto di ristrutturazione ed adeguamento».

8. I vigili del fuoco quale organo di vigilanza
Di certo a seguito dell’incendio e specificamente del sopralluogo del 7 maggio 2015 del Comando provinciale dei vigili del fuoco di Roma emerge che «l’attuale sistemazione dell’attività non è integralmente conforme alle norme applicabili di prevenzione incendi», tant’è che «per le suddette difformità alle norme di sicurezza, relative anche al decreto legislativo n. 81 del 2008, sono state adottate le procedure di legge in vigore elevando verbali ai sensi del decreto legislativo 19 dicembre 1994, n. 758 ai contravventori individuati».
Si tratta in effetti di prescrizioni che evidenziano numerose violazioni alla normativa di sicurezza antincendio (con conseguente fissazione di perentorie nuove condizioni di esercizio) che se fosse stata osservata avrebbe potuto evitare lo sviluppo devastante dell’incendio: sala di controllo con sistema di video sorveglianza, in grado di fornire un collegamento video con la zona da cui perviene la segnalazione, squadre di addetti antincendio con capacita di intervento e assistenza in caso di emergenza, separazione compartimentazione delle zone in disuso, sistema automatico di rilevazione incendi anche nei vani nascosti, efficienza e illuminazione dell’impianto di sicurezza, rimozione dei materiali combustibili anche nelle controsoffittature, delocalizzazione e razionalizzazione dei locali tecnici, piano di emergenza ed evacuazione, eccetera.
La lettura di tali prescrizioni suggerisce alcune considerazioni sui controlli effettuati prima dell’incendio da parte dei vigili del fuoco.
Infatti le violazioni riscontrate dai vigili del fuoco in materia antincendio dopo l’evento del 6-7 maggio 2015, attengono a requisiti di sicurezza che avrebbero potuto essere rilevati anche prima e che attenevano alla stessa struttura e organizzazione dell’aeroporto. Se «lo stato dei luoghi rappresentato nella documentazione tecnica allegata all’istanza non corrisponde fedelmente a quello in essere al momento dell’evento, trattandosi di un progetto di ristrutturazione ed adeguamento» e se «l’attuale sistemazione dell’attività non è integralmente conforme alle norme applicabili di prevenzione incendi», è legittimo interrogarsi se e quali siano stati i controlli da parte dei vigili del fuoco competenti territorialmente su Fiumicino. Tale interrogativo pretende una risposta sulla diligenza, attenzione, frequenza con cui è stato esercitato il potere-dovere di vigilanza antincendio.
Occorre in proposito porre due considerazioni:
1) innanzi tutto si deve evidenziare che nelle more del termine di adeguamento previsto dalla normativa speciale antincendio per gli aeroporti vigono le norme generali in subiecta materia previste dal testo unico in materia di salute e sicurezza sul lavoro e specificamente dagli articoli 43 e seguenti, di talché - lungi dal legittimare un atteggiamento attendista - le proroghe della normativa speciale non intendono eludere ma anzi presuppongono l’immediata operatività della normativa ordinaria, altrimenti si dovrebbe giungere alla conclusione paradossale che proprio in strutture così complesse non si avrebbe alcuna prevenzione antincendio. Non v’è quindi un vuoto normativo;
2) l'attenzione della Commissione dovrebbe volgersi quindi su quali siano state le misure alternative equivalenti effettivamente applicate all'interno degli altri aeroporti italiani e specificamente quali siano stati i controlli effettuati dai vigili del fuoco su tali siti. Infatti la complessità degli interventi da eseguire sul piano strutturale non esclude - anzi impone - l'adozione di misure alternative sul piano logistico, organizzativo, procedurale, formativo, informativo, eccetera, purché equivalenti per la tutela delle persone, dei beni e dell'ambiente.

9. Gli interventi strutturali e il ruolo dell’ENAC
Atteso che alcune misure in materia antincendio da adottare entro i prossimi mesi, o quelle che avrebbero già dovuto essere adottate, possono richiedere anche interventi sulle strutture aeroportuali, è bene evidenziare che l’ENAC si pone quale ente concedente rispetto alla società ADR e alle altre società gerenti aeroporti, le quali a loro volta da concessionari diventano subconcedenti o committenti (nel caso di appalti) rispetto a luoghi, spazi, attività, servizi svolti nell’area aeroportuale.
Il rapporto di concessione in uso è considerato dalla normativa antinfortunistica (già dall’articolo 6 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e ora dall’articolo 23 del decreto legislativo n. 81 del 2008 che sanziona penalmente la concessione in uso di impianti non corrispondenti alle norme ordinarie e regolamentari in materia di salute e sicurezza del lavoro. Di talché si consente a qualsiasi concedente il trasferimento di un impianto - quale deve essere considerato di certo una struttura organizzata complessa - soltanto se a norma.
Tale disposizione pone in questa sede il tema del mancato esonero di responsabilità per ENAC quale concedente e ADR Spa quale subconcedente.
Non si trascuri peraltro che un contratto avente per oggetto una con-cessione di un impianto non a norma, sarebbe comunque contrario a norme imperative, con conseguenze sul piano della validità contrattuale.

10. Gli interventi dell’ASL Roma D
Dopo l’evento incendiario sono state emesse una serie di prescrizioni dall’ASL Roma D nell’ambito di propria competenza.
La lettura di tali atti di polizia giudiziaria, acquisiti dalla Commissione il 22 luglio 2015, deve raffrontarsi con una serie di altri documenti anche prodotti dalle società ed enti operanti nello scalo (documento di valutazione del rischio con le varie integrazioni successive all’incendio, piano di emergenza, modello di organizzazione e gestione ai sensi del decreto legislativo n. 231 del 2001, ordini di servizio, provvedimenti del medico competente, la formazione e informazione di lavoratori presenti, il sistema di deleghe da parte dei datori di lavoro, il sistema della sicurezza negli appalti edili e non edili nel cui ambito si è verificato l’incendio con relativa redazione del DUVRI o nomina del CSE, eccetera).
Sembrano opportune una serie di riflessioni su quali siano stati i controlli e la prevenzione in materia antincendio precedentemente ai fatti del 7 maggio 2015.
Per quanto concerne l’operato dell’organo di vigilanza successivo al 7 maggio 2015 si deve rilevare che sorprende la tardività dell’intervento dell’ASL.
Non si può) non registrare con allarme che al riguardo la dottoressa Proietti, responsabile del servizio di vigilanza sui luoghi di lavoro, è stata colpita da un provvedimento disciplinare di sospensione dal servizio per due mesi cui ha fatto seguito il pensionamento su domanda della stessa.
Ferma restando l’autonomia del giudizio disciplinare, è evidente che anche per il personale dell’ASL Roma D - addirittura anche dopo l’evento - v’è stata una grave sottovalutazione del tema della sicurezza di un luogo di lavoro qual è l’aeroporto di Fiumicino.
A ciò si aggiunga l’episodio per cui il dottor Chinni, direttore dell’U.O.C. RMQS, partecipava alla riunione del 17 maggio 2015 tenutasi presso ADR in cui egli manifestava impropriamente una sorta di parere favorevole alla riapertura del molo D, atto per il quale egli risulta indagato dalla procura della Repubblica di Civitavecchia per il reato ex articolo 323 del codice penale.

Conclusioni
In breve la vicenda dell’incendio di Fiumicino, sul piano della sicurezza del lavoro indica che:
1) anche una minima superficialità - quale può essere il collocamento improvvido di un impianto mobile di refrigerazione - può causare danni ingentissimi a persone, cose, aziende e all’intero Paese, enormi costi economici per il sistema pubblico, gravi disagi per la popolazione, perdita di immagine (nelle settimane in cui l’Italia guadagnava una visibilità mondiale per l’apertura di Expo 2015 di alcuni giorni prima), danni per i passeggeri, e non ultimo il danno per la salute di centinaia di lavoratori. Superficialità che dagli elementi emersi nell’inchiesta pare essere stata in pili di un passaggio evidenziata dai diversi soggetti, in primis ADR ed ENAC, ma anche da vigili del fuoco e ASL, preposti per competenza a prevenire il verificarsi di eventi quale quello accaduto oppure, nell’eventualità del loro accadimento, a contenere gli effetti negativi;
2) le grandi strutture o le organizzazioni complesse che coinvolgono più datori di lavoro e utenti non lavoratori devono avere una regia responsabile di promozione e coordinamento in capo a chi ha la gestione della stessa ed è auspicabile in questo senso che gli strumenti normativi e regolamentari, specifici del settore aeroportuale, disciplinino meglio ed esplicitamente questa condizione;
3) la normativa antincendio specifica - per ora prorogata - presuppone l’operatività attuale delle norme antincendio generali;
4) la responsabilità degli enti ex decreto legislativo n. 231 del 2001 non si applica all’incendio e ad altri reati tipici dell’ambiente di lavoro costituendo un vuoto normativo che deve essere colmato dal legislatore, eliminando ogni possibile divergenza interpretativa delle norme, che può) ingenerare, come in questo caso pare essere avvenuto, confusioni, ritardi e inadeguatezze nelle fasi successive al verificarsi dell’evento;
5) sussiste la necessita di monitorare quanto l’evento abbia determinato conseguenze in tema di mantenimento dei livelli occupazionali nonché della salute e della sicurezza di tutti i soggetti coinvolti, in particolare di quanti sono stati presumibilmente esposti alle intossicazioni nel periodo successivo all’incendio.

2. Inchiesta, attivata ai sensi del combinato disposto dell’articolo 4, comma 1, della delibera istitutiva del 4 dicembre 2013 e dell’articolo 11, comma 2, del regolamento interno, in merito alla morte della bracciante agricola, signora Paola Clemente, avvenuta il 13 luglio 2015 ad Andria
In data 8 settembre 2015, la Presidente ha sottoposto alla Commissione la proposta di deliberare, ai sensi del combinato disposto dell’articolo 11, comma 2 e dell’articolo 15, comma 1 del regolamento interno della Commissione, l’attivazione di una specifica inchiesta, in merito alla morte di una bracciante agricola, Paola Clemente, il 13 luglio 2015 ad Andria mentre lavorava all’acinellatura dell’uva.
In merito al predetto evento la Commissione potrà avvalersi, oltre che degli strumenti «parlamentari» (previsti dal combinato disposto dell’articolo 16, comma 1 del regolamento interno della Commissione, e dell’articolo 48 del Regolamento del Senato) anche dei poteri dell’autorità giudiziaria, ai sensi dell’articolo 82 della Costituzione, nonché dell’articolo 4, comma 1, della delibera istitutiva del 4 dicembre 2013.
Di volta in volta la Presidente potrà valutare i moduli procedurali più efficaci per l’accertamento dei fatti, adottando l’atto che apparirà più appropriato per le finalità investigative (ad esempio, ispezione, perquisizione, sequestro, assunzione di informazioni ai sensi dell’articolo 362 del codice di procedura penale, eccetera) e avvalendosi quindi, se del caso, anche dei mezzi previsti dal codice di procedura penale (taluni dei quali sono richiamati anche dal regolamento interno della Commissione agli articoli 15, comma 1, secondo periodo, 16, comma 2, 17 e 18) e comunicando le opzioni scelte di volta in volta alla Commissione, per le opportune valutazioni.
Ha posto quindi ai voti, ai sensi dell’articolo 11, comma 2 del regolamento interno della Commissione, la proposta di attivazione di una specifica inchiesta in merito alla morte di una bracciante agricola, Paola Clemente, il 13 luglio 2015 ad Andria, nei termini sin qui illustrati.
La Commissione ha approvato all’unanimità la predetta proposta.
In data 16 dicembre 2015 la Commissione ha approvato, con modificazioni, la proposta di relazione conclusiva dell’inchiesta - presentata nella seduta del 15 dicembre 2015 - in merito alla morte di una bracciante agricola, Paola Clemente, il 13 luglio 2015 ad Andria.

Relazione relativa all’indagine, attivata l’8 settembre 2015 dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali del Senato, in merito al decesso della signora Paola Clemente, il 13 luglio 2015 in Andria (BA)

Il decesso di Paola Clemente

A seguito delle notizie di cronaca riguardante il decesso della signora Paola Clemente nel corso dell’attività lavorativa presso un’azienda agricola in Andria, in circostanze collegate allo svolgimento della prestazione di lavoratrice in somministrazione, emerse alcune settimane dopo il decesso per l’interessamento del signor Giuseppe Deleonardis (sindacalista Flai-Cgil), questa Commissione in data 8 settembre 2015 deliberava di avviare un’inchiesta.
Sono stati acquisiti vari documenti e auditi: il segretario generale della Flai Cgil di Puglia, Giuseppe Deleonardis; il rappresentante legale della società Grassi Viaggi, Ciro Grassi, indagato per omicidio colposo e omissione di soccorso; il dipendente dell’azienda Grassi è autista del pullman su cui viaggiava la signora Clemente il giorno del decesso, Salvatore Filippo Zurlo, indagato per omicidio colposo e omissione di soccorso; il proprietario della azienda Ortofrutta Meridionale Srl di Corato, Luigi Terrone; il vicepresidente dell’agenzia del lavoro Quanta Italia S.p.a. Vincenzo Mattina, presso cui la signora Clemente aveva precedentemente lavorato; i rappresentati della agenzia del lavoro Inforgroup S.p.a. presso cui era dipendente la signora Clemente al momento della morte, ovvero la dottoressa Francesca Migliavacca (consigliere della società con delega per la gestione delle risorse umane) e dottor Michele Malerba (dipendente della società con mandato per la gestione delle relazioni istituzionali); il direttore della agenzia della Inforgroup S.p.a. di Noicattaro, dottor Pietro Bello.
La signora Clemente, bracciante agricola da circa trenta anni, al momento del decesso era impiegata nella attività di acinellatura presso l’azienda agricola Terrone Srl presso contrada Zagaria, comune di Andria, per mezzo di un contratto di somministrazione di lavoro firmato con l’agenzia del lavoro Inforgroup, che provvedeva anche alla sua retribuzione. L’azienda agricola ha riferito, nel corso delle audizioni, che era la prima volta che sottoscriveva un contratto di somministrazione con una agenzia per il lavoro.
Per quanto riguarda proprio il tema della remunerazione, hanno destato l’attenzione mediatica e attivato la conseguente polemica pubblica proprio le buste paga della stessa signora Clemente, in particolare riferibili al periodo in cui si era affidata alla agenzia del lavoro Quanta Italia S.p.a, a causa dell’importo netto eccessivamente basso come remunerazione del suo impegno bracciantile, prassi consolidata. Dal punto di vista contrattuale non può) essere omesso che i contratti nel settore vengono regolati a livello provinciale, cosiddetta «paga di piazza»: fattore, questo, che spiega lo svilupparsi di una sorta di «pendolarismo» della manodopera e che merita attenzione poiché rende ancora pii! pesanti le condizioni dei lavoratori.
Dalla ricostruzione avanzata alla stampa dal marito, signor Arcuri Stefano, e dalle audizioni svolte presso la stessa Commissione, si individua nelle 3.10 circa del mattino l’orario in cui la signora Clemente veniva prelevata da San Giorgio Jonico, insieme ad altre colleghe, per essere accompagnata sul posto di lavoro con il pullman di proprietà del signor Grassi Ciro, indicato nella querela presentata dal marito della signora Clemente alla procura della Repubblica presso il tribunale di Trani come «colui che coordinava il viaggio ad Andria e che la moglie conosceva», come riferisce in una intervista l’avvocato della famiglia Clemente, Vito Miccolis.
La signora Clemente dunque raggiungeva il posto di lavoro intorno alle ore 5.30, come affermato dal marito e dagli auditi, dopo aver percorso un viaggio di circa 150 km. Quella stessa mattina - come ricostruiscono alcune colleghe della signora e conferma anche il signor Salvatore Filippo Zurlo, che guidava il pullman su cui viaggiavano le lavoratrici - la signora Clemente comincia a presentare, durante il viaggio da San Giorgio ad Andria, una abbondantissima e anomala sudorazione. Sebbene l’autorità giudiziaria accerterà i profili medico-legali del decesso, tenuto anche conto che la denuncia è stata presentata dopo varie settimane dalla tumulazione, allo stato degli atti in possesso di questa Commissione, come afferma il marito della signora Clemente nella sua denuncia, la stessa sembra non soffrisse di alcuna patologia né quella mattina sembra abbia accennato ad alcuna forma di disturbo. Sempre il marito sostiene di non aver mai ricevuto né un referto né un documento relativo al soccorso prestato alla moglie, mentre l’autopsia del corpo, riesumata la salma, viene effettuata soltanto in agosto, ad oltre un mese di distanza dal decesso e dopo la presentazione della querela presso l’autorità giudiziaria.
Dalla considerazione che il procedimento penale sia stato avviato su denuncia del marito si deve evidenziare che nonostante il decesso avvenuto sul luogo di lavoro sembra non vi sia stato referto medico all’autorità giudiziaria rilevante ex articolo 365 del codice penale.
Peraltro non si deve trascurare quanto riferisce il sindacalista Deleonardis circa le resistenze e i timori della stessa famiglia della vittima a denunciarne la morte: indice di un clima di assoggettamento, di paura, di bisogno che travalica la legittima domanda di giustizia e di ricerca della verità.
Dalle audizioni - anche di soggetti che riferiscono de relato - si desume che durante il viaggio e dopo l’arrivo del pullman presso l’azienda agricola Ortofrutta Meridionale, la signora Clemente avverte dei disturbi, ma viene avviata comunque sul campo di lavoro per l’acinellatura dei grappoli di uva. Verso le ore 7.30 circa avverte un malore che costringe i presenti ad un primo intervento, improvvisato da una collega che aveva qualche piccola competenza in materia di soccorso, ma di certo non incaricata dall’azienda di occuparsi del primo soccorso. Viene chiamato il servizio pubblico di soccorso e viene intercettata una pattuglia dei carabinieri di cui uno prova ad effettuare un massaggio cardiaco, senza esito positivo. All’arrivo di una prima ambulanza si constata l’insufficienza delle attrezzature e si attende l’arrivo di una seconda ambulanza. Sicché si constaterà il decesso. Casualmente sul posto si trovava anche il signor Grassi che - riferisce lui stesso «casualmente»- avvertito del malore della signora Clemente, ancora prima di avvisare i suoi familiari, chiamava il signor Bello, direttore della agenzia Inforgroup S.p.a. di Noicattaro, precedentemente impiegato presso la Quanta S.p.a e conoscente della signora Clemente.
È evidente l’assenza (o peggio, l’improvvisazione) di qualsiasi misura di primo soccorso, di collegamento con il pronto intervento, di misure di protezione da attivare per il pericolo grave di vita che si profilava per il malore della lavoratrice.
Sempre il marito racconta alla stampa, come confermato anche nel corso delle audizioni, di aver ricevuto una telefonata da parte del signor Grassi in cui gli veniva comunicato che la moglie si era sentita male e stava arrivando a soccorrerla il 118. Lo stesso marito, saputa la notizia, si mette subito in viaggio per Andria insieme ai figli, avendo intuito la gravita della situazione.
Le notizie però sulla dinamica dei soccorsi e sulla condizione della moglie gli risultano molto frammentarie: al marito della donna viene riferita la presenza della moglie presso l’ospedale di Barletta, poi di Andria. Arrivato presso Andria, il marito, come raccontato alla stampa, riferisce di aver cercato la moglie dai reparti alla camera mortuaria, avendo ormai compreso il verificarsi della morte della stessa. Soltanto dopo l’ennesima telefonata al numero dal quale era stato contatto, ovvero quello dal quale era stato chiamato dal signor Grassi, gli viene fornita la notizia che la moglie si trovava presso la camera mortuaria del cimitero di Andria.
La dinamica dei fatti è caratterizzata quindi dalle condizioni di lavoro in cui la lavoratrice, dopo un viaggio di circa due ore, in capo alla ditta Grassi, organizzato nell’ambito del rapporto di somministrazione tra la Inforgroup, l’azienda Ortofrutta Meridionale, e decine di lavoratrici tra cui la signora Clemente, sulla base di una sorveglianza sanitaria espressa probabilmente nel possesso di un certificato medico per la visita preventiva. Non emerge alcuna vera formazione, informazione, addestramento delle lavoratrici né una reale presenza di misure di protezione e di primo soccorso.

Intermediazione e Sicurezza del lavoro
La vicenda di cui è stata vittima la signora Paola Clemente è paradigmatica di un nuovo e diverso atteggiarsi di intermediazione illecita nel rapporto di lavoro.
Si possono delineare due distinti piani:
1) il primo costituito dal tradizionale «caporalato» in cui la figura centrale del mediatore di lavoro approfitta del bisogno (occasione, trasporto, paga) lucrando tra domanda e offerta di lavoro bracciantile o comunque di manodopera, in un contesto di assoluta irregolarità e quindi di totale assenza di sicurezza;
2) il secondo invece ha caratteristiche nuove, non meno allarmanti, si insinua tra le pieghe del contratto di somministrazione determinandone l’uso distorsivo o di altri più recenti tipi contrattuali, genera dalla presenza sul territorio di personaggi che hanno facilita se non addirittura esclusività di contatti con i lavoratori in cerca di lavori occasionali, precari, stagionali.

Il caporalato tradizionale
Per «caporalato» si intende un’espressione criminale, spesso collegata ad organizzazioni, diretta allo sfruttamento della manodopera con metodi illegali, di tradizione ottocentesca.
Questa pratica sorge dall’incontro illegale tra le esigenze del committente, che riceve un servizio a costi più bassi, e quelle del caporale, che trae profitto dall’attività di intermediazione e dalla complessiva irregolarità.
L’agricoltura, dove v’è necessita di far fronte alla stagionalità delle colture che richiedono la concentrazione di operai per periodi brevi, e l'edilizia sono i settori più recettivi.
I caporali quasi sempre reclutano la manodopera in punti di raccolta predeterminati e si occupano dell'accompagnamento presso i luoghi di lavoro; il pagamento di regola si limita alla giornata, sottraendo da quanto corrisposto dal committente una quota. Ciò genera un rapporto di forza e una soggezione del lavoratore che è ben consapevole dell’obbedienza e silenzio che deve al caporale salvo perdere a fine giornata l’occasione di lavoro. Non di rado si offrono anche soluzioni abitative e vitto.
Le vittime di tale sistema sono i prestatori d’opera che accettano per bisogno: vale a dire gli extracomunitari, soprattutto se privi di permesso di soggiorno (appare improbabile che uno straniero clandestino denunci la propria condizione), giovani in cerca di piccoli arrotondamenti e le donne, preferite alla manodopera maschile in base a talune lavorazioni. La cronaca non fa mancare notizie legate anche ad abusi sessuali.
Le aziende che fanno ricorso ai lavoratori stagionali, esterni all’azienda e necessari solo per alcuni giorni, sono diffuse in tutte le regioni, sia nelle province ad alta vocazione agricola sia nelle periferie metropolitane per l’edilizia o per i trasporti, il facchinaggio, i lavori di manutenzione, tanto da poter definire un vero e proprio «caporalato urbano». Con tale reclutamento si realizza un abbattimento dei costi e quindi una scorretta concorrenza tra le imprese.
Il rapporto con i caporali per gli imprenditori è risolutivo di gran parte dei problemi: reclutamento dei braccianti, anche in poche ore, nessun adempimento burocratico, rapporto di lavoro non dichiarato, costi della manodopera che risultano dimezzati, nessun sindacato e soprattutto nessun costo e onere per la sicurezza.
Del resto spesso i lavoratori così arruolati vengono portati in luoghi di lavoro in cui devono operare senza conoscere chi sia il vero titolare dell’attività, avendo rapporti soltanto con i soggetti preposti a sovraintendere all’attività lavorativa.
I meccanismi di monitoraggio e controllo previsti dall’ordinamento risultano poco efficaci in quanto necessitano di massivi interventi sul territorio con una visione complessiva di vari fattori criminogeni: immigrazione, sicurezza del lavoro, ordine pubblico, territorio, crimine organizzato, eccetera. I soggetti incaricati dell’attività di vigilanza sono diversi (Ministero del lavoro e delle politiche sociali, Guardia di finanza, Carabinieri, Polizia di Stato) e risulta pertanto necessaria un’attività di coordinamento.

Strumenti di contrasto
L’articolo 12 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 settembre 2011, n. 148, ha introdotto l’articolo 603-bis del codice penale il quale prevede il delitto di «intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro», punito con la reclusione da cinque a otto anni e con una multa da 1000 a 2000 euro «per ciascun lavoratore reclutato».
L’articolo 603-bis del codice penale, salvo che il fatto costituisca pili grave reato, punisce «chiunque svolga una attività organizzata di intermediazione reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessita dei lavoratori.»
Si incrimina quindi una attività organizzata di intermediazione caratterizzata dallo sfruttamento dei lavoratori mediante violenza, minaccia o intimidazione; non basta un isolato episodio di sfruttamento posto in essere senza un minimo di organizzazione. Problematica appare l’individuazione della nozione di intermediazione che si realizza «reclutando manodopera» o «organizzandone l’attività lavorativa».
Questa disposizione finisce così con il punire solo l’intermediario e non l’imprenditore utilizzatore della manodopera. Viene infatti circoscritto l’ambito soggettivo di applicazione della nuova incriminazione a colui che non può) essere identificato con l’utilizzatore finale del lavoro e cioè alla sola figura del «caporale», salvo ipotesi concorsuali.
Si tratta di elementi strutturali che non hanno esplicato alcun effetto deterrente del caporalato tradizionale, come dimostra lo scarsissimo numero di processi che si sono sin qui celebrati.
In breve: difficoltà nell’accertamento processuale del reato, scarse investigazioni, assenza di coordinamento tra le Forze dell’ordine in territori spesso controllati da una criminalità comunque strutturata nel tessuto economico, mancata collaborazione dei lavoratori, in presenza del dilagare delittuoso, costituiscono elementi che depongono a favore di una revisione del quadro normativo per contrastare il caporalato.

Gli interventi normativi
In tal senso rilevano gli interventi normativi in itinere.
Il primo ordine di interventi è collocato nella revisione del codice antimafia laddove vengono introdotte tre diverse misure:
1) la confisca obbligatoria delle cose pertinenti al reato, del profitto, prezzo, prodotto del reato di cui all’articolo 603-bis del codice penale, oppure confisca per equivalente;
2) la confisca del patrimonio ai sensi dell’articolo 12-sexies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992 n. 356;
3) la responsabilità amministrativa degli enti da reato anche per il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro di cui all’articolo 603-bis del codice penale.
A tali ipotesi si accompagnano le modifiche proposte dal disegno di legge governativo (atto Senato n. 2217) che - oltre le novità ora citate - intende introdurre anche:
1) una circostanza attenuante per i collaboratori di giustizia;
2) l’arresto obbligatorio in flagranza;
3) modiche al fondo per le misure antitratta;
4) modifiche in tema di rete del lavoro agricolo di qualità (decreto- legge 24 giugno 2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 116);
5) accoglienza per i lavoratori agricoli stagionali.
In verità si possono ipotizzare una serie di altre misure dissuasive che rendano meno appetibile per il datore di lavoro avvalersi del mercato nero dei lavoratori e incentivino l’assunzione di manodopera regolare: ad esempio, accanto alla pena dell’esclusione da agevolazioni, finanziamenti e sovvenzioni pubbliche, appare opportuna la previsione della revoca delle somme eventualmente percepite nelle more dello svolgimento dell’attività delittuosa; parimenti efficace potrebbe essere la previsione della possibilità di recedere unilateralmente per la pubblica amministrazione dai contratti stipulati con soggetti condannati in via definitiva per il delitto di caporalato.
Appare appropriato ampliare il numero delle pene accessorie stabilite, prevedendo la sanzione della decadenza dall’ufficio ricoperto presso la persona giuridica o l’impresa e la pubblicazione della sentenza penale di condanna.

Contratto di somministrazione e sicurezza del lavoro
Sotto il secondo profilo riguardante, invece, nuove forme di approfittamento nell’intermediazione di manodopera, rileva l’uso del contratto di somministrazione.
Fino a non molti anni addietro esisteva un sostanziale monopolio pubblico sul mercato del lavoro, cui conseguiva il divieto di ogni forma di intermediazione e di somministrazione di manodopera (cosiddetto «pseudo-appalto» di manodopera), la cui violazione integrava i reati previsti dapprima dall’articolo 27 della legge 29 aprile 1949, n. 264, e successivamente dagli articoli 1 e 2 della legge 23 ottobre 1960, n. 1369.
A partire dalla seconda metà degli anni Novanta tale assetto è stato progressivamente modificato dall’introduzione del lavoro somministrato ad opera della legge 24 giugno 1997, n. 276, e, successivamente, dal più generale riordino della disciplina del mercato del lavoro da parte del decreto legislativo 10 settembre 2003, n. 276, (cosiddetta «legge Biagi») che, in particolare, ha superato il monopolio pubblico consentendo tra l’altro l’intermediazione nella prestazione di lavoro e la somministrazione di manodopera, seppure nell’ambito di regole ben definite.
Gli articoli 1 e 2 della legge n. 1369 del 1960 che già vietavano e punivano l’intermediazione di manodopera, sono stati abrogati e sostituiti dalla legge Biagi che - come riconosciuto pacificamente dalla giurisprudenza - si pone in linea di continuità normativa con la disciplina previgente.
La giurisprudenza di legittimità, con orientamento oramai ampiamente consolidato, ha chiarito che l’abrogazione delle norme incriminatici contenute nelle leggi n. 264 del 1949 e n. 1369 del 1960 non ha comportato l’abolizione dei reati posti a tutela del mercato del lavoro ivi previsti, atteso che le rispettive fattispecie devono ritenersi rivivere nelle disposizioni dell’articolo 18 della legge Biagi, quantomeno nei limiti in cui le condotte di intermediazione e somministrazione sono considerate illecite da quest’ultimo (si veda Sez. 3, n. 2583 del 11 novembre 2003, dep. 26 gennaio 2004, e Sez. 4, n. 40499 del 20 ottobre 2010, dep. 16 novembre 2010).
Infatti con l’articolo 18 della legge Biagi si continua a sanzionare penalmente la condotta di chi senza essere autorizzato o oltre i limiti dell’autorizzazione effettua condotte di intermediazione.
In particolare l’articolo 18 citato - dopo le modifiche apportate dal decreto legislativo 6 ottobre 2004, n. 251, e soprattutto dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (cosiddetto «Jobs act») - sanziona con l’ammenda di 50 euro al giorno per ogni lavoratore somministrato chiunque eserciti senza autorizzazione l’attività di agenzia di somministrazione nonché l’utilizzatore, inoltre punisce con l’arresto e l’ammenda chi esercita un’agenzia di intermediazione, e con l’ammenda chi esercita un’agenzia di ricerca del personale o di supporto alla ricollocazione professionale, senza autorizzazione.
Alla condanna per tali reati segue la confisca del mezzo di trasporto adoperato per l’esercizio di tali attività.
Al riguardo la costante previsione di mere fattispecie contravvenzionali si è rivelata insufficiente ad arginare le forme più gravi e sistematiche di sfruttamento del lavoro, le quali hanno peraltro conosciuto negli ultimi anni un forte sviluppo a causa dell’intensificarsi dell’immigrazione irregolare e della ridotta disponibili di posti di lavoro.

Decreto legislativo recante disposizioni in materia di depenalizzazione, a norma dell’articolo 2, comma 2, della legge 28 aprile 2014, n. 67
Su tale quadro normativo interviene ora il decreto legislativo 15 gennaio 2016, n. 8, che è stato sottoposto al Parlamento per i pareri; esso sostituisce la pena dell’ammenda con la sanzione amministrativa di euro 5.000 fino a euro 50.000.
Tale provvedimento legislativo trasforma in una più efficiente sanzione amministrativa l’oggettiva debole ammenda di appena euro 50 a lavoratore, pro die, con un maggiore effetto deterrente: una sanzione pecuniaria amministrativa nel minimo ben 100 volte e nel massimo ben 1.000 volte superiore alla sanzione precedentemente prevista.

Le modifiche apportate dal decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81 (cosiddetto «Jobs Act»)
Il quadro normativo di recente si è ulteriormente rafforzato sotto il profilo specifico della tutela della sicurezza del lavoro somministrato con il decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81, intervenendo direttamente da un lato sul citato decreto legislativo n. 81 del 2008, e dall’altro sugli effetti contrattuali della violazione della normativa a tutela della sicurezza e salute.
Sotto il primo profilo, l’articolo 35, comma 4, del Jobs Act salvo diversa previsione contrattuale, attribuisce al somministratore l’obbligo di formare, informare, addestrare il lavoratore, e all’utilizzatore impone tutti gli altri obblighi di sicurezza egualmente nei confronti dei lavoratori somministrati e dipendenti.
Sotto il secondo profilo l’articolo 14 vieta il lavoro intermittente per i datori che non effettuino la valutazione dei rischi; l’articolo 20 stabilisce la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato nel caso in cui il datore di lavoro non abbia effettuato la valutazione del rischio.
Ma soprattutto per il contratto di somministrazione gli articoli 32, comma 1, lettera d), e 33, comma 1, lettera c), impongono al datore di lavoro la valutazione del rischio e l’indicazione nella forma scritta dei «rischi per la salute e la sicurezza del lavoratore e le misure di prevenzione adottate».
Di talché alla violazione di tali precetti segue - in forza degli articoli 38, comma 2, e 28 - il diritto del lavoratore di chiedere la costituzione di un rapporto di lavoro alle dipendenze dell’utilizzatore con effetto dall’inizio della somministrazione, la condanna del datore al risarcimento del danno con un’indennità onnicomprensiva pari a un massimo di dodici mensilità.
In breve dal nuovo assetto normativo la tutela della sicurezza e salute del lavoratore somministrato viene specificata e rafforzata, prima e durante il rapporto di lavoro, dalla formazione e informazione fino alle conseguenze risarcitorie.

La sorveglianza sanitaria per i lavoratori agricoli stagionali o occasionali
Si tratta di un quadro normativo dalle maglie strette che però presenta un deficit sul piano dell’efficienza della sorveglianza sanitaria.
In punto di diritto, l’articolo 3, comma 13, del decreto legislativo n. 81 del 2008, consente un decreto interministeriale per la semplificazione degli «adempimenti relativi all’informazione, formazione e sorveglianza sanitaria» dei lavoratori stagionali o occasionali soltanto presso le piccole e medie imprese agricole.
Tale decreto è intervenuto in data 27 marzo 2013 stabilendo per tutte le imprese (quindi discostandosi dal dettato normativo) che «gli adempimenti in materia di controllo sanitario si considerano assolti, su scelta del datore di lavoro... mediante visita medica preventiva, da effettuarsi dal medico competente ovvero dal dipartimento di prevenzione della ASL...(che) ha validità biennale e consente al lavoratore idoneo di prestare, senza la necessita di ulteriori accertamenti medici, la propria attività di carattere stagionale».
E inoltre gli obblighi di formazione e informazione «si considerano assolti» con la consegna di «appositi documenti».
In breve è sufficiente un certificato medico per effettuare per due anni un lavoro stagionale o occasionale agricolo avendo in mano alcune carte sul rischio, senza un effettivo accertamento delle condizioni di salute in funzione delle mansioni, da svolgere nei singoli lavori, luoghi, tempi, procedure produttive, organizzazione aziendale, avendo ricevuta non una vera efficace cultura della sicurezza ma solo «documenti».
Si tratta di un decreto che semplifica per i somministratori e utilizzatori ma svuota e vanifica gli obblighi preventivi in materia di sicurezza riducendoli a mero adempimento burocratico.
La semplificazione non significa banalizzazione del rischio e formalismo documentale, ma snellimento senza derogare o allentare la tutela costituzionale della salute e sicurezza del lavoro.

