Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 20 luglio 2016, n. 31215 - Caduta dall'alto: la responsabilità ricade anche sul datore di lavoro (oltre che sul preposto) se si riserva ogni potere di spesa


 

... Correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che la carenza di formale delega al preposto non esonerasse il datore di lavoro da responsabilità e non permettesse alcuna operatività al principio dell'affidamento. Ciò anche perchè, essendo emerso dalla istruttoria dibattimentale che il rischio di caduta dall'alto era riconnesso ad attività, seppur previste e prevedibili, ricadenti al di fuori della principale attività di produzione, detta responsabilità non avrebbe potuto ricondursi unicamente al preposto, che nell'ambito dell'azienda non ha poteri decisori sulla produzione e sulla scelta delle commesse.
Condivisibile in punto di diritto è anche l'affermazione operata nel provvedimento impugnato che il datore di lavoro non potesse ritenersi esente da responsabilità, anche sotto altro profilo, giacché in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, (d.p.r. 22 aprile 1955 n. 547), non adempie agli obblighi derivanti dalle norme di sicurezza l'imprenditore che, dopo l'avvenuta scelta della persona preposta al cantiere o incaricata dell'uso degli strumenti di lavoro, non controlla o - se privo di cognizioni tecniche - non fa controllare la rispondenza dei mezzi usati o delle attrezzature ai dettami delle norme antinfortunistiche. In tal caso, infatti, la presenza e la eventuale colpa del preposto non eliminano la responsabilità dell'imprenditore potendosi ritenere che l'infortunio non sarebbe occorso se il datore di lavoro avesse controllato e fatto controllare le attrezzature, le macchine e predisposto i mezzi idonei a dotarle dei requisiti di sicurezza mancanti, conferendo al preposto - come suo "alter ego" - non solo la generica delega a sorvegliare lo svolgimento del lavoro in cantiere ma anche dotandolo dei poteri di autonoma iniziativa - anche eventualmente di spesa o di modifica delle condizioni di lavoro, delle fasi e dei tempi del processo lavorativo - per l'adeguamento e l'uso, in condizioni di sicurezza, dei mezzi forniti.
Nel caso in esame -ed è questo un punto di grande importanza nello snodo decisionale- dall'esame dell'imputato - datore di lavoro era emerso che lo stesso si era riservato ogni potere di spesa.


 

Presidente: PICCIALLI PATRIZIA Relatore: PEZZELLA VINCENZO Data Udienza: 16/06/2016


Fatto


1. La Corte di Appello di Napoli, pronunciando nel confronti degli odierno ricorrenti P.S.C. E P.F., con sentenza del 1.4.2014 confermava la sentenza emessa in data 17.7.2012 dal Tribunale di Nola, che, riconosciute agli stessi le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza alle contestate aggravanti, li aveva condannati alla pena condizionalmente sospesa di mesi due di reclusione, oltre che al pagamento delle spese processuali, nonché al risarcimento dei danni subiti da M.A., costituitosi parte civile, da liquidarsi dinanzi al competente giudice civile per il reato di cui agli articoli 113, 590 co. I e 3, 583 c.p., perché il primo nella qualità di datore di lavoro e di titolare della ditta "B." di P.S., il secondo nella veste di preposto alla sicurezza, per colpa consistita in negligenza, imperizia, imprudenza, nonché per violazione della normativa antinfortunistica ed in particolare per la violazione dell'art. 35 del D.L. 626/94 per non aver messo a disposizione dei lavoratori attrezzature adeguate ai lavori da svolgere e idonee al fini della sicurezza, e per il preposto dell’art. 4 lett. c) del Dpr. 547/55, per non aver esercitato la dovuta vigilanza, cagionavano al dipendente M.A. lesioni personali gravissime consistite in una tetraparesi da trauma vertebro-midollare cervicale e una frattura all’epifisi distale radio sx, come da documentazione sanitaria agli atti (con malattia perdurante, come da rapporto dell’O.d.V. del 22.6.2007). In particolare, il M.A., mentre si trovava ad una altezza di cinque metri circa per realizzare delle saldature ad una struttura di ferro, nel ricevere una saldatrice da un collega di lavoro tramite la pale di un muletto, cadeva a seguito della rottura della struttura finendo prima contro una ringhiera di ferro e poi in terra procurandosi le lesioni suindicate. In Pomigliano, il 7/06/2006.
Il giudice di prime cure aveva condannato, inoltre, P.S.C. e P.F. al pagamento di una provvisionale di euro 25.000,00 in favore della costituita parte civile ed al pagamento delle spese di costituzione e rappresentanza in giudizio sostenute dalla costituita parte civile, che liquidava in complessivi euro 1800,00, oltre rimborso delle spese generali, i.v.a. e c.p.a. come per legge.
2. Avverso tale provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione, a mezzo del proprio difensore di fiducia, P.S.C. e personalmente P.F., deducendo i motivi di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, comma 1, disp. att., cod. proc. pen.: 
 

• P.S.C..
Con un primo motivo deduce violazione degli articoli 157, commi 5-7-8, 171, comma 1, lettere b) — d) — f), 420 bis, 484 178, comma 1 lett. c) c.p.p., in relazione alla nullità dell'avviso di fissazione del processo di appello.
Ad avviso del ricorrente non sarebbe stata corretta la procedura di notifica all'imputato dell'avviso di fissazione dell'udienza dinanzi alla corte di appello.
Ciò in quanto la notifica sarebbe avvenuta con deposito presso la casa comu-nale ai sensi dell'articolo 157 cod. proc. pen. che non sarebbe stato preceduto dal doppio accesso dell'ufficiale giudiziario. Quanto alla firma apposta sulla cartolina con cui era stata data comunicazione del deposito presso la casa comunale il ri-corrente deduce che non vi è alcuna indicazione della qualifica del soggetto ricevente e produce una serie di scritti comparativi contenenti la firma dell'imputato al fine di dimostrare che la firma in questione non era dello stesso.
Con un secondo motivo lamenta vizi ex artt. 606, comma 1, lett. b) ed e), sub specie di violazione degli articoli 195, 495, 507,603, commi I e 2, c.p.p., nonché difetto di motivazione, in relazione alla mancata assunzione di una prova decisiva, costituita dall’esame del Omissis C., nonché dall'omesso esame delle dichiarazioni di questi rilasciate ai sensi dell'alt. 391 bis c.p.p.
In particolar modo la testimonianza del C. si sarebbe palesata necessaria in quanto si tratta di colui che ha rinvenuto una piccola macchia di sangue accanto all'automezzo.
Il ricorrente ricorda di avere già chiesto al giudice di primo grado di disporne l'esame ai sensi dell'articolo 507 cod. proc. pen. sul presupposto che la decisività di tale prova era emersa solo in corso di processo a seguito di indagini difensive e si duole che sia il giudice di prime cure che quello di appello abbiano rigettato la richiesta e il relativo motivo con allocuzioni di principio circa la mancanza di novità ed indispensabilità della prova.
