Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 3, 23 agosto 2016, n. 35280 - Plurime violazioni della disciplina in materia di igiene e sicurezza sul lavoro: mancanza di misure volte ad evitare la caduta dall'alto dei lavoratori


Presidente: AMORESANO SILVIO Relatore: LIBERATI GIOVANNI Data Udienza: 06/04/2016

Fatto


1. Con sentenza del 18 giugno 2015 il Tribunale di Pavia ha condannato M.H.A. alla pena di euro 2.200,00 di ammenda per plurime violazioni alla disciplina in materia di igiene e sicurezza del lavoro (artt. 18, comma 1, lett. C, 122, 125, comma 3, 128, comma 1, 129, comma 3, 134, comma 1, d.lgs. 81/08).
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l'imputato mediante il suo difensore, affidato a due motivi, così riassunti entro i limiti previsti dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1. Con un primo motivo ha denunciato violazione di legge penale, in relazione alla mancata applicazione dell'art. 131 bis cod. pen., dovendo al riguardo tenersi conto delle modalità della condotta dell'imputato, ed in particolare del suo atteggiamento collaborativo nei confronti dell'organismo di vigilanza, oltre che della parziale ottemperanza alle prescrizioni che gli erano state imposte in occasione del sopralluogo presso il cantiere della impresa edile di cui era titolare; ha inoltre sottolineato l'esiguità del pericolo derivato dalle sue condotte e la particolare tenuità delle violazioni singolarmente considerate.
2.2. Con un secondo motivo ha lamentato vizio di motivazione in ordine al trattamento sanzionatorio, per la mancata indicazione dei criteri che avevano determinato l'applicazione della pena irrogata in concreto.
 