Il procacciamento dei contratti di somministrazione
In punto di fatto, dall’inchiesta in oggetto emerge che il sistema normativo delineato ha trovato un deficit di legalità nel funzionamento concreto dei contratti di somministrazione e nel procacciamento degli stessi per poter acquisire la disponibilità di lavoratori e utilizzatori nell’ambito di un territorio ad alta vocazione agricola.
Invero gli interessi delle agenzie necessitano di soggetti noti quali fornitori di occasioni lavorative, presenti sul territorio, facilmente contattabili dai lavoratori e imprese, organizzatori del trasporto dei lavoratori, conoscitori delle esigenze logistiche e produttive stagionali con ramificazioni in vari territori anche di diverse regioni, eccetera, diventando così i nuovi caporali che si annidano tra le pieghe della somministrazione.
Non si può) trascurare che nel caso della morte della signora Paola Clemente, nell’ambito della diffusione dei numerosi contratti di somministrazione nello stesso territorio, un soggetto ha avuto la capacita di trasferire in poco tempo oltre 6.000 lavoratori dall’agenzia Quanta all’agenzia Inforgroup, dimostrando così di essere il vero artefice dei contratti di lavoro.
Oggi, quindi, il caporalato ha indossato le vesti della somministrazione usata, o meglio abusata, per dare una formale apparenza a una serie di imprescindibili contatti che possono essere curati soltanto da chi conosce ed è in grado di spostare anche repentinamente vere e proprie truppe di lavoratori rassegnati a condizioni di lavoro prive di assoluta organizzazione della sicurezza.
Si badi che nel caso della signora Clemente non è emersa alcuna prevenzione effettiva (valutazione del rischio sull’attività svolta al sole, rischio ipotermia, movimentazione manuale di carichi per una donna, rischio chimico per l’esposizione a prodotti diserbanti o anticrittogamici eccetera), culturale (formazione, informazione, addestramento), sanitaria (una vera sorveglianza sanitaria preventiva in relazione alle mansioni da svolgere in concreto) né alcuna misura di protezione (primo soccorso, intervento e collegamento con il servizio pubblico). Tant’è che dalle varie audizioni è emersa l’improvvisazione del soccorso da prestare alla dolorante lavoratrice e la chiamata tardiva dell’ambulanza.
Una regolare gestione dell’emergenza impone ai datori di lavoro anche di organizzare «i necessari rapporti con i servizi pubblici competenti in materia di primo soccorso» (articolo 18, comma 1, lettera t), e articolo 43 del decreto legislativo n. 81 del 2008).
In definitiva, si possono riassumere alcuni punti critici su cui si richiama l’attenzione della Commissione, del Parlamento e degli altri organi competenti:
1) le distorsioni dell’uso del contratto di somministrazione;
2) il controllo e la vigilanza sulle agenzie di somministrazione autorizzate dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali che può procedere anche alla revoca dell’autorizzazione stessa;
3) il controllo e la vigilanza da parte delle regioni che accreditano le agenzie e che possono anche revocare tale riconoscimento;
4) l’acquisizione dei dati statistici del Ministero del lavoro e delle politiche sociali sui controlli eseguiti sulle agenzie e con quale esito in ordine alle autorizzazioni e all’accreditamento;
5) il ruolo attivo che dovrà esercitare il neo istituito Ispettorato nazionale del lavoro, che si avvale opportunamente anche degli ispettori provenienti dall’INAIL e dall’INPS.
6) la revisione del decreto interministeriale del 27 marzo 2013 sulla semplificazione della sorveglianza sanitaria in materia di lavori stagionali o occasionali in agricoltura;
7) la previsione di analogo decreto per gli altri comparti lavorativi dove si ricorre alla somministrazione (ad esempio edilizia);
8) la revisione dei meccanismi di articolazione provinciale dei contratti («paghe di piazza») al fine di evitare situazioni di sottosalario e, anche, contrastare il «pendolarismo»;
9) il rafforzamento dei meccanismi di monitoraggio e controllo previsti dall’ordinamento nonché una attività di coordinamento di tutte le forze preposte.

I SOPRALLUOGHI DELLA COMMISSIONE (*)
Nel corso dell’ultimo anno la Commissione ha effettuato tre sopralluoghi dei quali si darà ora conto.

Sopralluogo a Milano
Il 16 e 17 marzo 2015 una delegazione della Commissione ha effettuato un sopralluogo a Milano allo scopo di esaminare le tematiche connesse alla salubrità e sicurezza sul lavoro nei cantieri di Expo 2015. La delegazione era composta dalla Presidente Fabbri, dal Vice Presidente Serafini, dalle senatrici Segretarie della Commissione Favero e Fucksia e dai Commissari Borioli e D’Adda. Sono stati auditi presso la Prefettura di Milano:
1) il prefetto di Milano, dottor Francesco Tronca: sulla situazione generale dei temi della sicurezza e specificamente sui vari «tavoli» e protocolli con gli enti, imprese, parti sociali, Expo 2015;
2) ingegner Molaioni (direttore pianificazione strategica): sulla gestione generale della sicurezza, sulle normative speciali per Expo e sui rapporti con i singoli committenti/esecutori/affidatari dei lavori;
3) dottoressa Corvino (comune di Milano) (accompagnata dal dottor Walter Cavalieri, direttore centrale);
4) Francesco Bianchi (CISL); Enrico Vizza (UIL); Gabriele Rocchi (CGIL): sindacalisti;
5) Massimo Bottelli, direttore del settore «Lavoro, welfare e capitale umano» di Assolombarda, e Mariarosaria Spagnuolo, responsabile dell’area «Salute e Sicurezza sul lavoro» di Assolombarda;
6) dottoressa Domenighini (direttrice generale Assimpredil) (accompagnata dal dottor Dario Firsech, Presidente di CPT Edilizia Milano);
7) dottoressa Marina Della Foglia (ASL Milano 1) e dottoressa Susanna Cantoni (ASL Milano): sul coordinamento delle ispezioni, sul numero di infortuni e contravvenzioni rilevate all’interno dei cantieri Expo 2015.
Il giorno 17 marzo 2015 e stato inoltre effettuato un sopralluogo presso i cantieri di Expo 2015.

Sopralluogo ad Alessandria e Casale Monferrato
L’8 e 9 giugno 2015 una delegazione della Commissione ha effettuato un sopralluogo ad Alessandria allo scopo di esaminare le patologie da amianto correlate alla vicenda Eternit. La delegazione era composta dalla Presidente Fabbri, dalle senatrici Segretarie della Commissione Favero e Fucksia e dai Commissari Borioli, D’Adda e Munerato. Sono stati auditi presso la prefettura di Alessandria:
1) sindaco di Casale Monferrato - Concetta (Titti) Palazzetti, anche come sindaco del comune capofila del sito di interesse nazionale (SIN);
2) associazione comuni del Monferrato - Claudio Saletta, sindaco di Sala Monferrato;
3) assessore all’ambiente regione Piemonte - Alberto Valmaggia per un quadro generale della situazione piemontese, che presenta altri casi analoghi a Eternit;
4) direzione regionale INAIL Alessandria - dottor Enrico Tommasi, direttore territoriale e dottor Maurizio Carnassale, dirigente medico;
5) direttore centro regionale amianto - Massimo D’Angelo;
6) direttore ARPA Piemonte - Angelo Robotto;
7) responsabili unita funzionale interaziendale mesotelioma (UFIM) - Federica Grosso e Daniela Degiovanni. La dottoressa Degio- vanni e anche direttrice dell’Hospice «Zaccheo» di Casale Monferrato;
8) CGIL - CISL - UIL - Antonino Paparatto (segretario provinciale CGIL), Luciano Bortolotto (CISL Casale Monferrato), Tonio Anselmo (CISL Alessandria), Aldo Gregori (segretario provinciale UIL) e Luigi Ferrando (UIL Casale Monferrato);
9) Associazione familiari e vittime amianto (AFeVA) - Bruno Pesce e Romana Blasotti Pavese;
10) Associazione italiana esposti amianto Piemonte - Armando Vanotto;
11) Fondo nazionale vittime amianto - Nicola Pondrano.
Il giorno 9 giugno 2015 e stato inoltre effettuato un sopralluogo all’Hospice «Zaccheo» di Casale Monferrato.

Sopralluogo a Taranto
Il 24 e 25 settembre 2015 una delegazione della Commissione ha effettuato un sopralluogo a Taranto allo scopo di verificare le condizioni di salubrità e sicurezza sul lavoro dell’ILVA di Taranto. La delegazione era composta dalla Presidente Fabbri e dai Commissari Barozzino, Borioli e Pelino. Sono stati auditi presso la Prefettura di Taranto:
1) dottor Umberto Guidato - prefetto di Taranto;
2) dottor Ippazio Stefano - sindaco di Taranto;
3) dottor Francesco Sebastio - procuratore capo della Repubblica di Taranto;
4) commissari straordinari Stabilimento ILVA: dottor Piero Gnudi, pofessor Enrico Laghi, avvocato Corrado Carrubba, dottor Nicola Nicoletti;
5) signor Cosimo Semeraro, presidente Associazione «12 giugno» e referente Associazione «Contramianto»;
6) organizzazioni sindacali: Luigi Lamusta, segreteria CGIL Taranto, Daniela Fumarola, segretario Generale CISL Taranto, Cosimo Panarelli, segretario Generale FIM Taranto, Roberto Basile, segreteria UIL Taranto, Immacolato Bilotta, segreteria UIL Taranto, Giuseppe Carenza, segretario reggente UGL Taranto, Francesco Vitanza, segreteria UGL Taranto, Francesco Rizzo, coordinatore USB Taranto.
Il giorno 25 settembre 2015 e stato inoltre effettuato un sopralluogo allo stabilimento ILVA di Taranto.

L’Assemblea nazionale sull’amianto
In data 30 novembre 2015, la Commissione ha promosso l’Assemblea nazionale sull’amianto presso la Sala Zuccari di Palazzo Giustiniani. L’obiettivo che l’Assemblea si e posta e stato quello di sintetizzare gli elementi e i dati pili importanti su un fenomeno complesso, che chiama in causa molteplici aspetti e responsabilità. I lavori svolti fino ad oggi dalla Commissione, infatti, hanno evidenziato un quadro intricato di questioni istituzionali, ambientali, sociali, economiche e giudiziarie rispetto al quale e indispensabile un confronto fra tutti i soggetti istituzionali, anche al fine di coordinare le diverse iniziative e misure che il nostro Paese sta approntando e dovrà approntare, in particolare alla luce del 2020 quando, ragionevolmente, il fenomeno avrà raggiunto il suo apice di sviluppo. Lo sforzo comune richiesto a tutte le istituzioni, infatti, e teso alla costruzione di un testo unico quale elemento imprescindibile di chiarezza, trasparenza e giustizia sociale. Di seguito l’intervento della Presidente in occasione dell’evento:
«La Commissione di inchiesta del Senato sugli infortuni sul lavoro e sulle malattie professionali ha voluto promuovere questa Assemblea Nazionale sull’Amianto per riunire tutti i soggetti che istituzionalmente hanno competenze in materia. L’amianto, infatti, si articola in una rosa di questioni che sono istituzionali, ambientali, sanitarie, sociali, occupazionali, economiche e giudiziarie. Una rosa rispetto alla quale e indispensabile un confronto fra tutti i soggetti istituzionali, anche al fine di coordinare le diverse iniziative e misure che il nostro Paese sta mettendo e dovrà mettere in campo nei prossimi anni.
L’amianto dunque, come richiama il titolo scelto per la nostra Assemblea, rappresenta una sfida ancora aperta e la rappresenta sotto molteplici punti di vista: riforme, giustizia, sviluppo, come indica il sottotitolo riassuntivo. Una sfida ancora aperta, oltretutto, come confermano i dati scientifici, i quali ci portano a prevedere per il 2020, visto i tempi di incubazione, il picco massimo di manifestazione delle malattie asbesto correlate.
Proprio per questo l’amianto, con le sue questioni ancora aperte, può) e deve rappresentare non solo una battaglia sociale-ambientale-etica da vincere, grazie all’indispensabile apporto di tutte le istituzioni, ma anche un’opportunità di sviluppo economico, perché debellarne effettivamente le conseguenze comporterà una diminuzione del costo sociale rappresentato dalle malattie e dai decessi derivanti dalla fibra killer e perché, attraverso smaltimento e bonifica e riconversione produttiva, si potrà offrire una oggettiva e reale prospettiva di sviluppo, oltre che determinare un ristoro ambientale.
Non possiamo infatti tacere quanto il tema amianto interessi il mondo del lavoro e i suoi diritti, ma anche quello dell’ambiente. Pensiamo alla declinazione che esso può) assumere, per esempio, nel caso dell’ex produzione industriale dell’acciaio, che ha prodotto conseguenze sulla vita dei lavoratori e sull’ambiente (mi riferisco ai cosiddetti SIN).
Come Commissione d’inchiesta sugli infortuni sul lavoro e sulle malattie professionali, con particolare riguardo al sistema della tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, non potevamo dunque non affrontare, nel corso del nostro impegno, il tema dell’amianto.
La Commissione, come stabilisce l’art. 3 della delibera istitutiva, ha facoltà infatti anche di accertare, procedendo con gli stessi poteri e limitazioni dell’autorità giudiziaria, la dimensione del fenomeno degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali, con particolare riguardo al numero delle morti, alle malattie, alle invalidità e all’assistenza alle famiglie delle vittime, individuando altresì le aree in cui il fenomeno e maggiormente diffuso, oltre ad indicare quali nuovi strumenti legislativi e amministrativi siano da proporre al fine della prevenzione e della repressione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali. Si tratta di un organo istituzionale che mi onoro di presiedere e che molto deve, lo voglio ricordare, alla determinazione e alla sensibilità del presidente del Senato Pietro Grasso cui, mesi fa, per primo, prospettai l’idea di dar vita a questa Assemblea, che egli ha dunque apprezzato e sostenuto fin dall’inizio. Per questo ci tengo a ringrazialo. Così come altrettanto sentito è il mio ringraziamento verso tutte e tutti i partecipanti a questo appuntamento, il cui apporto sarà prezioso per vincere la sfida; i funzionari, i dirigenti e i collaboratori della nostra Commissione. Infine, non per importanza naturalmente, un ringraziamento alle colleghe e ai colleghi commissari che, quotidianamente, sono impegnati nelle attività della Commissione, animandola e sollecitandola con il loro contributo insostituibile in termini anche di sensibilità verso materie così delicate, anche eticamente, come quelle di cui ci occupiamo.
Un discorso, quello relativo alla grandezza del fenomeno dell’amianto - di cui ci occupiamo con l’obiettivo istituzionale di promuovere la tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro- che viene supportato dai dati della relazione annuale 2014 dell’Inail che, riguardo appunto le patologie asbesto-correlate, offre un quadro chiaro seppure probabilmente sottostimato rispetto alla realtà, poiché non tutte le lavoratrici e i lavoratori, come sappiamo, presentano una posizione assicurativa presso l’Istituto. Sono 1.736 le malattie professionali riconosciute, di cui 414 con esito mortale. La gestione Industria e Servizi conta il maggior numero di casi 1.708 (di cui 408 mortali), a seguire l’Agricoltura (8, di cui 1 mortale) e per conto dello Stato (20, di cui 5 mortali). Tra i lavoratori, i più colpiti sono gli italiani: 1.725 (1.647 maschi e 78 femmine), di cui 411 casi mortali (rispettivamente 391 e 20) e, tra le aree geografiche, il nord, in particolare Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Piemonte. Sul totale dei casi di malattia professionale riconosciuta con esito mortale (1.488), se ne contano 490 per silicosi e asbestosi. Anche i numeri più strettamente legati alla salute ci indicano dunque la dimensione e l’importanza di questo problema che rischia nel 2020 di vedere il suo apice negativo.
A questo proposito, ricordiamo l’importanza dell’Inail nella redazione del piano amianto e nell’attività di ricerca scientifica su questo importante tema.
L’Assemblea di oggi - che prende le mosse dal Piano Nazionale Amianto adottato a marzo 2013, dopo la II Conferenza governativa sulle patologie asbesto-correlate, che si e tenuta a Venezia nel 2012- si propone:
a) la verifica dello stato di applicazione delle iniziative legislative e amministrative che ne sono seguite, a livello statale e regionale;
b) l’analisi dei temi emersi nelle esperienze giudiziarie;
c) il confronto tra i soggetti secondo le aree di rispettiva competenza;
d) una panoramica degli strumenti normativi e la verifica dei presupposti per un testo unico in materia di amianto.
Nel 1992 la legge 257, bandisce l’amianto. Testualmente la norma, vieta "l’estrazione, l’importazione, la lavorazione, l’utilizzazione, la commercializzazione, il trattamento e lo smaltimento, nel territorio nazionale, nonché l’esportazione dell’amianto e dei prodotti che lo contengono e detta norme per la dismissione dalla produzione e dal commercio, per la cessazione dell’estrazione, dell’importazione, dell’esportazione e dell’utilizzazione dell’amianto e dei prodotti che lo contengono, per la realizza-zione di misure di decontaminazione e di bonifica delle aree interessate dall’inquinamento da amianto, per la ricerca finalizzata alla individuazione di materiali sostitutivi e alla riconversione produttiva e per il controllo sull’inquinamento da amianto". Nei 23 anni di applicazione della stessa, si sono delineate una serie di aree tematiche non prive di criticità normative, istituzionali, amministrative, economiche, ambientali che impongono una riflessione organica e sistematica sul tema dell’amianto e che, come vedremo, rendono indispensabile la formulazione di un Testo Unico in materia che offra e imponga maggiore organicità garantendo dunque anche una maggiore efficacia all’intervento del legislatore oltre che all’azione amministrativa.

Ruolo delle regioni e degli enti locali
Nella attuale geografia costituzionale le autonomie regionali e locali sono impegnate per i piani di protezione, decontaminazione, smaltimento, bonifica che presuppongono una completa e capillare mappatura dei siti. Attività quest’ultima che purtroppo non e stata espletata in alcune regioni e addirittura in una regione, il Molise, non si e ancora adottato il piano regionale sull’amianto. Comunque per quanto riguarda la mappatura, questa non ha avuto uniformità e omogeneità di criteri e parametri di individuazione, con alcune regioni virtuose, altre imprecise, altre ancora totalmente inadempienti. Cosicché a distanza di oltre 20 anni non abbiamo ancora una fotografia nitida della presenza di amianto nel nostro Paese. Per questo e imprescindibile l’impegno per una vera, precisa, completa mappatura dei siti.
Al riguardo e importante una riflessione sulle competenze regionali anche alla luce della recente riforma costituzionale che risponde ad uno sforzo riformatore in direzione di un sistema più moderno ed efficiente. Ebbene proprio questa riforma, attualmente in quarta lettura alla Camera dei Deputati, dopo un importante lavoro di confronto e approfondimento, revisionando l’art. 117, positivamente riconduce allo Stato la competenza in materia di sicurezza del lavoro, per esempio. Altrettanto indispensabile, per la stessa ragione, una riflessione specificatamente rivolta ai siti di interesse nazionale di competenza regionale, alle iniziative amministrative, al ruolo dei comuni, alle competenze delle ex Province. I comuni, in particolare, sono al contempo parte attiva della tutela della salute della collettività ed espressione di una comunità che subisce l’eredita di realtà industriali del passato.
Come abbiamo detto, dunque, il Testo unico si rende indispensabile nel quadro intricato di norme (sono infatti 400 tra regionali e statali e, spesso, addirittura in contraddizione) con finalità ricognitiva, ma anche costitutiva, cioè il nostro obiettivo e quello di revisionarle, qualora fosse opportuno, e di inserire anche nuove proposte. Un lavoro comunque non eludibile, vista la riforma costituzionale cui abbiamo accennato adesso, che agisce sulle competenze in materia di sicurezza del lavoro. Dunque esiste una esigenza di coerenza costituzionale ad indirizzare e motivare questo obiettivo del Testo unico.

Economia-ambiente-sviluppo economico
L’amianto nel nostro Paese e stato utilizzato per decenni nei più svariati campi e oggi costituisce il principale problema ereditato da una politica industriale - dal dopoguerra agli anni ’90 - che non conosceva alcuna sensibilità ambientale.
L’amianto e stato massicciamente usato in Italia in ogni campo produttivo fin dagli anni ’60, quindi in concomitanza con il boom economico e fino al 1992, anno in cui fu bandito. In greco, il suo significato e incorruttibile. Asbesto, invece, significa che non si spegne mai’. Nomen omen. Si tratta infatti di un materiale altamente resistente, soprattutto termicamente, di un ottimo isolante elettrico, oltre ad essere vantaggioso anche dal punto di vista economico, perché a basso costo produttivo. Fattori che spiegano l’origine di un così diffuso impiego, che lo ha visto determinante per la produzione di oltre 3mila tipologie di prodotti. Durante la missione della Commissione d’inchiesta a Casale Monferrato, ci colpì drammaticamente la scoperta, forse pili la consapevolezza definitiva che la fibra killer, allora non scoperta come tale, fosse stata impiegata anche per la fabbricazione di giocatoli. Una fibra killer che, in dimensioni minimali, ne basta spesso una sola, per compromettere inesorabilmente la salute, posizionandosi silenziosamente nella pleura.
Questo quadro, evidentemente, pone un problema di giustizia sostanziale per i danni umani, ambientali, sanitari, economici creatisi e ci proietta verso un orizzonte purtroppo ancora lungo per intravedere il tramonto del dramma per molte famiglie italiane.
Oggi per perimetrare il tema dell’amianto occorre definire una politica economica, ambientale, strutturale, e soprattutto di sicurezza del lavoro per tutti coloro che continueranno a morire d’amianto con una curva purtroppo crescente fino almeno al 2020.
L’amianto quindi non e soltanto un conto consuntivo per l’esposizione pregressa ma soprattutto un conto aperto per il presente e per il futuro.
Innanzitutto necessita una soluzione sui siti di interesse nazionale che tenga conto delle attività industriali ancora presenti, delle esigenze occupazionali, in una prospettiva di responsabilità sociale e di sostenibilità ambientale.
Per molti versi sulla legge 257/92 si sono persi 20 anni. Per altri profili lo sviluppo tecnologico, la scienza, la medicina, lo sviluppo economico, ripropongono vecchi problemi irrisolti in una chiave nuova: ad esempio, gli incentivi per la bonifica, l’esportazione dell’amianto per smaltimento, i costi delle bonifiche e dello smaltimento, l’importazione dell’amianto da paesi produttori, l’amianto negli edifici scolastici e ospedalieri pubblici e privati, la prevenzione e riduzione dell’inquinamento ambientale, la tracciabilità e il traffico di rifiuti, l’inquinamento indoor.
Sono tutti temi che esigono una soluzione sistematica e organica.
Si consideri ad esempio i siti di interesse nazionale e le grandi aree di crisi ambientale.
Il numero dei SIN per l’entità e la vastità della contaminazione di amianto, il caso Ilva, la c.d. terra dei fuochi (d.l. 10 dicembre 2013 n.136) dimostrano come la presenza dell’amianto riguarda il 2% del territorio nazionale e costituisce una vera emergenza sociale.
Accanto a questa problematica conosciuta, che riguarda i siti di interesse nazionale ad alta contaminazione di amianto, si affiancano, nel nostro Paese, meno note realtà altrettanto preoccupanti e drammatiche, che meritano non solo attenzione ma anche giustizia, declinata come bonifica, ristoro ambientale, riconoscimento di responsabilità e, nel caso accertato, indennizzo alle sue vittime e alle comunità colpite. Penso, per esempio, all’ex Isochimica di Avellino, di cui abbiamo avuto percezione, anche sconvolgente emotivamente, nel corso dell’ultima audizione da parte della nostra Commissione, quando il Procuratore di Avellino, dottor Rosario Cantelmo, ha ricostruito con puntualità una storia che oggi e all’attenzione del suo impegno giudiziario. In questa azienda, dove dal 1982 fino al 1988 sono state scoibentate dall’amianto le carrozze ferroviarie di Fs, è stato interrato senza cautele materiale composto dalla fibra killer. La Procura, dopo 22 anni da quella attività, ha chiesto il rinvio a giudizio per 29 indagati in riferimento a 231 lavoratori, di cui 6 già deceduti. Stiamo parlando di oltre due milioni di kg di amianto scoibentato e, in maggior parte, interrato presso la ex Isochimica, oppure impastato con cemento incubi che, per 22 anni, sono stati esposti ai pili diversi agenti atmosferici. Un sito che sorge a ridosso di un campo di calcio, perché inserito nel pieno centro abitato, e che ad agosto ha visto un intervento urgente di sistemazione. Urgente, dopo 22 anni dalla fine della sua attività, e dopo una lunga vicenda fatta di complicati e contorti passaggi istituzionali. Nell’ascoltare questa vicenda, la domanda sorta spontanea e pressante e stata - ed e tutt’ora: quante isochimica di Avellino esistono nel nostro Paese, magari dimenticate dalla cronaca e dall’opinione pubblica o addirittura a questa ignote?
Pertanto oggi la rimozione dell’amianto e motivo di responsabilità sociale e atto di giustizia nei confronti delle future generazioni; la bonifica totale del nostro Paese e una necessità di sanità pubblica ma anche una risorsa per le imprese specializzate, per le competenze scientifiche, per i lavori pubblici e privati, per la ricerca.
Un tema di tale vastità sociale non può) essere affrontato senza il coinvolgimento di tutte le istituzioni pubbliche e private, anche produttive. Non casualmente, nei mesi scorsi ho presentato, in quanto componente della Commissione Industria, un ddl per favorire la riconversione di aree artigianali dismesse o parzialmente dismesse, volto a promuovere sviluppo economico e tutela ambientale. Ex opifici che potrebbero essere riconvertiti in siti produttivi ma anche abitativi e turistico-commerciali, con alcune clausole come l’obbligo di prevedere edilizia residenziale sociale e il 20% di servizi pubblici. Durante le audizioni in Commissione e emerso il potenziale economico di questa operazione: Confindustria, nel suo rapporto sul tema, stima un valore complessivo delle bonifiche pari a 30 miliardi di euro, con 415 mila potenziali posti di lavoro in tutto il paese. Si comprende come questo ddl e le misure da esso proposte si inseriscano in questo quadro delineato anche da Confindustria, promuovendo riconversione, occupazione, sviluppo, tutela ambientale con bonifiche e senza consumo di suolo. Il ddl prevede un fondo di rotazione presso il Mise di 150 milioni di euro e il meccanismo e quello di cofinanziamento con le Regioni che, sentiti i comuni interessati, individuano aree e progetti. L’auspicio e che il fondo possa accrescersi e che si crei un meccanismo virtuoso anche con l’interazione di soggetti privati. Terminato il ciclo di audizioni, sarebbe un segnale importante se il provvedimento arrivasse in Aula per essere approvato nei tempi più celeri.
Altrettanto importante, a mio avviso, sarebbe l’approvazione da parte della Camera dei Deputati (non essendo stato possibile al Senato) dell’emendamento da me presentato alle Legge di Stabilita per consentire gli interventi di sostituzione di coperture in amianto sugli edifici di proprietà degli enti locali attraverso l’istituzione di un fondo, nello stato di previsione del Mit, con dotazione pari a 10 milioni di euro per l’anno 2016, a 30 milioni di euro per il 2017 e a 20 milioni di euro per il 2018.
Sempre la manovra finanziaria, che dovrebbe liberare i comuni dal "giogo" del patto di stabilita favorendo appunto la liberazione di fondi per gli investimenti, potrebbe aprire la strada alle amministrazioni locali per interventi di rimozione e bonifica dell’amianto. Un’operazione responsabile e importante, questa, che le comunità - tutte le comunità, visto l’alta diffusione del materiale composto dalla fibra killer sull’intero territorio nazionale nei decenni passati - sono sicura accoglierebbero con favore.

Salute
Il piano nazionale amianto (PNA) approvato dal CdM il 21 marzo 2013, dopo la II Conferenza governativa sulle patologie asbesto-correlate, che si e tenuta a Venezia nel 2012, e stato bloccato dal MEF già dal 10 aprile 2013 che, seppur riesaminando il piano fino all’11 agosto 2015, ha posto rilievi sull’assenza di una puntuale quantificazione degli oneri per la finanza pubblica anche in relazione allo sviluppo temporale delle azioni.
Il profilo della salute pubblica non può) riassumersi nel rilievo dell’amianto nel SSN e negli impegni della ricerca per le malattie asbestoderivate ma concerne la tutela della popolazione per esposizione ambientale.
La Commissione nazionale amianto, al riguardo, e da anni assente. Si tratta di un organismo che, istituito con la legge n. 257 del 1992, avrebbe potuto rivestire un ruolo e un compito centrali.
Per questo, ci rammarichiamo, oggi, dell’assenza del Ministero della salute, ma siamo sicuri dell’alto impegno istituzionali attribuito a tale ministero senza il quale qualsiasi politica sull’amianto non sarebbe possibile, come del resto conferma il convegno del 12 novembre promosso dall’Iss.

Giustizia
Il coacervo normativo, la giustizia del lavoro e la giustizia penale.
Da quando il nostro Stato ha recepito la direttiva 83/477 CEE circa la dismissione dell’uso dell’amianto con il d.lgs 277/91 e poi con la legge 257/92 sono intervenuti centinaia di provvedimenti normativi settoriali o frammentari, statali e regionali, privi di coordinamento con la legislazione di settore, distribuiti su diversi ambiti: dai rifiuti alla salute, dalla prevenzione e repressione nel campo della sicurezza del lavoro agli incentivi, dal disastro ambientale alla bonifica.
Il tema dell’amianto riguarda non soltanto l’ambiente, il lavoro, la salute ma innanzi tutto la coerenza di un assetto normativo unitario, sistematico, un vero e proprio testo unico, senza il quale non si può dare una risposta di giustizia, in grado di assicurare l’effettività delle decisioni giudiziarie, e la tutela di un insieme di beni comuni e di diritti costituzionali.
Si pensi innanzi tutto ai processi del lavoro per gli ex esposti e alle disarmonie dei benefici previdenziali.
In base all’art. 13, comma 8, L. 257/92 per i lavoratori esposti per almeno 10 anni v’e una moltiplicazione di 1,25 dell’intero periodo lavorativo ai fini della prestazione pensionistica. L'imprecisione normativa ha prodotto un’enorme mole di contenzioso davanti ai giudici del lavoro, nei tre gradi di giudizio, per determinare esattamente il concetto di lavoratore "esposto". Un intervento chiarificatore darebbe immediata certezza dei diritti dei lavoratori ed eliminerebbe il contenzioso.
Le difficoltà probatorie, i tempi, la mole dei processi penali in materia di malattie professionali per esposizione ad amianto, che insorgono a distanza di decenni, innanzi tutto gravano economicamente e umanamente sulle famiglie delle vittime, costrette a sostenere a proprie spese lunghi dibattimenti nei confronti di imputati particolarmente anziani o comunque privi di patrimoni sufficienti a soddisfare le pretese risarcitorie.
Pertanto al fine di alleviare il sacrificio delle famiglie si deve apprezzare il DdL e l’ordine del giorno del Senato, volto all’estensione alle vittime dell'amianto del beneficio del patrocinio a spese dello Stato, a prescindere dal reddito personale e familiare, di cui sono prima firmataria.
Altro punto che può) contribuire a una accelerazione dei processi penali e la semplificazione probatoria per uno sviluppo efficace dell’azione penale senza sfociare in una presumptio iuris e senza far venire meno garanzie e diritto di difesa per gli imputati e per le parti civili.
Onde evitare la reiterazione in tutti i processi delle medesime questioni scientifiche, con perizie-fotocopie, e al fine di scongiurare i disorientamenti della giurisprudenza, la lievitazione dei costi processuali, nonché l’imprevedibilità della decisione, si deve offrire alle parti un accesso agevole alla prova del nesso causale e della colpa dei soggetti responsabili.
Per le medesime difficoltà nessuna famiglia vittima dell’amianto può adire il giudice civile: dovrebbe sostenere autonomamente il costo delle prove civili contro colossi industriali. Perciò si cerca nella costituzione di parte civile la possibilità di un ristoro e il processo penale e diventato viepiù sede quasi innaturale per soddisfare la tutela risarcitoria effettiva delle vittime.
Ma ciò rischia di essere vanificato dall’ineffettività della decisione di condanna quando le aziende responsabili non esistono più o non hanno patrimonio sufficiente su cui eseguire la sentenza di condanna al risarcimento. In tal caso la condanna diventa meramente formale.
Sul piano della giustizia sostanziale ciò si aggrava quando le vittime non sono coperte dall'indennizzo INAIL.
Proprio per le lungaggini processuali dovute alla complessità probatoria spesso tali processi sfociano nella prescrizione e quindi in una denegata giustizia.
In proposito si noti che la recente riforma degli eco reati ha introdotto la nuova fattispecie di disastro ambientale quale reato di evento.
Al riguardo non si deve tacere lo scollamento che ha rappresentato la sentenza della Corte di Cassazione sul caso Eternit rispetto alla precedente giurisprudenza sul reato di disastro innominato, ora comunque superato dalla nuova fattispecie di disastro ambientale.
Di talché si pone il problema della tutela effettiva di tutti gli eventi dannosi o pericolosi per l’ambiente, per la salute pubblica e per l’incolumità individuale che in questi decenni si sono sviluppati.
Per i reati nel campo della sicurezza del lavoro ma soprattutto in materia di amianto - sotto il profilo preventivo e repressivo - e fondamentale il coordinamento delle indagini, dei controlli amministrativi e delle ispezioni e sono maturi i tempi per un’agenzia unica con competenza su tutti gli aspetti della sicurezza del lavoro.
Il neo costituito Ispettorato nazionale del Lavoro, infatti, ha una sfera di attribuzioni limitata alla vecchia competenza della direzione del lavoro.

Conclusioni
Sul tema amianto molta strada ancora è da percorre: questo dato è incontestabile ed e, del resto, la ragione che ci ha motivato a questa Assemblea. Esiste però), ed e altrettanto incontestabile, una nuova e più profonda coscienza del problema, da parte delle istituzioni e della società civile. Una consapevolezza che certamente e stata nutrita anche da quel sentimento diffuso di smarrimento e dolore provocati dal verdetto della Corte di Cassazione, che ha dichiarato la prescrizione in merito al processo Eternit, con conseguente annullamento dei risarcimenti alle vittime. Aspettiamo invece di conoscere il verdetto della Corte Costituzionale in relazione al cosiddetto Eternit Bis. Questa coscienza, ribadisco, e quella che ha portato alla recente costituzione quale parte civile del presidente del Consiglio dei Ministri nello stesso Eternit Bis, dopo la discussa sentenza della Cassazione che abbiamo or ora ricordato, e della Regione Piemonte e della Provincia di Alessandria. Ed e sempre questa coscienza che ha portato all’estensione del Fondo nazionale per le vittime dell’amianto (art. 1, comma 116 della Stabilità 2015) e all’ultimo decreto interministeriale del 4 settembre 2015 che ha fissato la misura e le modalità per l’erogazione della nuova prestazione per malati di mesotelioma che abbiano contratto la patologia o per esposizione familiare ai lavoratori impegnati nella lavorazione dell’amianto. La legge sugli eco reati e il collegato ambientale, frutto della più recente attività legislativa, offrono conferma di una nuova percezione e di nuova sensibilità verso il tema, maturate ad iniziare dal governo e dal parlamento. Ho citato soltanto qualche esempio per testimoniare i passi avanti compiuti in questi ultimi mesi, ma come detto non disconosco il cammino che ancora resta da fare e che spero, a giugno del 2016, possa vedere una prima tappa di avanzamento con la presentazione di un Testo Unico che, come detto, rappresenta una necessita di chiarezza e coerenza normativa a garanzia dell’efficacia dell’azione amministrativa. Un Testo Unico che dovrà ovviamente vedere l’adozione e il sostegno da parte del Governo, senza il cui apporto non sarà possibile raggiungere nessun traguardo. Allo stesso tempo, resta assolutamente indispensabile, per ragioni di trasparenza e efficienza, la realizzazione di una mappatura dei siti contaminati da amianto e necessitanti di bonifica, superando l’ambiguità attuale di mappature datate o inattendibili perché realizzate non correttamente, a fronte di altre Regioni - poche- virtuose. Resta forte, personalmente, la volontà di continuare il mio impegno per poter vedere approvati il ddl sulle spese legali alle vittime e familiari delle vittime di amianto, che devo sottolineare ha avuto un sostegno politico trasversale, e per la riconversione delle aree industriali dismesse. Due disegni di legge che potrebbero dare un segnale dal punto di vista etico, ma anche pratico, soprattutto perché come abbiamo più volte detto l’amianto resta una sfida aperta, una grande ferita che dobbiamo risanare sul piano della giustizia e trasformare, perché e possibile, in opportunità di sviluppo».