Con un terzo motivo (art. 606, comma 1, lett. b) ed e) c.p.p.) si deduce vio-lazione degli articoli 190, 191, 495, 603, comma 2, c.p.p., in relazione alla mancata assunzione di ulteriori due prove decisive, costituite da una perizia medico legale, nonché perizia tecnica con l'esame dell'Ing. A., ammesso in primo grado e mai revocato nel corso del processo.
Il ricorrente si duole che sia il tribunale che la corte d'appello abbiano posto alla base dell'accertamento del nesso di causalità le dichiarazioni inutilizzabili del consulente della parte civile Dott. S. la cui indicazione era stata fatta in violazione dell'articolo 468 cod. proc. pen.
Viene ricordato che sebbene la difesa dell'imputato avesse sollevato la relativa eccezione nei motivi di appello la corte ha ritenuto che la stessa non importasse
l'inutilizzabilità della prova, in quanto la difesa del coimputato P.F., in primo grado, aveva rinunciato all’eccezione, formulata per iscritto anche dalla precedente difesa del P.S.C. che però non aveva sottoscritto la memoria.
Tale conclusione -ci si duole- sarebbe assolutamente errata in quanto l'inutilizzabilità ai sensi dell'articolo 191 co. 2 cod. proc. pen. è vizio attinente alla prova, rilevabile d'ufficio in ogni stato e grado del procedimento, e pertanto la corte di appello ne avrebbe dovuto dichiarare il relativo difetto, con conseguente epurazione dalla motivazione di ogni riferimento alle illazioni del consulente della parte civile.
Il ricorrente, dunque, impugna l'ordinanza della corte d'appello che ha rigettato l'eccezione di inutilizzabilità e di rinnovazione dell'Istruttoria dibattimentale a mezzo di una consulenza medico-legale.
Si lamenta che la corte di appello abbia omesso completamente qualsiasi considerazione sulle osservazioni del medico-legale consulente della difesa Dott. D.V. il quale, dopo un'accurata disamina delle cartelle cliniche, aveva posto in rilievo come le lesioni patite dal maglione fossero perfettamente compatibili con la caduta dall'automezzo.
Con un quarto motivo si censura il provvedimento impugnato ex art.606, comma 1, lett. b) ed e) c.p.p., per violazione degli articoli 192, 530 e 533 c.p.p., manifesta illogicità, carenza e contraddittorietà della motivazione, su di un punto decisivo della controversia, rappresentato dalla contraddizione del teste M.A., tra quanto dichiarato in sede di indagini il 9.6.2006 e quanto dichiarato in sede di esame il 1.04.2014, su contestazione della difesa.
Il ricorrente evidenzia come vi siano state inizialmente contrarie dichiarazioni circa la dinamica dei fatti da parte della persona offesa rese agli ispettori dell'INAIL che sono state puntualmente contestate, ma di cui la corte d'appello non avrebbe poi tratto in sentenza le dovute conseguenze.
In particolar modo viene contestata la congruità e la logicità della motivazione dei giudici del gravame del merito laddove gli stessi danno conto del perché ritengono che in un primo momento la persona offesa abbia reso dichiarazioni mendaci al fine di avvalorare una tesi non vera circa la dinamica dell'incidente concordata con il datore di lavoro.
Con un quinto motivo di ricorso ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lett. b) ed e) c.p.p., si denuncia violazione dei criteri legali di valutazione della prova liberatoria ai sensi degli artt. 111 Cost.; 192\1, 2 e 3, 546 co. 1 lett. e) c.p.p. nonché carenza di motivazione e contraddittorietà della stessa, in ordine ai criteri utilizzati dal Tribunale e ratificati per relazionem dalla Corte di Appello, per ritenere inattendibili le dichiarazioni testimoniali dei testi della difesa. 
Con tale motivo il ricorrente contesta specificamente la motivazione delle sentenze di merito laddove le stesse hanno ritenuto inattendibili le deposizioni dei testi della difesa in ragione del fatto che alcuni erano dipendenti della volta ed altri parenti del datore di lavoro e perciò avessero certamente interessa fornire una versione falsa degli accadimenti storici.
Sul punto viene evidenziata quella che, ad avviso del ricorrente, sarebbe una palese omissione di motivazione da parte dei giudici di secondo grado, i quali im-plicitamente si sono riportati per relationem alla motivazione del primo giudice facendone proprie in maniera acritica le osservazioni.
Viene rilevato come sia la Corte territoriale che il tribunale valorizzino negativamente il fatto che tutti i testi si trovassero nei pressi della macchinetta del caffè senza operare alcun riferimento alle mansioni dei testimoni stessi.
Con un sesto motivo, ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lett. b) ed e) c.p.p., si denuncia violazione degli articoli 113, 40 e 590 c.p., e difetto di motivazione, in ordine all'attribuzione di una posizione di garanzia in capo all'imputato P.S. rispetto ad un pericolo non concretizzante il rischio specifico dell'attività svolta.
Si lamenta che la corte di appello abbia omesso qualsiasi considerazione in ordine alle censure mosse alla statuizione di responsabilità colposa del datore di lavoro rispetto ad un pericolo non concretizzatosi nel rischio specifico dell'attività svolta, limitandosi a riferire che dall'istruttoria dibattimentale era emerso che il rischio di caduta dall'alto faceva parte di quelle attività previste e prevedibili ricadenti nell'attività produttiva dell'azienda.
Ciò sarebbe in contrasto, secondo il ricorrente, con gli esiti della compiuta istruttoria secondo cui la B. svolgeva e svolge attività di creazione di minuteria metallica di alta precisione ed attività di magazzino, le quali non concretizzano alcun rischio di caduta dall'alto per il quale il datore di lavoro dovesse dotare i lavoratori di cinture di sicurezza.
Non sarebbe emersa la prova che la B. producesse le impalcature del tipo indicate dalla persona offesa, come concordemente riferivano sia i dipendenti, sia gli imputati, nonché gli ispettori del lavoro e il comandante della polizia municipale A.G., che ebbe ad effettuare, su delega della Procura, un'ispezione a sorpresa ed all'Interno dell’azienda non rinvenne la costruzione di impalcature del tipo di quelle descritte dalla persona offesa.
Con un settimo motivo di ricorso, ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lett. b) ed e) c.p.p., si lamenta violazione dell'articolo 40 c.p. in relazione agli artt. 43 e 113 c.p., nonché contraddittorietà della motivazione, per aver escluso l'operatività del principio dell'affidamento, in assenza di una delega scritta al preposto, con conseguente accertamento della colpa omissiva dal punto di vista dell'evitabilità e prevedibilità dell’evento. Contraddittorietà che emergerebbe dalla sentenza, per aver ritenuto la responsabilità del preposto, sulla base della delega di funzioni, e la responsabilità del datore, sul presupposto dell'Inefficacia della medesima delega di funzioni.