Diritto

Il ricorso è inammissibile.
1. Per quanto riguarda il primo motivo, mediante il quale è stata denunciata la violazione dell'art. 131 bis cod. pen., va ricordato che l'esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, di cui alla disposizione citata, ha natura sostanziale ed è applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del d.lgs. 16 marzo 2015, n. 28, compresi quelli pendenti in sede di legittimità, nei quali la Corte di cassazione può rilevare d'ufficio, ex art. 609, comma 2, cod. proc. pen., la sussistenza delle condizioni di applicabilità di tale istituto, dovendo peraltro limitarsi, attesa la natura del giudizio di legittimità, ad un vaglio di astratta non incompatibilità della fattispecie concreta (come risultante dalla sentenza impugnata e dagli atti processuali) con i requisiti ed i criteri indicati dal predetto art. 131 bis (Sez. 3, n. 31932 del 02/07/2015, Terrezza, Rv. 264449; Sez. 4, n. 22381 del 17/4/2015, Mauri, Rv. 263496; Sez. 3, n. 15449 del 8/4/2015, Mazzarotto, Rv.263308).
Le Sezioni Unite di questa Corte hanno poi chiarito che ai fini della configurabilità della causa di esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto, il giudizio sulla tenuità richiede una valutazione complessa e congiunta di tutte le peculiarità della fattispecie concreta, che tenga conto, ai sensi dell'art. 133, primo comma, cod. pen., delle modalità della condotta, del grado di colpevolezza da esse desumibile e dell'entità del danno o del pericolo (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590). Tale valutazione può essere compiuta anche nel giudizio di legittimità, sulla base di un apprezzamento limitato alla astratta compatibilità dei tratti della fattispecie, come risultanti dalla sentenza impugnata e dagli atti processuali, con gli indici-criteri e gli indici- requisiti indicati dal legislatore, cui segue in caso di valutazione positiva, sentenza di annullamento con rinvio al giudice di merito (Sez. 3, Sentenza n. 38380 del 15/07/2015, Ferraiuolo, Rv. 264795, che in motivazione ha sottolineato come ciò consenta di contemperare l'obbligo di rilevazione d'ufficio, discendente dal disposto dell'art.129 cod. proc. pen., con la fisiologia del giudizio di legittimità, che preclude valutazioni in fatto).
Peraltro, nel caso in esame non emerge alcuna particolare tenuità del fatto, essendo sufficiente, per escluderla, considerare che, con una condotta potenzialmente assai pericolosa per la salute e l'incolumità dei lavoratori impiegati nel cantiere edile dell'impresa del ricorrente, quest'ultimo ha violato più disposizioni poste a tutela della sicurezza dei luoghi di lavoro, omettendo, tra l'altro, di dotare il cantiere di una serie di presidi antiinfortunistici volti, in particolare, ad evitare la caduta dall'alto dei lavoratori. Sono, infatti, state ritenute sussistenti le violazioni di norme poste a salvaguardia della incolumità dei lavoratori, ed in particolare dell'art. 122 d.lgs. 81/2008 (per non avere adottato, nei lavori in quota, adeguate opere provvisionali idonee ad evitare la caduta di persone e di cose, nonché dispositivi di protezione individuale dei lavoratori); 125, comma 3, d.lgs. 81/2008 (per avere utilizzato un ponteggio instabile, omettendo di assicurare saldamente il piede dei montanti alla base di appoggio, onde evitarne il cedimento verticale ed orizzontale); 128, comma 1, d.lgs. 81/2008 (per avere utilizzato un ponteggio sprovvisto per buona parte di sottoponte dell'ultimo piano di impalcato impiegato per le lavorazioni); 129, comma 3, d.lgs. 81/2008 (per avere utilizzato un ponteggio sprovvisto di mantovane in corrispondenza dei luoghi di transito e stazionamento a protezione e contro la caduta di materiali dall'altro).
La pluralità delle violazioni, tra l'altro non occasionali ma poste in essere nell'esercizio di una attività d'impresa, e l'esposizione al pericolo per i lavoratori impiegati nel cantiere che ne è derivata (essendo state omesse plurime cautele volte ad evitare la caduta dall'alto dei lavoratori o, comunque, ad assicurare la sicurezza delle condizioni di lavoro su di un ponteggio utilizzato per lavori edili), non consentono di ritenere l'offesa di particolare tenuità né esiguo il pericolo derivato dalle plurime violazioni commesse dall'imputato, con la conseguenza che le stesse risultano incompatibili con la previsione di cui all'art. 131 bis cod. pen. di cui il ricorrente ha lamentato la mancata applicazione.
La censura di violazione di legge per la mancata applicazione di tale istituto deve, dunque, ritenersi manifestamente infondata, emergendo dai tratti della fattispecie, come risultanti dalla sentenza impugnata, la sua incompatibilità con gli indici-criteri e gli indici-requisiti indicati dal legislatore per poter ritenere il fatto di particolare tenuità.
2. Il secondo motivo, mediante il quale è stato prospettato un vizio della motivazione in ordine alla illustrazione dei criteri di determinazione della pena, risulta inammissibile a causa della sua genericità.
Al riguardo deve ribadirsi che, secondo la uniforme e costante interpretazione della giurisprudenza di legittimità, i motivi di ricorso per cassazione devono ritenersi generici non solo quando risultano intrinsecamente indeterminati, ma altresì quando difettino della necessaria correlazione con le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato (Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013 Rv. 255568), cosicché è inammissibile il ricorso per cassazione quando manchi l'indicazione della correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'atto d'impugnazione, che non può ignorare le affermazioni del provvedimento censurato (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 19951 del 15/05/2008 Rv. 240109). Ai fini della validità del ricorso per cassazione non è, perciò, sufficiente che il ricorso consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate e i limiti dell'impugnazione, ma è altresì necessario che le ragioni sulle quali esso si fonda siano esposte con sufficiente grado di specificità e che siano correlate con la motivazione della sentenza impugnata; con la conseguenza che se, da un lato, il grado di specificità dei motivi non può essere stabilito in via generale ed assoluta, dall'altro, esso esige pur sempre - a pena di inammissibilità del ricorso - che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle del ricorrente, volte ad incrinare il fondamento logico- giuridico delle prime. È quindi onere del ricorrente, nel chiedere l'annullamento del provvedimento impugnato, prendere in considerazione gli argomenti svolti dal giudice di merito e sottoporli a critica, nei limiti - s'intende - delle censure di legittimità.
Nel caso di specie il Tribunale, nel determinare la misura della pena, ha fatto riferimento, sia pure implicito, alla gravità delle condotte, ampiamente descritte ed illustrate nella parte precedente della motivazione della sentenza, ed anche all'atteggiamento collaborativo tenuto dall'imputato nei confronti degli organi di vigilanza, riconoscendogli le circostanze attenuanti generiche, indicando le pene per il reato più grave e gli aumenti per la continuazione con le altre violazioni.
Tale motivazione risulta adeguata e non è sindacabile sul piano del merito, cioè della congruità delle pene applicate per ciascuna violazione, e con essa il ricorrente ha omesso del tutto di confrontarsi, tanto meno in modo critico, avendo richiamato nella illustrazione del secondo motivo principi generali sul travisamento della prova e sui criteri di determinazione della pena, limitandosi ad affermare che il Tribunale non avrebbe indicato i criteri di determinazione della pena e la contraddittorietà della relativa motivazione, senza individuare vizi specifici della motivazione, invero esistente, né proposizioni della stessa in contrasto tra loro, con la conseguente inammissibilità della censura a causa della sua genericità. 
In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, a cagione della manifesta infondatezza del primo motivo e della genericità del secondo.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., non potendosi escludere che essa sia ascrivibile a colpa del ricorrente (Corte Cost. sentenza 7-13 giugno 2000, n. 186), l'onere delle spese del procedimento, nonché del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di euro 1.500.
 

P.Q.M.


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 1.500,00 in favore della Cassa delle Ammende.
Così deciso il 6/4/2016