Programma delle attività di valutazione delle politiche pubbliche nei settori di competenza della Commissione
L’Ufficio di Presidenza, ha stabilito di condurre un’attività di valutazione delle politiche pubbliche nei settori oggetto dell’inchiesta come individuati nell’articolo 3 della delibera istitutiva del 4 dicembre 2013. A tal fine la Commissione ha ritenuto opportuno avvalersi della consulenza di figure esperte nel campo della valutazione delle politiche pubbliche, individuate nei ricercatori Marco Accorinti, Francesco Gagliardi ed Elena Ragazzi del Consiglio nazionale delle ricerche.
Per la determinazione di un disegno di valutazione, sulla base dei dati e degli elementi informativi già acquisiti dalla Commissione o comunque acquisibili agevolmente, il primo passaggio e costituito dalla definizione della concezione e del perimetro delle attività valutative che si intende condurre. Questa fase mira a definire, di concerto con la Commissione, gli elementi caratterizzanti l’attività valutativa da realizzarsi e ad approfondire il contesto in cui tale attività valutativa sarà inserito. Più nello specifico si determinerà l’oggetto della valutazione e del relativo inquadramento teorico di riferimento, rispetto al quale operare l’analisi valutativa. Si tratta di una fase su cui concentrare una particolare attenzione soprattutto in considerazione sia della complessità del fenomeno da accertare (infortuni sul lavoro e malattie professionali) sia all’ampiezza della legislazione di riferimento sia ancora delle attività di accertamento affidate alla Commissione che comprendono profili molto ampi riguardo tanto ai fenomeni indagati quanto ai target e alle popolazioni interessate.
Il secondo passaggio prevede di definire gli elementi caratterizzanti i tempi dell’attività valutativa da realizzarsi. La valutazione a seconda delle finalità conoscitive può) difatti collocarsi in diversi momenti del ciclo di vita di una norma. Ad esempio la valutazione di una norma può) riguardare:
a) la fase iniziale di definizione del provvedimento. In considerazione dei diversi interventi, strumenti e modalità attuative a cui e possibile ricorrere per il conseguimento delle finalità definite in sede politica, l’esercizio valutativo consente di identificare e stimare i potenziali effetti delle possibili opzioni di scelta adottate;
b) la fase che precede l’avvio operativo del provvedimento, così da apprezzare in via preliminare i possibili risultati che nei diversi scenari di applicazione l’adozione della politica e in grado di raggiungere (valutazione ex ante);
c) la fase di attuazione del provvedimento (valutazione in itinere) con un focus valutativo che può riguardare sia le modalità di realizzazione della politica, cioè il suo processo attuativo, sia i risultati ottenuti dalla sua implementazione misurati in termine di scostamento dagli obiettivi attesi. Grazie alla valutazione condotta in questa fase si possono acquisire quegli elementi informativi sulle modalità e sugli strumenti di realizzazione di una determinata politica sulla cui base definire possibili correttivi e cambiamenti in corso d’opera volti a migliorarne la performance attuativa sia sotto il profilo dell’efficienza sia dell’efficacia;
d) la fase finale (valutazione ex post) volta a apprezzare l’impatto prodotto cercando di isolare gli effetti che si sarebbero comunque generati in mancanza della politica. In questo caso l’analisi valutativa, oltre a dare conto ai potenziali destinatari degli effetti diretti e indiretti conseguiti grazie alla politica adottata, contribuisce a comprendere se un provvedimento, soprattutto se temporaneo o sperimentale, debba essere reiterato, cancellato o assunto a ordinamento.
Un ulteriore imprescindibile aspetto da considerare nella definizione del disegno di valutazione e il come valutare il provvedimento. Ciò introduce questioni riguardo: l’identificazione da popolazione target su cui la politica agisce, l’approccio valutativo e i metodi d’indagine da adottare, gli indicatori da utilizzare, il tipo, l’identità e la qualità delle informazioni-dati disponibili o comunque da costruire attraverso il ricorso a indagini ad hoc. Sempre in quest’ambito di attenzione, la dimensione dell’analisi valutativa comporta la considerazione anche di diversi ambienti semantici e disciplinari come - limitandosi a citare i principali - l’efficacia reale e percepita, le ricadute in termini culturali d’apprendimento e consapevolezza, i costi e i benefici, i livelli di soddisfazione e/o di consenso.
È stato quindi avviato un percorso, ancora nel complesso preliminare che, attraverso il lavoro di riflessione sui vari aspetti sopra sinteticamente richiamati, condurrà alla redazione di un Piano di valutazione cioè di un documento che definirà, in termini puntuali, finalità, contenuto e modalità attuative, inclusa la tempistica, delle attività di valutazione che la Commissione si impegna a realizzare.

 

ALLEGATO

AUDIZIONI EFFETTUATE DALLA COMMISSIONE
 

Audizione del professor Renato Balduzzi
Nella seduta del 24 marzo 2015 è intervenuto il professor Renato Balduzzi, il quale si e soffermato sulle fasi preliminari all’elaborazione del Piano nazionale amianto del 2013, sui documenti presi in considerazione in tale circostanza - tra i quali ha citato il «Quaderno n. 15», redatto su tale tematica dal Ministro della salute e sul «Quaderno n. 9», predisposto sui medesimi aspetti dall’Istituto superiore di sanità - richiamando l’attenzione sui contenuti di tale piano e sollecitando infine un approfondimento in merito alle problematicità conseguenti al trasferimento della materia della salute e sicurezza sul lavoro alla competenza legislativa statale esclusiva, prefigurata dalla riforma costituzionale in itinere.
Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo al predetto intervento:
«BALDUZZI. Vi ringrazio innanzitutto per l’invito a partecipare ai la-vori della Commissione.
Ho potuto verificare, leggendo la vostra relazione intermedia, l’ampio spazio di attenzione che questa Commissione ha riservato al problema dell’amianto. Credo che la ragione per la quale mi avete invitato stia nell’esperienza da me maturata tra il novembre del 2011 e l’aprile del 2013 come Ministro della salute, periodo in cui ebbero luogo sia la Conferenza di Venezia, sia l’adozione da parte del Governo del Piano nazionale amianto.
Occorre fare un passo indietro per capire come si sia arrivati ad affrontare questo tema. Ci trovavamo, alla fine del 2011, in una condizione per cui, da una parte, si era nella fase finale del processo di primo grado a Eternit, che vedeva una forte presenza di parti civili - al processo erano rappresentati oltre 6.300 soggetti, tra persone fisiche, istituzioni ed organizzazioni, coinvolti in questa vicenda - e, dall’altra, per l’appunto proprio alla fine del 2011, nella realtà territoriale maggiormente colpita da questo fenomeno si era verificata una sorta di frattura interna rispetto alla proposta, avanzata da parte di uno degli imputati, di una forma di risarcimento che avrebbe in qualche modo avuto anche il senso di provocare una diversa posizione processuale delle persone che si erano costituite come parti civili. Fu una vicenda particolarmente delicata, perché c’era davvero la preoccupazione di una sorta di rottura nell’unita morale di una collettività e di questa preoccupazione, per una molteplicità di ragioni, vennero investiti il Ministero ed il Ministro e di lì partì un’azione di dialogo e di sostegno con l’amministrazione interessata. Ricordo anche la prima riunione ufficiale tenutasi presso la prefettura di Alessandria nel pomeriggio del 1° gennaio 2012, quindi in una data anche abbastanza particolare, nella quale si gettarono le basi per un lavoro di collaborazione che riguardò), tra l’altro, anche l’Associazione familiari vittime dell’amianto, che mi risulta essere stata audita da questa Commissione di inchiesta. Nasce da lì una rinnovata attenzione, anche perché naturalmente, facendo una ricognizione dei fatti, ci accorgemmo che erano passati ormai molti anni dalla prima Conferenza nazionale governativa sull’amianto, tenuta nel 1999, e che quindi occorreva forse riportare all’attenzione un problema che, per sua natura, sembra costruito per provocare discontinui in termini sia di attenzione che di interventi. Mi riferisco alla lunga latenza delle malattie correlate all’esposizione all’asbesto (dai 20 ai 40 anni, in qualche caso anche oltre) e, per un verso, alla forte localizzazione delle emergenze sanitarie e, per l’altro, all’ampia diffusione sul territorio nazionale di singoli casi ed episodi, anche con punti di emersione giudiziaria, di malattie professionali nei lavoratori esposti a determinate utilizzazioni industriali dell’amianto nell’ambito di una molteplici di fattispecie (industria, edilizia, ma certamente anche tessitura, cantieristica ed aeronautica) e, infine, alla presenza capillare dell’amianto negli ambienti di vita. Sappiamo che il nostro Paese e stato il secondo produttore mondiale di amianto, il primo nell’area della Comuni europea, e che nel nostro Paese sono stati consumati 3,7 milioni di tonnellate di amianto, quindi ne e stato fatto un uso massiccio e diffuso, senza poi parlare della presenza nascosta dell’amianto nei luoghi di vita, in qualche caso anche all’interno di manufatti in cui non era immaginabile tale presenza, ad esempio nei giocattoli.
Inoltre, la caratteristica di questo materiale, data dalle sue fibre volatili, impalpabili e resistenti nel tempo, purtroppo anche quando sono inalate, indubbiamente porta ad una situazione in cui diventa normale una sorta di interesse altalenante; a ciò si aggiunge la peculiari delle patologie neoplastiche collegate all’amianto, soprattutto del mesotelioma maligno della pleura, che rientra tecnicamente tra le malattie rare, ma che come spesso accade e molto diffusa e soprattutto lo e in un territorio specifico, nel caso italiano soprattutto al Nord, in particolare in locali come Casale Monferrato e Broni.
Il quadro quindi e molto complesso e sfuggente, anche se il processo Eternit sicuramente contribuì ad illuminarlo, ponendolo all’attenzione delle istituzioni.
Il primo documento che vi segnalo e che credo rivesta un certo interesse dal momento che non e semplicemente il frutto dei lavori preparatori della Conferenza di Venezia, e il Quaderno n. 15 «Stato dell’arte e prospettive in materia di contrasto alle patologie asbesto-correlate», del Ministero della salute, pubblicato nel giugno del 2012 e ovviamente incentrato soprattutto sul profilo sanitario, ma che contiene anche una serie di dati e di informazioni che possono risultare utili anche in riferimento ad altri profili. Da lì nasce lo stimolo a mettere insieme la ricerca sanitaria in senso stretto con quella sanitaria in senso ampio (epidemiologia ed interventi di prevenzione), con quella ambientale (censimento, bonifica e smaltimento dell’amianto) e con quella assistenziale e previdenziale.
Questa e la base da cui sono partiti i lavori della Conferenza di Venezia, che ha seguito proprio questa linea, mettendo insieme i tre momenti (sanitario, ambientale e previdenziale) e che ha visto una larga partecipa-zione dei portatori di interessi, dell’associazionismo. In tale ambito si sono confrontate discipline molto diverse, quindi non soltanto quelle classicamente coinvolte, mediche e ambientali, ma anche quelle relative alle scienze sociali, giuridiche e sociologiche.
Nel 2012 si e quindi fondata e consolidata una base conoscitiva sull’amianto come presupposto per attuare poi una politica efficace.
Ho citato il Quaderno n. 15 del Ministero della salute, ma vorrei citare anche il Quaderno n. 9 «Problematiche scientifico-sanitarie correlate all’amianto» dell’Istituto superiore di sanità, pubblicato proprio quell’anno, che e veramente poco conosciuto. Questo documento e meno noto forse perché venne interpretato come un resoconto di quello che aveva fatto l’Istituto superiore della sanità in materia di amianto, ma in realtà contiene dati molto interessanti, ivi compresa una bibliografia analitica che ancora oggi continua ad essere forse la più completa della materia.
Tra la documentazione che ha contribuito a formare questa base conoscitiva non va poi dimenticato l’insieme delle pronunce Eternit: le due pronunce di merito e la pronuncia di Cassazione, che al di là della conclusione, e cioè delle responsabilità accertate o della punibilità dei fatti, costituiscono un materiale documentale molto utile per ripercorrere la vicenda della produzione di amianto.
Su tutta questa base conoscitiva (senza considerare le sentenze, alcune delle quali arriveranno anche in futuro) si fonda il Piano nazionale amianto adottato dal Governo Monti il 21 marzo 2013, due anni fa. I contenuti del piano sono stati elaborati, per la parte sanitaria, già dalla Conferenza di Venezia ed hanno avuto una più facile attuazione, ancorché il piano formalmente non abbia ancora completato il suo iter. Il punto di vista del Ministero della sanità fu infatti quello di inserire nel piano iniziative già oggetto di finanziamento, in modo tale che tale piano fosse al tempo stesso di prospettiva, ma a partire da iniziative finanziabili.
Pili complesso era l’aspetto riguardante le bonifiche, quindi la parte ambientale; ancor più difficile, per ragioni che spiegherò), la questione inerente il lavoro e quella sulla previdenza.
Il seguito della denominazione del suddetto piano e: «Linee di intervento per un’azione coordinata delle amministrazioni statali e territoriali». Questo spiega anche la difficoltà di arrivare all’intesa in sede di Conferenza Stato-Regioni o di Conferenza unificata, ma non e un problema da ascrivere alle lungaggini del nostro regionalismo o del nostro autonomismo. È infatti ovvio che se occorre dare linee di intervento per un’azione coordinata non soltanto delle amministrazioni statali, ma anche di quelle territoriali, diventi poi necessario coinvolgere queste ultime. Ciò premesso, accettare però) fatalisticamente uno stallo che perdura da oltre 2 anni e cosa ben diversa.
Il piano, come sapete, e diviso in tre macroaree, che coinvolgono i Ministeri per le materie di rispettiva competenza: tutela della salute ed ambientale, sicurezza del lavoro e tutela previdenziale. Le due ultime materie (tutela previdenziale e sicurezza del lavoro) sono quelle che prevedono pii! impegni generali o interlocutori, ma questo non è un problema legato alla volontà dell’amministrazione pro tempore di riferimento, bensì dovuto ad una criticità interna al sistema.
Occorre infatti considerare che sul piano sanitario e ambientale erano già stati sciolti alcuni nodi: la parte sanitaria dal punto di vista metodologico e quella ambientale in ragione di tutta l’esperienza derivante dall’attuazione della legge del 1992. Rispetto ad altri problemi era stato individuato un percorso, ad esempio l’assenza di risposte terapeutiche efficaci per il mesotelioma fu identificato come nodo, tant’e che e stato creato un percorso attraverso la rete dei centri nazionali di riferimento o il collegamento con l’Europa (siamo diventati capofila in Europa). Al contrario, in campo previdenziale e di lavoro la situazione era più difficile, perché rispetto ad alcuni nodi non c’era ancora una decisione consolidata. Non è un caso, tra l’altro, che tutte le proposte di legge che vertono su queste materie abbiano un taglio assistenziale e previdenziale, e vadano proprio a toccare questo profilo.
E chiaro, infatti, che in questi casi occorre fare i conti con la molteplici delle categorie esposte alle fibre d’amianto per ragioni professionali ed extraprofessionali (per ragioni di sintesi semplifico, rinviando al testo che ho consegnato agli atti della Commissione ove fornisco qualche informazione in più) e nello specifico mi riferisco: agli ex lavoratori esposti e ai loro familiari; ai residenti nelle locali in cui erano presenti cave o impianti di trasformazione dell’amianto; ai lavoratori che attualmente o in futuro sono e saranno esposti (coloro i quali lavorano nel settore delle bonifiche e dello smaltimento), ed i loro familiari; inoltre, c’è la popolazione generale esposta all’amianto per via sia della diffusione che questo materiale ha negli ambienti di vita, sia dell’utilizzo di manufatti di amianto in edifici pubblici e privati.
Il fatto che l’ordinamento non abbia trovato una soluzione alla domanda, emersa anche nel corso dei lavori della Commissione d’inchiesta, di socializzazione del rischio con riferimento ad alcune delle categorie sopra indicate, in particolare la popolazione generale, ma anche i familiari degli esposti e, almeno in parte, degli ex esposti, non solo e indubbiamente noto, ma e anche certificato dal Piano nazionale. Nell’obiettivo n. 3 del Piano si afferma: "Nel merito, in primo luogo, va verificata la fattibilità di un intervento normativo di ampliamento dell’attuale platea anche a vittime di patologie non correlate ad esposizione lavorativa all’amianto, a condizione di individuare con certezza, unitamente al Ministero della salute (...), la platea dei beneficiari definendone, in modo dettagliato e puntuale, presupposti e condizioni".
È chiaro quindi che questo è un obiettivo, inserito nel piano, ma che ha carattere interlocutorio e non e immediatamente attuato. A tal proposito vorrei fare due ordini di considerazioni. La prima riguarda i dati, presenti non tanto nel Piano nazionale amianto quanto piuttosto nel Piano nazionale della prevenzione che si riferiscono alle malattie asbesto-correlate. Tra gli obiettivi del Piano nazionale amianto vi era quello di includere gli interventi di prevenzione su esposti ed ex esposti anche nel Piano nazionale della prevenzione, legando in tal modo un intervento a largo spettro con quello specifico contenuto nel suddetto Piano. Questo e quanto e stato fatto, tant’e che il Piano nazionale di prevenzione considera il problema, ma per gli interventi rinvia all’attuazione del Piano nazionale amianto, il quale attende il via dalla Conferenza Stato-Regioni.
Capisco che si potrebbe anche fare dell’ironia rispetto a una circolarità data dal fatto che il Piano nazionale amianto auspica l’inclusione degli interventi di prevenzione su esposti ed ex esposti anche nel Piano nazionale della prevenzione, il quale a sua volta rinvia al Piano nazionale amianto che però) e fermo in Conferenza Stato-Regioni; probabilmente si tratterebbe però) di un’ironia fuori luogo, poiché; in tal caso non si avrebbe contezza del fatto che c’è un nodo da sciogliere. Basti pensare che le malattie professionali, quelle asbesto-correlate - malattie tecnicamente definite rare - originano un tasso di mortalità uguale a quello di tutti gli infortuni sul lavoro, inclusi gli incidenti stradali connessi. L’impatto e quindi molto forte, considerato che tali patologie provocano la meta dei decessi per cause di lavoro. Tra l’altro, si tratta di un’epidemiologia il cui picco ragionevolmente sarà raggiunto tra il 2015 e il 2020 (probabilmente attorno al 2020).
Quello descritto e pertanto un dato di partenza. C’è poi un secondo dato da considerare e cioè che le operazioni di bonifica, vista la quantità enorme di amianto ancora presente nel Paese, dureranno molto tempo, per cui ci saranno molti lavoratori e cittadini interessati direttamente da tali interventi esposti al rischio. L’attenzione per la prevenzione del contatto con le fibre di amianto e oggi molto superiore rispetto a quella del passato, ma la vastità delle operazioni di bonifica e la loro capillarità, unita alla sensazione che molto spesso nei microcantieri di bonifica non si adottino tutte le attenzioni e le misure di prevenzione necessarie, ci porta a ritenere che la soglia d’allerta debba essere molto alta.
D’altra parte, il Piano nazionale della prevenzione dà indicazioni circa l’opportunità di elevare dal 15 al 20 per cento la quota di cantieri assoggettati alle ispezioni da parte delle ASL e degli Ispettorati del lavoro. La soglia di attenzione, dunque, non può scendere, ma deve aumentare.
A Bari, a fine gennaio, si e tenuta la III Consensus Conference italiana per il controllo del mesotelioma, nel corso della quale sono stati forniti dei dati, che vi riporto, ma che immagino la Commissione potrà acquisire anche per altra via, che a mio parere non vanno assolutamente ignorati. Secondo gli studi presentati a Bari, la bonifica di circa 32 milioni di tonnellate di materiali complessivamente contenenti amianto ancora presenti nel nostro Paese (ricordo che si stima che in Italia vi siano 3,7 milioni di tonnellate di amianto, ma occorre considerare che i materiali contenenti amianto ammontano a molto di pili) richiederanno 85 anni per essere rimossi.
Questo e un dato che, tra l’altro, potrebbe anche modificarsi nelle stime o crescere quantitativamente. A tale proposito, si pone un altro problema, ovvero quello relativo alla operazione di mappatura dei siti che, come peraltro e stato sottolineato già nel corso dei lavori di questa Commissione di inchiesta, e una operazione che lascia ancora spazio a molti approfondimenti, in quanto incompleta (la sua realizzazione, tra l’altro, e uno degli obiettivi dell’area ambiente del Piano nazionale amianto): il numero che circola di 34.000 siti e di sicuro in difetto, l’ultimo aggiorna-mento e del novembre 2014 e a quella data l’unica Regione non stata ancora censita mi risulta essere la Calabria. I dati mostrano sproporzioni notevoli tra i censimenti regionali che sembrano da riferire più alle modalità con cui i censimenti vengono effettuati che non alla situazione reale. Il 50 per cento dei siti da bonificare e presente nelle Marche ed in Abruzzo e questo e un dato che ovviamente induce a ritenere che vi sia una anomalia nel sistema di rilevazione. Una mappatura attendibile, comunque, e il presupposto per qualunque operazione di bonifica.
Vorrei anche aggiungere che c’è evidentemente una attenzione costante su questi temi, lo dimostra il fatto che il Ministero dell’ambiente non solo abbia recentemente anticipato almeno una parte del contenuto del Piano nazionale amianto relativa all’ambiente (decreto dirigenziale n. 182 del 2015), ma che già in sede di conversione del decreto-legge 12 settembre 2014, n. 133 sia stata dedicata particolare attenzione proprio agli interventi di bonifica dell’amianto da realizzare in uno dei siti più problematici, quello di Casale Monferrato. Oggi stesso il Governo, a quanto mi risulta, depositerà in Commissione ambiente un emendamento al cosiddetto collegato ambientale in cui, accanto ai crediti di imposta per le imprese, e previsto un fondo per la progettazione per gli enti pubblici.
Avviandomi alla conclusione, sempre a proposito di dati, ricordo che negli atti della Conferenza di Venezia che sono stati pubblicati, tra le azioni strategiche per il miglioramento della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori esposti ad amianto sui luoghi di lavoro era menzionata l’implementazione, all’interno del Sistema informativo nazionale per la prevenzione nei luoghi di lavoro (SINP), dei dati sulla presenza di amianto. In questa sede, approfitto per auspicare che, una volta finalmente attivato, il SINP possa aiutare i vari decisori nazionali e locali.
Per completezza segnalo, anche se non so se sia un tema di interesse per la Commissione d’inchiesta, l’opportunità di cominciare ad approfondire le possibili conseguenze che la scelta effettuata nell’Atto Camera n. 2613, recante disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario e la revisione del Titolo V, di ricondurre alla competenza esclusiva statale la materia della tutela e sicurezza del lavoro e non soltanto, come in una precedente stesura, le disposizioni generali e comuni, potrebbe comportare in un settore come questo, in cui le competenze regionali sono state esercitate non solo in termini programmatori ed amministrativi, ma anche legislativi; in tal caso tutta la materia verrebbe fatta rientrare nella competenza esclusiva statale e questo e un tema che occorre cominciare ad affrontare almeno dal punto di vista culturale.
Riassumendo, quello legato all’amianto e un problema di inquinamento ambientale con conseguenze sanitarie ed effetti sociali difficili e gravi, che però può e deve essere affrontato e questo era l’approccio con cui, tra l’altro, all’epoca introducendo il Quaderno n. 15 del Ministero della salute, parlavo di emergenza nazionale con riferimento alle malattie asbesto-correlate. Tutto questo certamente impatta sul problema delle tutele assistenziali e previdenziali così come impostate dal Piano nazionale amianto. Occorre considerare che il suddetto Piano in qualche misura, dando per presupposto che ci debba essere la definizione puntuale e circostanziata dei beneficiari e la quantificazione precisa dei costi, può condurre, una volta entrato in vigore, se non interpretato opportunamente, ad una sorta di stallo. Da questo punto di vista, quindi, probabilmente il Piano nazionale amianto potrebbe essere suscettibile di un approfondimento interpretativo.
Va poi ricordata un’altra circostanza, un profilo che so essere stato già rappresentato molto approfonditamente in sede di Commissione d’inchiesta, e cioè che all’esito del processo Eternit, per come si e concluso, la grande maggioranza delle vittime della utilizzazione industriale dell’amianto non ha ottenuto per via giurisdizionale adeguata tutela e ci sono evidentemente migliaia di persone, che avevano trovato il ristoro nei risarcimenti diretti da parte dei responsabili dei fatti di disastro accertati nei giudizi di merito, e che attualmente risultano private di questa tutela. E notizia recente, peraltro, quella dell’avvio di un nuovo processo Eternit per fatti di lesione e omicidio non contestati nel procedimento ormai concluso è l’esito, anche in termini di soddisfazione delle domande civili, per ora e indeterminato. È però inimmaginabile che il sistema non si interroghi su come rimediare ai vuoti di protezione che, per sua natura, la tutela giurisdizionale dei diritti rispetto a quella legislativa presenta. Da questo punto di vista, sollecitare una socializzazione del problema totale a scapito della valutazione di eventuali e puntuali responsabilità individuali - c’è stato qualche accenno in alcune audizioni anche in sede di Commissione - probabilmente e un approccio da approfondire, perché e chiaro che esistono entrambi i profili.
A tale proposito, vorrei portare l’esempio di un altro ordinamento, che tra l’altro viene considerato normalmente meno attento ad alcune esigenze di equità rispetto al nostro, quello statunitense: mi riferisco a quello della maggiore corporation del settore, la Johns & Melville, che al momento del fallimento negli anni Ottanta fu indotta a creare un trust fund con una certa dotazione, che allora era di 2,5 miliardi di dollari, cui hanno finora avuto accesso centinaia di migliaia di vittime. È chiaro che il problema di come riuscire a risarcire chi ha subito danni da esposizione all’amianto e un problema tuttora aperto, ciò detto, penso che questo possa essere comunque un elemento di utile riflessione.
Tra il 2011 e il 2013, per una serie di circostanze e di contingenze, il dibattito sull’amianto e stato riportato all’attenzione pubblica ed istituzionale del nostro Paese, quindi il mio auspicio e che la Repubblica nel suo insieme, quindi le istituzioni, tutti i livelli di governo ed anche tutto l’associazionismo che partecipa per ragioni di interesse generale, abbiano tratto insegnamento da tale dibattito e quindi che l’attenzione e l’impegno non calino.
Credo, signora Presidente, che il lavoro di questa Commissione possa rappresentare un fatto positivo anche in questa direzione».

Audizione dei rappresentanti della Conferenza Stato-Regioni
Nella seduta del 12 maggio 2015 sono intervenuti i rappresentanti della Conferenza Stato-Regioni. Il dottor Marchiori ha evidenziato che, pur essendo negli ultimi decenni diminuiti i livelli di esposizione all’amianto, si registra tuttavia una rilevante incidenza di tali patologie - attesi i lunghi tempi di latenza della malattia - soffermandosi poi sulle azioni poste in essere dalle regioni sul piano della sorveglianza epidemiologica del mesotelioma, nonché della sorveglianza sanitaria dei lavoratori «ex esposti», come pure sul piano della prevenzione e vigilanza sui lavori di bonifica.
Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo al predetto intervento:
«MARCHIORI. Signora Presidente, come Conferenza delle Regioni abbiamo predisposto un documento, che mi avvio ad illustrare, avvalendomi anche di altra documentazione, tra cui alcune slides la cui proiezioni oggi non e però) possibile e che quindi mi riservo di far avere alla Commissione insieme ad altri documenti.
Nell’ambito del nostro ragionamento prendiamo in esame patologie professionali legate all’esposizione ad amianto. La prima caratteristica di questo problema deriva dal fatto che l’attuale epidemia, soprattutto di neoplasie polmonari e mesotelioma che stiamo registrando, deriva dalla esposizione avvenuta negli anni passati. La massima esposizione si e avuta soprattutto nel decennio tra il 1960 e il 1970. Il periodo d’incidenza e il tempo di latenza della patologia neoplastica e del mesotelioma e di circa 40 anni. Quindi, oggi noi registriamo di fatto i danni derivanti da una pregressa esposizione professionale.
A questo proposito, bisogna considerare che, negli anni, i livelli di esposizione dei lavoratori si sono via via ridotti. Basti al riguardo pensare che intorno agli anni Settanta il TLV (il valore limite di soglia di esposizione indicato dagli igienisti industriali americani che serviva da riferimento del mondo scientifico) era fissato in 2,5 fibre di amianto per centimetro cubo. Oggi i limiti imposti dal decreto legislativo n. 81 del 2008 e di 0,1 fibre di amianto per centimetro cubo. Questo dato da l’ordine della riduzione dell’esposizione che negli anni si e progressivamente verificata.
Il nostro sistema sanitario ha iniziato a registrare i danni derivanti dall’esposizione ad amianto in termini di mesoteliomi a seguito dell’istituzione del Registro nazionale mesoteliomi, sancito dal decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 308 del 10 dicembre 2002. Da allora e per l’appunto attivo nel nostro Paese il Registro nazionale mesoteliomi, sostenuto dall’azione dei Centri operativi regionali, (indicati come COR nella documentazione allegata), che permettono di indagare tutti i casi di mesotelioma che si verificano nel territorio di competenza delle ASL. Per ogni caso viene svolta un’indagine, che spesso porta a un rapporto all’autorità giudiziaria, e che permette di stabilire il tipo di esposizione, se professionale, ambientale, domestica oppure non definibile.
Il Registro nazionale mesoteliomi nella quinta edizione, al momento in fase di stampa, riporta una casistica di oltre 19.000 casi di mesotelioma registrati dal 1993 ad oggi.
Il periodo mediano di esposizione degli affetti da questa patologia e di circa 46 anni e l’età di questa popolazione si aggira intorno ai 67 anni.
Questi dati saranno ricavabili dalla prossima pubblicazione del quinto Registro nazionale mesoteliomi, a cura dell’INAIL, che e costruito sulla base dei rapporti di tutte le Regioni e delle ASL che hanno proceduto alle indagini.
Circa il 70 per cento dei casi riferiti a queste patologie derivano da esposizione professionale; tra il 5 ed il 7 per cento dei casi proviene da esposizione ambientale, ed una percentuale analoga e dovuta a esposizione domestica.
Accanto all’attività di sorveglianza su questa patologia, che e tipica da esposizione all’amianto, vi e anche una attività diretta agli ex esposti sani, da noi definita sorveglianza sanitaria per lavoratori ex esposti, prevista dalla legge n. 257 del 1992 e da normative successive, ovvero la legge n. 626 del 1994 e ora il Testo unico del 2008.
Questa assistenza e già stata organizzata e attivata in 14 Regioni e, in totale, sono stati svolti circa 22.000 accertamenti. Considerato che L’INAIL ha riconosciuto oltre 120.000 lavoratori ex esposti, circa un quinto di questa popolazione e stata già interessata dalle azioni delle Regioni e delle ASL.
Uno dei problemi incontrati riguarda la disomogeneità dell’offerta di assistenza tra i vari territori. In alcuni casi si mettevano in atto accertamenti di primo livello, più basici, mentre in altri si procedeva subito con l’offerta di accertamenti diagnostici complessi, come ad esempio la TAC spirale. Pertanto, una delle esigenze che abbiamo avvertito a livello di sistema regionale e stata quella di concordare un protocollo omogeneo da proporre su tutto il territorio nazionale. Tale protocollo e stato approvato anche in Commissione salute la scorsa settimana ed e contenuto nel documento allegato alla relazione.
Il protocollo e anche l’esito di un progetto specifico del CCM (Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie), indirizzato a definire un protocollo di sorveglianza sanitaria per i lavoratori ex esposti amianto.
Il numero di casi di mesotelioma di origine professionale riconosciuti dall’INAIL, si aggirano intorno ai 500-600 in media all’anno, ad ogni caso di mesotelioma corrispondono circa 4 casi riconosciuti di tumore del polmone da amianto. Quindi si contano in media circa 500-600 casi annui di mesotelioma e circa 200-250 casi annui di tumore al polmone di origine professionale riconosciuti da INAIL. Questi dati, considerati nel loro insieme, ci portano a una casistica di decessi annui pari al numero degli infortuni mortali: annualmente noi registriamo infatti lo stesso numero di decessi per malattia professionale (causati all’80 per cento da amianto) e per infortuni sul lavoro, compresi gli incidenti stradali, come indica il primo grafico allegato al documento che consegneremo agli atti. E chiaro che stiamo parlando di esposizioni verificatesi prima dell’avvento della Riforma sanitaria, quando anche i poteri ispettivi e di controllo erano in mano allo Stato, in particolare all’Ispettorato del lavoro, che in quegli anni - posso dirlo per mia esperienza diretta - non aveva le competenze né il personale per svolgere controlli adeguati in materia d’amianto, basti pensare che in provincia di Verona c’era un solo ispettore. Questa era la situazione pregressa.
Attualmente, l’esposizione può avere luogo in due situazioni: ad esempio nel caso di lavoratori addetti ad attività di rimozione e decoibentazione. Sappiamo infatti che per effetto della legge n. 257 del 1992 e vietata la commercializzazione dell’amianto ed e solo possibile l’attività di decontaminazione e decoibentazione. Un altro caso e quello di lavoratori che saltuariamente possono essere esposti all’amianto a seguito di attività di manutenzione agli impianti industriali che contengono tale materiale sotto forma di guarnizioni, flange o coibentazioni. Le ditte che svolgono questa attività sono iscritte all’albo nazionale dei bonificatori; in Italia, in base al censimento del 2011, risultano essere circa 2.200 le ditte che hanno relazionato alle Regioni sull’attività svolta, per un totale di circa 16.000 lavoratori esposti. La sorveglianza sanitaria di questi lavoratori e in capo al medico competente e al datore di lavoro e le ASL svolgono azione di vigilanza e di controllo in due forme. Mi riferisco in primo luogo all’obbligo di notifica alla ASL ai sensi del decreto legislativo n. 81 del 2008, articoli nn. 250 e 256, dei lavori di decoibentazione con amianto. Le ASL ricevono quindi anticipatamente i piani di bonifica dell’amianto e pertanto in tempo reale si e conoscenza di tutta l’attività di decoibentazione svolta sul territorio, e nel 10-15 per cento dei casi - dato medio nazionale - si svolge anche un intervento di tipo ispettivo indirizzato ai cantieri che per caratteristiche, dimensioni e tipo di amianto (friabile e non compatto) sono a rischio maggiore. I dati di esposizione dei lavoratori misurati dalla struttura pubblica - cito un lavoro pubblicato dalle ASL della Regione Umbria - evidenziano che con l’adozione dei dispositivi e delle procedure di protezione individuali previsti dalla normativa si garantiscono livelli adeguati di tutela dei lavoratori, soprattutto per i lavori con amianto compatto; per quelli con amianto friabile i livelli di esposizione sono tali da richiedere le ulteriori misure di protezione previste dal citato decreto legislativo n. 81 del 2008. Sui lavori per amianto di tipo friabile le ASL garantiscono il controllo nella totalità dei casi
Questo per quanto riguarda l’attività di prevenzione e di vigilanza. Per ciò) che concerne invece l’altra forma di controllo, a fine anno le Regioni e le ASL ricevono dalle ditte che hanno effettuato bonifiche sul territorio di competenza la relazione sull’attività svolta ai sensi dell’articolo della legge n. 257 del 1992.
In realtà, questa e anche una sorta di duplicazione rispetto alle comunicazioni fatte ai sensi dell’articolo 250 del citato decreto legislativo, peri) aggiunge informazioni ulteriori circa l’elenco dei lavoratori esposti e i livelli di esposizione; ogni Regione e quindi in grado di avere contezza dei lavoratori esposti e anche dei livelli di esposizione dichiarati dal lavoratore.
Nel 2013 sono stati trasmessi alle ASL un totale di oltre 86.000 piani di bonifica amianto e il controllo e stato svolto in 11.500 cantieri.
Una rilevazione effettuata nel 2011 evidenziava che a circa 80.000 piani di bonifica corrispondono 500.000 tonnellate di materiale contenente amianto avviato in discarica. Questo e il volume complessivo dell’attività di decoibentazione che annualmente viene svolta. Devo anche dire che secondo la rilevazione dal 2008 al 2013 i dati sono in aumento; in particolare, nel 2008 avevamo registrato 52.000 piani di bonifica amianto contro gli 86.000 del 2013, quindi stiamo parlando di un’attività ancora in svolgimento e sembra addirittura in via di incremento e questo e un dato positivo perché indica una progressiva dismissione dell’amianto nel Paese.
Se mi e consentito, vorrei ora illustrare complessivamente le attività effettuate dalle ASL per meglio chiarire l’opera di prevenzione svolta sul territorio.
In base al decreto del presidente del Consiglio dei ministri del 17 di-cembre 2007 «Patto per la tutela della salute e la prevenzione nei luoghi di lavoro», siamo tenuti garantire un livello essenziale di assistenza pari al controllo del 5 per cento delle unità locali con dipendenti site nel territorio (troverete questo dato nel documento che trasmetteremo). Monitoriamo queste informazioni dal 2006 e dal 2009 garantiamo la copertura su tutto il territorio nazionale dei livelli essenziali di assistenza, raggiungendo il controllo di oltre il 6 per cento delle unità locali sul territorio. Questa attività si concretizza essenzialmente in circa 150.000 ispezioni svolte annualmente sul tutto il territorio nazionale. Ad esse corrispondono circa 50.000 violazioni contestate ai datori di lavoro per inosservanza delle norme previste dal decreto legislativo n. 81 del 2008. Nel 2013 le relative sanzioni comminate hanno comportato un introito di 40 milioni di euro.
Un’altra attività interessante e il controllo in materia di direttiva macchine. Il monitoraggio svolto con l’INAIL dal 2010 al 2013 evidenzia che complessivamente sono state segnalate al Ministero dello sviluppo economico inosservanze della direttiva europea macchine in 3.000 casi; sono state inviate al Ministero 3.000 segnalazioni che nell’80 per cento dei casi sono state confermate e le ASL hanno dato luogo a 2.600 verifiche. Questo controllo diffuso del territorio e una delle caratteristiche dell’attività di vigilanza delle ASL. La direttiva macchine comporta la messa a norma delle macchine e quindi la soluzione di un problema che riguarda non solo l’Italia, ma l’intero territorio europeo.
Sempre nell’ambito delle attività svolte dalle ASL mi sembra importante sottolineare le ispezioni effettuate annualmente in oltre 50.000 cantieri edili ed in circa 8.000 aziende agricole. A fronte di questa attività, sul piano giudiziario nel 2013 abbiamo svolto 15.000 inchieste per infortuni gravi o mortali, con 4.599 denunce all’autorità giudiziaria per violazione della normativa sulla sicurezza sul lavoro.
Sono state inoltre indagate oltre 9.200 malattie professionali, con 859 evidenziazioni di violazione della normativa sulla sicurezza del lavoro.
Teniamo a sottolineare che i dati derivanti dal monitoraggio dell’attività svolta dai medici competenti in base all’articolo 40 del decreto legislativo n. 81, allegato 3B, evidenziano circa 16.000 lavoratori attualmente esposti all’amianto e circa 125.000 lavoratori esposti a cancerogeni. Questa e quindi una popolazione che siamo in grado di attenzionare, perché; conosciamo le aziende, i protocolli sanitari svolti ed i colleghi medici competenti che tutelano questa popolazione.
Tornando, invece, all’argomento amianto, mi avvio a concludere ribadendo che il monitoraggio sui casi di mesotelioma e garantito da anni attraverso il Registro nazionale mesoteliomi e attraverso i Centri operativi regionali istituiti e operativi in tutte le regioni.
Il controllo sui lavori di bonifica in corso e garantito attraverso gli strumenti del decreto legislativo n. 81, articoli 250 e 256, e l’attività di controllo sui lavori e svolta dalle ASL che, nel 15 per cento dei casi, intervengono direttamente nel cantiere in termini di sorveglianza sanitaria, controllando le procedure di sicurezza e i livelli di esposizione.
Il Piano nazionale prevenzione e il Piano nazionale amianto prevedono lo sviluppo di una ulteriore azione finalizzata a evidenziare, non i casi di mesotelioma, rispetto ai quali l’azione e già garantita, ma i tumori a bassa frazione eziologica e, in questo caso, i tumori polmonari derivanti da esposizione ad amianto. Riteniamo, infatti, che l’attuale dato sottostimi il fenomeno. A questo fine, il Piano nazionale prevenzione e il Piano nazionale amianto prevedono l’attivazione, attraverso i Centri operativi regionali, di sistemi di sorveglianza epidemiologica basati sui registri degli esposti a cancerogeni, previsti dal decreto legislativo n. 81 del 2008, e sulle SDO (scheda di dimissione ospedaliera). L’incrocio di questi archivi consente di monitorare possibili casi di patologie occupazionali che possono essere collegati all’esposizione professionale a cancerogeni. Questo e un obiettivo sia del Piano nazionale prevenzione che del Piano nazionale amianto.
Rispetto a quest’ultimo piano le Regioni hanno espresso parere favorevole. Tengo a sottolinearlo perché tale piano non e fermo in Conferenza Stato-Regioni perché da noi osteggiato, ma in quanto il Ministero dell’economia e delle finanze ha segnalato problemi di ordine economico che devono essere superati; torno tuttavia a ribadire che dal punto di vista dell’operatività sanitaria, da parte delle Regioni non vi e alcuna obiezione. E tengo particolarmente a evidenziarlo perché al riguardo ho letto interpretazioni diverse.
Sempre sulla base di quanto previsto dal citato articolo 9 (mi riferisco ai dati che annualmente ricevono le Regioni), siamo altresì in grado di garantire la mappatura dei siti che in ogni Regione vengono considerati a maggior rischio, a causa della presenza di amianto friabile.
La collaborazione avviata con il Ministero del lavoro attraverso una Commissione nel 2008 ha portato a varie proposte che però), attualmente, non hanno ancora prodotto nessun atto concreto se non l’approvazione la settimana scorsa, in sede di Conferenza Stato-Regioni, dell’accordo con-cernente l’accreditamento dei laboratori che effettuano i controlli in materia di esposizione da amianto. Questo può essere considerato un primo risultato dei lavori che da tempo avevamo attivato.
È all’esame della conferenza tecnica, e penso che potrà essere definita rapidamente la modulistica per la relazione annuale di cui all’articolo 9 della citata legge n. 257 del 1992, relativa alle comunicazioni che le ditte che svolgono i lavori di decoibentazione devono trasmettere alle ASL e alle Regioni.
Ho concluso l’illustrazione del documento, che lasciamo agli atti e che contiene anche la proposta di protocollo per la sorveglianza sanitaria dei lavoratori ex esposti ad amianto che, come Regioni, abbiamo già condiviso in Commissione salute e che risponde anche ad un altro obiettivo, sia del Piano nazionale di prevenzione sia del Piano nazionale agricoltura.
Vorrei anche sottolineare come questa attività richieda un elevato livello di competenza tecnica da parte del personale, mi riferisco soprattutto a chimici e ispettori, che da decenni rappresenta un patrimonio culturale delle ASL. Poiché è difficile trasportare questo know how in altra amministrazione in tempi rapidi, se si trasferiscono le competenze di vigilanza il rischio che si corre e la creazione di un vuoto tecnico, così come e avvenuto in passato prima del varo della Riforma sanitaria».