In particolar modo viene denunciata contraddittorietà della motivazione laddove la corte d'appello affermava la responsabilità del P.F. sulla base asserito accertamento della qualità di questi di preposto alla sicurezza, dallo stesso ammessa, e riconosciuta dagli altri dipendenti. Giungeva pertanto a dichiarare l'in-differenza dell'assenza di una qualifica formale, da questi acquisita soltanto nel 2009, a mezzo dell'adeguamento del piano della sicurezza per effetto dell'aggiornamento al decreto legislativo 106 del 2009.
Si contesta soprattutto quanto si legge a pag. 9 della sentenza impugnata secondo cui "dall'Istruttoria emergeva che P.F. era di fatto preposto alla sicurezza. Pertanto, il medesimo deve ritenersi responsabile, non solo perché aveva il compito di sovraintendere all'esecuzione dei lavori con la possibilità di impartire ordini alle maestranze, ma anche perché pacificamente risulta che egli si sia in concreto inferito nell'organizzazione del lavoro".
Tale accertamento striderebbe fortemente con la parte motiva della sentenza ove si esclude l'operatività del principio dell'affidamento. Da un lato la corte d'ap-pello, in altri termini, avrebbe accertato l'operatività della delega in concreto, dall’altro viceversa la riterrebbe ininfluente al fine di escludere la responsabilità del datore di lavoro.
Con un ottavo motivo di ricorso, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e) c.p.p., si lamenta erronea applicazione di norme di legge penale, ed in particolare degli artt. 40, 41 e 113 c.p., nonché difetto di motivazione, sotto il profilo della ritenuta sussistenza del nesso di causalità, tra omissione ed evento, in presenza di una condotta colposa del preposto e del lavoratore, idonee a porsi come cause sopravvenute ed indipendenti delle lesioni.
Ci si duole che, nonostante la specifica censura, il giudice di secondo grado avrebbe fatto malgoverno dei principi e delle norme disciplinanti la causalità omissiva nell'ambito della cooperazione colposa, nonché del concorso di cause indipendenti. In particolare, secondo il ricorrente, anche volendo seguire la tesi della persona offesa, la caduta dall'impalcatura sarebbe avvenuta per effetto della mancata predisposizione di tavole di legno lungo gli assi portanti la struttura costruenda. La persona offesa riferiva di avere richiesto qualche giorno prima delle tavole al P.F. e che questi avrebbe rinviato il soddisfacimento della richiesta, non notiziando della cosa il P.S.C.. La richiesta sarebbe rimasta vana, secondo quanto si legge in sentenza, perché il P.F. rispondeva al M.A. che vi era urgenza di completare detta struttura che non vi era tempo per tagliare e preparare tali tavole, ma che le avrebbe apposte nei giorni seguenti.
Tali circostanze evidenzierebbe un duplice comportamento colposo, l'uno del preposto all'altro del lavoratore, che si porrebbero quali concomitanti cause indipendenti dell'evento, da sole sufficienti alla sua realizzazione.
Non potrebbe pertanto essere ritenuto colpevole il datore di lavoro, che deteneva presso l'azienda le tavole da apporre tra i piloni e che i dipendenti, di propria iniziativa, forse per recuperare tempo da loro perso, decidevano di rinviare nell'utilizzo.
Il datore di lavoro, come rilevava lo stesso tribunale, disponeva di misure e mezzi idonei ad evitare l'evento, e, in presenza del rischio di verificazione dello stesso, percepito dalla persona offesa, gli stessi dipendenti autonomamente decidevano di non farvi ricorso. Le tavole erano dunque presenti ed idonee ad evitare l'evento, solo che dipendenti si fossero premurati di prenderli e tagliarle.
Viene evidenziato che il P.S.C. risponde di cooperazione a titolo omissivo improprio per aver omesso di adottare tutte le misure idonee, che nello specifico si accertava essere legate alle tavole richieste dal M.A..
Pertanto rispetto all’unica misura concreta atta a prevenire il rischio, alcuna forma di rimprovero sarebbe ascrivibile al datore di lavoro, il quale non era a co-noscenza della richiesta, né aveva escluso la stessa dalla disponibilità del preposto. Non scalfirebbe tale conclusione il riferimento operato dalla corte d'appello all' avocazione di poteri di spesa, perché nel caso di specie si trattava di disponibilità diretta del responsabile del settore, che avrebbe dovuto impedire la lavorazione senza che vi fosse alcuna necessità di spesa.
Con un nono motivo di ricorso ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lett. b) — e) c.p.p., si denuncia insufficienza della motivazione e mancata applicazione al caso di specie della regola di giudizio di cui al combinato disposto degli articoli 530, comma 2 e 533, comma 1 c.p.p.
Si lamenta che i giudici di merito, trovatisi dinanzi al dubbio, del se accedere alla versione degli imputati ovvero a quella narrata dalla sola parte civile, avrebbero dovuto pronunciare una sentenza di assoluzione facendo prevalere il principio in dubio prò reo
Con un decimo motivo di ricorso ai sensi dell’articolo 606, comma 1, lett. b) ed e), c.p.p. si lamenta violazione degli articoli 76, 78 e 122 c.p.p. in combinato disposto con gli artt. 178 comma 1 lett. c) e 180 c.p.p., nullità della costituzione di parte civile, nonché insufficiente motivazione in ordine alla condanna al risarcimento dei danni.
Si ricorda che con apposita censura la difesa aveva eccepito la nullità della costituzione di parte civile, che era stata depositata solo all'udienza del 18/3/2008 dall'avvocato M. nonostante la contemporanea presenza di diverso difensore della persona offesa nella persona dell'avvocato A., come da nomina depositata il 10/3/2008 il contenuto del verbale di udienza del 28/9/2010 unitamente alla lista testimoniale.
Sì contesta che sarebbe errata la risposta fornita sul punto dalla corte d'appello.
Con l'undicesimo motivo, in via subordinata e graduata agli altri motivi, per la solo ipotesi di infondatezza degli stessi, e mancato accoglimento della richiesta di rinnovazione, si eccepisce la prescrizione dei reati al 19.07.2014.
Viene evidenziato che in ogni caso, seppure conteggiate tutte le sospensioni intervenute durante il processo di primo e secondo grado, i reati in contestazione sono ormai prescritti per cui si chiede ai fini penali la declaratoria di prescrizione e che vengano revocate le statuizione sulla responsabilità civile dell'imputato che meritano diverso e separato giudizio di natura civilistica.
 

• P.F.
Il ricorrente ricorda che nel corso del processo sono emerse due diverse dinamiche dei fatti (secondo la prima, il M.A. sarebbe caduto da un automezzo parcheggiato all'Interno dello spazio adiacente l'entrata del magazzino della ditta B. mentre scaricava del materiale utile alle lavorazioni della ditta, secondo quella sostenuta dalla persona offesa egli sarebbe caduto da un'impalcatura che egli stesso stava costruendo, mentre prendeva una saldatrice).
Viene evidenziato che gli ispettori dell’INAIL, accaduto il fatto, si recavano in loco in data immediatamente successiva allo stesso, e precisamente il 9.6.2006, per raccogliere le sommarie informazioni testimoniali del lavoratore M.A. e questi dichiarava ai pubblici ufficiali che era caduto da un automezzo mentre scaricava del materiale. Il G.M., però, riteneva tale documento non acquisibile agli atti del processo, neppure al fine di verificare l'attendibilità delle dichiarazioni della p.o.
Anche la Polizia di Stato, con informativa del 7.6.2006, acquisita agli atti del fascicolo dibattimentale con il consenso delle parti all'udienza del 7.2.2012, riferiva di aver accertato che l'infortunio accorso al M.A. era stato determinato dalla caduta dall'automezzo indicato in atti.
Successivamente, però, il M.A. aveva mutato la sua versione, narrando di essere caduto da un'impalcatura in costruzione all'interno della ditta B., del tipo di quelle che si utilizzano negli hangar per le riparazioni degli aerei.
A tali dichiarazioni facevano tuttavia da contraltare -si fa rilevare- quelle dei testi presenti ai fatti, che dichiaravano: 1. Che la ditta B. non ha mai prodotto alcun tipo di impalcatura come narrato dal M.A.; 2. Che la caduta del M.A. era avvenuta da un PK posizionato all'interno dello spazio antistante l'ingresso dei magazzini della ditta B.. 
Pertanto con un primo motivo di ricorso, il P.F. lamenta, sotto il duplice profilo dell'errore di diritto e del vizio motivazionale, la violazione degli articoli 192 comma primo e 530 comma secondo cod. proc. pen. in relazione alla ricostruzione del fatto ed all'applicazione dei criteri di valutazione della prova, nonché l'illogicità della motivazione della sentenza di appello, per avere ritenuto attendibile la di-chiarazione della parte civile in assenza di indici di precisione e concordanza, innanzi all'insanabile contrasto con le dichiarazioni rese in sede di indagini preliminari. In particolar modo, si insiste con tale motivo sul mancato rinvenimento dell'impalcatura dalla quale la persona offesa sarebbe caduta, la cui presenza non si evincerebbe nemmeno dalla relazione della Polizia di Stato, dalle dichiarazioni degli ispettori INAIL, dalle dichiarazioni dei testi, oltre che dall'esame degli imputati. E l'elemento che non sarebbe assolutamente contraddetto dalla probabile alterazione della scena del sinistro, fondata secondo i giudici di merito sulla semplice sensazione dell'ispettore B..
Ancora, si lamenta che la sentenza di appello darebbe contezza della inattendibilità delle dichiarazioni dei testi a discarico sulla base del rapporto di parentela tra alcuni testi e di quello di dipendenza lavorativa per altri con l'imputato P.S.. Ma se ciò vale per il P.S. non dovrebbe certamente valere per il P.F. che lamenta che così si troverebbe a dover scontare un interesse non proprio.
Con il secondo motivo di ricorso, sempre sotto il duplice profilo dell'errore di diritto e del vizio motivazionale, si impugna la sentenza di condanna per violazione degli articoli 40, 41, 43 e 113 cod. pen. e 530 comma secondo cod. proc. pen. nella parte in cui è stato ritenuto sussistente il nesso di causalità tra omissione ed evento lesivo, in violazione del principio della causalità nei reati omissivi impropri.
Si lamenta che i giudici di merito abbiano ritenuto che tra le omissioni di misure antinfortunistiche e lesioni vi fosse un nesso di causalità normativo, per il quale, secondo un giudizio di prognosi postuma, laddove fossero state adottate imbracatura e cinture di sicurezza, con probabilità prossima alla certezza, l'evento lesivo non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato con intensità minore e diversa. Nessun accertamento di natura tecnica o scientifica sarebbe stato eseguito per supportare tale conclusione e tali affermazioni non corrisponderebbero a quanto affermato da questa Corte Suprema nell'ambito della causalità omissiva. Vi sarebbe stato in ogni caso un comportamento negligente del lavoratore che pur si era avveduto della percezione del pericolo.
Con un terzo motivo di ricorso si deduce ancora, cumulativamente, errore di diritto e vizio motivazionale nella parte in cui la Corte d'appello ha ritenuto sussi-stente la posizione di garanzia del ricorrente quale preposto alla sicurezza, in vio-lazione degli articoli 113, 40 e 42 cod. pen., in relazione all'articolo 530 comma secondo cod. proc. pen. nonché per difetto o contraddittorietà di motivazione sull'accertamento della delega di funzioni.
Si evidenzia ancora una volta come, da un lato, la Corte d'appello abbia ritenuto effettiva la delega di funzioni ritenendo il P.F. responsabile delle lesioni mentre dall'altro, valutando la responsabilità del datore di lavoro, abbia ritenuto la delega inefficace perché non conferita nelle forme di legge (forma scritta) e perché il datore di lavoro aveva avocato ogni potere di spesa. Allora - si deduce- delle due l'una: o la delega è effettiva e quindi esplica la sua efficacia esimente oppure, come appare molto più probabile, è inefficace, con conseguente rivisitazione del giudizio di responsabilità mosso al P.F..
Non vi sarebbe prova, in altri termini, secondo il ricorrente, che il P.F. fosse tenuto alla predisposizione delle misure di sicurezza in quanto, non essendo stato prodotto alcun documento di delega, ovvero di nomina quale preposto alla sicurezza non poteva ritenersi raggiunta alcuna forma di certezza processuale sul punto.
In ogni caso, si conclude, a parte il rilievo per il quale non sarebbe dato di comprendere dove tali strumenti dovevano essere apposti, resterebbe il dato certo che le impalcature descritte dalla persona offesa non venivano e non vengono prodotte dalla "B." di P.S.C..
L'evento di specie -si sostiene- non era in alcun modo prevedibile pur met-tendo in atto le massime di esperienza comune le migliori tecniche.
Il documento sulla valutazione dei rischi dell'impresa "B." non annoverava la caduta dall'altro tra i rischi dell'attività, in quanto la ditta era specializzata nella produzione di meccanica di precisione, bulloni, viti, che di per sé non hanno alcun tipo di rapporto con il primo.
L'occasionalità della caduta sarebbe quindi evento eccezionale, non prevedi-bile e come tale non sussumibile nel concetto soggettivo di colpa.
Con un quarto motivo di ricorso si deduce violazione dell'articolo 603 co. 1 e 2 cod. proc. pen. nonché difetto di motivazione dell'ordinanza emessa dalla corte di appello di rigetto di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale.
Il ricorrente afferma di non condividere la motivazione addotta dalla Corte territoriale con la quale veniva preclusa l'assunzione di una testimonianza decisiva per dirimere il contrasto sorto sulla ricostruzione della dinamica del sinistro, qual era quella del sovrintendente C., giunto sul posto dopo sei ore dall'infortunio. Si sostiene che soltanto l’esame di questi avrebbe consentito di valutarne l'importanza, non potendosene in anticipo prevedere le dichiarazioni.