Audizione dei rappresentanti di ADR
Nella seduta del 19 maggio 2015 sono intervenuti i rappresentanti di ADR. Il dottor MANGANO si e soffermato sulle varie misure poste in essere nel periodo successivo allo sviluppo dell’incendio avvenuto nell’Aeroporto di Fiumicino la notte tra il 6 e il 7 maggio 2015 e sui moduli procedurali utilizzati per gestire tale emergenza, fornendo una descrizione articolata delle varie fasi di intervento.
Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo al predetto intervento:
«MANGANO. Signor Presidente, partirò innanzitutto dalla ricostruzione del fatto, così da avere dei punti in comune su quanto accaduto.
Credo sia noto che il 6 maggio scorso, intorno alle ore 23,57, si e evidenziato un allarme per fumo che e stato intercettato, come di consueto
e come previsto, da una sala operativa di Aeroporti di Roma. Tale allarme automaticamente e stato trasmesso ai Vigili del fuoco, che intorno alle ore 0,05 - 0,06 del 7 maggio hanno attivato quello che viene definito il livello verde, del manuale verde. Premetto e spiego che cosa si intende per «manuale verde». Abbiamo tre manuali, redatti da Aeroporti di Roma insieme agli altri operatori interessati, che poi vengono approvati dall’Ente nazionale per l’aviazione civile (ENAC), che è il nostro concedente: ci sono un manuale rosso, uno verde e uno blu. Il manuale rosso si applica in caso di crash di aeromobili - e non è questo il caso - il manuale blu si applica in caso di bombe a bordo - e anche questo non è il caso - e poi c’è il manuale verde, che riassume le procedure relative a un incendio all’interno dell’aeroporto, sia di minima che di massima entità. La responsabilità dell’attivazione del manuale spetta ai Vigili del fuoco che, ricevuto il primo segnale, valutano e decidono di che tipo di livello si tratti. All’inizio il segnale e stato valutato di livello verde, dopodiché e diventato di livello giallo ed ecco che ha inizio il caso dell’incendio.
Appena accaduto quanto sopra descritto, circa 100 persone hanno ricevuto automaticamente questo messaggio e si sono attivate secondo ciò) che prevede la procedura per eventi di questo tipo, ovviamente capitanati o comunque diretti dai Vigili del fuoco, visto che si trattava di un incendio.
Nel caso in questione siamo stati avvisati tutti e nella mattinata si e creato un primo comitato di crisi o di concertazione (nella sede ENAC locale, che e il soggetto concedente, quindi del direttore dell’aeroporto) i cui membri sono andati a constatare il problema e hanno concertato sul da farsi. A questo comitato partecipano tutti coloro che agiscono all’interno del sedime aeroportuale, dagli operatori aeroportuali, alle Forze dell’ordine, ai Vigili del fuoco. c’è stato un primo Notam (Notice to Airmen) emesso dall’ENAC, che ha sospeso l’attività dal giorno 7 maggio, fino alle ore 14. Nel frattempo e stata presa una serie di misure di sicurezza, bloccando l’autostrada e i treni. Si e voluto evitare, da parte delle Forze dell’ordine, l’afflusso della gente.
Per quanto riguarda la dimensione del traffico passeggeri, ricordo che in questo periodo, normalmente, vengono trattati dai 100.000 ai 130.000 passeggeri al giorno, per cui probabilmente le Forze dell’ordine hanno valutato come complessivamente pericolosa per l’ordine pubblico l’affluenza di questo volume di passeggeri, nel momento in cui l’attività era sospesa, e quindi hanno deciso di bloccarla.
Dopo le ore 14 la situazione e stata rivista daccapo, lo stesso comitato ne ha discusso dopodiché l’aeroporto e ritornato in attività, in tutti i terminal non interessati dall’evento. Il terminal T3, quello in cui e accaduto l’incidente, e rimasto fermo e non c’era alcun tipo di attività, mentre hanno ricominciato ad attivarsi e ad organizzarsi i terminal T1, T2 e T5. Ovviamente l’attività normale e stata molto ridotta direi al 40-50 per cento dell’attività. Ciò che ha spinto alla riattivazione degli altri terminal non interessati dall’evento incendiario - questo e un mio giudizio, ma era quello che si riteneva opportuno in quel momento - e il fatto di dover garantire quanto pili possibile l’operatività dello scalo e quindi il diritto dei passeggeri a volare.
Nel frattempo abbiamo immediatamente attivato una serie di iniziative. Ci siamo ad esempio rivolti ad una società, primaria nel mondo, la multinazionale Belfor, specializzata in recovery disaster, quindi in caso di alluvioni, incendi e terremoti. Abbiamo immediatamente attivato questa società, che il giorno 7 maggio ha cominciato a mettere in sicurezza la parte di aerostazione interessata dall’incendio. Mettere in sicurezza significa transennare e bonificare gli ambienti; peraltro erano già stati chiusi tutti i bocchettoni dell’aria condizionata, in modo da evitare che le polveri potessero diffondersi dentro l’aerostazione.
Nello stesso tempo sono arrivati i nostri medici competenti, del reparto salute pubblica (RSP), che hanno cominciato ad approntare le misure e i dispositivi personali per poter garantire successivamente l’accesso nell’area, e si e dato inizio agli interventi di sostituzione dei filtri dell’impianto di areazione della parte di aerostazione interessata. Questo intervento di sostituzione dei filtri e di bonifica dei canali, che ha avuto inizio a quella data, sta tuttora continuando.
Dopodiché abbiamo interessato una società di rilevazione e monitoraggio della qualità dell’aria, la Hsi Consulting, che ha cominciato a valutare quali agenti analizzare e monitorare, mettendone sotto controllo circa 100. È stata fatta una verifica per quanto riguarda la presenza di amianto, su cui abbiamo un monitoraggio continuo e una certificazione. Attraverso la certificazione si e constatato che non c’è amianto in aerostazione, sia in quella che nelle altre parti dell’aerostazione e nei terminal passeggeri. Questo e stato dunque un altro elemento che abbiamo valutato.
In costanza, e continuata l’attività dei comitati di crisi o di concertazione, con tutti i partecipanti che in precedenza ho elencato e, man mano, l’aerostazione ha cominciato a riprendere un po’ di attività. Il giorno 8 maggio siamo riusciti a garantire maggiore operatività e anche ad utilizzare alcuni check-in del terminal T3. Abbiamo fornito i dispositivi previsti e abbiamo distribuito circa 3.000 mascherine chiamate FFP3, ovvero delle mascherine che servono a proteggersi in questo genere di casi. Le abbiamo distribuite anche ai passeggeri, che passavano da quel lato. Per maggiore chiarezza, faccio presente che stiamo parlando di una zona non toccata dall’incendio e abbastanza lontana dall’area in cui si e sviluppato, ma in cui si avvertivano degli odori e degli effluvi nell’aria che potevano dare fastidio, ed e per questo che abbiamo distribuito le mascherine.
Il giorno 9 maggio ha avuto luogo un’ulteriore riunione in sede ENAC, nell’ambito della quale si e dato conto delle certificazioni delle analisi preliminari, i cui risultati sono state distribuiti e commentati.
Quindi si e dato inizio ad un ciclo di verifiche quotidiane dell’aria. Per esser più chiaro: abbiamo ricercato più di 100 agenti inquinati e più di 80 non sono stati rilevati perché presentavano valori inferiori alle soglie di rilevabilità; quanto ai 20 che abbiamo rilevato, essi presentavano indicatori possibili, nel senso che erano tutti al di sotto della soglia prevista dalla norma. Gli agenti ricercati sono state le sostanze organiche volatili, le polveri, i metalli, gli idrocarburi policiclici e aromatici, le diossine, i furani e i fenoli. Già dalla sera del 7 maggio e nei giorni successivi, soprattutto nella giornata dell’8 maggio, abbiamo posto in funzione 21 apparecchiature per il trattamento dell’aria e per l’abbattimento degli odori, più tre estrattori di aria, in questo modo abbiamo trattato 85.000 metri cubi ora di aria. Il giorno successivo abbiamo messo in opera altre 17 apparecchiature per un totale quindi di 38 macchine (si tratta di apparecchiature che sparano aria, la riciclano, ottenendo così un ricambio dell’aria stessa), arrivando così a trattare circa 95.000 metri cubi di aria all’ora. Questo e uno degli interventi principali che i nostri medici competenti, insieme agli altri medici che partecipavano alle riunioni, ci hanno suggerito di fare.
Questa serie di attività hanno rappresentato la prima parte del nostro intervento nell’ambito del quale abbiamo anche distribuito i dispositivi per le zone gialle.
Il 12 maggio ha poi avuto luogo una riunione in prefettura, cui siamo stati invitati insieme alle organizzazioni sindacali che avevano sollecitato questo incontro. Nell’interesse generale ci siamo presi il compito temporaneo di coordinamento dei datori di lavoro presenti in aeroporto e dei medici competenti, in modo da creare un raccordo continuo e decidere insieme come comportarci. Al riguardo non mi risulta esistere alcuna previsione normativa che preveda che Aeroporti di Roma debba essere responsabile di questo coordinamento. Non c’è dubbio che Aeroporti di Roma sia responsabile in qualità di datore di lavoro per i propri lavoratori e i propri ambienti, ciò) detto, abbiamo assunto il coordinamento semplicemente perché abbiamo ritenuto che in quel momento ci dovesse essere qualcuno ad organizzare, siamo stati sollecitati in tal senso e abbiamo assunto la responsabilità di questo coordinamento con piacere. Abbiamo svolto delle riunioni successive - formulando dei verbali - cui hanno partecipato tutti gli operatori aeroportuali, compresi quelli commerciali. Nell’ambito delle suddette riunioni abbiamo stabilito come procedere: abbiamo in primo luogo definito la planimetria con le zone rosse che rimarranno tali e che sono state oggetto dell’incendio, ove la Belfor ha lavorato e continua ad operare. Sono state inoltre individuate le zone gialle dove si accede grazie all’utilizzo dei dispositivi cui facevo prima riferimento e le zone verdi dove si può sostare tranquillamente. La definizione e la differenziazione tra zona gialla e zona verde e dipesa dalla qualità dell’aria e, quindi, dalle analisi che man mano hanno avuto luogo».

Audizione dei rappresentanti delle Organizzazioni sindacali CGIL, CISL e UIL
Nella seduta del 19 maggio 2015 sono intervenuti i rappresentanti delle Organizzazioni sindacali CGIL, CISL e UIL. Il signor Calleri ha ricostruito gli eventi relativi all’incendio in questione, fornendo una disamina dettagliata delle varie circostanze verificatesi, e successivamente la signora Mascoli si e soffermata in modo specifico su taluni aspetti critici, tra i quali la disomogeneità delle valutazioni dei vari medici competenti, il mancato coinvolgimento tempestivo delle RSL e i problemi di salute accusati da numerosi lavoratori in conseguenza dell’incendio. Il Signor Carletti dopo un’analisi di numerosi profili attinenti alla vicenda in questione, si sofferma in modo particolare sulle risultanze delle campionature tecniche effettuate dopo l’incendio, come pure sui problemi di salute che hanno afflitto numerosi lavoratori nel lasso di tempo successivo all’evento. Il signor Di Vincenzo ha sottolineato in particolare la disomogeneità delle valutazioni dei medici competenti per le forze di polizia operanti nell’aeroporto rispetto a quelle effettuate dai restanti medici competenti, ponendo altresì l’accento sul senso di responsabilità manifestato in tale occasione dai lavoratori collocati in ambito aeroportuale. Il signor Mari ha espresso dubbi sull’adeguatezza degli impianti antincendio di talune aree e ha sottolineato altresì la carenza delle informazioni fornite ai lavoratori interessati, con tutti i conseguenti profili di incertezza e di disagio. Il signor Lauri, dopo aver evidenziato la disomogeneità delle valutazioni effettuate dai vari medici competenti, ha posto il problema del possibile aumento dell’incidenza infortunistica in ambito aeroportuale a seguito dell’incremento degli stati ansiosi per i lavoratori interessati - molti dei quali hanno manifestato diversi problemi di salute in conseguenza dell’evento - e infine ha posto l’accento sugli eventuali rischi tumorali a lungo termine.
Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo ai predetti interventi:
«CALLERI. Signora Presidente, innanzitutto rivolgo un ringraziamento alla Commissione per questa audizione che ci consente di entrare nel merito di fatti secondo noi abbastanza importanti, soprattutto per il rilievo che assumono anche a livello pili generale.
Sappiamo, infatti, che in particolare il decreto legislativo n. 81 del 2008 riconosce l’esistenza di una problematica particolare nei luoghi in cui si muove una grande quanti di lavoratori e dove c’è una interazione con i clienti delle società aeroportuali.
Prima di entrare nella disamina dei fatti che si sono sviluppati in questa particolare occasione, su cui lascerò la parola nello specifico ai colleghi, vorrei precisare che quello che ci e balzato subito agli occhi, che sapevamo e che riteniamo dovrebbe essere al centro da questa nostra discussione, e il fatto che non esista un protocollo specifico per l’aeroporto di Fiumicino per quanto riguarda la salute e la sicurezza. Ciò) e dovuto a due problematiche, la prima delle quali e la polverizzazione delle responsabilità rispetto alla filiera produttiva tra Aeroporti di Roma ed ENAC. Immagino che prima di me i rappresentanti imprenditoriali vi abbiano ben spiegato tale situazione che, ovviamente, comporta uno sforzo maggiore per gestire non solo le emergenze, ma anche l’ordinaria amministrazione, considerato che in un sito così grande e con un numero così elevato di persone e di lavorazioni esistono delle interferenze, che secondo noi non sono abbastanza indagate. Proprio per questo sarebbe invece il caso di prendere spunto da questo accadimento per provare a fare qualcosa in pili, cioè per tentare, con l’aiuto delle istituzioni vigilanti (al riguardo noi per primi ci facciamo parte diligente), di arrivare a un protocollo di gestione di questo sito (come e stato fatto in altre occasioni, ad esempio per i porti) al fine di avere una migliore gestione di questi eventi quando essi si verificano.
Vorrei altresì rilevare che anche dal punto di vista esclusivamente lavoristico, e non solo della salute e sicurezza, rimangono in piedi dei problemi. Intendo dire che noi conosciamo in gran parte le criticità direttamente relative ai lavoratori aeroportuali, ma occorre considerare che in quell’area sussiste anche un sito commerciale, che e oggetto delle indagini della magistratura per quanto riguarda l’origine dell’incendio. Noi non possiamo dirlo perché non siamo noi a condurre le indagini, ma sembra sia stato interessato anche qualche esercizio commerciale; ci sono lavoratori coinvolti che sono stati costretti a recarsi al lavoro nonostante non fossero stati fatti accertamenti tempestivi riguardo alla eventuale pericolosità per la salute degli ambienti, lavoratori che peraltro rischiano anche il loro posto di lavoro per la chiusura di alcuni di questi esercizi (che io sappia, si parla anche di una libreria abbastanza famosa).
Noi presentiamo questo come un problema sicuramente accessorio, ma ritengo che sarebbe importante capire che i problemi di sicurezza hanno ricadute occupazionali e più generali di grande rilievo, questo significa che la tutela del lavoratore deve essere totale, a 360 gradi.
MASCOLI. Signora Presidente, ringrazio anche io la Commissione per l’opportunità di esporre la nostra visione dei fatti. Come ha anticipato il collega Calleri, il problema che abbiamo registrato noi rappresentanti dei lavoratori durante questo evento eccezionale e drammatico e legato al fatto che data la particolarità del sito produttivo aeroporto di Fiumicino, si siano registrate pressioni abbastanza forti perché il traffico aereo riprendesse il più presto possibile, per garantire il diritto alla mobilita dei cittadini; ciò) ha comportato probabilmente il fatto che, stante l’urgenza, ci siano stati determinati interventi da parte di Aeroporti di Roma. Abbiamo fatto un censimento, confermato da Aeroporti di Roma, dal quale risulta che nell’aerostazione di Fiumicino ci sono 130 diversi datori di lavoro; come diceva il collega Calleri, e proprio con riferimento alla salute e alla sicurezza, abbiamo potuto rilevare innanzitutto che e stata disposta la riapertura dell’aeroporto prima che fosse stato possibile fare rilevamenti d’indagine da parte di Aeroporti di Roma, per verificare la salubrità dei luoghi di lavoro per i passeggeri e per i lavoratori. Inoltre, immediatamente dopo, nella nostra interlocuzione con tutti i datori di lavoro, oltre a rilevare che gli RLS competenti non erano stati coinvolti in quasi nessuna realtà, abbiamo soprattutto notato una disparita nella valutazione di questi rilevamenti da parte di ogni medico competente e di ogni datore di lavoro, pertanto si e avuta una disomogeneità di interventi a tutela dei lavoratori. Ad esempio, da parte della Polizia di Stato, era stato disposto che alcuni luoghi dell’aeroporto non potessero essere frequentati dagli agenti di polizia, mentre altri lavoratori di altre realtà produttive hanno continuato a lavorarci, alcuni indossando mascherine ed altri senza protezione; per alcuni sono stati predisposti dei turni in base ai quali ogni tre ore veniva consentita una sosta di un quarto d’ora all’aperto. Il problema e che c’è stata una disparita di trattamento, derivante soprattutto dalla forza dell’azienda o dal rapporto di lavoro, nel senso che, come al solito, i lavoratori a tempo indeterminato sono maggiormente garantiti rispetto a quelli a tempo determinato, i quali non si sono rifiutati di andare a prestare la propria opera. Si consideri al riguardo che l’aeroporto di Fiumicino e un sito produttivo in cui il numero dei lavoratori stagionali e altissimo. Per queste ragioni abbiamo immediatamente richiesto una convocazione di tutti datori di lavoro, ma soprattutto di Aeroporti di Roma, chiedendo che la società assumesse il coordinamento di quanto avveniva all’interno dell’aeroporto. Per riuscire a ottenere tutto ciò) siamo dovuti arrivare a un’azione di sciopero, che mai avremmo voluto perseguire in un caso così straordinario, e a un incontro in prefettura, nel quale siamo finalmente riusciti a ottenere che Aeroporti di Roma assumesse la responsabilità di coordinare i datori di lavoro che intervengono nell’ambito dell’aeroporto. Una prima riunione si e quindi tenuta solo il 14-15 maggio e ha visto la partecipazione di tutti i datori di lavoro e i medici competenti onde definire insieme un protocollo che potesse essere indicato a tutti i lavoratori e agli RLS.
Il problema e che vi e un limite normativo. Ci viene infatti confermato da Aeroporti di Roma il fatto che questo protocollo non e cogente, pertanto, se qualche medico competente continuerà ad avere valutazioni differenti, in realtà Aeroporti di Roma non potrà in alcun modo imporre determinati comportamenti. Anche in ragione di quanto osservato dal collega Calleri, probabilmente c’è un vuoto normativo che andrebbe colmato da questo punto di vista.
Quello che noi rappresentanti dei lavoratori abbiamo rilevato è il fatto che rispetto ad un caso così eccezionale non fosse stato definito un metodo di comportamento già approntato, tale da consentire di agire in maniera pili tempestiva. Anche perché tutti i rilievi che abbiamo fatto, come rappresentanti dei lavoratori, ci hanno confermato che non ci sono problemi rilevanti che porteranno a patologie gravi tra i lavoratori; ciò detto, che c’è un numero abbastanza elevato di persone - Aeroporti di Roma conferma che sono circa 130 - che nei primi giorni successivi all’incendio sono dovute ricorrere al pronto soccorso aeroportuale, lamentando patologie di vario tipo. Non abbiamo invece potuto avere una informazione più precisa circa il numero di coloro che sono ricorsi al pronto soccorso del proprio Comune di appartenenza o del proprio distretto nel Comune di Roma.
CARLETTI. Anche io mi associo ai ringraziamenti per l’audizione, che ci dà modo di fare alcune riflessioni sull’epilogo di questa situazione critica, che ovviamente nessuno avrebbe auspicato. Non siamo certamente qui per mettere il dito nella piaga o prendercela con qualcuno, ma semplicemente per fare delle riflessioni circa il modo con cui intervenire e gestire al meglio questa criticità. Questo evento si e verificato in un aeroporto strategico in termini di grandezza e di rilievo per il territorio nazionale, sia per la situazione esistente, sia, soprattutto, per la capacita di sviluppo dell’aeroporto, anche attraverso il contratto di programma, che e stato definito in precedenza.
La nostra preoccupazione e che tale criticità possa poi produrre dei ritardi nello sviluppo aeroportuale e sul piano infrastrutturale, con ricadute anche sul livello occupazionale. Come ha ricordato la collega intervenuta prima di me, in questo aeroporto c’è una percentuale molto elevata di contratti a termine e quindi di lavoro precario; non vorremmo quindi che anche il livello occupazionale ne risentisse, ponendo problematiche con cui successivamente occorrerebbe fare i conti.
Abbiamo effettivamente notato come la mancanza di un protocollo di sito per la gestione delle emergenze generi un vuoto, anche in riferimento al testo unico sulla sicurezza, da definire con il gestore aeroportuale, ma anche con le istituzioni locali. Anche se non abbiamo memoria di eventi del genere che abbiano in precedenza coinvolto l’aeroporto di Fiumicino, dobbiamo comunque fare i conti con eventi di questo tipo. Sicuramente non spetta a noi, ma alla magistratura indagarne le cause, ciò) detto, dobbiamo comunque prendere atto di quello che e accaduto nell’aeroporto pili importante d’Italia.
Passando alle questioni relative alla gestione dell’emergenza, e vero che la richiesta di un intervento della prefettura, che ha coinvolto la direzione aeroportuale, l’ENAC e tutti gli attori competenti, affinché ci fosse una visione nella gestione dell’emergenza, ha destato la preoccupazione delle parti sindacali. Tant’e vero che, nell’ambito di tale gestione, la prima riunione messa in piedi dalle istituzioni locali e dall’ENAC, insieme al gestore aeroportuale, AdR S.p.A., e stata fatta per commissionare alla società Hsi Consulting - una società esperta nel campo delle indagini ambientali - un intervento di campionatura nelle zone in cui e avvenuto l’incendio, ovvero nell’area del terminal T3 - parliamo di oltre 1.000 metri quadrati di superficie interne - sia per ciò che riguarda il profilo ambientale sia per ciò che attiene alla tutela della salute. Le indagini compiute da questa società specializzata in diverse aree hanno prodotto dei risultati e il professor Soldati, direttore scientifico della suddetta società, nella riunione del 9 maggio, con le autorità, l’ENAC e il gestore aeroportuale, ha certificato che i parametri di indagine sulle sostanze organiche e volatili - quindi su idrocarburi, metalli, polveri e fibre aerodisperse - non hanno superato i limiti previsti dalla normativa sia nazionale, sia internazionale. Non ci sono dunque situazioni di insicurezza per la salute dei lavoratori che devono operare nelle aree vicine al terminal T3 e soprattutto per i lavoratori che devono sostare in piazzole vicine al terminal T3, secondo i cicli di lavoro determinati dai contratti, che tutti conosciamo, che prevedono una prestazione fissa di otto ore. Non sono un esperto e non voglio neanche contestare i valori delle campionature rilevati da questa società, che è per l’appunto una società specializzata. Leggendo i dati, noto però) che per tutti i composti volatili si ha un valore pari a 0,01 milligrammi per metro cubo. Questo valore si riscontra per tutte le fattispecie che sono state analizzate. Chiedo dunque se sia possibile che non ci sia alcuna variabilità nel risultato delle varie campionature fatte in diverse zone del terminal T3 e che non ci siano valori diversificati. Non dimentichiamo che le sostanze organiche e volatili campionate sono sostanze plastiche e derivano dalle guaine degli impianti elettrici che certamente rilevano, sotto il profilo della compatibilità alla normativa, sull’aria di ricircolo. Nonostante la presenza di questi valori omogenei, il medico del lavoro competente di Aeroporti di Roma sostiene che la certificazione di questi dati, da parte della società in questione, non evidenzia condizioni di pericolo per i lavoratori che operano in postazione fissa nel terminal T3. Lo stesso medico del lavoro, competente per il gestore aeroportuale, certifica peri) la presenza di sintomi accusati dai lavoratori, come secchezza e bruciore agli occhi, problemi alla faringe e problemi gastrici, con episodi di crampi e di rigetto. Come diceva la collega Mascoli, i lavoratori non si sono rivolti solo al medico legale del gestore aeroportuale, ma anche ai presidi ospedalieri della sanità pubblica. Questo e un primo dato da prendere in considerazione, signora Presidente: e lo stesso medico che certifica che, sebbene la società specializzata per le indagini affermi che i dati raccolti siano conformi alle norme nazionali e internazionali, sono stati evidenziati i già citati sintomi da parte dei lavoratori. Aggiungo che, a distanza di 12 giorni questi sintomi persistono e ci sono dunque dei lavoratori che, nell’ambito dei propri cicli lavorativi, risentono di disturbi e problemi di questa natura.
Il medico competente del gestore aeroportuale afferma che si può ovviare a questi sintomi e a queste patologie, semplicemente bevendo, per evitare i disturbi alla faringe, oppure, nel caso del bruciore agli occhi, utilizzando dei colliri tradizionali. Il 14 di maggio si e tenuta una riunione - dopo quella svoltasi il 12 maggio in prefettura - per individuare soluzioni condivise in termini di sicurezza e di prevenzione e tutela per i lavoratori utilizzati e collocati nelle varie zone e nelle varie aree. Il 14 di maggio il gestore aeroportuale, insieme alle autorità locali, a tutte le compagnie aeree e a tutti gli attori coinvolti in aeroporto ha definito un protocollo di gestione.
Il gestore ha individuato tre tipologie di aree, quella verde in cui l’ac-cesso e permesso a tutti, l’area gialla, in cui l’accesso e limitato alle persone addette ai lavori e che ci comunque vi transitano per gestire l’attività che deve essere svolta, e l’area rossa, quella colpita direttamente dall’incendio, posta sotto sequestro, in cui l’accesso e vietato a tutti e per qualsiasi motivo.
Nonostante ciò, nella riunione del 14 maggio sono state identificate dallo stesso gestore aeroportuale delle misure atte a garantire sia la sicurezza, sia la prevenzione e la protezione definendo i dispositivi di protezione da utilizzare e consegnare ai lavoratori. Se perì) il gestore aeroportuale valuta di dover consegnare dei dispositivi di prevenzione e sicurezza ai lavoratori coinvolti, questo dovrebbe allora essere fatto quotidianamente, evitando di stabilire una sorta di protocollo stante il quale se un lavoratore sta fermo nella postazione del terminal T3 delle partenze (dove si fa il check in tradizionale), gli si dà il mezzo di protezione, mentre se il lavoratore di un’altra area fa uno o pili transiti occasionali non riceve il dispositivo di sicurezza. A mio avviso questo modo di procedere non e coerente con le soluzioni individuate e non lo dico perché dobbiamo appesantire la situazione del gestore o colpire qualcuno. Noi auspichiamo infatti che da questa situazione di criticità si possa uscire quanto prima, ripristinando le aree in modo che tutte diventino verdi e che quindi si possa continuare a lavorare sulle prospettive di sviluppo di questa area aeroportuale, considerato che l’aeroporto di Fiumicino e il più importante d’Italia e che anche in base al contratto di programma sono previsti progetti di sviluppo futuri.
DI VINCENZO. Intervengo ad integrazione di quanto già detto dal collega Carletti sull’incidente del 7 maggio.
Consentitemi una breve premessa. Innanzitutto ringrazio la Commissione che ci dà modo di esporre i fatti e i nostri punti di vista rispetto al tema in oggetto. Noi siamo una parte specifica del contesto alla nostra attenzione, quella sindacale, che rappresenta i lavoratori che operano in quel sito sfortunato. Noi apprezziamo il lavoro svolto dalle varie componenti, dall’ENAC, dall’ADR, dalle associazioni professionali e dalle società che hanno effettuato le analisi chimiche e sanitarie nell’area.
Come già accennato, rappresentiamo i lavoratori tra i quali in questo momento c’è ancora molta confusione. Ancora non sappiamo se l’aria sia stata bonificata e se si sia in presenza di un ambiente lavorativo accettabile dal punto di vista sanitario. Sin dal 7 maggio c’è stata molta confusione, dal momento che c’erano medici che sostenevano che fosse tutto a posto, altri che affermavano che in tali ambienti non fosse possibile lavorare. Ad esempio, nella prima fase successiva all’incendio i medici competenti della Polizia di Stato hanno impedito l’accesso ai poliziotti al terminal T3, figuratevi, quindi i lavoratori di quella area come e con quale preoccupazione per la propria salute sono andati a lavorare. Nonostante questo, lo hanno fatto e hanno mandato avanti le attività, tant’è che hanno effettuato assistenza ai passeggeri, hanno fatto il lavoro di check in, di gestione dei bagagli, dimostrando un senso di responsabilità, che in questa fase forse e stato sottolineato molto poco.
Dal punto di vista sindacale, da questa audizione chiediamo quindi chiarezza. Vogliamo in sostanza sapere se i nostri lavoratori, che rappresentiamo, possano lavorare in quell’area senza correre pericoli. È vero che stando all’ultimo verbale tutto sembrerebbe a posto - non mi addentro nei meandri medici perché; non sono competente - però contestualmente a queste rassicurazioni abbiamo lavoratori e lavoratrici che manifestano sintomi pesanti - che evito di descrivere - a livello gastrointestinale e polmonare e continuano ad accusarli a un ritmo di circa 25 persone al giorno che si recano al pronto soccorso per poi essere rimandate a casa dai medici. Non sappiamo che cosa dire alla gente. Vorremmo un po’ di chiarezza dal punto di vista ufficiale e che qualcuno si prendesse la responsabilità per iscritto di dire che quella area e totalmente bonificata e accessibile e non solo per i passeggeri - che sicuramente rivestono una grandissima importanza per noi, così come per le attività commerciali, i voli, l’operativo dell’aeroporto - ma anche per i lavoratori. Noi vorremmo che oltre a rassicurare tutte le varie componenti interessate da questa triste e sfortunata vicenda, ricevessimo anche noi una rassicurazione ufficiale da trasmettere a lavoratori e lavoratrici affinché possano andare a lavorare con una maggiore tranquillità.
MARI. Innanzitutto una precisazione: per quanto riguarda la UIL, non sono presenti la segretaria confederale Roseto e il signor Lupi, bensì il sottoscritto ed il collega RLS di ADR Lauri.
Noi desideravamo evidenziare due aspetti, di cui il primo più di carattere strutturale. A causa dell’incendio verificatosi per problematiche elettriche di fatto Fiumicino ha perso gran parte del terminal T3, il che ci porta ad avere dei dubbi in ordine ai materiali con cui e stato realizzato - ciò e probabilmente dovuto all’età del complesso che e degli anni Sessanta - e forse anche sul sistema antincendio. Fiumicino, come tutti gli aeroporti, ha una caratteristica particolare - in questo caso particolarmente positiva - considerato che dispone di tre o quattro squadre di vigili del fuoco in sito con tempi di intervento rapidissimi, considerato che vengono utilizzate in caso di incidenti degli aeroplani. Di conseguenza, nonostante vi sia stato un intervento estremamente veloce, il risultato e stata la polverizzazione di un terminal. Ripeto, ciò induce qualche dubbio sia sulla struttura di questo terminal, sia sul sistema antincendio. Peraltro al riguardo entro nello specifico rifacendomi alla casistica RLS Alitalia; segnalo che abbiamo dovuto fare un esposto perché in una struttura adiacente al T3 - che ha preso fuoco - dove gli equipaggi Alitalia prendono servizio, lasciano i bagagli ed espletano alcune procedure amministrative - la parte relativa al sistema antincendio mostrava delle carenze. Abbiamo fatto un esposto all’ASL Roma D, a seguito del quale ADR ha provveduto ad effettuare i lavori per il ripristino corretto della pulsanteria antincendio, degli allarmi e dei rilevatori di fumo. Questo suffraga i nostri dubbi su eventuali problematiche all’interno del terminal interessato dall’incendio, ma su questo sicuramente indagherà la magistratura.
Il secondo punto, il più importante, e quello relativo alle informazioni fornite ai lavoratori. Sostanzialmente, tali informazioni nel primo periodo sono consistite in un verbale redatto da ENAC, che per altro e stato inviato ad alcuni e non ad altri, ad esempio, come organizzazione sindacale non l’abbiamo ricevuto direttamente. C’è stato poi messo a disposizione dall’Alitalia stessa. Come RLS ho chiesto e non ho ottenuto che fosse data un’informativa da parte del medico competente ai dipendenti del gruppo Alitalia, che comunque hanno cominciato a tornare nell’area interessata dall’incendio a ripassare attraverso il varco. In tale area, mentre gli agenti della Polizia, della Finanza e Dogana e il personale addetto al controllo indossavano le mascherine, noi potevamo transitare senza alcun tipo di protezione. Peraltro, parlando con un medico competente e emerso che queste mascherine erano sostanzialmente inutili soprattutto con riferimento ai clorati che restano nell’area dopo un incendio.
Quindi l’informazione ai dipendenti non c’è stata, sicuramente da parte di Alitalia, ma, a quanto so, neanche da parte di altre società; inoltre, probabilmente, a giudicare dal numero degli interventi prestati dal pronto soccorso (alla CGIL ne risultano attorno a 150), c’è da pensare che ci sia stata una certa rincorsa a riaprire questo terminal, il che può aver portato i dipendenti stessi a subire delle problematiche che, come dicono i medici - speriamo sia così - non dovrebbero essere permanenti. Ad ogni modo, il diritto dei lavoratori ad avere un ambiente di lavoro salubre e stato compresso da altre esigenze.
LAURI. Signora Presidente, la ringrazio innanzitutto di averci chiamato ad esporre quello che e successo realmente presso l’aeroporto di Fiumicino; stiamo parlando dell’hub nazionale dove operano 36.000 persone se consideriamo anche l’indotto, parliamo inoltre di una grossa criticità dovuta a un atto doloso.
Vorrei tracciare una sorta di diario di quello che e successo. Il giorno 7 maggio e avvenuto l’incendio e l’aeroporto e stato chiuso, ma credo che i tempi della sua riapertura siano stati affrettati considerato che il venerdì 8 maggio sono stati riaperti 16 gate, circa l’80 per cento dei gate del terminal T3; erano aperte tutte le postazioni della sicurezza del terminal; era aperto anche l’ex terminal CC. Quello che e singolare e che, mentre alcuni operatori coinvolti nelle vicinanze dell'evento sono dovuti andare a lavoro, per altri (specie per gli addetti degli enti di Stato) il medico competente ha ritenuto che la zona fosse altamente inquinata da agenti chimici. Il giorno 9 maggio Aeroporti di Roma, che aveva già commissionato alla società Hsi Consulting di fare i rilevamenti, ci ha informato che ci trovavamo in una situazione non normale, ma accettabile, ma che tuttavia occorreva considerare che si trattava di un ambiente confinato, di un inquinamento indoor.
Uno degli aspetti più importanti, che ci fa capire la difficoltà dei lavoratori, e il fatto che tra giovedì e venerdì circa 40-50 lavoratori si sono presentati al posto di primo intervento di Aeroporti di Roma con difficoltà respiratorie, problematiche alle mucose, nausea, vomito e sono stati esonerati dal servizio. Tuttavia questo e avvenuto anche per gran parte dei lavoratori dell’indotto; magari i più fortunati hanno avuto la possibilità di uscire ed entrare dalla zona perché il terminal era chiuso; si consideri che i condizionatori non funzionavano e venivano utilizzati dei condizionatori particolari.
Tuttavia e importante considerare l’evento sentinella: sto parlando degli infortuni. Non vorrei infatti che la riapertura di emergenza dell’aeroporto facesse aumentare lo stato di ansia dei lavoratori, perché c’è stata una pressione altissima da parte del gestore aeroportuale a far ripartire le attività molto velocemente. Non vorrei che ciò) fosse rilevante - a lungo andare - sul versante delle malattie professionali: ad esempio, il particolato carbonioso, che si produce dopo le combustioni, provoca il tumore alla vescica, quindi non vorrei che potesse avere una rilevanza sociale a lungo termine e che si ripercuotesse su di noi, quindi sullo Stato, causando l’insorgere di malattie professionali.
Inoltre, mi aspettavo l’intervento degli organi dello Stato e non del gestore aeroportuale insieme con Hsi Consulting; senza nulla togliere a questa società, che credo abbia valore a livello nazionale, mi aspettavo che intervenisse il Servizio per la prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro (SPRESAL) Roma D».