Con un quinto ed ultimo motivo di ricorso in via estremamente degradata e subordinata il ricorrente chiede pronunziarsi sentenza di assoluzione per intervenuta prescrizione dei reati alla data del 19/7/2014, già estesa ai periodi di sospensione ricavabili in atti. Precisa, tuttavia, che la richiesta di declaratoria di estinzione del reato per prescrizione subordinata la richiesta di assoluzione del merito, nonché a quelle di rinnovo dell'istruzione dibattimentale.
Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata.
 

Diritto


1. Non essendo, come si vedrà, taluni dei motivi di ricorso sopra illustrati manifestamente infondati, il Collegio non può che prendere atto, ai fini penali, dell'intervenuta prescrizione e pertanto annullare senza rinvio la sentenza impugnata per l'estinzione del reato.
Riscontrata exactis la presenza di un periodo di interruzione della prescrizione pari complessivamente a mesi 7 e gg. 10 - a causa dei rinvìi in primo grado dal 31.3.2009 al 30.6.2009 (mesi 3) causa astensione degli avvocati, del 29.9.2009 e del 26.1.2010 (gg. 120) per impedimento dei difensori e in secondo grado dell'udienza del 18/2/2014 al 1/4/2014 (mesi due e gg. 12) per una nuova l'astensione degli Avvocati dalle udienze - al 17.7.2014, quindi successivamente alla pronuncia della sentenza oggi impugnata, risulta infatti decorso per il delitto di cui all'imputazione.
Alla luce delle pronunzie di merito nemmeno si configura, inoltre, l'evidenza della prova che consentirebbe l'adozione di una decisione liberatoria nel merito ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen.
2. I motivi di ricorso vanno, pertanto, affrontati secondo le linee da tempo chiarite dalle Sezioni Unite di questa Corte, con un condivisibile dictum, secondo cui, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l’obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva (così Sez. Un. n. 35490 del 28/5/2009, Tettamanti, Rv. 244275, nella cui motivazione si è precisato che detto principio trova applicazione anche in presenza di una nullità di ordine generale). Ancora, di recente, si è ritenuto che in sede di legittimità non è consentito il controllo della motivazione della sentenza impugnata allorché sussista una causa estintiva del reato, e ciò sia quando detta causa sia sopraggiunta nelle more del giudizio in Cassazione, sia quando sia stata dichiarata con lo stesso provvedimento nei cui confronti è proposta l’impugnazione (così Sez. 4, n. 40952 del 17/9/2015, Marcucci ed altri, non mass. conf. Sez. 5, n. 588 del 4/10/2013 dep. il 2014, Zambonini, Rv. 258670; Sez. 3, n. 23260 del 29/4/2015, Gori ed altro, Rv. 263668; Sez. 2, n. 28545 del 16/6/2015, Galli, non mass.).
Va peraltro ricordato che le Sezioni Unite, nella ricordata sentenza 35490/2009, Tettamanti, dirimendo un precedente contrasto giurisprudenziale, hanno tra l'altro affermato che la pronuncia assolutoria a norma dell'articolo 129 c.p.p., comma 2, è consentita al giudice solo quando emergano dagli atti, in modo assolutamente non contestabile, delle circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato o la sua rilevanza penale, in modo tale che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo sia incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento.
Si è precisato, in quella pronuncia, che il controllo demandato al giudice deve appartenere più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento".
Nel solco della richiamata sentenza Tettamanti può pertanto affermarsi che l'"evidenza" richiesta dal menzionato articolo 129 c.p.p., comma 2, presuppone la manifestazione di una verità processuale talmente chiara ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione oltre la correlazione ad un accertamento immediato, concretizzandosi pertanto un quid pluris rispetto a quanto la legge richiede per l'assoluzione ampia.
Ancora, è stato condivisibilmente affermato che la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla dichiarazione di improcedibilità per intervenuta prescrizione soltanto nel caso in cui sia rilevabile, con una mera attività ricognitiva, l'assoluta assenza della prova di colpevolezza a carico dell'imputato ovvero la prova positiva della sua innocenza, e non anche nel caso di mera contraddittorietà o insufficienza della prova che richiede un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze (così questa Sez. 4, n. 23680 del 7/5/2013, Rizzo ed altro, Rv. 256202; conf. Sez. 6, n. 10284 del 22/1/2014, Culicchia, Rv.259445).
3. Ciò posto, va tuttavia ricordato che, sempre secondo l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità, la previsione di cui all'art. 578 cod. proc. pen., per la quale il giudice di appello o quello di legittimità, che dichiarino l'estinzione per amnistia o prescrizione del reato per cui sia intervenuta in primo o in secondo grado condanna, sono tenuti a decidere sull'impugnazione agli effetti delle disposizioni dei capi di sentenza che concernono gli interessi civili, comporta come conseguenza che i motivi d'impugnazione proposti dall'imputato devono essere esaminati compiutamente, non potendosi dare conferma alla condanna al risarcimento del danno in ragione della mancanza di prova dell'innocenza dell'imputato, secondo quanto previsto dall'alt. 129, comma 2 cod. proc. pen.: con la conseguenza che, laddove la sentenza d'appello non compia un esaustivo apprezzamento sulla responsabilità dell'imputato, s'impone un suo annullamento con rinvio limitatamente alla conferma delle statuizioni civili.
Ed allora, va subito rilevato che, nonostante l'apparente molteplicità di motivi di gravame, proposti soprattutto dal P.S., i ricorrenti, in buona sostanza, non senza evocare in larga misura censure in fatto non proponibili in questa sede, si sono limitati a riprodurre le stesse questioni già devolute in appello e da quei giudici puntualmente esaminate e disattese con motivazione del tutto coerente e adeguata che non viene alcun modo sottoposta ad autonoma e argomentata con-futazione. E' il caso, ad esempio, delle riproposte questioni circa l'ammissibilità della costituzione di parte civile, l'utilizzabilità della testimonianza del consulente di parte o il giudizio di responsabilità civile, su cui i giudici partenopei hanno com-piutamente motivato.
Per lo più si tratta di motivi non specifici, dovendo chiarirsi che la mancanza di specificità del motivo, va valutata e ritenuta non solo per la sua genericità, intesa come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, dal momento che quest'ultima non può ignorare le esplicita- zioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità che conduce, a norma dell'art. 591 comma 1, lett. c) cod. proc. pen., alla inammissibilità della impugnazione (in tal senso sez. 2, n. 29108 del 15/7/2011, Cannavacciuolo non mass.; conf. sez. 5, n. 28011 del 15/2/2013, Sammarco, Rv. 255568; sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253849; sez. 2, n. 19951 del 15/5/2008, Lo Piccolo, Rv. 240109; sez. 4, n. 34270 del 3/7/2007, Scicchitano, Rv. 236945; sez. 1, n. 39598 del 30/9/2004, Burzotta, Rv. 230634; sez. 4, n. 15497 del 22/2/2002, Palma, Rv. 221693; sez. 3, n. 44882 del 18/7/2014, Cariolo e altri, Rv. 260608).
4. Quanto alla doglianza di natura procedurale relativa alla ritualità della notifica al P.S. dell'avviso di fissazione dinanzi alla Corte di Appello, la stessa è infondata.
Questa Corte ha, infatti, di recente, condivisibilmente, precisato che non è affetta da nullità la notifica effettuata mediante deposito dell'atto nella casa comunale, seguito dal ritiro dell'avviso di deposito presso l'ufficio postale da parte di persona non identificata e la cui sottoscrizione risulta illeggibile, dal momento che l'assenza della necessaria annotazione ad opera dell'addetto dell'ufficio circa la riferibilità del ritiro ad un delegato del destinatario dell'atto induce a concludere che al compimento di tale operazione abbia provveduto l'interessato personalmente (sez. 6, n. 35679 del 7/7/2015, Cosentino, Rv. 264308). E va ribadito che, in tema di notificazioni a mezzo del servizio postale, al fine di escludere la riconducibilità al destinatario dell'atto della firma apposta per il ritiro del piego presso l'ufficio a seguito del rilascio di avviso di deposito presso l'abitazione, non è sufficiente, in difetto di allegazione della mancata ritualità degli adempimenti dell'addetto al servizio, addurre l'illeggibilità della sottoscrizione, ma è necessario proporre querela di falso (sez. 6, n. 47164 del 5/11/2013, Kandji, Rv. 257267). Ancora, più di recente, è stato ulteriormente precisato che, in tema di notificazioni a mezzo del servizio postale, al fine di escludere la riconducibilità al destinatario dell’atto della firma apposta per il ritiro del piego, è necessario proporre querela di falso, in quanto istituto elettivamente predisposto a privare l'atto falso della sua attitudine probatoria, mentre non è sufficiente che l’interessato presenti una denuncia penale di falso nei confronti del pubblico ufficiale (così sez. 3, n. 7865 del 12/1/2016, Vecchi, Rv. 266279, nella cui motivazione la Corte ha condivisibilmente osservato che il giudizio di falso civile, in quanto finalizzato ad accertare se un documento, in quanto falso, non deve costituire fonte di prova legale, pone a capo del querelante un puntuale onere di allegazione e di prova che la denuncia penale invece non esige, in quanto volta principalmente ad accertare la responsabilità dell'autore dell'"immutatio veri").
Dunque, se il P.S. voleva dedurre e provare che la firma apposta sulla cartolina di A.R. relativa alla notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza di appello avvenuta con deposito presso la casa comunale ai sensi dell'alt. 157 cod. proc. pen. non era la sua doveva proporre querela di falso. Ma non l'ha fatto. E certo non può ovviarvi proponendo a questa Corte, come avviene in ricorso, una irrituale comparazione di firme, in una sorta di improvvisata perizia calligrafica.
5. Motivo comune, anch'esso infondato, ad entrambi i ricorsi, attiene alle dichiarazioni rese agli ispettori dell'INAIL dal lavoratore infortunato, e poi rettificate.
Diversamente da quanto si sostiene, i giudici del merito non negano che ciò sia accaduto.
La Corte territoriale ricorda nello specifico, nella motivazione del provvedimento impugnato, che il M.A., risentito in appello, ebbe a riferire di non aver mai fornito una diversa ricostruzione di fatti, ancorché emerga dall'attività svolta in primo grado la diversa versione resa in data 9.6.2006 agli ispettori INAIL.
In realtà, i giudici del gravame del merito non credono a tale smentita, ma offrono una motivazione logica e congrua - e pertanto immune da vizi di legittimità- laddove danno atto di ritenere che il lavoratore, non resosi conto delle gravissime conseguenze della caduta, abbia, in un primo momento, voluto sostenere una versione "concordata" con l'azienda, salvo poi, preso atto delle irreversibili conseguenze della caduta e della conseguente inabilità lavorativa, 
decidere," sin dai primi interrogatori con il P.M., di rivelare la effettiva dinamica dell'infortunio fornendone adeguato riscontro.
Per i giudici partenopei la credibilità del M.A. non è inficiata dalla radicale negazione offerta alla Corte della precedente versione, atteso che la stessa è sicuramente influenzata dal timore di avvalorare la mendace iniziale ricostruzione, essendo anzi indice di spontaneità che il teste non di certo erudito, né malizioso, non abbia evidenziato il preventivo accordo, circostanza che invece avrebbe potuto giovare alla ricostruzione delle varie fasi di accertamento dei fatti.
Peraltro, non va trascurato -come aveva articolatamente dato conto in motivazione il primo giudice- che il M.A. non si è limitato a dire di essere genericamente caduto da una non meglio precisata impalcatura, ma ha descritto il proprio lavoro e quanto stava realizzando in modo assolutamente preciso e con dovizia di particolari, il che ha indotto motivatamente già il giudice di primo grado, sebbene la sua ricostruzione fosse totalmente difforme rispetto a quella resa dai testi escussi in giudizio, tutti presenti in azienda il giorno del furto (Omissis) a ritenerla maggiormente credibile, anche in considerazione del fatto che nessuno dei testi escussi era indifferente rispetto alla deposizione resa e alla posizione degli imputati.
Il M.A., nello specifico, aveva riferito di lavorare all'epoca dell'infortunio a lui occorso, da pochi mesi, alle dipendenze della ditta "B." di Pomigliano D'Arco, svolgendo le mansioni di operaio specializzato, consistenti nelle mansioni di fabbro e carpentiere metallico. Il suo compito precipuo -secondo quanto dallo stesso raccontato- era di costruire strutture in ferro mobili fatte a scale, simili alle impalcature utilizzate negli hangar per effettuare la manutenzione di aerei. L'altezza di tali strutture variava dai cinque agli otto metri.
Nella ditta B. -secondo il racconto della persona offesa- solo egli ed altra persona avevano tale competenza. Un ingegnere progettava tali impalcature (il cui disegno è stato acquisito agli atti nel corso del dibattimento) e le consegnava al capoofficina P.F., che, a sua volta le consegnava per la loro costruzione al M.A. o ad altro operaio.
E' emerso in dibattimento che la costruzione di tale impalcatura si sostanziava in un lavoro che si svolgeva in altezza, che aumentava man mano che la stessa era costruita. La struttura era stata commissionata dall’A.. Il lavoro consisteva nel realizzare l’impalcatura, smontarla e consegnarla al committente dove veniva poi rimontata.
Come si vede, è difficile dire ancora, al terzo grado di giudizio, a fronte di un racconto tanto circostanziato, che la "B." si interessava di sola minuteria. 
Il M.A. riferiva anche che, nel periodo di sua permanenza alle dipendenze della ditta era già stata consegnata uno scalo di otto metri, che aveva provveduto a completare, avendolo già trovato a metà.