Audizione di rappresentanti delle società E.C.F. S.p.A. e NAGEST s.r.l. in ordine ai profili di sicurezza sul lavoro connessi all’incendio sviluppatosi nell’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino
Nella seduta del 16 giugno 2015 la Commissione ha proceduto - in seduta segreta ai sensi dell’articolo 13, comma 1, del regolamento interno - all’audizione dei rappresentanti delle società E.C.F. S.p.A. e NAGEST S.r.l..

Audizione del Presidente e di rappresentanti dell’Inail in ordine ai profili gestionali inerenti il Fondo Vittime Amianto
Nella seduta del 23 giugno 2015 sono intervenuti, per svolgere le proprie considerazioni sui profili gestionali inerenti il Fondo Vittime Amianto, il professor De Felice, il dottor Lucibello e il dottor Sorrentini.
Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo ai predetti interventi:
«DE FELICE. Signora Presidente, vorrei anzitutto ringraziare lei e i membri della Commissione per l’invito rivoltoci.
L’INAIL ha studiato abbastanza dettagliatamente il problema. Lo studio, come risulta dalla documentazione, riguarda anzitutto le risorse finanziarie a disposizione del Fondo e contiene anche un’analisi, che ritengo essere rilevante per i ragionamenti che verranno svolti, e che riguarda: la platea dei beneficiari, il tipo di prestazione economica e, non ultimi, i requisiti per l’accesso alla prestazione. Tale analisi e stata svolta dagli uffici tecnici dell’INAIL ed il dottor Lucibello ne potrà sintetizzare i termini. Credo che, dopo aver scorso questa problematica, si potrà rispondere ad eventuali richieste di approfondimento.
LUCIBELLO. Signor Presidente, ringrazio anzitutto la Commissione per l’opportunità offertaci.
La nota di cui siete venuti in possesso segnala determinate criticità che nascevano, appunto, dalla complessa riconduzione in un quadro organico di una scelta legislativa che doveva condurre a talune soluzioni in ordine, come prima sottolineato dal presidente De Felice, all’individuazione puntuale degli aventi diritto per esposizione ambientale e familiare, alla misura della prestazione e delle risorse. Infatti, la disposizione in oggetto non individuava uno stanziamento ad hoc per la prevista estensione della tutela. Se pertanto si volesse dare immediata attuazione a tale disposizione, ciò) sarebbe possibile attraverso l’individuazione delle risorse generali già destinate al Fondo gestito presso l’INAIL.
A questo riguardo, il 15 aprile scorso si e tenuta una riunione tecnica con il Ministero del lavoro e delle politiche sociali e con la Ragioneria generale del Ministero dell’economia e delle finanze, e in relazione alle indicazioni formulate in tale sede, in tempi abbastanza rapidi, il 30 aprile (cioè dopo quindici giorni) sono state fornite le basi tecniche per una scelta da parte dei Ministeri che, sostanzialmente, possono essere riassunte nei termini seguenti (rinvio per gli aspetti pili tecnici al dottor Sorrentini). Nello specifico, non potendo immaginare una riduzione delle prestazioni per i titolari della maggiorazione della rendita, quindi i destinatari del Fondo, l’unica fonte di copertura rinvenibile si e individuata nei residui del periodo 2008-2010, per un ammontare pari a circa 30,8 milioni di euro, detraendo la somma di 2,1 milioni di euro necessaria ad evitare una riduzione della percentuale di incremento della rendita. Con la somma residua, pari a poco più di 28 milioni di euro, operando una stima sulla base delle informazioni in nostro possesso, si può immaginare, per un triennio sperimentale, il riconoscimento di una prestazione una tantum pari a circa 5.600 euro, in relazione ad una platea che, sempre a livello di stima, e composta all’incirca da 5.140 soggetti.
C’è quindi una proposta tecnica per il triennio, superato il quale, trattandosi di risorse che andranno a finire, bisognerà anzitutto saggiare l’eventuale tenuta e sufficienza di questa prestazione e l’effettiva platea dei destinatari. Infatti, oggi stiamo operando in base ad una stima, laddove trascorso il triennio occorrerà nelle sedi competenti decidere se rifinanziare tale fattispecie, se ritenuta sufficiente, oppure richiedere, previo approfondito esame, l’articolazione di un diverso sistema di tutela.
SORRENTINI. Signora Presidente, onorevoli senatori, la lettera cui e stato fatto prima riferimento si inserisce sostanzialmente in un percorso iniziato con i primi emendamenti presentati al disegno di legge di stabilita, rispetto ai quali l’INAIL aveva prontamente rappresentato alcune problematiche. Successivamente all’emanazione della norma, l’INAIL ha svolto alcuni approfondimenti sulla formulazione ed ha poi partecipato ad una riunione tecnica nell’ambito della quale, insieme ai Ministeri competenti, ha ipotizzato delle proposte di soluzione alle criticità che la stessa formulazione della norma pone.
Ad esempio, occorre considerare che l’INAIL dispone ovviamente di informazioni dettagliate sulle esposizioni di origine lavorativa, mentre ha una conoscenza meno approfondita delle esposizione di origine non lavorativa. Ciò) nondimeno, a seguito dell’incorporazione con l’ISPESL, sulla base dei dati non totalmente completi forniti dal Registro nazionale mesoteliomi (ReNaM) previsto dalla normativa salute e sicurezza, alimentato dai Centri operativi regionali (COR), si e tentato di stimare una platea, utilizzando peraltro anche i dati presenti in banca dati. Il ReNaM registra sia le esposizioni familiari, che quelle lavorative, sulla base - però - di interviste.
L’INAIL e andata anche oltre, cercando di individuare, come prevede la norma, un’ipotesi di soluzione (per altro sulla base di indicazioni emerse nel corso della riunione tecnica citata poc’anzi) nelle economie che si sono generate nei primi tre anni di applicazione del Fondo in favore dei lavoratori e dei loro superstiti. Queste economie si sono prodotte per effetto del fatto che, per il primo triennio, la misura della prestazione aggiuntiva e stata prevista in misura fissa, cioè in un’aliquota. La prestazione aggiuntiva e oggi erogata con due acconti ed un conguaglio: i primi due acconti sono finanziati con trasferimento delle risorse dello Stato, mentre il conguaglio con l’addizionale a carico delle imprese. A questo punto, l’Istituto ha ipotizzato di utilizzare gran parte di queste economie così generatesi nel Fondo. Peraltro, tali economie, sulla base delle indicazioni degli stessi Ministeri competenti, erano state preventivamente assegnate a contenere il normale decremento della percentuale della prestazione aggiuntiva in favore di lavoratori e superstiti: Ricordo, infatti, che questo decremento nasce dal fatto che il Fondo ha una dotazione fissa, mentre la platea e ovviamente crescente: sappiamo bene che le malattie asbesto correlate, in particolare il mesotelioma, purtroppo continuano ad avere un trend crescente, a causa del diffuso uso e della lunga latenza dell’amianto che pure e stato messo al bando da oltre venti anni.
LUCIBELLO. Mi sembra importante ricordare anche che la copertura del Fondo prevedeva 40 milioni per i primi due anni (2008-2009), che poi scendevano a 29,3 milioni una volta a regime. Quindi, bisognava necessariamente tenere conto di risorse decrescenti in presenza di una crescente platea di destinatari.
SORRENTINI. Pertanto, si e ipotizzato di utilizzare gran parte di queste economie a finanziamento di questa misura. La legge di stabilita, infatti, stabilisce che questa misura sperimentale si copre con la dotazione attuale del Fondo, ma non specifica in quale misura e in quale entità. Per questo, come abbiamo puntualmente evidenziato, occorrerà definire quale sia la quota parte da destinare alla nuova misura sperimentale, diversamente, vi saranno impatti anche sulla gestione corrente del Fondo. Quanto alla parte detratta, le economie erano state assegnate a contenere il decremento della prestazione in favore dei lavoratori e dei loro superstiti. Quindi, i circa 28 milioni teste citati sono stati individuati come possibile copertura della misura sperimentale.
Dopodiché, sulla base dei dati del ReNaM e delle informazioni disponibili, abbiamo stimato una platea di circa 5.140 destinatari. In relazione poi all’ulteriore passaggio della norma prevista dalla legge di stabilita ove si parla di esposizione familiare a lavoratori o ambientale, abbiamo ipotizzato che tale esposizione fosse comunque non lavorativa (un malato e un malato). Quindi, tra l’esposizione familiare e quella ambientale non cambia granché.
Abbiamo anche ipotizzato che la prestazione debba essere necessariamente una tantum, e questo perché l’attuale regolamento attuativo del Fondo, che oggi prevede che la prestazione aggiuntiva sia una percentuale della rendita diretta o a superstiti, non e applicabile per questi soggetti.
Indi, siccome vi e un tasso molto elevato di mortalità per questo tipo di patologie (per quanto riguarda il nostro portafoglio, questo tasso ha riguardato il 55 per cento delle rendite nel primo biennio e il 75 per cento nel quinquennio), abbiamo immaginato che una prestazione secca sarebbe stata significativa e con ciò) mi riferisco a quei 5.600 euro corrispondenti alla spalmatura sulla platea di quelle risorse di cui ho detto poc’anzi.
Abbiamo fornito prontamente ai Ministeri vigilanti, partecipanti a quella riunione tecnica, questa nota tecnica per le valutazioni ai fini dell’attuazione della norma e quindi l’estensione dei benefici anche ai soggetti malati di mesotelioma per esposizione non lavorativa».

Audizione di rappresentanti delle Organizzazioni sindacali CUB Trasporti e USB in ordine ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’Aeroporto Leonardo Da Vinci di Fiumicino
Nella seduta del 23 giugno 2015 sono intervenuti, per svolgere le proprie considerazioni in ordine ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino, la signora Casagrande ed il signor Bottiglieri.
Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo ai predetti interventi:
«CASAGRANDE. Signora Presidente, onorevoli senatori, buongiorno a tutti.
Tralascio di soffermarmi sulla parte relativa a come si e sviluppato l’incendio, che penso non sia oggetto di discussione in questa sede, per passare direttamente alla illustrazione dei dati che interessano questa Commissione che si occupa di infortuni sul lavoro.
Vorrei ripercorrere brevemente alcuni passaggi, a nostro avviso significativi, relativi alle dichiarazioni pubbliche rese dalle autorità aeroportuali. Come risulta dal verbale della prefettura, Aeroporti di Roma ed ENAC, il 12 maggio scorso (quindi appena cinque giorni dopo l’incendio), hanno dichiarato pubblicamente che i lavoratori che avevano dovuto ricorrere alle cure del pronto soccorso erano 120, un dato quindi già significativo. Ricordo che al tavolo istituito presso la prefettura cui abbiamo partecipato, sempre il 12 maggio scorso, abbiamo segnalato che il numero di 120 persone non era però) esaustivo di tutti i lavoratori che erano ricorsi alle cure sanitarie, considerato che ve ne erano altri che si erano rivolti anche a strutture ospedaliere di Roma, tra questi il Sant’Andrea e il Sant’Eugenio dove per l’appunto si erano recati quei lavoratori che non rientravano nel numero citato che, torno a ribadire, per noi era comunque già significativo ed importante.
Successivamente, nella riunione del 3 giugno scorso sempre presso la prefettura, la ASL ha dichiarato di aver ricevuto 250 certificati da parte del pronto soccorso dell’aeroporto ed anche in quella sede siamo tornati a sottolineare che quel numero non era complessivo, perché c’erano tutta una serie di certificati che non erano stati rilasciati dal pronto soccorso dell’aeroporto.
C’è un’anomalia che ho registrato in tutta questa vicenda. Nello specifico occorre osservare che nella fase iniziale i lavoratori hanno presentato specifiche patologie, tutte riconducibili all’insalubrità dell’ambiente in cui lavoravano; non a caso, tutti presentavano la stessa sintomatologia, che può essere riassunta in vertigini, senso di nausea e infiammazione delle vie respiratorie, tanto e vero che - cito un solo certificato, ma potrei citarne tanti altri rilasciati dall’ospedale Sant’Eugenio di Roma - si parla di ustione al naso e alla gola per contatto con sostanze caustiche così come di sanguinamenti dal naso e di congiuntiviti. Sono quindi specificate le patologie lamentate dai lavoratori che più o meno presentavano tutti, a ripetizione, le stesse sintomatologie.
L’anomalia che si e verificata, che penso debba essere oggetto di indagine, e la seguente. Nella prima fase, i lavoratori che, anche per sveni-mento, sono stati portati al pronto soccorso dell’aeroporto, sono stati regi-strati come lavoratori che stavano subendo un’intossicazione a causa di quanto successo dopo l’incendio. A loro e stata data una prognosi di 7,8 o 10 giorni, a seconda del giudizio del medico che li ha visitati e correttamente e stata aperta la procedura di infortunio sul lavoro. Dopo la prima settimana nel corso della quale si e assistito a questa prassi, c’è stato un cambio repentino nell’atteggiamento del pronto soccorso dell’aeroporto, che ha iniziato a rilasciare certificati di diversa natura (naturalmente quanto sto dicendo può essere confermato sulla base di atti a nostra disposizione). Nello specifico e accaduto che anche laddove il lavoratore presentava una sintomatologia grave e significativa, e stato rilasciato un certificato con prognosi di un giorno. Inoltre, non è stata più aperta la procedura di infortunio sul lavoro, invitando il lavoratore, qualora lo volesse, a rivolgersi all’INAIL.
Ritengo questa una prassi veramente anomala e ingiustificata, visto che tanti medici di base a cui si sono rivolti i lavoratori usciti dal pronto soccorso hanno aperto la procedura di infortunio e inviato la relativa certificazione; ad altri lavoratori, invece, e stata riconosciuta la malattia. Si e quindi assistito ad un’azione difforme a seconda della struttura e del medico cui il lavoratore si e rivolto. Molti lavoratori, usciti dal pronto soccorso con un giorno di prognosi, si sono poi recati nelle strutture ospedaliere di Roma, dove sono stati addirittura ricoverati per riconosciuta gravita dello stato di intossicazione che presentavano.
Questo e il primo dato significativo che desideriamo sottoporre all’attenzione di questa Commissione che si occupa di infortuni sul lavoro. A nostro avviso, tutti i casi di coloro che si sono sentiti male a seguito dell’incendio in aeroporto devono essere considerati infortuni sul lavoro dovuti alla insalubrità del luogo e contemplati secondo quanto al riguardo previsto. Infatti, anche il caso del lavoratore che, uscito dal lavoro, si e recato dal medico di base che gli ha riscontrato una forma di intossicazione (noi abbiamo certificati rilasciati da medici di base in cui si parla, appunto, di intossicazione) e comunque infortunio. Il lavoratore, infatti, si e recato dal medico di base dopo aver prestato servizio dentro l’aeroporto, in quelle condizioni. Quindi, non si tratta di malattia, ma di infortunio.
Questo non è però avvenuto e credo si tratti del primo dato significativo di quanto è successo in aeroporto.
Dopodiché, vorrei accennare ad un tema che non so peri) se sia oggetto di esame da parte della Commissione. Nello specifico mi riferisco al fatto che dall’8 maggio in poi non siano state messe in atto tutta una serie di misure di prevenzione e precauzione a tutela della salute dei lavoratori, attraverso il ricorso a dispositivi di protezione individuale (ma non solo), come mascherine e occhiali. Inoltre, alcuni medici competenti, nello specifico quelli della Polizia di Stato, hanno deciso che il proprio personale non potesse permanere in quell’ambiente, perché insalubre, personale che quindi e stato protetto; diversamente, il medico competente aziendale dopo aver visitato alcuni lavoratori ha dichiarato che in quello stesso ambiente c’erano le condizioni per lavorare, per cui questi lavoratori hanno continuato a lavorarvi e, per la prima settimana, anche senza fare ricorso ad alcun dispositivo di protezione individuale. Quindi, e evidente che anche gli infortuni che si sono verificati sono da addebitare alle autorità competenti che hanno omesso di intervenire su un tema così importante e delicato come la salute dei lavoratori.
Quanto alla situazione attuale, va segnalato che i lavoratori hanno cronicizzato una serie di patologie e di infiammazioni, che le nuove prescrizioni della ASL riescono a contenere Tuttavia, tali prescrizioni non vengono applicate uniformemente a tutti i lavoratori, per cui ci sono lavoratori di alcune aziende che sono protetti, e quelli di altre aziende che non lo sono. È vero che i tempi di permanenza massima di quattro ore e l’uso costante e continuativo della mascherina protettiva per le vie respiratorie hanno limitato il danno, che, però, era già avvenuto. Tant’è che, come dicevo, molti lavoratori hanno cronicizzato addirittura stati infiammatori alle vie respiratorie, congiuntiviti ed altri sintomi. Per questa ragione, credo che l’emergenza non sia terminata.
Mi sembra importante segnalare che l’Istituto superiore di sanità, nella sua ultima relazione abbia indicato in maniera chiara la necessita di una bonifica di quelle aree, che definisce compromesse, rilevando come il fenomeno dell’inquinamento sia spazialmente diffuso all’interno dell’aeroporto e quindi anche la necessita di effettuare rilevamenti in altre aree, prendendo in esame anche altri inquinanti che non si e ancora avuto il tempo di analizzare.
In merito alle responsabilità, ritengo che meritino attenzione le dichiarazione rese ai lavoratori anche oggi da Aeroporti di Roma che nell’arco di 24 ore dall’incendio del 7 maggio scorso, era evidentemente già in grado di affermare che l’ambiente era salubre e che i lavoratori potevano lavorare, quando e ormai acclarato (non da me, che non ho le competenze, ma dall’Istituto superiore di sanità, dall’ARPA e dalla ASL) che in 24 ore gli inquinanti non possono essere rilevati, tant’è che la società privata che ha effettuato le prime analisi per conto di Aeroporti di Roma non solo non ha rilevato le diossine, ma non le ha neanche ricercate, così come non si e indagato sulla presenza di metalli. Ad ogni modo, già da quelle analisi risultavano significative concentrazioni di naftalene, che e noto a tutti essere una sostanza cancerogena.
Tornando alla situazione attuale, nella relazione dell’Istituto superiore di sanità si evidenzia in maniera chiara la necessita di una bonifica, ma ciò e accaduto tardivamente, dopo ben 40 giorni dall’incendio in cui i lavoratori hanno continuato a lavorare in quella condizione. Basti pensare che il personale addetto al terminal T3 opera tuttora in un’area in cui sono presenti pannelli di chiusura che non si comprende bene se coprano o meno parte delle bonifiche che si stanno effettuando; aggiungo che anche gli esperti della Belfor, la società tedesca cui si e rivolta Aeroporti di Roma, e che sta operando in aeroporto, segnalano misure insufficienti a bonificare l’area e sottolineano la necessita di chiudere il terminal T3 ai fini della sua completa bonifica attraverso l’utilizzo di apparecchiature specifiche.
Noi rimarchiamo, in conclusione, la nostra preoccupazione a fronte di comportamenti da cui sono conseguiti gravi danni per la salute dei lavoratori, e che hanno provocato infortuni significativi e pesanti, sia in termini numerici, sia dal punto di vista delle sintomatologie manifestatesi. Auspichiamo quindi che tale situazione non abbia pili a ripetersi nel futuro, dal momento che sappiamo bene che queste sostanze possono portare negli anni all’insorgere di patologie.
A tal riguardo, mi interesserebbe sapere se lo screening medico predisposto dalla Regione Lazio continuerà nel tempo e come sarà effettuato. Mi piacerebbe pensare che anche l’INAIL potesse interessarsi alla valutazione di questi infortuni sul lavoro, relativamente alle conseguenze che potranno svilupparsi nel tempo.
La nostra preoccupazione tuttavia permane perché, nonostante la richiesta di bonifica da parte dell’Istituto superiore di sanità, i lavoratori continuano a lavorare nelle aree definite come critiche. Riteniamo anche che qualora la bonifica non dovesse essere effettuata seriamente, si continuerà ad esporre i lavoratori ai rischi che hanno subito dal 7 maggio ad oggi.
BOTTIGLIERI. Signora Presidente, sono un coordinatore territoriale della CUB Trasporti ma, come noterete dalla divisa, sono anche un lavoratore che presta la propria opera nell’area del famigerato terminal T3 dell’aeroporto di Fiumicino.
Non ho molto da aggiungere alla perfetta cronistoria fatta dalla mia collega Elena Casagrande dell’USB, se non un breve accenno su come tutto ciò) abbia avuto inizio, anche per evitare di incorrere, in futuro, in casi analoghi in cui si e costretti a fronteggiare infortuni di tale gravità ed entità.
Occorrerebbe anche riflettere per capire come sia potuto avvenire un incendio di quel tipo, che ha provocato quel genere di danni in un aeroporto che, da questo punto di vista, avrebbe dovuto trovarsi al livello più elevato dal punto di vista delle misure di sicurezza e prevenzione, e per quanto riguarda il sistema antincendio e le porte frangifiamme. Sotto questo profilo ci aspettiamo che, almeno da parte della magistratura, sia fatta luce, al fine di evitare di trovarsi un giorno di nuovo a dover affrontare questo grande numero di infortuni. Ci stiamo infatti riferendo ad alcune centinaia di casi, come confermato da Aeroporti di Roma, da cui, come ben sapete, dipende il pronto soccorso a cui molti lavoratori sono ricorsi.
Tengo anche a sottolineare che abbiamo molto apprezzato l’intervento della Commissione. Finora, infatti, abbiamo riscontrato, per usare una espressione soft, alcune carenze da parte delle istituzioni pubbliche, per non parlare poi del silenzio vero e proprio delle istituzioni più politiche e, quindi, dei vari Ministeri. Ad oggi, infatti, non mi risulta che tali organi abbiano, nello specifico, fatto nulla se non auspicare la riapertura del terminal T3, oppure detto qualcosa di significativo e pregnante sulla pesante situazione che si e creata per la salute dei lavoratori, ed anche dei passeggeri.
Abbiamo assistito a grandi ritardi, ma anche - secondo una usanza molto diffusa in questo Paese - ad un rimpallo di responsabilità e ad una timidezza delle istituzioni interessate e mi riferisco alla ASL, all’ARPA e all’Istituto superiore di sanità, che per l’appunto sono intervenuti con molto ritardo.
Vorremmo poi capire come sia stato possibile che, in una prima fase, la società Aeroporti di Roma, probabilmente sostenuta in questo dall’ENAC, sia stata lasciata a ricoprire il ruolo dell’autorità tanto da poter decidere all’indomani dell’incendio, sulla riapertura del terminal T3 e, successivamente, su quella del molo D. Come ricorderete, il molo D e stato chiuso e posto sotto sequestro soprattutto per l’intervento della magistratura, sollecitata in tal senso anche da due nostri esposti alla procura.
Ora se e vero che Aeroporti di Roma e l’ente gestore aeroportuale a cui attengono tutta una serie di responsabilità, occorre tuttavia considerare che si tratta pur sempre di una società privata che, come tale, e comprensibile che tenda a prendere più in considerazione la necessita di rideterminare i modelli di operatività e di business dell’area interessata dall’incendio e delle aree limitrofe, piuttosto che considerare questioni che dovrebbero essere di maggiore pertinenza delle istituzioni pubbliche.
La collega Casagrande ha riportato benissimo la scansione delle date. L’Istituto superiore di sanità, se ben ricordo, ha diffuso i risultati delle analisi, che sono abbastanza esaustivi e, pur nell’impossibilita istituzionale di sancire una decisione rispetto a chiusure o meno di aree, o sulla moda- lita con cui condurre le bonifiche, mi pare sia giunto a conclusioni chiarissime, allorquando i risultati parlano di una sorgente ancora attiva di emissione di agenti contaminanti. Altrettanto chiare mi sembrano le indicazioni circa la qualità di questi agenti contaminanti e la spazialità, ovvero la diffusione ben al di là dell’area interessata dall’incendio di queste sostanze.
E qui torniamo alla questione che a mio avviso non è stata mai affrontata così come invece avrebbe dovuto. Mi riferisco alla bonifica, che non può essere portata avanti in aree che continuano, comunque, ad essere a contatto con i settori, le strutture e gli spazi dove lavorano e transitano gli addetti aeroportuali e dove stazionano i passeggeri.
Questo, nello specifico, e il caso dell’area del terminal T3 allo stato aperta e dell’area di imbarco C. Si tratta di aree completamente assimilabili al molo D, che tuttora non è operativo, anche se dissequestrato per permettere le operazioni di bonifica.
L’area del terminal T3 e stata parzialmente chiusa da qualche giorno ma, come riferiva esattamente la collega Casagrande, per mezzo di teloni che non sono assolutamente isolanti e attraverso i quali transitano, sollevandoli, gli operai della ditta Belfor, a volte trasportando all’area aperta del materiale che depositano in container posti davanti al terminal T3. Quindi, questi operai transitano in aree rimaste aperte al passaggio di addetti e a passeggeri, il che da profano non mi sembra certo un modo idoneo per condurre la bonifica di un’area che sembra risultare contaminata da sostanze abbastanza importanti quanto ai loro effetti sulla salute.
La questione del molo D è quella forse più richiamata sulle pagine dei giornali, e anche dai telegiornali, molto spesso, più che per sottolineare le nostre preoccupazioni, per manifestare espressioni di giubilo per la riapertura di un’area ai fini del progressivo raggiungimento del massimo livello operativo dello scalo.
E' però rimasta da sempre sottaciuta la questione del terminal T3, ovvero della zona direttamente antistante e contigua all’area dell’incendio, così come lo e lo stesso molo D. L’area d’imbarco C è l’area di imbarco interna, molto vicina all’area dell’incendio tanto che ancora oggi a livello olfattivo si percepiscono gli odori derivanti dalla combustione dei materiali.
Noi avevamo fatto delle sollecitazioni a tale riguardo e, per quanto tale problema non sia di diretta competenza di questa Commissione, nel merito desideriamo rivolgervi un appello. Se il molo D è stato sequestrato e poi dissequestrato, se tuttora non è operativo e se sembra siano state poste, giustamente, delle pesanti condizioni sulle modalità di bonifica, a questo punto anche il terminal T3 dovrebbe essere sottoposto a misure analoghe.
Segnalo che alcuni addetti hanno continuato a lavorare fino alle 21 del giorno precedente nelle aree che poi sono state sottoposte a chiusura. Per un mese circa abbiamo continuato a lavorare e continuiamo a lavorare nell’area rimasta aperta del terminal T3, e nell’area di imbarco C, che presentano condizioni direttamente assimilabili a quelle del molo D, dove, tra l’altro, si e registrato il maggior numero di malori tra i lavoratori che si sono recati al pronto soccorso e presso strutture sanitarie esterne all’aeroporto.
Questo è l’intervento che abbiamo richiesto sin dall’inizio e rispetto al quale abbiamo invece riscontrato una timidezza, un ritardo e forse anche un’incapacità di capire a chi spettasse prendere le decisioni. Questo dato e emerso anche in prefettura. In tale sede si e compreso che per quell’aeroporto - che e un hub internazionale di grandissima importanza, che muove miliardi di investimento da parte di Aeroporti di Roma per progetti di ampliamento, considerato che i trend di traffico sono fortunatamente in aumento da anni e forse lo saranno anche in futuro- non era previsto un piano d’intervento che stabilisse a chi spettasse il coordinamento sulle cose da fare e su come e quando farle. Solo in prefettura, al momento della firma del verbale, che ne CUB ne USB hanno sottoscritto, si e posto questo problema tra le parti sociali e i soggetti istituzionali intervenuti. Anche questo e un aspetto che a mio avviso meriterebbe attenzione proprio per evitare che in futuro accada di nuovo che si riapra l’aeroporto di Roma il giorno dopo ad un incendio sulla base dei risultati di analisi commissionate da una società privata ad un’altra società privata che, da quanto ho capito - non sono biochimico o un esperto della materia - sono state anche sbugiardate dalle successive analisi dell’ARPA e dell’Istituto superiore di sanità.
Credo che anche su questa vicenda andrebbe fatta un po’ di luce. C’è poi la questione del terminal T3 a cui, secondo noi, non viene dedicata la dovuta attenzione in termini di misure di sicurezza, che dovrebbero essere analoghe a quelle prese per il molo D.
Accanto a questo c’è il discorso del monitoraggio perché i numerosissimi casi di malore ci indicano che le sostanze contaminanti hanno avuto un effetto in fase acuta. Noi a tale riguardo stiamo redigendo un dossier, chiedendo ai lavoratori di fornirci i certificati attraverso i quali ricostruiremo tutta la vicenda, possibilmente dando vita anche ad una vera e propria pubblicazione. Sul punto, come CUB e USB, abbiamo chiesto una consulenza a degli esperti di fama internazionale in materia di nanoparticelle e di nanopatologie quali sono i professori Montanari e Gatti. Al riguardo si pone un grossissimo punto interrogativo sugli effetti a medio e lungo termine e se mi è consentito citerò in proposito un episodio divertente: la segretaria territoriale della CGIL ci ha accusato di voler spaventare i lavoratori e di farli così morire di infarto. Noi non vogliamo far morire nessuno, noi siamo sinceramente preoccupati. Uno dei due consulenti cui ci siamo rivolti, come dicevo, e la professoressa Gatti, che ha lavorato sul post attentato alle Torri gemelle - un evento sicuramente non paragonabile per dimensioni e rilevanza a livello internazionale all’incendio di Fiumicino, fermo restando che la tipologia di sostanze prodotte dalla combustione e assimilabile - e che aveva previsto che probabilmente ci sarebbe stato un grosso numero di patologie direttamente connesse a quell’evento. Noi non vogliamo che questo si avveri e per questa ragione richiamiamo l’attenzione della Commissione, così come quella di tutte le istituzioni pubbliche che hanno responsabilità nel campo della salute e della sicurezza dei lavoratori e dei passeggeri. Io lavoro nel settore passeggeri e dal 9 maggio fino ad oggi ho visto tantissimi passeggeri transitare nelle aree dove i colleghi avevano accusato dei malori. Così come ho visto anche passeggeri sentirsi male e bambini e anziani prendere aerei passando attraverso quelle stesse aree. Questo per quanto riguarda la fase acuta.
Per quanto riguarda la fase media e a lungo termine spererei che, di concerto con l’ASL e con l’Istituto superiore di sanità, sollecitati da questa Commissione e con la collaborazione dell’INAIL, si riesca almeno su questo livello in maniera tempestiva, puntuale, continuativa e approfondita a mettere in piedi un sistema serio di monitoraggio e screening della salute di tutti i lavoratori che hanno lavorato e continuano a lavorare in quella area perché non ci piacerebbe proprio che tra venti anni qualcuno ex post si dovesse trovare costretto a dirci: avevate ragione. Non vogliamo avere ragione, ma lavorare tranquilli in un luogo che, essendo un aeroporto intercontinentale, pensavamo fosse il tempio della salute, della sicurezza e della regola d’arte applicata a tutti gli impianti e sistemi di prevenzione e protezione. Non vorremmo, ripeto, avere ragione tra venti anni, ma ci piacerebbe che le nostre preoccupazioni e sollecitazioni fossero accolte immediatamente».

Audizione di rappresentanti dell’Istituto Superiore di Sanita in ordine ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino
Nella seduta del 30 giugno 2015 e intervenuta, per svolgere le proprie considerazioni in ordine ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino, la dottoressa Musmeci
Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo al predetto intervento:
«MUSMECI. Signora Presidente, ringrazio lei e tutti i presenti per l’opportunità che ci viene data oggi.
A nome dell’Istituto superiore di sanità e del commissario straordinario, professor Walter Ricciardi, tengo innanzitutto a sottolineare che saremmo particolarmente lieti se nel corso dell’odierna riunione riuscissimo a fare un po’ pili di chiarezza sull’accaduto, perché gli ultimi eventi e le notizie diffuse dai mass media non rassicurano di certo il cittadino, anche a fronte di quello che sembrerebbe essere un ritardo o un disaccordo tra le stesse autorità sanitarie.
Ciò premesso, consentitemi di fare qui una veloce cronistoria di quanto e accaduto. A seguito dell’incendio verificatosi tra il 6 e il 7 maggio scorso presso l’aeroporto di Fiumicino, la ASL «Roma D», competente per territorio, ha fatto pervenire all’Istituto superiore di sanità una richiesta di supporto generico a tutte le azioni che la ASL stessa sarebbe andata a porre in essere successivamente all’incidente.
Per la verità, la ASL ci aveva anche chiesto di intervenire operativa-mente nell’immediato, con campionamenti ed analisi, cosa che peri) non e stato possibile fare perché, com’è noto, l’Istituto non ha più una funzione di controllo e non e in grado pertanto di assicurare un intervento immediato, a ventiquattro ore dall’evento, come invece sarebbe stato necessario. Da parte nostra, comunque, abbiamo assicurato tutto il supporto tecnico e scientifico necessario, mentre per l’intervento immediato la ASL si e rivolta ad ARPA Lazio, che svolge invece sul territorio un’attività di controllo ed e quindi per definizione predisposta agli interventi immediati.
Da metà maggio e stato avviato un tavolo di coordinamento tra l’Istituto superiore di sanita, l’ARPA Lazio e la ASL competente, che si riunisce ogni giovedì, proprio per valutare l’operato e stabilire come procedere.
In data 29 maggio - posto che nel frattempo era stata chiarita la necessità di un supporto operativo all’ARPA - siamo stati incaricati dal prefetto di Roma Gabrielli, in accordo con l’autorità giudiziaria, la procura di Civitavecchia, di intervenire operativamente anche nella fase di campionamento ed analisi con la nostra strumentazione, affiancando l’operato della ASL, che per le operazioni di campionamento e di analisi si era avvalsa fino a quel momento dell’ARPA Lazio.
A seguito del conferimento di tale incarico abbiamo dunque effettuato un sopralluogo e, in data 5 giugno, abbiamo posizionato i nostri campionatori, che sono diventati operativi già a partire dal 6 giugno. Ci siamo quindi andati ad affiancare a quanto già faceva l’ARPA.
Si tratta per l’esattezza di quattro campionatori, posizionati in varie zone.
Un primo campionatore è stato collocato nel varco Auriemma; ci è stato poi chiesto dalla procura di posizionare un campionatore anche all’interno dell’area dell’incendio. Dopo aver effettuato una settimana di campionamento nell’area da cui si è propagato l’incendio, abbiamo spostato il campionatore nella stazione di polizia al terminal T1, secondo la richiesta della procura; altri due campionatori sono stati collocati presso i banchi Lufthansa e presso il gate D. Un quinto campionatore, infine, è stato posizionato all’esterno e vi dirò poi la ragione di questa collocazione.
I campionatori presenti all’interno dell’aeroporto hanno subito poi degli spostamenti perché, nel frattempo, sono state avviate alcune operazioni di bonifica presso il molo D: abbiamo provveduto quindi a dislocare in un’altra area i campionatori - sempre comunque all’interno del molo D - in modo tale che i risultati non fossero influenzati dalle operazioni di bonifica.
Quindi, a partire da maggio, abbiamo elaborato una prima relazione che offriva una valutazione sanitaria dei dati prodotti da ARPA Lazio per conto della ASL, che nel frattempo ha predisposto alcune ordinanze come misura di precauzione e cautela, ma che all’Istituto ha per l’appunto chiesto di effettuare una valutazione sanitaria delle concentrazioni di inquinanti riscontrati da ARPA Lazio. Quindi i nostri dati si riferiscono fondamentalmente ad alcuni composti organici volatili, cosiddetti COV, diossine, furani, PCB e idrocarburi policiclici aromatici. ARPA Lazio in una fase emergenziale correttamente ha iniziato a campionare questo tipo di inquinanti, che si sviluppano abitualmente a seguito di un incendio di materiale plastico; è infatti evidente che in tale circostanza si è bruciato molto materiale plastico, soprattutto PVC, un materiale plastico a base di cloro, diversamente non avremmo rilevato quei livelli di concentrazione di diossina.
ARPA Lazio ha iniziato le fasi di campionamento il 12 maggio, e più o meno ogni due giorni ha provveduto a fornirci i risultati dei suoi campionamenti. Immediatamente e apparsa evidente la contaminazione da diossine, furani, PCB e composti organici volatili. Contestualmente, ADR immediatamente dopo l’incendio si e attivata affidando le analisi di rilevazione ad una società privata, la HSI Consulting, e al laboratorio Biochemie Lab di Firenze, attraverso la valutazione di tre professori universitari esperti di igiene industriale. In seguito, ADR ha chiesto e ottenuto che anche l’Istituto sull’inquinamento atmosferico (IIA) del CNR facesse rilevamenti in veste di ulteriore consulente.
Più avanti, se volete, potremo entrare nello specifico dei dati, allo stato mi preme evidenziare che ARPA Lazio per conto della ASL competente, HSI Consulting, CNR e tutte le società e gli enti che hanno operato per conto di ADR, e dal 6 giugno anche l’Istituto superiore di sanità, hanno rilevato tutti più o meno le stesse concentrazioni di inquinanti. Non c’è assolutamente una discordanza sui dati analitici. Come al solito, i media, i giornalisti, che giustamente non possono essere dei tecnici, interpretano spesso e volentieri a modo loro, ma torno a ribadire che i risultati che abbiamo riscontrato sono stati i medesimi; anzi, il CNR ha rilevato concentrazioni più elevate di diossina e PCB, mentre sia l’Istituto sia l’ARPA hanno registrato, ovviamente nella zona dell’incendio (dove però poi sono andate diminuendo) ma soprattutto nell’area del gate D, nonché in prossimità dei banchi Lufthansa, elevate concentrazioni - vedremo più avanti che cosa si intenda per «elevate» - di diossine, furani e PCB. Rispetto a questi ultimi, sono stati rilevati sia PCB dioxin-like, così come vengono definiti dall’Organizzazione mondiale della sanità, che dal punto di vista tossicologico hanno un comportamento simile alle diossine, sia non dioxin-like. Quindi, le concentrazioni riguardano tricloroetilene, tetracloro etilene, formaldeide, xileni, composti organici volatili, con presenza o meno di cloro. Anche queste sostanze sono state trovate in elevata concentrazione nei primi giorni mentre nelle ultime relazioni registriamo, come l’ARPA, del resto, un trend di riduzioni tra il 50 e il 70 per cento più o meno in tutto l’aeroporto. Anche la concentrazione di idrocarburi policiclici aromatici, tipici di un fenomeno di incendio di materiale a base organica, si sta riducendo.
Le concentrazioni che rimangono ancora elevate rispetto quello che, secondo noi, sarebbe lo standard con cui confrontare questi dati, riguardano ancora oggi le diossine e i furani che, come sapete, sono caratterizzati da una elevata tossicità. Queste sostanze sono distruttori endocrini ed hanno anche un potenziale cancerogeno e mutageno, e quindi si rende necessaria la massima attenzione, così come raccomanda anche l’Organizzazione mondiale della sanità, che ha stimato dosi massime ammissibili giornaliere in funzione del peso corporeo (indubbiamente molto più basse per un bambino rispetto ad un adulto). Infatti, e con ciò veniamo al punto della questione, l’elemento che differenzia il nostro approccio da quello ad esempio di ADR si fonda sul fatto che per noi - ovviamente non si tratta di una nostra idea, ma ci richiamiamo a dei riferimenti - un ambiente come quello dell’aeroporto non e assimilabile ad un ambiente industriale. Secondo ADR, invece, sin dal primo momento, a poche ore dall’incendio, tutto era ampiamente sotto i limiti e quindi anche l’aeroporto era immediatamente fruibile, e questo a seguito delle rilevazioni di HSI Consulting e poi del CNR, messe a confronto con i Threshold Limit Value (TLV) della American Conference of Governmental Industrial Hygienists (ACGIH) statunitense, che sono quelli che vengono riportati come allegati ai contratti di lavoro collettivo delle varie industrie. Tali limiti sono elaborati dall’ACGIH, che costituisce un riferimento a livello mondiale, ma si rifanno ad un ambiente di vita industriale, ovvero ad una popolazione selezionata per effettuare quel tipo di attività, che viene controllata e sottoposta ad una valutazione del rischio per esposizione ad agenti chimici, che si manipolano o vengono prodotti durante l’attività. Quindi, si tratta di una popolazione selezionata che si prevede sarà esposta a certi agenti chimici. In funzione dell’agente chimico, i lavoratori sono più o meno dotati di dispositivi di protezione personale (DPP).
E ovvio, peri), che quello aeroportuale non e un ambiente industriale, tant’e che i lavoratori non sono sottoposti a controlli specifici, non sono dotati di DPP e le valutazioni del rischio non sono effettuate rispetto ad un’esposizione a diossina perché ovviamente non c’è diossina, così come non ci sono composti organici volatili (COV) o idrocarburi policiclici aromatici (IPA), o quantomeno normalmente un ambiente indoor ha una qualità dell’aria che e simile a quella outdoor, cioè quella esterna.
In questa situazione - e vengo al dunque, per poi magari, se volete, visto che si tratta di argomenti molto tecnici, entrare nel merito - quello che mi preme evidenziare e che per noi, per la ASL, per l’ARPA, e non solo, quello aeroportuale non e un ambiente di vita industriale. Quindi i limiti non sono i TLV, ma quelli raccomandati dalla Organizzazione mondiale della sanità e da molte linee guida elaborate da diversi Paesi europei. Purtroppo ad oggi l’Italia non ha ancora emanato un criterio certo o dei valori limite per ambienti di lavoro quali ad esempio quello aeroportuale e pertanto ci rifacciamo ai criteri forniti dall’OMS e dall’Accordo Stato-Regioni pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 2001, dove vengono definiti gli ambienti di vita industriali e non. Quanto alle diossine, quindi, il limite per noi e quello previsto dall’OMS per un ambiente di vita non industriale, ossia 100 femtogrammi, laddove per la società ADR, conformemente ai TLV, è di 100.000 femtogrammi, ragion per cui ovviamente sostiene che tutti i valori registrati si attestano ampiamente sotto a tale limite: oggi le diossine fuori dal terminal T3 - a noi serviva il dato esterno - si attestano tra i 20 e i 50 femtogrammi, mentre all’interno fino a 3.000. Gli ultimi dati relativi al gate D purtroppo sono in aumento, tant’e che si è passati da 1.900 agli odierni 3.000 femtogrammi (questo e il dato che oggi mi è stato fornito dal mio analista); l’ultimo campionamento effettuato la scorsa settimana nel gate D riportava ancora valori elevatissimi di diossina, 30 volte superiori rispetto a quello che a nostro avviso è il limite massimo, che però si attesta ampiamente al di sotto della soglia dei 100.000 femtogrammi. È quindi questo il motivo del contendere.
MUSMECI. E' questo il punto, è il confronto dei dati, perché, come dicevo, non vi e difformità tra di essi. Anzi, il CNR, che ha un sistema di campionamento che raccoglie probabilmente ancor più di quanto raccogliamo noi, registra valori addirittura più elevati dei nostri. L’Accordo Stato-Regioni in questione e stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 276 del 27 novembre 2001, supplemento ordinario n. 252. Il documento fissa le linee guida per la tutela e la promozione della salute negli ambienti confinati cosiddetti indoor e al paragrafo 1, relativo alla qualità dell’aria indoor, sottolinea che l’espressione «ambiente indoor» e riferita agli ambienti confinati di vita e di lavoro non industriali (mentre per quelli industriali vige una specifica normativa restrittiva che e il decreto legislativo n. 81 del 2008), ed in particolare destinati a dimora, svago, lavoro e trasporto. Secondo questo criterio, l’espressione «ambienti indoor» comprende le abitazioni, gli uffici, pubblici e privati, le strutture comunitarie (ospedali, scuole, caserme, alberghi e banche), i locali destinati ad attività ricreative e sociali (cinema, bar, ristoranti, negozi, strutture sportive) e infine i mezzi di trasporto pubblici e privati (auto, treno, aereo e nave). Riguarda quindi gli ambienti indoor, ma non solo di vita, come la casa o la dimora, bensì anche di lavoro non di tipo industriale, dove cioè c’è una certa esposizione ad agenti chimici: e qui quindi la differenza.
Questo significa che il dipendente Alitalia che fa il check-in di certo non viene sottoposto alla valutazione del rischio da esposizione a diossina, quindi anche i controlli medici a norma del suddetto decreto legislativo n. 81 non riguardano questo tipo di esposizione.
All’Istituto superiore di sanità, nei cui laboratori siamo esposti ad agenti chimici, per capire se la qualità dell’aria indoor è accettabile o meno, abbiamo adottato come primo criterio di riferimento un centesimo dei TLV, e noi, quando lavoriamo in laboratorio, abbiamo un’esposizione ad agenti chimici e siamo anche dotati di DPI (Dispositivi di protezione individuale). Nonostante questo, all’interno del nostro istituto non adottiamo i TLV, ma un centesimo dei TLV, perché questi ultimi sono molto elevati perché, come già segnalato, essi si rifanno ad una popolazione specifica, che e stata selezionata per essere esposta, tra l’altro, sulla base di turni di lavoro differenti. Un lavoratore industriale, infatti, magari sosta in un’area con elevate esposizioni per un periodo di tempo limitato, e fruisce di turni di riposo, cosa che non avviene per i dipendenti di un aeroporto. Quindi, ribadisco che il problema e questo, ne consegue che per l’ENAC è tutto a posto e quindi si può riaprire l’aeroporto, mentre per noi ciò è impossibile.
Ora, non avendo un valore limite stabilito da una norma, ci dobbiamo basare sul più volte citato Accordo Stato-Regioni, sui criteri OMS e sulle norme emanate dagli altri Paesi a livello europeo. Naturalmente non stiamo asserendo che se non si raggiunge la soglia di 100 femtogrammi non e possibile riaprire l’aeroporto, certo e che per farlo a nostro avviso occorrerebbe un trend in diminuzione, che si avvicini a tale soglia (potrà essere 200 o 300, ma non certo i 3.000 registrati, che corrispondono ad un valore 30 volte superiore a quello che l’OMS consente).Non e stato ancora pubblicato l’ultimo dato relativo al gate D, pubblicato nella terza relazione inviata oggi ufficialmente via Pec a tutti gli indirizzari, che e ancora di circa 2.000 femtogrammi. Una quindicina di giorni fa ai procuratori dottoressa Zavatta e dottor Amendola, abbiamo dichiarato che il molo D si sarebbe potuto riaprire, ma ai fini della bonifica e non al pubblico. Fino ad oggi quell’area non e stata ancora riaperta, ma l’ENAC vorrebbe riaprirla al pubblico da domenica, questo è il problema.
È ovvio, e ci rendiamo tutti conto che tutto questo costituisce un problema serio ed un grave danno economico per l’Italia, tant’è che nelle nostre relazioni stiamo continuando a sottolineare la necessità di bonificare quanto prima, ma correttamente. Non lo abbiamo scritto specificatamente in questi termini, ma più volte verbalmente nell’ambito delle interlocuzioni avute con i responsabili ADR ho segnalato l’importanza di procedere ad una bonifica con le stesse modalità adottate per l’amianto, ovvero segregando e tenendo in depressione l’ambiente, altrimenti la diossina, che è adesa alle polveri sottili, continuerà ad essere trasportata attraverso i sistemi di condizionamento dell’aria e le stesse attività di bonifica, permanendo dovunque.
Nell’ultima relazione abbiamo evidenziato che queste misure di prevenzione e cautela ad oggi possono essere considerate accettabili e idonee, rispetto pero) ad un’esposizione che certo non può durare anni, ma un pe-riodo di tempo relativamente limitato, come per esempio quello necessario per il completamento della bonifica. Abbiamo considerato quattro ore di esposizione quotidiana, anche se in realtà in questo modo il periodo di tempo e sovrastimato, tenuto conto del fatto che in queste complessive quattro ore non e prevista una permanenza continuativa nelle aree fortemente contaminate, e che normalmente il personale viene ruotato tra i terminal T1, T2 e T3. Abbiamo quindi fatto una sovrastima, considerando una permanenza continuativa di quattro ore nell’area pili contaminata, oltre tutto con la mascherina, che però non abbiamo preso in considerazione nella nostra stima di rischio. Abbiamo quindi ipotizzato il worst case, il caso peggiore, prevedendo una esposizione di quattro ore continuative nell’area contaminata senza nessun DPI, ed in tale ipotesi si rientra comunque in un incremento di rischio ancora accettabile».

Audizione di rappresentanti dell’Enac in ordine ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino
Nella seduta del 7 luglio 2015 e intervenuto, per svolgere le proprie considerazioni in ordine ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro, connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino, il professor Riggio.
Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo al predetto intervento:
«RIGGIO. Signora Presidente, innanzitutto la ringrazio a nome dell’ente che presiedo. Siamo già stati sentiti dalla Commissione trasporti della Camera, che e il nostro usuale punto di riferimento, ma per me e un onore e anche un piacere intervenire in una Commissione che si occupa specificamente degli infortuni sui luoghi di lavoro. La prima sottolineatura e proprio questa: stiamo parlando di un luogo dove operano a turno circa 40.000 persone (credo sia la più grande azienda del Lazio), nel quale transitano ogni anno decine di milioni di passeggeri (38 milioni l’anno scorso e quest’anno arriveremo a 40 milioni di passeggeri), con una valutazione di impatto ambientale fatta a suo tempo non superiore a 42 milioni.
Da qui nasce l’urgenza di una accelerazione degli investimenti. Già domani è prevista una riunione, richiesta dal ministro Del Rio, con la società Aeroporti di Roma e con tutti gli aeroporti italiani (ma Aeroporti di Roma rappresenta il grosso degli investimenti previsti). Abbiamo un investimento programmato di circa 8 miliardi da realizzare in tempi strettissimi, perché l’aeroporto di Ciampino, che in questa fase e stato utilizzato come alternativa, e ampiamente al di sopra di tutti i limiti.
Dico subito che per come ha affrontato l’incendio, il Paese non ha fatto una cattiva figura a livello internazionale. Difatti, non solo non abbiamo ricevuto lamentele da parte di passeggeri o delle compagnie aeree (circa cento) operanti su Fiumicino, ma addirittura ci sono stati rivolti dei complimenti dalle compagnie americane per avere tenuto aperto l’aeroporto, in particolare la parte intercontinentale, nonostante alcune evidenti difficoltà.
Lo sottolineo perché al riguardo in questa fase ho letto tante affermazioni disordinate, stando alle quali l’aeroporto si sarebbe bloccato. Al contrario, l’aeroporto, dal 7 maggio (la notte dell’incendio) a ieri, ha registrato il 5 per cento di passeggeri in pili rispetto allo stesso periodo dello scorso anno; in assoluto sono transitati 6 milioni di passeggeri, avendone spostati 300.000 a Ciampino. Quindi, 6 milioni pili 1 milione complessivo di Ciampino equivale a 7 milioni di passeggeri.
Tali risultati si spiegano perché la nostra preoccupazione e sorretta e ispirata - scuserete questo mio riferimento, ma ho insegnato istituzioni di diritto pubblico - dalla sentenza n. 85 del 2013 della Corte costituzionale, in cui si afferma che non ci sono diritti tiranni - usa proprio il termine «tiranno» - ne gerarchie tra diritti costituzionalmente protetti, e si segnala la necessita di un bilanciamento razionale e ponderato al fine di garantire il rispetto dei diritti: in questo caso stiamo parlando del diritto alla salute e al lavoro e - mi permetto di dire - del diritto alla connettività internazionale e nazionale del Paese, ossia quello che noi chiamiamo diritto alla mobilita.
È difficile che in casi di emergenza quest’ultimo diritto possa essere garantito. Innanzitutto perché subito dopo l’incendio vi sono state due riunioni di coordinamento nelle quali e stata presentata da parte del medico competente di Aeroporti di Roma una dichiarazione riguardante la tempestiva installazione delle centraline, affidate a un soggetto privato certificato dall’Istituto superiore di sanità, centraline che hanno rilevato - secondo detta dichiarazione - tutti valori all’interno della norma. Inoltre, il funzionario delegato della ASL il 17 maggio ha dichiarato che vi erano le condizioni per utilizzare l’aeroporto e segnatamente quel molo D che in tempi record era stato ristrutturato, esclusi i negozi, che invece erano stati sigillati. Sulla base dei relativi due verbali - che abbiamo qui con noi e che consegniamo agli atti della Commissione - la direttrice dell’aeroporto ha preso atto che AdR avrebbe utilizzato questi locali.
Nel giro di dieci giorni, dal 18 al 26 maggio, e intervenuto un sequestro da parte della procura - voi avete il testo della comunicazione che noi abbiamo ricevuto solo grazie alla cortesia di AdR - motivato in buona so-stanza da alcuni problemi di carattere formale e dalla presenza di una so-stanza irritante (il toluene, che e una vernice molto solubile), rilevata dall’ARPA dal 12 al 15 maggio, con concentrazioni molto superiori al limite massimo, mentre in base ai dati rilevati da tutte le altre centraline (nel frattempo, infatti, cinque diversi soggetti operanti in aeroporto hanno in-stallato loro centraline) si era nei limiti previsti.
Questo unico valore discordante ha motivato di fatto un provvedimento di sequestro. Da quel momento in poi e evidente che l’Autorità di aviazione civile, come succede sempre in questi casi, di fatto ha potuto operare solo a valle di decisioni che non era più in grado di assumere. La decisione di sequestrare immediatamente il luogo dell’incendio e stata subito assunta sulla base di valutazioni dei Vigili del fuoco e della procura, ma e stato sequestrato anche quel molo che era stato riaperto, per una semplice ragione che, secondo me, e diventata chiara purtroppo a distanza di troppi mesi, e cioè che, non avendo isolato la fonte di emissione, alcuni elementi tossici hanno continuato ad invadere l’aria, dal momento che in un aeroporto non e possibile creare paratie stagne.
Nel merito mi permetto di segnalare che se al riguardo la decisione fosse spettata a me o alla qui presente dottoressa Terlizzi, non avremmo effettuato un sequestro puramente conservativo, bensì attivo, dando l’ordine di sigillare immediatamente, con le dovute cautele, la fonte d’emissione. Peraltro, le famose linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanita suggeriscono proprio questo; occorre considerare che la diossina nell’aria produce danni quando raggiunge concentrazioni del 5 per cento, anche se ciò) che provoca veramente danni e l’ingestione, fermo restando che bisogna immediatamente intervenire per fermare la fonte di emissione.
Dopo il 19 giugno, il dissequestro operato della procura ha consentito alla società Belfor - la più grande società al mondo operante nel settore della disaster recovery - nel giro di una settimana, di sigillare a «tripla mandata», ossia di utilizzare le stesse procedure che si usano per l’amianto, impiegando una resina che, di fatto, ha bloccato l’emissione ed è per questo che le ultime rilevazioni mostrano concentrazioni in rapido calo.
Da quel momento in poi, ovviamente, è subentrata l’autorità giudiziaria, che svolge anche compiti amministrativi: nel senso che noi non potevamo né disporre l’utilizzo di quel molo, né decidere iniziative diverse da quelle ordinate ad Aeroporti di Roma (il soggetto globalmente responsabile, ai sensi dell’attuale e del prossimo regolamento che accentua il carattere di autonomia del gestore), ma solo tentare di continuare a lavorare nel rispetto delle prescrizioni imposte, ovvero con turni dimezzati, uso di mascherine e non utilizzabilità, addirittura, di 16 moli complessivi sui 54 esistenti, il che significa avere un terzo dell’aeroporto non utilizzabile.
Visto che queste misure sono state ritenute sufficienti, dopo le dichiarazioni della dottoressa Musmeci dell’Istituto superiore di sanità, in più comunicati ho chiesto espressamente di fare chiarezza. Ho capito che la dottoressa Musmeci utilizza un parametro diverso, non quello applicato nei luoghi di lavoro, ma quello riferito alla normale aria, che comunque non si configura come un limite; l’Organizzazione mondiale della sanità, infatti, non parla di parametri o di limiti, ma afferma che normalmente nell’aria la presenza di diossina e pari allo 0,1 per cento, ciò non significa peri) che la concentrazione di diossina debba essere dello 0,1 per cento anche nei luoghi di lavoro (ma questa e una discussione che lascio volentieri ai miei colleghi esperti della materia). Ciò che conta per noi è che, avendo sigillato la fonte di emissione e ottenuto un calo delle emissioni, forse la Procura della Repubblica sarà indotta, su parere conforme dalla ASL, a consentire il riutilizzo del molo. Io non ho fornito una data per la riapertura, ma ho dichiarato che il punto di maggior picco della stagione e rappresentato dal 28 luglio. Infatti, la media dei 110-130.000 passeggeri giornalieri in transito normalmente si impenna il 28 luglio e quest’anno pensiamo che possa arrivare a 150.000.
Finora siamo riusciti a far arrivare e partire tutti, sia pure con notevoli evidenti disagi (perché si è lavorato con un molo di imbarco in meno), ma se l’aeroporto dovesse risultare non utilizzabile chiaramente la dottoressa Terlizzi dovrà assumere i provvedimenti necessari a impedire una congestione non gestibile, che potrebbe essere fonte di ulteriori danni. Ciò sarebbe molto grave, perché in questo periodo vi è una forte ripresa del traffico, in particolare dagli Stati Uniti, in conseguenza dell’apprezzamento del dollaro grazie al quale, per la prima volta dopo anni, gli americani ritornano a Roma.
Se dovessimo dire alle compagnie aeree che, per ragioni ovvie, il molo continuerà a non essere utilizzabile non crollerà il mondo, ma certo sarà difficile gestire anche il resto dell’aeroporto, per ragioni tecniche piuttosto complesse, ma ben illustrate dalla grafica che alleghiamo alla documentazione che consegniamo agli atti della Commissione. In sostanza, in questo momento l’aeroporto e spaccato in due: il terminal T3 ha gli imbarchi chiusi, cosicché una volta superato il check in, le navette trasportano i passeggeri da un’altra parte. Ciò ha fatto aumentare enormemente anche la congestione del traffico sui piazzali. A tale proposito domani vi sarà un convegno: pensiamo di introdurre da subito (entro un anno) l’obbligo di trasformare tutti i mezzi operanti sui piazzali degli aeroporti italiani in mezzi a trazione elettrica. E' ormai diventata una necessità, considerato che se all’inquinamento dovuto alla combustione della benzina degli aerei, aggiungiamo anche la congestione del traffico automobilistico evidentemente la qualità dell’aria ne risente; e questo già in condizioni normali, figuriamoci dopo un incendio! Penso che misure di questo genere siano ormai mature. Tra l’altro, da cinque anni abbiamo un accordo con il Ministero dell’ambiente per iniziare la sperimentazione sulle energie alternative; lo abbiamo già fatto a Pantelleria e Lampedusa, perché in quegli aeroporti l’ENAC ha una gestione diretta, e in questo momento sono del tutto autosufficienti, anzi sono in grado di fornire energia alle comunità locali dove ha sede l’aeroporto.
Per quanto riguarda la valutazione relativa al fatto che si tratti di un luogo di lavoro, stiamo chiedendo informazioni ai nostri omologhi stranieri (facciamo parte, come sapete, di un’organizzazione di 44 Stati europei, l’ECAC, e, insieme a loro, facciamo parte di un’organizzazione internazionale di 198 Stati), e da quanto finora siamo riusciti ad acclarare parrebbe che in nessuna parte al mondo l’aeroporto sia considerato altro se non un luogo di lavoro, ovviamente aperto a passeggeri, la cui percorrenza all’interno deve essere per forza assistita da una miriade di funzioni, peraltro tutte molto articolate. Occorre infatti considerare che oltre al gestore ci sono anche gli handler e le compagnie aeree e tutti lavoratori che trascorrono un certo numero di ore - almeno otto - all’interno dell’aeroporto, mentre i passeggeri ne trascorrono due o tre, al massimo quattro, se proprio gli va male. Siccome i problemi derivanti dalla diossina sono connessi alla permanenza in un determinato ambiente, si e adottata la cautela del dimezzamento dei turni, ma segnalo che anche questa soluzione ha dei limiti se protratta oltre un certo termine: a stagione iniziata, infatti, e molto difficile trovare nuovo personale (dimezzare un turno infatti significa raddoppiare il personale). In questo momento non si trova nuovo personale e proprio ieri alcuni negozi hanno chiuso, evidentemente non trovando pili remunerativa la gestione in questi termini. Si tratta di prezzi che, entro limiti ragionevoli, è possibile pagare, sempre con riferimento a quel bilanciamento di cui alla citata sentenza n. 85 del 2013.
Credo che, ai fini di questa Commissione, l’illustrazione di quanto riguarda la nostra parte sia sostanzialmente questa. Se avessimo avuto il coordinamento, come all’inizio si era tentato di fare, in base al Manuale di aeroporto, forse avremmo potuto fare di più o meglio. Invece, a partire dal 26 maggio, l’entrata in campo - peraltro forse inevitabile - da parte della magistratura ha di fatto espropriato l’attività amministrativa e l’Autorita aeronautica, da quel momento in poi, non ha potuto pili agire se non di conseguenza rispetto alle decisioni del magistrato.
Entro quei limiti, mi pare che si sia riusciti a garantire al Paese la connettività ordinaria, rispetto alla quale ho già fornito i dati. Ovviamente, se tale situazione dovesse perdurare a lungo, non credo che saremmo in grado di reggere: tenete conto che l’ondata di persone in arrivo aumenta e che la stagione calda impone il ricorso all’aria condizionata, variabili queste che rendono difficile gestire oltre certi limiti. Ci sono, pertanto, una serie di considerazioni che indurrebbero a fare presto, come più volte segnalato attraverso la stampa, in tal senso rivolgendomi a tutti, anche alla ASL (che poi si è un po’ risentita e me ne dolgo). Ma il problema riguarda tutti, noi per primi: facciamo presto, perché vi è un interesse prioritario del Paese.
Ho ricoperto il ruolo di sottosegretario alla Protezione civile e sono quindi abituato ad affrontare le emergenze in tempi rapidi. Ho umilmente chiesto di fare presto anche alla procura: il dissequestro era essenziale per arginare l’emissione di diossina, come si e visto. Naturalmente mi taccio rispetto a decisioni che attengono a profili di competenza, come nel caso dell’ASL, che e competente su tutte le questioni concernenti l’igiene e la salubrità, o dei Vigili del fuoco, che sono competenti per intero in materia di incendi, sia in termini di prevenzione che di controllo e di approvazione dei progetti. A maggior ragione, per il rispetto doveroso nei confronti dell’attività della magistratura inquirente, ovviamente le nostre valutazioni vengono ad essere fortemente limitate.
Ciò detto, sono a vostra disposizione per quanto di mia competenza (a me tocca la rappresentanza) e soprattutto lo e la dottoressa Terlizzi, che ha la responsabilità gestionale: il sistema Lazio, come tutti i sistemi italiani, e articolato sulla base di funzionari che operano in qualità di direttori aeroportuali e la dottoressa Terlizzi e al primo mese di questo incarico. È la prima volta che la direttrice è una donna ed ella si è trovata subito di fronte ad una grave emergenza che, a mio modo di vedere, come ho già detto tante volte pubblicamente, ha fronteggiato benissimo».

Audizione sindaco di Fiumicino
Nella seduta del 14 luglio 2015 e intervenuto, per svolgere le proprie considerazioni, in ordine ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino, il sindaco Montino.
Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo al predetto intervento:
«MONTINO. Desidero innanzitutto ringraziare la Presidente e tutti i membri della Commissione per l’opportunità che mi viene concessa. Credo infatti sia molto importante fornire molteplici punti di vista, soprattutto dopo il verificarsi di un evento così impattante e straordinario e in particolare rispetto al rischio che permanga un dubbio di fondo in ordine alle cause di un incendio, sviluppatosi in un terminal aeroportuale, che nel giro di poche decine di minuti ha avuto un così ampio sviluppo e che il sistema di sicurezza non è riuscito a bloccare in tempo. L’evento è accaduto a notte fonda, tra la mezzanotte e le ore 00,05. Già alle ore 00,25 eravamo di fronte ad una situazione assolutamente incontrollabile, difficile da affrontare per una serie di ragioni, tra cui le caratteristiche strutturali del terminal stesso. Nel giro di qualche decina di minuti la situazione è diventata abbastanza seria, tanto da arrivare ad avere un impatto generalizzato non solo sulla città di Fiumicino, ma anche su una parte importante della città di Roma, considerato che il giorno successivo abbiamo registrato, per quasi 24 ore, una sorta di black-out generalizzato del raccordo anulare - l’arteria stradale più importante della città metropolitana di Roma - soprattutto nel suo versante Sudovest, e il blocco della autostrada Roma-Fiumicino, mentre la ferrovia ha subito per molte ore un blocco di esercizio.
Il primo problema da considerare è sicuramente quello che ho continuato a porre sin dall’inizio, rivolgendomi soprattutto al gestore aeroportuale, chiedendo la ragioni sia delle carenze del sistema antincendio, sia del fatto che non si sia riusciti in tempo, o comunque in un lasso di tempo ragionevole, ad attutire il colpo di un corto circuito, i cui effetti si sono propagati con tale intensità.
Subito dopo l’incendio si è susseguita una serie di fatti, che ha creato una certa perplessità. Se la Presidente è d’accordo, posso mettere a disposizione della Commissione un piccolo rendiconto, in cui si fa riferimento alle dichiarazioni effettuate in questo periodo. Si tratta di una sorta di racconto di quanto è accaduto, dall’inizio fin quasi ad oggi, almeno secondo il mio punto di vista, che naturalmente potrebbe non essere condiviso da altri soggetti.
Il primo tema da affrontare, dunque, è capire come mai si sia potuto verificare, in pochi minuti, un problema di questa natura. Il secondo tema riguarda la risposta che si è cercato di dare subito dopo l’incendio.
A proposito della prima domanda, devo dire che l’impostazione non solo del gestore aeroportuale, ma anche dell’Ente nazionale per l’aviazione civile (ENAC) - credo che tale sensazione fosse condivisa dallo stesso Ministero - era quella di dire che, tutto sommato, era accaduta poca cosa. Quindi, proprio per dimostrare che non era accaduto nulla di molto grave, ci si è impegnati a far recuperare, nel giro di pochi giorni,
una situazione di normalità alla gestione aeroportuale. Le dichiarazioni pertanto hanno viaggiato in questo senso - penso a quelle del presidente dell’ENAC Riggio e ad altre, non solo del gestore aeroportuale - tanto da tentare di riaprire l’aeroporto alle ore 14 del giorno successivo all’incendio e addirittura di riprendere rapidamente, qualche giorno dopo, il servizio di controllo e di check-in all’interno del terminal T3, cioè l’area oggetto dell’incendio, non tenendo conto del fatto che l’impatto di quanto accaduto era stato invece abbastanza importante, come poi evidenziato dalle rilevazioni della ASL e, in particolare, dell’Istituto superiore di sanità e da parte dei Vigili del fuoco. Successivamente e intervenuta la magistratura e c’è stato il sequestro di alcuni settori.
L’idea che non fosse accaduto nulla o che comunque si fosse verificato un fatto dagli effetti molto parziali, a mio avviso ha portato ad allungare i tempi della procedura di risanamento dell’aeroporto, che avrebbe potuto essere organizzata davvero in poche settimane, se solo si fosse avuta sin dall’inizio la consapevolezza della serietà del problema e se nell’intera area - non mi riferisco solo a quella limitata del molo D, ma al terminal T3 nel suo complesso - fosse stata preclusa qualsiasi attività. Grazie a questa sorta di incapsulamento di tutta l’area si sarebbe potuto effettuare un intervento di manutenzione e di bonifica in profondità, nel giro di qualche settimana, e quindi addivenire alla riapertura dell’aeroporto in tempi molto più rapidi rispetto al trend odierno.
Ho ricevuto proprio oggi la lettera di convocazione del perfetto ad una riunione, prevista per le ore 17, sulla base di una richiesta di Aeroporti di Roma, che proprio oggi ha comunicato la conclusione dei lavori di bonifica, segnalando che vi sono le condizioni per aprire il terminal e per tornare alla normalità. Se la Commissione lo desidera, lascerei agli atti la lettera di convocazione per l’incontro che il perfetto ha indetto proprio per oggi pomeriggio.
Come amministrazione comunale e come autorità sanitaria locale ci siamo, invece, mossi avendo consapevolezza dell’impatto che si poteva determinare - e che in qualche modo si e determinato - anche sulla salute pubblica, soprattutto su quella dei lavoratori che permanevano all’interno dell’area di lavoro molte ore al giorno.
A questo proposito, ho fatto una prima richiesta alla ASL affinché l’ARPA Lazio attivasse un monitoraggio completo, non solo nell’area in cui si era verificato l’incendio, ma anche nella zona circostante. La ASL D di competenza ha inviato i risultati delle prime analisi all’Istituto superiore di sanità, allo scopo soprattutto di capire quale fosse l’impatto dell’evento in base al tipo di analisi condotte dalla stessa ARPA.
Dopo qualche giorno abbiamo ricevuto il primo risultato (ora siamo al terzo) da parte dell’Istituto superiore di sanità; a quel punto, come autorità sanitaria, ho pensato che fosse opportuno pubblicarlo sul sito comunale, così come ho fatto con il secondo rapporto, per rendere edotti tutti gli interessati che in quell’area vi era una situazione di normalità.
Questo e stato il lavoro che il Comune di Fiumicino ha svolto rispetto ad un evento che e ancora in corso. Vedremo quali esiti avrà la riunione odierna, alla quale parteciperà l’Istituto superiore di sanità e la stessa ARPA; vedremo i risultati tecnico-scientifici delle ultime analisi e poi si deciderà di conseguenza.
Sotto il profilo giudiziario, non ci sono impedimenti per riaprire il terminal, perché sono ormai diversi giorni - se non ricordo male, pili di una settimana - che non sono più in corso sequestri, anche nell’area in cui si e direttamente sviluppato l’incendio. Sotto questo aspetto, quindi, dal mio punto di vista, l’atteggiamento della magistratura e stato corretto: di fronte ad un evento di quella portata doveva per forza intervenire e, sulla base dei risultati e delle relazioni dell’Istituto superiore di sanità, ha prima sbloccato e dissequestrato un’area e, alla fine, ha dissequestrato completamente il terminal. Mi auguro che vi sia rapidamente un ritorno alla normalità, anche perché l’impatto e molto serio: visivamente si capisce che siamo in forte sofferenza.
Se mi e consentito, nel concludere questa prima parte, vorrei sottolineare un aspetto non secondario di carattere infrastrutturale proprio dell’hub internazionale che ospitiamo, presente ormai da moltissimo tempo. È stato sufficiente un incendio di questa natura per bloccare completamente la Capitale; non parlo di Fiumicino, che comunque e una città di 80.000 persone, ma dell’area complessiva. Si è bloccata la grande viabilità e si è bloccato l’unico mezzo di trasporto pubblico su ferro che c’è, il treno. Si continua a insistere sul treno. Credo che l’aeroporto di Fiumicino sia l’unico l’hub internazionale a disporre solo del treno per arrivare al centro della città, peraltro impiegando 45 minuti; tutti i grandi aeroporti hanno non solo il treno, ma anche la metropolitana è un livello infrastrutturale completamente diverso da quello dell’aeroporto di Fiumicino.
La discussione continua a vertere sull’esigenza di realizzare un secondo aeroporto, attaccato a quello di Fiumicino (parlare di realizzare la quarta e la quinta pista, infatti, significa costruire un secondo aeroporto, con un’altra aerostazione), senza comprendere che invece l’urgenza, a mio avviso, e quella di una profonda ristrutturazione del sedime esistente, soprattutto delle infrastrutture di accesso. A parer mio, tutto ciò) suscita molte perplessità.
Il «decreto Monti» (decreto-legge n. 201 del 2011) ha sbloccato le modalità di finanziamento consentendo un aumento tariffario abbastanza importante, che e stato deciso sulla base di un impegno di carattere infra-strutturale, impegno che pero non sta avendo seguito. Non ci sono impedimenti alla ristrutturazione di Fiumicino sud, cioè dell’esistente: la Conferenza dei servizi, il Ministero e tutti i soggetti interessati hanno approvato la ristrutturazione di Fiumicino. Il cantiere del Terminal C, che sta lì da anni, in cui erano ripresi i lavori, si e bloccato un’altra volta perché l’impresa incaricata dei lavori all’interno (soprattutto quella che si occupa degli impianti, che rappresenta la parte più importante di una infrastruttura aeroportuale) e andata in fallimento e ha avuto problemi di carattere amministrativo.
Credo che lo Stato italiano - perché anche se ci confrontiamo con un concessionario la proprietà e comunque dello Stato italiano, - debba concentrarsi soprattutto su uno scadenzario, un crono programma, per arrivare a definire tempi, modalità e risorse. Queste ultime già ci sono, perché gli aeroporti romani le stanno già incamerando (ricordo che nel 2014 hanno chiuso il proprio bilancio in attivo per 130 milioni di euro). Ritengo che occorra creare le condizioni politico-istituzionali per arrivare veramente ad una svolta e far diventare Fiumicino un aeroporto di serie A e non quello che e attualmente.
Segnalo in conclusione che, come emerge dal piccolo dossier che vi metto a disposizione, tre anni fa vi era stato già un altro incendio sulla scala mobile che porta dal tunnel della stazione ferroviaria al terminal: la scala mobile e ancora lì, carbonizzata, ed e rimasta tale. Si sapeva, quindi, che c’era un problema di funzionamento e non da ieri o dal 7 maggio, ma da parecchi anni, soprattutto per quanto riguarda il terminal T3; non sto parlando del terminal T1 e dell’area domestica, che - si vede a occhio nudo - è un’altra cosa, ma dello scalo internazionale, che necessita, ormai da molto tempo, di una profonda ristrutturazione. Gli investimenti, tuttavia, non sono stati fatti e questo, a mio avviso, e il problema che occorre affrontare».