Già il giudice di primo grado ricordava che il progetto dell'Impalcatura acquisito agli atti del giudizio all'udienza del 24 giugno 2008 era esibito al teste che riconosceva nella struttura raffigurata quella da lui stesso realizzata e da cui era caduto. Il punto esatto da cui era caduto veniva indicato al punto 12. La struttura raffigurata era solo parte dell'opera completa che vedeva invece la costruzione di altra torre e di una scala la cui presenza garantiva l'equilibrio dell'impalcatura. L'impalcatura era composta da più piani e da un piano all'altro si accedeva tramite scala a pioli.
In particolare, per salire sulla struttura lo stesso M.A. aveva costruito delle scale di circa due metri e trenta, due metri e quaranta. La struttura formata da due torri aveva tre piani ma il collegamento tra le torri tra loro e con la scala rendeva la struttura stabile. Con dovizia di particolari - come detto- il M.A. illustrava lo schizzo dell'impalcatura acquisito in giudizio apponendovi ivi la numerazione per segnare i punti di interesse.
In ordine alla dinamica dell'Infortunio la persona offesa riferiva di trovarsi proprio sulla parte superiore dell'impalcatura (che segnava nel punto 12 del disegno prodotto) in quanto occorreva saldare quella parte con la saldatrice. Il filo elettrico della saldatrice era corto e pertanto un operaio da terra, con l'ausilio di un muletto passava al M.A. la saldatrice. M.A. ricordava solo di aver afferrato la saldatrice, ma a quel punto, il manico si spezzava, egli perdeva l’equilibrio e "sbatteva la testa sulla ringhiera che aveva montato il giorno precedente» e cadeva a terra, passando all'interno della struttura posta in essere. Da quel momento in poi il M.A. non ricordava più nulla, ricordava solo di essersi svegliato direttamente in ospedale.
Ulteriore riscontro a quanto sostenuto dalla persona offesa si ravvisa - secondo quanto si legge nella motivazione del provvedimento impugnato- nella circostanza che nella scheda di accesso alle UU.00. di Pronto Soccorso della A.S.L. Napoli 1- Presidio Ospedaliero San Giovanni Bosco, redatta in data 7.06.06 alle ore 13,08 e sottoscritta dal medico del Pronto Soccorso alla voce "cause e circostanze dichiarate della lesione" risulta annotato "Riferisce caduta da una scala".
D'altronde i giudici del gravame del merito ricordano che la circostanza che la ditta "B." svolgesse esclusivamente attività minuteria, che la difesa per sconfessare le dichiarazioni della parte civile ripropone anche in questa sede, è stata smentita dall'esame dell'ispettore Ba. il quale dichiarava che "per quanto atteneva alla attività della azienda si parlava di armi, esplosivi, palchi per il teatro", richiamando, pertanto, proprio con riferimento ad impalcature da teatro, innegabilmente costruzioni che possono prevedere lavori in altezza.
Ad ulteriore conferma che le cose siano andate proprio come ha raccontato il M.A., il medico legale S. G., consulente di parte civile, riferiva -non smentito da elementi di segno contrario portati in giudizio- che il trauma riportato dal M.A. era stato conseguenza di una caduta che ha "avuto nella forza che ha determinata una grande vista lesiva, legata ad una dinamica complessa, che, per la mole del M.A., all'epoca circa 100 kg, e per la biomeccanica dell'impatto, ha avuto sicuramente un'accelerazione della caduta ai suolo, e questo si spiega con una caduta da un'altezza superiore di circa 3, 4 metri".
In altre parole, il teste ha sostenuto trattarsi di lesioni compatibili con una caduta da un'altezza superiore ai tre metri, mentre non sono compatibili con un impatto diretto al suolo, in quanto da esse si evince che il M.A. nel cadere "ha sicuramente messo in atto una serie di manovre tali da portare ad uno sbilanciamento del corpo con urto a livello del rachide cervicale su qualche corpo presente nella struttura."
6. Anche in relazione alla richiesta di escussione del teste di P.S., C.  e alla acquisizione delle dichiarazioni rese dai medesimo in sede di indagini difensive, la Corte territoriale ha già fornito una risposta logica e congrua, nel solco del consolidato dictum di questa Corte di legittimità secondo cui la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, nel giudizio di appello, costituisce un istituto eccezionale fondato sulla presunzione che l'indagine istruttoria sia stata esauriente con le acquisizioni del dibattimento di primo grado, sicché il potere del giudice di disporre la rinnovazione è subordinato alla rigorosa condizione che egli ritenga, contro la predetta presunzione, di non essere in grado di decidere allo stato degli atti.
Come più volte chiarito da questa Corte di legittimità, la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nel giudizio di appello è evenienza eccezionale, subordinata ad una valutazione giudiziale di assoluta necessità conseguente all'insufficienza degli elementi istruttori già acquisiti, che impone l'assunzione di ulteriori mezzi istruttori pur se le parti non abbiano provveduto a presentare la relativa istanza nel termine stabilito dall'alt. 468 c.p.p. (Sez. 2, n. 41808 del 27/9/2013, Mongiardo, Rv. 256968); e la mancata rinnovazione in appello dell'Istruttoria dibattimentale può essere censurata soltanto qualora si dimostri l'esistenza, nell'apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all'assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello (Sez. 6, n. 1256 del 28/11/2013, dep. il 2014, Rv. 258236).
I giudici del gravame del merito hanno dato atto di ritenere che gli elementi probatori disponibili risultavano completi e concludenti per la formazione del convincimento del collegio e che il teste richiesto non potesse fornire elementi utili alla ricostruzione della dinamica dell'incidente, essendosi recato sul luogo dell'Infortunio a distanza di circa sei ore dall’evento, nonché in considerazione della dichiarazione del teste Ba. circa la verosimiglianza della ipotesi dell'avvenuta alterazione dello stato dei luoghi.
7. Convincente è anche la risposta fornita in grado di appello alla doglianza oggi riproposta sul nesso di casualità.
I giudici napoletani, in primis, si sono rifatti, sul punto, alle argomentazioni del giudice di prime cure, che hanno dichiarato di condividere, aggiungendo peraltro la considerazione che la presenza nel M. di osteofitosi, protusioni discali ed alterazioni discoartrosiche, pur evidenziate dalla documentazione sanitaria in atti, non appariva assolutamente in grado di incidere sul nesso causale, né a fortiori interrompere il predetto nesso tra la caduta ed i gravissimi danni riportati dalla persona offesa e consistenti in una tetraparesi da trauma vertebra midollare cervicale, frattura polso sinistro e gomito sinistro, ferita lacero contusa al cuoio capelluto.
D'altronde, i giudici del gravame del merito evidenziano come la tesi difensiva risulti sconfessata dalla stessa documentazione sanitaria, nella parte in cui, in riferimento all'esito di RMN "evidenzia una alterazione del segnale midollare cervicale con interessamento prevalente della sostanza bianca che viene ricondotto ad un edema contusivo post traumatico".