Audizione di rappresentanti della ASL Roma D in ordine ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino
Nella seduta dell’8 settembre 2015 sono intervenuti, per svolgere le proprie considerazioni, in ordine ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino, la dottoressa Maria Claudia Proietti, il dottor Vittorio Chinni e la dottoressa Flavia Simonetta Pirola.
Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo ai predetti interventi:
«PROIETTI. Signora Presidente, a proposito delle menzionate nuove nomine, vorrei solo precisare che fino ad agosto ho ricoperto il ruolo sia di direttore del Servizio per la prevenzione e sicurezza negli ambienti di lavoro (S.Pre.S.A.L.), sia di direttore del dipartimento di prevenzione. Per ciò che riguarda le sostituzioni, il dottor Tomassetti e l’attuale direttore del dipartimento e la dottoressa Angelosanto mi ha sostituito alla direzione dello S.Pre.S.A.L., mentre la dottoressa Giuntoli è un dirigente medico, con incarico professionale, cui non sono affidate responsabilità assimilabili a quelle degli altri due colleghi citati ed alla quale ho chiesto di intervenire dal momento che si è interessata molto delle problematiche riguardanti l’aeroporto di Fiumicino.
Per ciò che riguarda i nostri interventi a seguito dell’incendio verificatosi presso l’aeroporto di Fiumicino, segnalo che siamo intervenuti per la prima volta l’11 maggio e da quel momento in poi abbiamo svolto e sviluppato tutte le attività necessarie alla tutela della salute, degli ambienti di lavoro, dei lavoratori e della cittadinanza. Posso consegnare alla Commissione una relazione nella quale specifichiamo quanto è stato fatto a partire dall’11 maggio. Ovviamente si è trattato di un evento assolutamente eccezionale e imprevedibile, come è emerso anche nelle precedenti audizioni svolte dalla Commissione. Quindi, in tale contesto siamo stati chiamati a svolgere delle funzioni in una situazione assolutamente nuova.
Non mi dilungherò nell’illustrazione delle attività che abbiamo svolto, giorno dopo giorno, limitandomi a segnalare soltanto che, tuttora, stiamo seguendo gli accadimenti legati alle conseguenze di questo incendio. Viene ad esempio svolta la sorveglianza sanitaria per tutti i lavoratori aeroportuali che lavorano nelle zone limitrofe, ed è prevista una bonifica per quanto riguarda l’area in cui si è sviluppato l’incendio.
C’è dunque un aggiornamento continuo della situazione e noi facciamo la nostra parte. Inizialmente essa e consistita prevalentemente nella verifica dell’ottemperanza alle norme previste dal decreto legislativo n. 81 del 2008, relative a tale materia.
Abbiamo emesso anche dei verbali di violazione e prescrizione, che sono stati ottemperati in tempi diversi. La riapertura completa del molo D e assolutamente recente. Se la Commissione lo desidera, potrei dare lettura della nostra relazione per intero, il che richiederebbe tempo visto che e piuttosto ampia, quindi sarebbe forse preferibile che io rispondessi alle specifiche domande che i membri della Commissione vorranno rivolgermi. Ricordo soltanto che negli ultimi due anni il Servizio Pre.S.A.L., e gli altri servizi del dipartimento sono intervenuti a varie riprese presso l’aeroporto di Fiumicino, per far fronte ad alcune problematiche insorte. Anche a tale riguardo e possibile leggere nella relazione, che lascerò agli atti della Commissione, le attività da noi svolte. A partire dal 2012 sono stati effettuati circa 200 sopralluoghi l’anno presso l’aeroporto e in riferimento alle più svariate problematiche. Si e intervenuti, ad esempio, sulla base delle segnalazioni dei sindacati e degli esposti dei lavoratori, a proposito di malattie professionali e infortuni a volte verificatisi anche in cantieri insistenti nella zona aeroportuale. Possiamo pertanto affermare che la nostra presenza c’è stata, ma ovviamente essa e stata molto legata alle emergenze e alle richieste di intervento, perché, viste le risorse a disposizione dello S.Pre.S.A.L., non possiamo garantire in aeroporto una presenza di tipo sistematico, ne d’altra parte e previsto che ci sia, dal momento che il decreto legislativo n. 81 del 2008 prevede che tutte le problematiche connesse alla sicurezza sul lavoro e alla tutela dei lavoratori facciano capo al datore di lavoro.
Quello che vi ho fornito è un quadro generale, anche se, chiaramente, in questa circostanza siamo intervenuti in modo sistematico, proprio perché c’era una serie di situazioni che richiedevano di essere seguite continuativamente. Questo, ripeto, è il quadro generale che potete ritrovare nella nostra relazione. Ribadisco che le prescrizioni non riguardavano il tema degli incendi, innanzitutto perché esso non è di nostra competenza ed evidentemente non si era ancora verificata una situazione per cui fosse necessario approfondire tale argomento. Ricordo infatti che i nostri interventi erano legati a diverse situazioni, una tra tutte l’esposto di alcuni lavoratori, con cui si descrivevano le condizioni di lavoro presso la sala manutenzione e riparazione aerei. In casi di questo tipo, ci recavamo sul posto e facevamo il verbale di violazione e prescrizione, che poi veniva ottemperato. Ovviamente l’ammissione al pagamento presupponeva che ci fosse stata un’ottemperanza a quanto prescritto. Tutte le volte che siamo intervenuti e abbiamo emesso verbali di violazione le prescrizioni sono state ottemperate nei tempi e nei modi dovuti. Faccio notare che ad essere oggetto di verbale non era sempre lo stesso soggetto datore di lavoro, ma poteva essere qualsiasi handling, perché, come sapete, nell’aeroporto di Roma sono presenti un gestore complessivo, ovvero la società Aeroporti di Roma (ADR), l’Ente nazionale aviazione civile (ENAC), che si occupa in modo più tecnico dell’aviazione civile e che però) non ha espresse responsabilità di datore di lavoro, e tutta una serie di concessionarie, da quelle che si occupano di prelevare il bagaglio a quelle che espletano le procedure di check-in. In aeroporto opera quindi una serie di società e quindi spesso i verbali erano indirizzati a diversi soggetti, non sempre agli stessi. C’è stata una fase in cui alcune prescrizioni non sono state ottemperate per intero, ma ciò è avvenuto in tempi diversi. Peraltro, in alcune situazioni è stata chiesta la proroga dei tempi di ottemperanza alla prescrizione. Ad esempio la riapertura del molo D è avvenuta nel momento in cui si è ottemperato completamente alle prescrizioni. Fino a quel momento c’erano degli aspetti su cui non si era intervenuti in ottemperanza delle prescrizioni, in particolare, per quanto riguarda la valutazione dei rischi, oppure la pulizia completa di tutte gli impianti necessaria a garantire che non ci fossero sorgenti di contaminazione. Mi sto riferendo ad una serie di azioni che sono avvenute in tempi diversi.
Quanto ai verbali di prescrizione, si tratta di atti che non possiamo consegnare e giustamente la Commissione li ha chiesti e ottenuti dalla procura della Repubblica, così come noi stessi avevamo indicato. Natural-mente non abbiamo nessuna difficoltà a fornire la documentazione richiesta. Al riguardo ci siamo consultati con la procura la quale ci ha detto di invitare la Commissione a rivolgersi a loro. Non so se ci sia stato qualche misunderstanding, ma posso assicurare che da parte nostra c’è la massima disponibilità a fornire tutta la documentazione possibile. Forse ci sono state delle indicazioni difformi; nel merito non voglio azzardare ipotesi, l’importante e che abbiate ricevuto quegli atti. D’altra parte, il contenuto dei verbali e di fatto desumibile anche dalle stesse relazioni che man mano sono state fatte; aggiungo che l’attuale relazione riassuntiva, in realtà, periodo per periodo e a seconda dei vari soggetti che ce l’hanno chiesta, l’abbiamo fornita e in tale ambito in concreto si intravedono anche le varie tipologie di prescrizioni che sono state date. Non si tratta materialmente del verbale, ma in essa ci sono indicazioni in ordine a quanto era stato richiesto, visto che, ad esempio, si dà conto delle prescrizioni cui non si era ottemperato. Come già ricordato, ci sono stati tempi diversi di ottemperanza, e la riapertura definitiva del molo D è arrivata a metà luglio.
Per la parte che mi riguarda la situazione e la seguente: nel corso di una riunione in prefettura, avvenuta il giorno dopo il nostro intervento, il 12 maggio, era stato stilato un protocollo di intesa. Premetto che siamo un organo di vigilanza, ma di fatto forniamo anche informazione e assistenza, come e avvenuto per l’appunto in quella particolare circostanza. In ogni caso, per scindere queste due funzioni, segnalo che nel dipartimento c’è lo SPreSAL, che e organo di vigilanza e mi pare di ricordare che ci fu un input della direzione affinché fosse interessato anche un medico competente, il dottor Chinni, che avrebbe collaborato a livello informativo. Ma sul suo mandato chiarirà lo stesso dottor Chinni.
Per quanto riguarda il direttore del dipartimento, tengo a precisare di non essere stata formalmente invitata a quella riunione, tant’e vero che c’è una mail del direttore sanitario che invita espressamente il dottor Chinni a partecipare. L’invito e arrivato al dottor Chinni dalla direttrice dell’ENAC la dottoressa Patrizia Terlizzi. La dottoressa Terlizzi ha quindi invitato il dottor Chinni, come era giusto fare, visto che in tal senso c'era un protocollo di intesa. Successivamente, via telefono, ha informato la sottoscritta, dicendo che avrebbe gradito la mia presenza. Io ricordo di aver specificato che, considerato che lo scopo della riunione era per l'appunto quello di fornire un parere (il mandato della suddetta riunione era quello di fornire un parere di competenza), non ritenevo opportuna la mia partecipazione, in quanto ciò non rientrava nelle nostre funzioni. Ho inviato quindi una mail alla dottoressa Terlizzi - dandone conto telefonicamente al direttore sanitario, la dottoressa Pirola - declinando l’invito e specificando per quale motivo ritenevo di non dover partecipare, segnalando anche che la ASL non avrebbe potuto dare un parere, ma eventualmente presenziare in qualità di osservatore.
Successivamente ho anche provato a telefonare al dottor Chinni per capire come stesse la situazione. Credo che ci siano stati problemi di comunicazione, ma stiamo comunque parlando sempre di telefonate, considerato che ufficialmente c’è solo un invito al dottor Chinni per la partecipazione a questa riunione.
Dopodiché il lunedì o, addirittura, il giorno stesso della riunione, il 17 maggio, mi sono ritrovata con una relazione - che sicuramente avrete agli atti - del dottor Chinni, che immagino dopo darà la sua versione dei fatti, nell'ambito della quale egli dichiara di aver partecipato alla riunione e che ad essa non erano presenti altri membri del dipartimento. Come si evince nel verbale, il dottor Chinni dichiara, altresì, di aver espresso un parere positivo in quanto ad una verifica delle analisi era risultato essere tutto a posto. Tengo a segnalare che il giorno prima della riunione in prefettura c’era stata una riunione con ENAC e ADR in cui avevo già avvertito che nelle analisi dell’HSI Consulting c’erano degli elementi che non erano del tutto chiari e che quindi come S.Pre.S.A.L. non ci sentivamo di avallare completamente quel tipo di analisi sostenendo che non ci fosse alcun rischio e che tutto fosse tranquillo.
Premetto che il molo D, fino al giorno 18 maggio era chiuso, e quindi da parte nostra non c’era bisogno di sollecitarne la chiusura. Quando dalla relazione abbiamo appreso che il giorno 18 c’era stata la riapertura, in conseguenza di una riunione in cui era stato dato in tal senso un parere positivo; siamo ovviamente andati a verificare con i nostri ispettori che cosa stesse accadendo. Abbiamo verificato dunque che il molo era stato riaperto e che erano riprese le attività. A quel punto abbiamo emesso il verbale e avanzato la proposta di sequestro preventivo - si e trattato di sequestro preventivo e non probatorio: occorre distinguere bene tra le due tipologie - dello stesso molo D. Ovviamente anche la procura ha i suoi tempi e quindi questa nostra richiesta e stata accolta in seguito. La chiusura del molo D e dunque avvenuta successivamente rispetto ai nostri verbali, ma non perché non l’avessimo richiesta. In parole povere, abbiamo chiesto il sequestro e dunque la chiusura del molo D, che però) e avvenuta successivamente - qualche giorno dopo - quando cioè la procura ha mandato la risposta, con l’assenso al sequestro e ciò è accaduto a distanza di una decina di giorni.
CHINNI. Visto che sono stato convocato, credo sia giusto ricostruire la vicenda dal mio punto di vista, ovvero a cominciare dalla mia situazione personale all’interno dell’organizzazione di cui faccio parte.
Come è già stato detto, in questo momento non mi occupo, in azienda, di vigilanza e di sicurezza del lavoro nelle strutture esterne. Il mio ruolo, in questo momento e all’epoca dei fatti, era quello di medico competente per i dipendenti dell’ospedale Grassi di Ostia e di responsabile dell’unita operativa in materia di qualità, sicurezza e rischio clinico, che si occupa della sicurezza dei pazienti. Questi sono i miei ruoli, attualmente e all’epoca dei fatti. Quanto alla mia storia professionale, sono specialista in medicina del lavoro, ho lavorato per vent’anni in dipartimenti di prevenzione, compiendo attività di vigilanza in varie situazioni, e ho svolto per circa 15 anni il ruolo di responsabile del servizio prevenzione e protezione dell’ASL Roma D. In linea generale, possiedo dunque un’esperienza lavorativa specifica su questa materia.
Il giorno 13 maggio, dopo la riunione in prefettura, vengo dunque convocato dal direttore sanitario dell’ASL Roma D, la dottoressa Pirola - che è seduta qui, accanto a me - la quale mi riferisce che il giorno precedente c’era stata una riunione in prefettura e che la società Aeroporti di Roma aveva chiesto un’attività di assistenza, coordinamento e indirizzo tecnico su come gestire l’emergenza che si era venuta a creare in aeroporto. La direttrice sanitaria mi riferisce anche di aver fatto il mio nome, proposta che era stata accettata dai presenti, anche perché negli anni passati ho svolto attività di vigilanza sull’aeroporto di Roma, come responsabile del servizio di prevenzione della zona di Ostia e Fiumicino. Conoscevo, quindi, per motivi di lavoro, quell’ambiente fin dalla fine degli anni Novanta. Dunque sono stato allertato dal mio direttore sanitario, che mi ha informato del fatto che avrei ricevuto una convocazione da parte della società Aeroporti di Roma per partecipare ad una riunione e in tale contesto cercare di chiarire alcune situazioni. A quel punto visto che ero stato convocato e mi era stato chiesto di fare quanto detto, l’ho fatto. Il pomeriggio del 13 maggio ho poi ricevuto una mail di convocazione da parte di Aeroporti di Roma per una riunione che si sarebbe tenuta presso la sede di tale società, in qualità di esperto dell’azienda che avrebbe potuto dare una mano per ciò che riguarda la sicurezza e la gestione dell’emergenza. Nella riunione di giovedì 14 maggio mi sono dunque ritrovato in un consesso in cui era presente una trentina di soggetti, tra responsabili di servizi prevenzione e protezione, medici competenti, dirigenti, direttori di compagnie aeree e di Aeroporti di Roma e appartenenti a tutti i Corpi di polizia dello Stato che lavorano presso l’aeroporto. In questa riunione, alla presenza dei rappresentanti di Aeroporti di Roma e delle persone citate, proprio perché mi rendevo conto dell’eccezionalità della situazione, ho esordito dicendo: «Guardate, facciamo subito chiarezza su un punto: non sono il dipartimento di prevenzione e non ho poteri di vigilanza, ne vi posso ordinare di fare questo o quell’altro, ma sono stato inviato qui per cercare di aiutarvi. Quindi, se troverete convenienti e ragionevoli le misure che vi suggerirò, le potrete tranquillamente adottare».
Questo e stato dunque il mio esordio nella riunione di giovedì 14 maggio. Dopodiché hanno preso la parola i vari soggetti presenti a vario titolo a quella riunione, i quali hanno rappresentato una situazione di difficoltà, di scarso coordinamento, sia nell’approccio, sia nella valutazione di quello che era accaduto è di quello che occorreva fare.
Uno degli aspetti che pili mi ha colpito in quell’occasione è stato il fatto che da parte di Aeroporti di Roma non ci fosse un’azione chiara di coordinamento delle attività, come se il problema fosse di pertinenza di ciascuna struttura.
Al termine di un primo giro di tavolo, in cui tutti hanno espresso le loro lamentele e le loro valutazioni più o meno critiche rispetto a quello che stava succedendo, ho preso la parola per dare una serie di indicazioni tecniche che a mio giudizio avrebbero dovuto essere adottate per cercare di contenere le risultanze dell’evento accaduto il giorno 7 maggio. Stiamo parlando dunque di una riunione che si e tenuta esattamente sette giorni dopo l’evento e, da quanto emerso nella riunione, non risultava che fossero state adottate delle specifiche azioni di contenimento della diffusione degli inquinanti, se non la chiusura e il sequestro dell’area in cui effettivamente si era sviluppato l’incendio.
In quella riunione, sulla base della mia competenza e della mia esperienza, ho suggerito le azioni che a mio giudizio si sarebbero potute porre in essere. Ho quindi suggerito di compartimentare le aree dell’aeroporto, dividendole in tre aree - contraddistinte dai colori rosso, giallo e verde - per focalizzare proprio l’esigenza di diversificare gli interventi da compiere, ai fini della bonifica dell’ambiente, secondo le caratteristiche di tali aree.
Ho suggerito poi che, nello stesso tempo, venisse effettuato un sezionamento dell’impianto di condizionamento, visto che esso avrebbe potuto diffondere gli inquinanti dalle zone maggiormente inquinate, verso quelle in cui c’era ancora attività lavorativa, dal momento che il giorno 14 maggio gran parte del terminal T3 era operativa e quindi c’era presenza di operatori e di passeggeri. Dunque, in quell’occasione ho specificato che era necessario intervenire sull’impianto di condizionamento. Non sarebbe infatti bastata la divisione fisica degli spazi più inquinati da quelli meno inquinati perché se l’impianto di condizionamento avesse mantenuto un collegamento aereo avrebbe potuto essere oggetto e causa di diffusione degli aerodispersi. Poi c’è stato un secondo giro di tavolo nell’ambito del quale tutti i partecipanti hanno detto la loro. Alla fine della riunione ho ricevuto il ringraziamento di quasi tutti i partecipanti per aver fatto chiarezza tecnica su alcuni aspetti che fino a quel momento erano stati oggetto di discussione. Se volete, posso entrare nel dettaglio delle ragioni di tali discussioni, ma non credo che in questo momento sia rilevante.
Al termine della riunione del 14 maggio ero convinto di aver concluso il mandato concordato nella riunione in prefettura, quello cioè di un contributo aggiuntivo da parte della ASL rispetto a quello che era stato comunque avviato attraverso i verbali di contravvenzione, che non ho mai visto, non conosco e non avevo interesse a vedere perché tale attività non rientrava nei miei compiti.
Sabato 16 maggio ho ricevuto una telefonata in cui mi veniva comunicato che il giorno dopo sarei stato convocato per una riunione organizzata dall’ENAC per esprimere un parere sulla riapertura del molo D dopo gli interventi che l’azienda Aeroporti di Roma aveva effettuato sulla base di quanto emerso nella riunione del giovedì. Io avevo molte perplessità rispetto a questa convocazione proprio perché; non comprendevo a quale titolo fossi stato convocato. Tra l’altro, l’ENAC e un ente diverso da Aeroporti di Roma che aveva organizzato la riunione precedente. Pertanto, il 16 maggio ho contattato il direttore sanitario per informarlo della convocazione e per chiedergli a che titolo avrei potuto partecipare ed esprimere un parere a nome e per conto dell’azienda. In tale occasione ho quindi manifestato al direttore la mia posizione rispetto a questa riunione; per fortuna tutto ciò e attestato da una serie di SMS che ci siamo scambiati con il direttore e che sono stati riportati dal mio avvocato alla procura della Repubblica, onde chiarire la mia posizione. Dal momento che avevo appreso che a tale riunione era stato convocato - così mi era stato detto - anche il dipartimento di prevenzione, ho chiesto conferma dell’effettiva partecipazione alla riunione della domenica alle ore 12. L’eccezionalità della data fissata per la riunione - per l’appunto domenica alle ore 12 - mi aveva indotto a ritenere che vi fosse una certa volontà da parte di ENAC di venire a capo della situazione. Il direttore sanitario nella serata di sabato, a seguito della mia precisa richiesta di chiarimento, ricordo che mi rispose di recarmi tranquillamente alla riunione alla quale avrebbe partecipato anche il direttore del dipartimento di prevenzione e che, quindi, ognuno avrebbe fatto la sua parte. Queste sono le notizie in mio possesso. La dottoressa Proietti dice adesso di aver cercato di telefonarmi, ma sul mio telefonino non ho traccia di telefonate da parte sua. Questo non vuol dire nulla; può darsi che i sistemi telefonici in quel caso non abbiano funzionato
Arriviamo, quindi, a domenica 17 maggio. A mezzogiorno mi sono presentato alla riunione organizzata dall’ENAC dove ho potuto verificare come in realtà fossi solo, visto che il direttore del dipartimento non era presente. Nei giorni scorsi, avendo preso visione di alcuni documenti, ho appreso che il direttore aveva a quel punto già avvertito della sua non partecipazione. In quella occasione mi sono trovato quindi spiazzato, non essendo stato informato della situazione che avrei trovato.
Non ho difficoltà a dire che, se avessi saputo che il dipartimento non avrebbe presenziato alla riunione, mi sarei guardato bene dal parteciparvi perché facendolo avrei creato, come purtroppo e stato, problemi di confusione nei ruoli.
Ho comunque ritenuto di dover rimanere alla riunione di domenica 17 maggio per cercare di dare un parere tecnico in linea con quanto già chiarito nella prima riunione di giovedì 14 maggio. Pertanto, ho preso visione della documentazione che e stata fornita; insieme a tutti gli altri partecipanti ho effettuato il sopralluogo degli spazi del molo D, di cui si discuteva l’eventuale riapertura, e in quella occasione, ancora prima di fare la comunicazione, ho inviato un ulteriore SMS al direttore sanitario, che era però fuori Roma, in cui chiedevo che cosa fare dal momento che ero solo ed ero oggettivamente in difficoltà a esprimere un parere. Poi abbiamo appurato che di questo SMS e stata presa visione solo più tardi nel corso della giornata. Quindi, non avendo avuto risposta e di fronte alle informazioni ricevute, ho ritenuto di poter dare un parere, che però non si e sostanziato in nessun atto formale. Io non ho infatti firmato nessuna liberatoria né prodotto alcun atto formale: mi hanno chiesto un parere tecnico e l’ho fornito. Per la mia personale valutazione, come peraltro constatato da tutti i presenti che con me avevano effettuato il sopralluogo, in quell’ambiente vi era un’aria più respirabile di quella del terminal T1 che avevamo dovuto attraversare. Presso il terminal T1 l’aria era infatti pili pesante rispetto a quella che domenica 17 maggio constatammo nel molo D.
Al termine di quella riunione e stato stilato un verbale dall’ENAC, che, preso atto del mio parere, ha deciso di riaprire il molo D nella giornata di lunedì a partire dalle ore 6.
Questi sono i fatti. Le opinioni, come diceva un giornale una volta, sono separate e non intendo fornire ulteriori valutazioni personali.
PIROLA. Parto da questo punto con l’illustrazione della sequenza degli eventi, confermando quanto detto a proposito della riunione svoltasi in prefettura il 12 maggio scorso. In quella sede, il medico competente, dottor Gismondi di ADR chiese un supporto alla ASL per gestire i medici competenti all’interno dell’aeroporto. Con la dottoressa Proietti in quell’occasione decidemmo di individuare un altro professionista all’interno dell’azienda, che non fosse del dipartimento, per determinare la separazione dei compiti e anche perché i medici dello SPreSAL erano già molto impegnati negli aspetti di rilevazione. Pertanto, in quella occasione feci il nome del dottor Chinni, che è uno dei medici competenti anche nella nostra azienda ASL, affinché ricoprisse il ruolo di supporto del medico competente di ADR nel coordinamento di tutti gli altri medici, che all’interno dell’aeroporto sono numerosi, appunto perché ci sono molti datori di lavoro. Secondo quanto affermato in sede di riunione in prefettura sia da parte del medico competente Gismondi, che da ADR e dalle organizzazioni sindacali, tali medici fornivano informazioni e disposizioni differenti all’interno di postazioni di lavoro diverse. Questa e stata la scelta che ho comunicato al dottor Chinni al rientro in azienda il giorno dopo. Ho chiesto se fosse disponibile ad assumere questo incarico in quelle giornate, al riguardo ottenendo in tal senso una risposta favorevole.
La nota sul mio rescritto cui fa riferimento la dottoressa Proietti, in cui si individuerebbe il dottore Chinni quale partecipante all’incontro del 17 maggio, in realtà e quella in cui il dottor Gismondi, attraverso una certa Marinetti Federica, ci comunicava che, nei termini previsti in sede di prefettura nella serata del 12 maggio, era stato fissato un incontro per il 14 maggio alle ore 10,30 presso i locali di medicina del lavoro dell’aeroporto di Fiumicino con il medesimo medico competente, dottor Gismondi, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione di Aeroporti di Roma. Per tale incontro si chiedeva un coinvolgimento delle nostre omologhe funzioni, con le quali erano già in costante contatto.
Quindi, la nota sul rescritto e quella del 14 maggio in cui si conferma che il dottor Chinni e stato individuato quale supporto per cercare di man-tenere un po’ più entro i confini della norma i comportamenti dei medici competenti - i quali, come sapete, sono professionalmente indipendenti - e aiutare il medico della società Aeroporti di Roma, che, almeno secondo quanto riferito in prefettura, stava facendo fatica, al punto tale che il giorno 12 maggio, in prefettura, e stato sottoscritto un verbale con il quale ADR adottava un ruolo di coordinamento nei confronti degli altri datori di lavoro. In fondo a tale verbale c’è una postilla stante la quale la ASL avrebbe continuato ovviamente le attività di vigilanza, sorveglianza e informazione che fanno parte delle competenze e dei compiti che le spettano.
Per quanto riguarda la giornata del 17 maggio, confermo di aver chiesto alla dottoressa Proietti e al dottor Chinni di partecipare entrambi a detta riunione. Nel pomeriggio del sabato ho ricevuto una telefonata dalla dottoressa Proietti, che mi informava di aver ricevuto da parte della direttrice dell’ENAC, dottoressa Patrizia Terlizzi, una convocazione ad una riunione, alla quale riteneva non opportuno partecipare, aggiungendo come a suo parere fosse più opportuno vi partecipasse il dottor Chinni. Dopodiché ho chiesto al dottor Chinni di informarsi al fine di capire se anche il dottor Gismondi avesse ricevuto analoga convocazione, chiedendogli di partecipare solo ed esclusivamente nel caso che anche il dottor Gismondi, che e il medico competente, avesse ricevuto analoga convocazione. Dopo un po’ di tempo il dottor Chinni mi ha confermato che la convocazione a Gismondi era arrivata e quindi gli ho detto: «Ok, vai, ma non ti preoccupare, verrà anche la dottoressa Proietti». Ho dunque chiamato la dottoressa Proietti chiedendole di partecipare alla riunione in rappresentanza del dipartimento, aggiungendo che il dottor Chinni sarebbe stato presente solo come supporto del medico competente.
Tengo a precisare che quelli erano giorni abbastanza concitati, in cui si susseguivano riunioni convocate da diversi attori e rispetto alle quali non sempre risultava chiaro quali fossero i ruoli o i temi da affrontare. Erano anche i giorni in cui le organizzazioni sindacali avevano indetto e poi disdetto numerosi scioperi.
Per quanto riguarda la giornata del 17 maggio, nel primo pomeriggio sono rimasta in attesa di comunicazioni. Corrisponde al vero quanto affermato dal dottor Chinni, il quale mi ha effettivamente inviato un messaggio telefonico per comunicarmi che la dottoressa Proietti non era presente alla riunione, ma malauguratamente ho letto il messaggio 40 minuti dopo. A quel punto, però, pur avendogli risposto che se la dottoressa Proietti non c’era, era responsabilità di quest’ultima, e che non era compito del dottor Chinni esprimere pareri (gli ho detto di non farlo), malauguratamente il malinteso circa la presenza del dottor Chinni c’era già stato. Su questo, così come sui fatti inerenti l’azione del dipartimento, a partire dall’11 maggio, l’azienda ha adottato dei provvedimenti conseguenti.
Se possibile continuerei il mio intervento, illustrando anche le altre azioni effettuate dalla direzione che però non riguardano solo questo aspetto».

Audizione di rappresentanti dei Vigili del Fuoco di Roma in ordine ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi nell’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino
Nella seduta del 15 settembre 2015 e intervenuto, per svolgere le proprie considerazioni, in ordine ai profili di sicurezza e salubrità degli ambienti di lavoro connessi al recente incendio sviluppatosi all’aeroporto Leonardo da Vinci di Fiumicino, l’ingegner Marco Ghimenti.
Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo al predetto intervento:
«GHIMENTI. Signora Presidente, se lei consente, vorrei dare conto di una breve relazione che abbiamo predisposto nel merito, assumendo come spunto almeno iniziale gli elementi già forniti su richiesta di questa Commissione con nota del 18 giugno scorso, ovviamente restando a disposizione per ogni eventuale aspetto i commissari dovessero ritenere opportuno approfondire.
Desidero esordire con un ringraziamento a lei, signora Presidente, ed ai senatori membri della Commissione per l’occasione che mi viene offerta di dare un contributo sui profili di sicurezza degli ambienti di lavoro connessi all’incendio verificatosi presso la galleria transiti del terminal T3 dell’aeroporto di Fiumicino, nella notte tra il 6 e 7 maggio 2015.
Comprendo perfettamente le esigenze di approfondimento avvertite da questa Commissione, ma ritengo opportuno portare a conoscenza del consesso che e ancora in corso l’attività investigativa relativa alle cause da cui ha tratto origine l’incendio, avviata dalla procura della Repubblica presso il Tribunale di Civitavecchia, coordinata dall’ufficio della Polizia di frontiera aerea di Fiumicino e che tuttora vede coinvolti l’ufficio di Polizia giudiziaria del Comando dei Vigili del fuoco di Roma, il Nucleo investigativo antincendio (NIA) del Dipartimento dei Vigili del fuoco e la Direzione provinciale del lavoro di Roma.
Nondimeno, con le cautele d’obbligo in una fase ancora interlocutoria, credo sia possibile delineare un quadro d’insieme quanto più possibile compiuto e globale dell’evento e confermare che, tra le cause che lo hanno originato, l’ipotesi più attendibile al vaglio degli investigatori, cui si è giunti peraltro a poche ore dall’evento, e più volte riportata dalla stampa nazionale, e quella di un surriscaldamento e successiva ignizione di un condizionatore portatile all’interno di un piccolo vano tecnico ospitante un rack telematico.
Peraltro, ciò risulta confermato dalle registrazioni contenute nei filmati acquisiti ed attentamente esaminati dalla Polizia di frontiera, che documentano, insieme alle diverse fasi dell’intervento, sia la fase di innesco dell’incendio nel locale, sia quella di rapidissimo sviluppo e propagazione agli ambienti circostanti.
Senza entrare nel dettaglio delle attività di spegnimento effettuate dalle squadre del Comando di Roma, mi sembra corretto evidenziare che, in allegato alla nota predisposta per dare esecuzione al decreto di esibizione documentale n. 93 del 18 giugno 2015, e stata riportata l’informativa resa alla procura della Repubblica di Civitavecchia, la quale in dettaglio illustra tutte le varie fasi della lotta all’incendio, che ha impegnato dalla prima chiamata alla definitiva estinzione - per oltre sei ore - numerose squadre tra quelle di stanza in aeroporto e quelle del territorio provinciale.
In questa sede, riferisco che oltre all’azione diretta di contrasto all’incendio, l’intervento dei Vigili del fuoco si e protratto molto a lungo ed e stato accompagnato da sforzi continui degli operatori impegnati, che sono riusciti, pertanto, ad assicurare tutte le necessarie operazioni di minuto spegnimento, evacuazione dei gas prodotti dalla combustione, verifiche statiche ed anche, successivamente, le investigazioni di ricerca delle cause.
In merito all’accertamento della sicurezza degli ambienti di lavoro, nei giorni seguenti, su incarico della magistratura inquirente, un team di funzionari del Comando di Roma ha effettuato una serie di sopralluoghi presso l’aeroporto di Fiumicino ed ha rilevato alcune difformità nell’applicazione della normativa antincendio nei luoghi di lavoro.
A questo punto, su questo terreno, si innesta un doveroso chiarimento concernente il quadro normativo relativo all’assoggettabilità ai controlli di prevenzione incendi delle aerostazioni, alla luce della legislazione di settore vigente.
Faccio presente che per la prima volta il decreto del Presidente della Repubblica n. 151 del 1 agosto 2011, al punto 78 dell’allegato 1, ha introdotto, tra le altre attività soggette ad obbligo di titolo autorizzativo ai fini antincendio, le aerostazioni con superficie coperta accessibile al pubblico superiore a 5000 metri quadri, e preciso che, trattandosi di una nuova attività, il decreto, all’articolo 11, comma 4, concedeva un anno di tempo, dalla data di entrata in vigore dello stesso prevista per il 7 ottobre 2011, per l’espletamento degli adempimenti prescritti.
In questa sede mi limito a ricordare che i suddetti adempimenti prevedono la presentazione di un progetto soggetto ad approvazione da parte del Comando provinciale dei Vigili del fuoco e la successiva segnalazione certificata di inizio attività sostitutiva del titolo autorizzativo antincendio.
Soggiungo che con ulteriori provvedimenti, tra i quali il decreto-legge n. 83 del 2012, convertito in legge n. 134 del 2012, il decreto-legge n. 69 del 2013, convertito in legge n. 98 del 2013 e il decreto-legge n. 192 del 2014, convertito in legge n. 11 del 2015, è stato prorogato il termine per l’espletamento degli adempimenti rispettivamente al 7 ottobre 2013, 7 ottobre 2014 e, infine, al 7 ottobre 2016.
Nel contempo, con il decreto ministeriale 17 luglio 2014, e stata emanata la regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, la costruzione e l’esercizio delle aerostazioni, applicabile alle aerostazioni di nuova realizzazione ed a quelle esistenti, la quale indica, nell’ipotesi da ultimo contemplata, dei termini di adeguamento per il raggiungimento dei requisiti prescritti più dilatati e precisamente il 7 ottobre 2016, il 7 ottobre 2019 e il 7 ottobre 2021.
Per questo motivo, in data 11 settembre 2014, la società Aeroporti di Roma ha presentato, ai sensi dell’articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica n. 151 del 2011, un’istanza di valutazione del progetto relativo al terminal T3 e all’area imbarchi H, che e stata successivamente riscontrata con nota del Comando n. 54778 del 16 ottobre 2014, con la quale l’organo tecnico interpellato ha espresso parere favorevole con prescrizioni.
Tuttavia, già alla luce di una prima analisi dell’attività ispettiva effettuata, e stato rilevato che lo stato dei luoghi rappresentato nella documentazione allegata all’istanza - trattandosi di un progetto di ristrutturazione ed adeguamento - non appariva del tutto conforme all’effettiva situazione esistente al momento in cui si e verificato l’evento le cui cause sono tuttora in corso di accertamento.
Di conseguenza, come parametro di riferimento per l’effettuazione dei sopralluoghi, sono state considerate le misure e gli obblighi derivanti dall’articolo 46 del decreto legislativo n. 81 del 2008, attualmente applicabili ai luoghi di lavoro, peraltro non essendo ancora scaduti i termini di legge per l’adeguamento alla nuova normativa.
Colgo qui l’occasione per riferire che le difformità individuate sono state contestate ai sensi di legge, elevando verbali ai contravventori individuati ai sensi del decreto legislativo n. 758 del 1994, ai quali è stato anche imposto il ripristino dell’osservanza alle norme di sicurezza prescritte con la fissazione delle condizioni di esercizio e delle misure compensative.
Particolarmente articolato e l’insieme delle misure imposte per ristabilire la piena efficienza di una serie di compartimentazioni e dell’aerazione di alcuni filtri a protezione di vani scala, le quali comprendono anche un adeguamento del livello di illuminazione di emergenza, l’implementazione del sistema automatico di rivelazione incendi in tutte le aree e vani nascosti, la piena funzionali dei sistemi di evacuazione di fumo e calore, la rimozione di tutti i materiali combustibili tra cui quelli di coibentazione e rivestimento ospitati nei vani dei controsoffitti e che durante l’incendio hanno dimostrato una reazione al fuoco non adeguata.
Sono state inoltre disposte la delocalizzazione e la razionalizzazione dei locali tecnici e tecnologici in alternativa alla loro segregazione dalle aree destinate ad altre funzioni mediante criteri di compartimentazione antincendio ed aerazione diretta verso l’esterno, ovvero anche la protezione con impianti automatici, l’individuazione di locali ad hoc adeguatamente predisposti per la ricarica di veicoli a batteria e, infine, l’implementazione e l’adeguamento della segnaletica e della cartellonistica di sicurezza.
Del resto, la rilevanza e lo spessore delle misure di carattere gestionale prescritte dimostrano come sia in atto un processo di riconfigurazione degli assetti del piano di emergenza che dovrà tener conto delle attuali situazioni del terminal post evento del 7 maggio, compreso l’allestimento di una sala controllo dotata di sistemi di video-sorveglianza dalla quale coordinare a tempo pieno eventuali emergenze tramite squadre di addetti antincendio, dotate dei requisiti abilitativi prescritti per norma di legge, esclusivamente dedicate e al contempo organizzate per svolgere attivi di sorveglianza e controllo dei presidi e sistemi di protezione antincendio e di intervento ed assistenza in caso di emergenza.
In ultimo, e stata prescritta l’integrazione del sistema di video-sorveglianza con un impianto di rilevazione incendi.
Quella di cui ho teste dato conto e la relazione che abbiamo predi-sposto, prendendo spunto dalla nota che già avevamo redatto, tenuto conto che, forse anche per inesperienza, non sapevamo quali potessero essere le esigenze della Commissione.
Spero di non aver sottratto tempo alla Commissione con l’illustrazione della relazione, volta ad introdurre il tema e consentire ai senatori di avere un documento di riferimento. Riconosco tuttavia che molto di quanto appena riferito si evince già dalle note trasmesse.
Per il resto, rimaniamo a disposizione dei commissari per ulteriori in-formazioni».

Audizione del Segretario Generale FLAI CGIL Puglia in merito alla morte della bracciante agricola, signora Paola Clemente, avvenuta il 13 luglio 2015 ad Andria
Nella seduta del 28 ottobre 2015 è intervenuto, per svolgere le proprie considerazioni in ordine alla morte della bracciante agricola, signora Paola Clemente, avvenuta il 13 luglio 2015 ad Andria, il signor Deleonardis.
Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo al predetto intervento:
«DELEONARDIS. Signora Presidente, ringrazio lei e la Commissione per l’invito a partecipare all’odierna seduta. Per noi questa partecipazione costituisce, oltre che un dovere istituzionale, anche un’opportunità per segnalare una condizione di lavoro che parte dalla vicenda di Paola Clemente, ma che è generale.
Sapete tutti che questa estate in Puglia sono avvenuti sette decessi, tutti in agricoltura. Il primo ha riguardato un sudanese, Mohamed, morto mentre raccoglieva pomodori per un’azienda che, nonostante fosse già indagata per intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (articolo 603-bis del codice penale) nell’ambito l’operazione SABR, ha tuttavia continuato a dare lavoro in quelle condizioni e a quanto risulta anche in nero.
A Polignano, e morto un altro ragazzo, Zaccaria, che lavorava sempre in un’azienda di grandi dimensioni; dalle notizie riportate dalla stampa (non dalla nostra denuncia), risulta come questo lavoratore avesse svolto circa otto ore di lavoro, ciò nonostante in agricoltura l’orario massimo previsto sia di 6,30 ore, peraltro in un periodo dell’anno in cui la temperatura supera i 40 gradi ed e quindi facile immaginare quanto siano elevati i livelli di rischio per chi lavora nei tendoni. Anche questo ragazzo e morto per un infarto.
Dopo di che abbiamo avuto notizia del decesso della signora Paola Clemente. Recentemente, dopo un periodo di coma e morto un altro ragazzo, ed a Massafra, in Provincia di Taranto, e stato registrato il decesso di un’altra donna, Maria, anche lei morta sui campi e che pare fosse già malata (il che fa capire quale sia il livello di sicurezza e di prevenzione), per non parlare poi della morte di un ragazzo originario del Burkina Faso che e stato investito nel foggiano di notte mentre rientrava in bicicletta dopo una giornata di lavoro.
Ho richiamato brevemente non un bollettino, ma ciò che è realmente successo.
Per quanto riguarda la signora Paola Clemente, vorrei ricostruire velocemente i motivi le modalità della denuncia. Dopo la morte di Mohamed noi abbiamo denunciato la situazione con un volantino e ci sono arrivate alcune segnalazioni anonime, oltre che da parte di alcuni nostri iscritti che, anche con un po’ di rabbia, ci chiedevano perché ci limitassimo a parlare solo del decesso di Mohamed, dal momento che era morta anche un’italiana. A questo messaggio noi abbiamo risposto che non sapevamo nulla. Quindi abbiamo cercato di scoprire qualcosa e di capire chi fosse questa donna e perché le lavoratrici non parlassero dell’accaduto. Abbiamo poi avuto notizie sull’azienda e sul territorio in cui il fatto si era verificato ma non sapevamo se si trattasse di una dipendente di una agenzia interinale. Siamo riusciti a scoprire il nome della signora Paola Clemente e quindi insospettiti dal fatto che la denuncia fosse anonima e che le lavoratrici non volessero parlare dell’accaduto e dalle difficoltà incontrate per conoscere il nome della vittima e la dinamica dell’incidente, abbiamo deciso di coinvolgere una giornalista freelance, Raffaella Cosentino, che ha svolto un’indagine grazie alla quale siamo riusciti a scoprire anche il numero di telefono del figlio della signora Paola. La famiglia, infatti, si era chiusa, ma noi abbiamo alcune registrazioni di telefonate in cui il figlio racconta ciò che era accaduto. In un secondo momento la famiglia non ha voluto più parlare e si e chiusa di nuovo per la paura. Siamo quindi riusciti a parlare con il padre e la famiglia. La giornalista ha poi rinunciato a scrivere un articolo e quindi mi sono assunto la responsabilità di fare una denuncia sulla base delle notizie che avevamo acquisito. Ho pertanto scritto un articolo per un giornale in cui denunciavo la situazione. Al di là di alcuni particolari che possono sfuggire nella costruzione di una notizia, abbiamo in primo luogo segnalato il fatto che nel caso della morte della lavoratrice la famiglia era stata informata solo quando la donna si trovava ormai all’obitorio. È possibile che una famiglia non venga contattata prima per darle modo di recarsi in ospedale e capire cos’e successo? Non risulta neanche che sia intervenuta l’autorità giudiziaria ed e anche questo un fatto che abbiamo denunciato. E' infatti possibile che si verifichi un infortunio mortale e non intervenga l’autorità giudiziaria? Non si sapeva neanche se la polizia o i carabinieri si fossero recati o meno sul posto. Ci siamo quindi interrogati, ci siamo chiesti se le cose fossero o meno andate così, e se fosse tutto normale. Abbiamo denunciato pertanto una situazione che non ci convinceva molto, nella cui dinamica l’unico dato certo era che la lavoratrice era stata portata all’obitorio, tant’è che la famiglia l’ha trovata lì. Questa e stata la nostra denuncia perché non sapevamo come si fossero svolti i fatti, la cui dinamica ci e stata raccontata dalla famiglia. Successivamente, abbiamo chiamato la famiglia a cui abbiamo riferito di esserci presi la responsabilità di denunciare sia l’azienda, sia chi aveva fatto interposizione di manodopera. È di ieri la notizia pubblicata sul quotidiano «La Repubblica» secondo cui oltre all’azienda risulterebbero indagati altri quattro soggetti perché, come avevamo detto, pare che l’agenzia interinale - che sembrerebbe essere lecita ma che per noi è un’agenzia d’interposizione di manodopera vera e propria - sia in forte combutta con i caporali che hanno i pullman. È stata denunciata la moglie di un caporale, un certo signor Grassi. Secondo le notizie in nostro possesso pare che abbiano circa 15 pullman e facciano intermediazione di manodopera; abbiamo denunciato situazioni che la magistratura, per l’appunto a seguito delle nostre denunzie, sta esaminando fino in fondo. Mi auguro, quindi, che nei prossimi giorni siano avviati dei procedimenti nei confronti sia di questi signori sia, più in generale, per il contrasto al fenomeno del caporalato, che va combattuto.
Come dicevo, abbiamo ascoltato la famiglia che ci ha fornito una dichiarazione, ed ha inviato una lettera e le buste paga della signora Paola alla procura. In questa lettera il signor Arcuri illustra la condizione lavorativa della moglie, ovvero racconta che lavorava circa 9-10 ore al giorno, che non veniva calcolato il tempo necessario a coprire il percorso per andare e tornare, che era tutto a carico del lavoratore; il signor Arcuri ha parlato anche di buste paga false perché; i salari percepiti, a fronte dei 58 euro netti che avrebbero dovuto essere versati al lavoratore per circa otto ore di lavoro - la media non era quindi quella contrattuale - ammontavano a soli 27 euro. Si è quindi di fronte ad una condizione di sfruttamento ma anche ad una forma di estorsione, perché se si fanno buste paghe ai fini della fiscalizzazione degli oneri sociali - questo è quanto avveniva in linea generale - si consuma un’estorsione. La famiglia ha denunciato questa situazione al giudice, così come avevamo già fatto noi assumendoci la responsabilità, senza avere la dichiarazione di parte, il che è stato per noi di conforto e ci ha dato fiducia. Questa è stata la vicenda. In sostanza, può succedere che uno si senta male, ma in quel caso lo si porta in ospedale e si fanno le verifiche del caso. La stranezza sta nel fatto che tutto questo non ci sia stato. Da quanto emerso, pare che la signora non stesse male quando e partita per il lavoro. Lei non lamentava problemi alla cervicale, ne aveva malattie cardiache o sintomi precedenti e ciò ha escluso la possibilità di collegare il malore intervenuto a concause, come qualcuno ha invece provato a fare. Per questo è stata chiesta la riesumazione della salma e l’autopsia, cosa che si sta facendo. Si è accertato quindi che la signora Paola non aveva sintomi precedenti; inoltre, quando si è sentita male nel pullman nessuno si è preoccupato - perché i lavoratori sono numeri o oggetti - di portarla in ospedale, ma le è stato detto di stare seduta e di aspettare perché il malore sarebbe passato, il che è avvenuto, nel senso che è poi deceduta! Questa è una storia che richiama una condizione generale e noi l’abbiamo raccontata così.
Resta la questione delle ragioni che possono aver generato questo malore, se cioè si sia trattato di un fatto normale o se ci siano state delle concause. Noi non sappiamo - per questo abbiamo chiesto che si conducesse un’indagine - se all’interno dei tendoni siano presenti altri fattori di rischio che possano aver condotto a quel malore. Quello che al riguardo possiamo dire in maniera chiara e netta e che in agricoltura ci sono molti fattori di rischio. Recentemente presso l’azienda la Pernice di Turi circa trenta lavoratrici sono state vittime di una intossicazione da biossido di cloro necessario per la lavorazione delle ciliegie, fuoriuscito dagli impianti. Abbiamo chiamato la polizia ed e intervenuta anche una autoambulanza, ma ci risulta che nessuno sia stato portato al pronto soccorso. Il soccorso e stato dato sul posto - il che e singolare - e dopo quattro ore le lavoratrici hanno ripreso il lavoro. Ripeto, pere), che quelle donne si sono intossicate sotto i tendoni, visto che spesso si irrora durante il lavoro.
Esistono quindi fattori di rischio rispetto ai quali non si fa prevenzione e questo perché non ci sono rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza (RLS), che non vengono eletti e anche quando ci sono, nel nome della stagionalità, si giustifica tutto.
Ci sono però) molte aziende che non sono stagionali e lavorano tutto l’anno e che hanno anche 1.500 dipendenti. In agricoltura non e tutto stagionale: i tre quarti della manodopera sono assunti da aziende con un numero di dipendenti che va dai 100 ai 2.000 dipendenti. Noi, che siamo presenti in quell’ambito possiamo dire che abbiamo pochissimi RLS eletti. Non sappiamo come essi vengano eletti, se vengano eletti dall’azienda, se lo siano pro forma, o se vengano resi disponibili i dispositivi per la sicurezza. Una cosa e chiara, in agricoltura si e totalmente inadempienti rispetto al decreto legislativo n. 81 del 2008.
Questo e il quadro in cui si inserisce la vicenda della signora Paola, che si pone all’interno di un contesto più generale in cui l’illegalità la fa da padrona».

Audizione del rappresentante di Quanta S.p.A. in merito alla morte della bracciante agricola, signora Paola Clemente, avvenuta il 13 luglio 2015 ad Andria
Nella seduta del 28 ottobre 2015 la Commissione ha proceduto - in seduta segreta ai sensi dell’articolo 13, comma 1, del regolamento interno - all’audizione del Vicepresidente di Quanta S.p.A, dottor Vincenzo Mattina.

Audizione di rappresentanti di Inforgroup S.p.A. in merito alla morte della bracciante agricola, signora Paola Clemente, avvenuta il 13 luglio 2015 ad Andria
Nella seduta del 28 ottobre 2015 la Commissione ha proceduto - in seduta segreta ai sensi dell’articolo 13, comma 1, del regolamento interno - all’audizione della dottoressa Migliavacca e del dottor Malerba.

Audizione di rappresentanti della società Grassi Viaggi, in merito alla morte della bracciante agricola, signora Paola Clemente, avvenuta il 13 luglio 2015 ad Andria
Nella seduta del 10 novembre 2015 la Commissione ha proceduto - in seduta segreta ai sensi dell’articolo 13, comma 1, del regolamento interno - all’audizione del signor Ciro Grassi, dell’avvocato Emauela Francone e del signor Salvatore Filippo Zurlo.

Audizione di rappresentanti della società Ortofrutta Meridionale s.r.l., in merito alla morte della bracciante agricola, signora Paola Clemente, avvenuta il 13 luglio 2015 ad Andria
Nella seduta del 10 novembre 2015 la Commissione ha proceduto - in seduta segreta ai sensi dell’articolo 13, comma 1, del regolamento interno - all’audizione del signor Luigi Terrone e dell’avvocato Angela MARALFA.

Audizione del signor Pietro Bello in merito alla morte della bracciante agricola, signora Paola Clemente, avvenuta il 13 luglio 2015 ad Andria
Nella seduta del 24 novembre 2015 la Commissione ha proceduto - in seduta segreta ai sensi dell’articolo 13, comma 1, del regolamento interno - all’audizione del signor Pietro Bello.

Audizione del dottor Rosario Cantelmo, Procuratore della Repubblica di Avellino, in merito ai profili di tutela della salute e sicurezza sul lavoro connessi all’amianto, inerenti all’ex Isochimica di Avellino
Nella seduta del 24 novembre 2015 e intervenuto, per svolgere le proprie considerazioni in merito ai profili di tutela della salute e sicurezza sul lavoro connessi all’amianto, inerenti all’ex Isochimica di Avellino, il dottor Rosario Cantelmo. La Commissione ha proceduto in seduta segreta di parte dell’audizione ai sensi dell’articolo 13, comma 1, del regolamento interno.
Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo al predetto intervento:
«CANTELMO. Signora Presidente, desidero innanzitutto ringraziare lei e la Commissione per la considerazione e per l’invito che ci consente oggi di essere presenti in questa sede. E infatti nostra convinzione, alla procura di Avellino, che quella che cercheremo di descrivervi nel dettaglio sia una vicenda che merita di uscire dall’ambito ristretto della piccola Provincia nella quale si svolge e di essere portata a conoscenza di segmenti delle istituzioni come avviene, appunto, oggi.
Vorrei delineare un breve quadro generale per contestualizzare la vicenda e poi passare a trattare la situazione degli operai, che e forse quella di maggiore interesse per la Commissione.
Isochimica e una società nata nell’area di Avellino, precisamente nella zona industriale di Pianodardine, destinata a svolgere attività di scoibentazione delle carrozze ferroviarie. Tale attività consisteva sostanzialmente nell’aprire le carrozze, ripulirle dall’amianto che si trovava all’interno, richiuderle e restituirle alle officine di Firenze dalle quali provenivano.
Sin dall’inizio, per la verità, si e presentata una criticità, perché nonostante il valore non indifferente degli appalti che si sono succeduti negli anni e che abbiamo avuto molte difficoltà a ricostruire perché siamo inter-venuti con la nostra indagine circa 22 anni dopo (in particolare, tra il 1982 e il 1989 l’appalto aveva un valore di 63 miliardi delle vecchie lire) la ditta che si aggiudicò i lavori - la citata Isochimica di Graziano Spa - non aveva alcuna competenza specifica, ma soprattutto non era pronta a partire con i lavori. Come ci riferiscono alcuni lavoratori, infatti, nel momento in cui iniziò a lavorare non disponeva di capannoni e non possedeva alcun tipo di specializzazione. Leggerò testualmente da un verbale di udienza quanto ci riferisce uno degli operai sentito di recente in procura (non è necessario segretare questa parte perché siamo già in fase dibattimentale avanzata; dirò poi qual è lo stato del procedimento): «Durante le assemblee dei lavoratori Isochimica è emerso che nei primi tempi alcune carrozze ferroviarie sono state scoibentate direttamente su qualche binario morto della stazione di Avellino, sempre perì) da personale della Isochimica. Le operazioni avvenivano a cielo aperto, in quanto il capannone all’interno dello stabilimento Isochimica di Pianodardine non era all’epoca ancora completato».
L’Isochimica sostanzialmente lavora dal 1982 al 1988, quando cessa la propria attività perché viene dichiarata dal Comune di Avellino «industria insalubre di primo grado». Viene adottata dalla Giunta comunale un’ordinanza sindacale che sospende temporaneamente l’attività quale immediata misura di sicurezza atta a tutelare la salute pubblica. Riprende l’attività per un anno con un’altra denominazione; nel gennaio 1990 viene dichiarato il fallimento dell’Isochimica Spa.
Un’altra particolari che vorrei sottoporre alla Commissione è che il sito si trova in una zona di assoluta contigui con il centro abitato della città di Avellino: si trova a circa 2,5 chilometri in linea d’aria da piazza Liberta, che e il fulcro della città; a 300 metri da questa industria si trova un campo di calcio dove attualmente i ragazzi vanno a giocare a pallone; a 400 metri c’è una scuola elementare alla quale adesso non si sta iscrivendo quasi pili nessuno, ma che nel tempo e stata frequentata da molti ragazzi; a 500 metri c’è una chiesa parrocchiale frequentata da una parte della cittadinanza; soprattutto, infine, nelle immediate vicinanze c’è un quartiere, Borgo Ferrovia, che era storicamente e che in parte e ancora oggi abitato dai parenti delle persone che lavoravano in quell’insediamento.
Un’ulteriore circostanza da sottoporre alla valutazione della Commissione e che questo sito industriale, ampio circa 15.000 quadri, e pieno di amianto: lo era e lo e tuttora. Ne traccio brevemente la storia.
Una prima relazione tecnica viene svolta nell’ambito di un processo penale nel 1989 (siamo al vecchio rito, quindi prima della riforma del codice penale e prima che gli atti ritornino in procura). Nell’ambito di questo processo viene fatta una consulenza, la quale stabilisce che sono state scoibentate all’incirca 2.339 carrozze con una produzione di 2.276.000 chili di amianto che, in parte, sono interrati nel cortile della società e, in parte, sono racchiusi in cubi di cemento collocati all’esterno. Sostanzialmente, la situazione è quella mostrata nella slide, che mostra i cubi che nel tempo si sono deteriorati e l’amianto che è in parte quasi libero.
Perché l’amianto è interrato? Abbiamo innanzitutto un documento fotografico che vi sottopongo adesso. Sostanzialmente, l’attività di smaltimento dell’amianto che veniva scoibentato avveniva con le modalità di interramento nel cortile dell’azienda. Lo dice in particolare un operaio, tra gli altri, e leggo testualmente una dichiarazione del luglio 1988: «Quando iniziarono i lavori di costruzione del capannone venne usato un sistema ufficiale ed un sistema clandestino di smaltimento dei rifiuti. Quello ufficiale consisteva nel mescolare l’amianto con il cemento ricavando dei blocchi che venivano interrati all’interno dello stabilimento in fosse appositamente predisposte. Altra parte dell’amianto veniva invece raccolta in sacchetti di plastica e interrato direttamente senza l’impiego di cemento. Anche tale lavoro veniva svolto da me e da altre persone.
Altre volte l’amianto veniva caricato su un camion dall’impresa di pulizia, sempre in sacchetti, e portati fuori in qualche discarica. Tale impresa di pulizia curava anche l’interramento dell’amianto. Alcune carrozze erano scoibentate con l’amianto anche nella parte sottostante. In tali casi l’amianto veniva rimosso con dei potenti getti d’acqua. L’acqua impiegata veniva raccolta in canaline che poi portavano allo scarico. Non sono in grado di dire se tale scarico immetteva nelle fognature, nel fiume o in un altro sito».
Noi abbiamo cercato di seguire un po’ le tracce dell’amianto, non quello interrato, per il quale dopo farò vedere la situazione attuale, ma quello che veniva portato fuori. Ne abbiamo trovato parte in una sede della società dello stesso imprenditore, in Provincia di Salerno, e abbiamo trasmesso gli atti alla procura di Nocera Inferiore, che ha concluso le indagini e ha disposto il rinvio a giudizio per i cubi trovati lì. Poi abbiamo cercato di seguire le indicazioni che ci venivano da altri operai: sacchi di amianto sversati nei fiumi, o addirittura in una scogliera della penisola sorrentina; ma il tempo trascorso, oltre vent’anni, ha reso la ricerca particolarmente complicata.
Nel tempo seguivano altre consulenze rispetto a quella che ho ricordato prima. Una di esse veniva disposta dal curatore fallimentare, il quale evidenziava la necessita di rimuovere immediatamente i cubi di cemento- amianto stoccati nel piazzale, che evidenziavano crepe in superficie e affioramenti di fibre. Un’altra consulenza veniva disposta nel 2002 dal Comune di Avellino, perché doveva procedere alla bonifica, e ancora una volta si accertava «Sulla base anche di numerosi carotaggi» - quindi veniva individuato cosa c’era sotto il piazzale - «la presenza di amianto fibroso interrato nel piazzale d’ingresso e di 347 cubi di cemento contenenti rifiuti provenienti dalla scoibentazione delle carrozze ferroviarie, dei quali si raccomanda l’immediata rimozione». Naturalmente nulla fu fatto.
L’ultimo accertamento risale al 2006-2007, quando viene ancora individuata la necessita di carotaggi e di sondaggi, dai quali risulta la presenza di amianto interrato. I cubi si stavano ammalorando, il numero cambia, ma la situazione e praticamente quella descritta. Questa e la situazione che noi troviamo.
A fronte di questi dati delle relazioni, abbiamo rinvenuto altri due documenti: uno fa riferimento ad un sopralluogo svolto dalla ASL di Avellino 2 nel febbraio 2005 (quindi ci avviciniamo temporalmente sempre più ai nostri giorni), che svolge un sopralluogo e sostanzialmente riferisce che non vi sarebbero condizioni di pericolo per la salute. Pur tuttavia «e necessario, al fine di stabilire con oggettività l’assenza di rischi, effettuare un piano di monitoraggio».
Vi e poi un altro accertamento del giugno 2010: una riunione presso il Comune di Avellino, sempre per la bonifica dell’Isochimica. In quella sede, una delle persone presenti afferma che sarebbero stati rimossi tutti i metro cubi di amianto friabile, quello pericoloso per la salute pubblica, e messo tutto in sicurezza.
Di fronte a questi dati così contrastanti, decidevamo noi, procura di Avellino, di fare direttamente una perizia, nel processo pendente adesso, e si accertava una situazione assolutamente preoccupante. Il consulente stabiliva che c’era dell’amianto interrato e soprattutto che i cubi in superficie, che potete vedere adesso nella slide, erano ridotti nelle condizioni che vedete. Gli oltre vent’anni di esposizione alle intemperie li aveva gravemente compromessi e c’erano tracce di amianto anche in superficie.
Procedevamo a vari altri sopralluoghi, dopodiché intervenivamo con un sequestro preventivo d’urgenza fatto dalla procura. Il sequestro veniva convalidato dal gip, il quale riteneva che detto intervento della procura di Avellino era «pressoché pionieristico nell’esperienza giudiziaria italiana», potendo avere dei riferimenti soltanto rispetto all’eternit, alla vicenda Ilva e a quella di Bagnoli. In quella sede noi nominavamo custode il sindaco di Avellino. In quel periodo era in vigore il decreto legislativo del 2006 che stabiliva il principio del «chi inquina paga», ma in questo caso il responsabile dell’inquinamento era una persona ultraottantenne che aveva dismesso l’attività, per cui decidevamo di affidarlo al sindaco. Siccome non si faceva pili nulla, dopo un po’ di tempo estendevamo la custodia anche al Presidente della Regione.
Un’ultima verifica l’abbiamo fatta un anno fa prima di chiudere le indagini e la situazione e quella che potete vedere nella slide: è amianto blu, libero, sta a terra».

Audizione della dottoressa Grazia Memmolo, responsabile del Dipartimento Territoriale INAIL di Avellino, in merito ai profili di tutela della salute e sicurezza sul lavoro connessi all’amianto, inerenti all’ex Isochimica di Avellino
Nella seduta del 24 novembre 2015 è intervenuta, per svolgere le proprie considerazioni in merito ai profili di tutela della salute e sicurezza sul lavoro connessi all’amianto, inerenti all’ex Isochimica di Avellino, la dottoressa Grazia Memmolo. La Commissione ha proceduto in seduta segreta di parte dell’audizione ai sensi dell’articolo 13, comma 1, del regolamento interno.
Si riporta il testo del resoconto stenografico relativo al predetto intervento:
«MEMMOLO. Signora Presidente, e la prima volta che vengo audita, quindi sono visibilmente emozionata, anche per l’importanza di questa sede e delle vostre persone.
Il caso ex Isochimica fa riferimento ad un opificio situato vicino alla città di Avellino, precisamente a Pianodardine, che ha iniziato la sua atti- vita il 1° settembre 1982 con la denuncia di inizio attività e l’iscrizione all’INAIL. L’oggetto sociale di questa società era la produzione di prodotti chimici e isolanti termici applicati all’industria ferroviaria, nonché l’esercizio di ogni altra attività industriale affine. L’attività che si svolgeva in Isochimica consisteva nella riparazione di vagoni e automotrici ferroviarie, previa asportazione di amianto stratificato dalle pareti e dai cieli delle vetture, e nella confezione di materassini di lana di vetro che avrebbero dovuto sostituire le parti d’amianto.
La società ha operato dal 1° settembre 1982 fino alla definitiva cessazione dell’attività, che è avvenuta nel 1990 a seguito di fallimento.
Nell’ottobre del 1985 ci fu un accesso ispettivo da parte dell’INAIL, attraverso un proprio funzionario, che si concluse il 6 febbraio del 1986. In quell’occasione fu accertato il maggior rischio della silicosi e dell’asbestosi, per il quale l’INAIL richiede all’imprenditore un sovrappremio. Questo sovrappremio per rischio silicotigeno ed asbestosico fu applicato all’azienda fin dall’inizio della sua attività, perché fu riscontrato che vi erano lavorazioni che comportavano il rischio amianto. Sempre attraverso questo accesso ispettivo, furono acquisiti anche gli elenchi dei dipendenti, che però sono relativi al 1985: in quell’anno i dipendenti di Isochimica che operavano fra le maestranze ammontavano a 271 unita; vi erano poi un dirigente, otto impiegati di concetto e sette impiegati tecnici, per un totale di 287 dipendenti.
Dall’indagine sulle modalità di lavorazione di quello che era l’oggetto sociale di Isochimica è risultato che tutte le maestranze impiegate erano esposte al rischio asbestotico e questo non solo per la particolarità della lavorazione che veniva svolta, ma anche perché c’era un modello organizzativo aziendale che consisteva in una rotazione on the job del personale, e quindi più o meno tutti gli operai svolgevano ciclicamente le stesse attività. Le suddette attività sono descritte minuziosamente in un parere tecnico che ho portato con me nel caso in cui la Commissione voglia acquisirlo. È del tutto evidente, quindi, quanto fosse perniciosa la lavora-zione cui erano addetti questi operai, che tra l’altro negli anni Ottanta erano tutti giovanissimi. Si tratta quindi di persone che ancora oggi non hanno maturato l’età per la pensione, specialmente dopo la riforma Fornero.
Ci sono state poi varie indagini dell’ARPAC sullo stabilimento, che immagino siano a conoscenza di questa Commissione; comunque, da quello che risulta ai nostri atti, l’asbesto aerodisperso - prevalentemente si trattava di crocidolite - è risultato presente in quantità variabile sia all’esterno che all’interno di tutti i reparti produttivi e ausiliari e di tutte le aree dello stabilimento e all’interno di tutti i rotabili ferroviari, sia in quelli in preparazione, sia in quelli in lavorazione, sia in quelli completati e puliti. Anche dopo che i rotabili erano stati ripuliti dall’amianto ed era stata completata la lavorazione con l’apposizione dei materassini di vetro, quindi, erano ancora presenti delle fibre di amianto.
Bisogna anche dire che presso lo stabilimento di Isochimica, oltre agli operai e quindi alle maestranze che dipendevano dall’azienda, erano presenti anche altri soggetti: ad esempio, operai manutentori di altre società che avevano appalti con Isochimica; c’è stato anche un sopraintendente delle Ferrovie dello Stato con funzione di controllo delle commesse. Isochimica, infatti, lavorava esclusivamente per Ferrovie dello Stato, tan- t’e vero che quando nel 1990 vi fu il fallimento della società residuavano da completare alcune carrozze ferroviarie e alla ex Isochimica subentrò) un’altra azienda, la Elsid, che assunse, a quanto risulta dalle dichiarazioni del curatore fallimentare, 14 dei lavoratori ex Isochimica proprio per completare questi vagoni che erano rimasti ancora da scoibentare e da riparare.
Avendo appena audito il procuratore Cantelmo, saprete sicuramente che anche l’INAIL e tra i soggetti offesi dal reato di omicidio colposo e lesioni personali colpose gravissime e quindi sta seguendo il procedimento penale per gli aspetti che rientrano nelle richieste dell’Istituto, visto che la legge speciale per l’INAIL, il Testo unico delle disposizioni per l’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali - decreto del Presidente della Repubblica n. 1124 del 30 giugno 1965 - ci dà la possibilità di agire contro il responsabile civile quando, a causa delle omissioni in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, si verifichi un infortunio o una malattia professionale. L’INAIL agisce pertanto iure proprio, non per diritto surrogato, ma sulla base di un diritto proprio a rivalersi sui costi degli infortuni e delle malattie professionali.
Prima di passare ai dati, e doveroso premettere che l’INAIL, che è un ente nazionale, ha due modalità di azione: per quanto riguarda l’instaura-zione del rapporto assicurativo con il datore di lavoro la competenza territoriale e della sede dove insiste la sede legale dell’azienda, mentre per quanto riguarda il verificarsi di infortuni o di malattie professionali la competenza territoriale è della sede presso la quale risiede o è domiciliato l’infortunato. Credo che questo sia un elemento da portare all’attenzione della Commissione perché la sede di Avellino ha gestito come competenza della sede principale ed unica tutta la parte relativa al comma 8 dell’articolo 13, quindi l’emissione di attestati di esposizione al rischio, in quanto in base alle nostre disposizioni interne la sede dell’opificio dove c’era l’esposizione al rischio amianto aveva la competenza a rilasciare gli attestati di rischio. Viceversa, nel caso venga certificata una malattia professionale asbesto-correlata, come previsto all’articolo 13, comma 7 della legge n. 257 del 1992, la competenza e della sede dove risiede l’infortunato. Nella particolare situazione di Isochimica, gli infortunati - o per meglio dire i tecnopatici, come sono definiti in questi casi i lavoratori esposti al rischio amianto - risiedono per la gran parte tra le Province di Avellino e Salerno, quindi la sede territoriale di Salerno ha emesso a sua volta certificati ex comma 7 a seguito di certificazione di malattie professionali asbesto-correlate e la sede di Avellino ha fatto altrettanto.
Ho acquisito un tabulato generale dei certificati rilasciati ai sensi del comma 7 in tutta Italia - perché ce n’è anche uno rilasciato da una sede toscana - e quindi posso riferire il numero complessivo degli attestati rilasciati ex comma 7. Diversamente, per le persone che si sono ammalate a seguito dell’esposizione all’asbesto, non dispongo di un dato complessivo. Tra l’altro, poiché e previsto che gli ammalati facciano esplicita richiesta per l’ottenimento del certificato di esposizione al rischio ai sensi del comma 7, da quanto ho potuto osservare non tutti gli ammalati del territorio di Avellino hanno avanzato tale richiesta, quindi ci sono 38 lavoratori che, pur essendosi ammalati, non hanno chiesto l’attestazione utile per i benefici previdenziali.
Un altro dato che e utile riferire e che la sede, al momento, ha rilasciato 54 attestazioni ai sensi del comma 8, che sono quelle utili per ottenere il coefficiente moltiplicatore di 1,5, ma per un numero di anni non inferiore ai 10, quindi solo coloro che abbiano avuto un’esposizione qualificata per un minimo di 10 anni possono accedere ai benefici previdenziali, e quindi al moltiplicatore utile per avere il conteggio della pensione.
Tuttavia, la certificazione ai sensi del comma 8, mano a mano che l’INAIL accerta l’insorgenza di malattie professionali, cede il passo alla certificazione ai sensi del comma 7 del suddetto articolo: quindi c’è un’espunzione dal numero degli attestati ai sensi del comma 8 e l’ingresso nel numero degli attestati ai sensi del comma 7. I 54 casi citati quindi sono quelli che ancora non si sono ammalati oppure, se si sono ammalati, non hanno denunciato la malattia professionale.
Spero di essere chiara in tutti i passaggi considerato che la materia e molto tecnica; diversamente, sono a disposizione per ulteriori chiarimenti.
La sede di Avellino ha rilasciato 112 attestati ai sensi del comma 7, quindi 112 lavoratori che si sono ammalati per esposizione all’amianto, mentre la sede di Salerno ha rilasciato 22 attestati ai sensi del comma 7. Un altro attestato ai sensi del comma 7 risulta rilasciato credo da una sede toscana. Inoltre, la sede di Avellino ha certificato 154 malattie asbesto correlate con lesioni (danno biologico) che vanno dall’1 al 15 per cento; ha costituito 16 rendite dirette per malattie asbesto correlate, quindi con danno biologico superiore al 15 per cento, e tre rendite a superstiti a seguito del decesso del lavoratore.
Come dicevo poc’anzi, tra quelli ammalati, 38 lavoratori non hanno presentato tuttora la richiesta di attestazione. La particolarità di questa patologia, che e latente e il cui periodo di manifestazione e molto ampio, rende sempre aperta la possibilità per il lavoratore di denunciare la malattia all’INAIL. Conseguentemente, resta sempre aperta la possibilità di richiedere l’attestato ex comma 7, dell’articolo 13».
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(*) In allegato Relazione finale saranno pubblicati i resoconti stenografici delle audizioni effettuate nell’ambito dei sopralluoghi svolti dalla Commissione.


Fonte: senato.it