La Corte territoriale ha in maniera argomentata e logica, nonché corretta in punto di diritto, già confutato la tesi difensiva della carenza del nesso di causalità che sarebbe stato interrotto dal comportamento colposo ascrivibile unicamente al P.F. ed al lavoratore e, secondo la Difesa del P.F., unicamente dal M..
Il rilievo sul punto - assolutamente corretto- è stato che la mancata predisposizione di misure e strumenti di sicurezza idonei a prevenire in concreto i rischi di lavoro, pur richiesti dal lavoratore, per l'urgenza di finire il lavoro commissionato era ben prevedibile, così come la possibilità di infortunio che, avrebbe potuto avere conseguenze ben più nefaste di quelle riscontrate. 
8. Quanto alla responsabilità degli imputati, la Corte territoriale offre una motivazione logica e convincente - e priva delle denunciate contraddizioni- nello spie-gare che per le loro qualifiche e conseguenti posizioni di garanzia, non sussistono dubbi in ordine alla stessa.
Va ricordato che, come si evince dalla motivazione della sentenza di primo grado, il M.A. riferiva che, quanto alle attrezzature di sicurezza antinfortuni, aveva ricevuto solo casco, guanti e scarpe, ma nessuna ulteriore precauzione era stata adottata considerato lo speciale lavoro dallo stesso svolto. In particolare, né nè lui, né agli altri operai, che con lui lavoravano, era stata fornita alcuna imbracatura necessaria al fine di prevenire cadute. Dichiarava infine di non aver mai partecipato ad alcun corso di formazione.
La persona offesa ricordava anche che il giorno precedente l'incidente aveva chiesto al P.F., capofficina e preposto alla sicurezza, di posizionare delle tavole, dei pannelli di legno sull'Impalcatura, al fine sia di consentirgli di muoversi più agevolmente sull'Impalcatura e sia di avere una barriera di protezione, considerato che ormai l'altezza era divenuta di cinque metri e quaranta. La richiesta era stata però disattesa in quanto il P.F. gli aveva risposto che c'era era urgenza di completare detta struttura e che non vi era tempo per tagliare e dunque preparare tali tavole. Il M.A. riferiva che vari operai erano presenti al fatto (tali Omissis) ma che non ne conosceva i loro cognomi.
Ribadiva di non avere altra attrezzatura oltre il cappello, i guanti e le scarpe antiscivolo. Quindi non indossava, perché mai fornita, la cintura di sicurezza. Spiegava che al punto da cui era caduto, era arrivato utilizzando due scale, poggiate in punti diversi della struttura, una a destra ed una a sinistra. E che, se vi fossero state le tavole, avrebbe camminato su di esse per muoversi sull'impalcatura, ma, visto che non c'erano, era stato costretto a camminare su dei tubolari larghi 5 cm.
Il M.A. riferiva altresì che se le tavole di legno fossero state posizionate non sarebbe caduto, in quanto i pannelli di norma erano fissati con dei bulloni creando una sorta di pavimento su cui camminare.
Viene ricordato che in atti non si rinviene la nomina del preposto alla sicurezza al momento dell'incidente, essendo stata prodotta soltanto nomina successiva, databile al 2009, in quanto risultante dal piano di sicurezza aggiornato al D.Lgs n.106 del 3.8.2009.
Dalla istruttoria emergeva comunque che il P.F. era di fatto il preposto alla sicurezza. Pertanto il medesimo correttamente è stato ritenuto responsabile dell'incidente occorso al M.A., non solo perché aveva il compito di sovrintendere all'esecuzione dei lavori con la possibilità di impartire ordini alle maestranze, ma anche perché pacificamente è risultato che egli si fosse in concreto ingerito nell'organizzazione del lavoro.
Nella motivazione del provvedimento impugnato si ricorda che lo stesso P.F., durante l'esame dibattimentale, dopo aver dichiarato di non ricordare se all'epoca fosse responsabile della sicurezza su domanda del giudice, precisava "all'epoca quando stava M.A. io ho firmato delle carte, etc. etc. perché mi sono assunto la responsabilità della situazione di cui stiamo parlando" ed ammetteva di essere al momento dell'esame dibattimentale il responsabile della sicurezza. D'altronde che il medesimo all'epoca dei fatti svolgesse di fatto le funzioni di preposto alla sicurezza - rilevano ancora i giudici del gravame del merito- emerge dalla circostanza che le contestazioni degli ispettori fossero elevate carico del medesimo e dalla deposizione del teste A.C. che lo individuava come il loro "responsabile".
9. Corretta in punto di diritto è anche l'affermata responsabilità del datore di lavoro P.S.C., in quanto la responsabilità della sicurezza, in mancanza di specifica delega nei modi e termini di cui al d.lgs. 626/94, fa capo al datore di lavoro.
Questa Corte, sul punto, ha più volte sottolineato che, in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza, ha l’obbligo non solo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 cod. civ., egli è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro (sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014 dep. il 2015, Ottino, Rv. 263200). E, ancora, va qui ribadito che, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia, per cui l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione, (così questa sez. 4, n. 18826 del 9/2/2012, Pezzo, Rv. 253850 in una fattispecie, analoga a quella all'odierno esame, in cui la Corte ha ritenuto la responsabilità del datore di lavoro per il reato di lesioni colpose nonostante fosse stata dedotta l’esistenza di un preposto di fatto).
Correttamente, dunque, la Corte territoriale ha ritenuto che la carenza di formale delega al P.F. non esonerasse il P.S.C. da responsabilità e non permettesse alcuna operatività al principio dell'affidamento. Ciò anche perchè, essendo emerso dalla istruttoria dibattimentale che il rischio di caduta dall'alto era riconnesso ad attività, seppur previste e prevedibili, ricadenti al di fuori della principale attività di produzione, detta responsabilità non avrebbe potuto ricondursi unicamente al preposto, che nell'ambito dell'azienda non ha poteri decisori sulla produzione e sulla scelta delle commesse.
Condivisibile in punto di diritto è anche l'affermazione operata nel provvedimento impugnato che il P.S.C. non potesse ritenersi esente da responsabilità, anche sotto altro profilo, giacché in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, (d.p.r. 22 aprile 1955 n. 547), non adempie agli obblighi derivanti dalle norme di sicurezza l'imprenditore che, dopo l'avvenuta scelta della persona preposta al cantiere o incaricata dell'uso degli strumenti di lavoro, non controlla o - se privo di cognizioni tecniche - non fa controllare la rispondenza dei mezzi usati o delle attrezzature ai dettami delle norme antinfortunistiche. In tal caso, infatti, la presenza e la eventuale colpa del preposto non eliminano la responsabilità dell'imprenditore potendosi ritenere che l'infortunio non sarebbe occorso se il datore di lavoro avesse controllato e fatto controllare le attrezzature, le macchine e predisposto i mezzi idonei a dotarle dei requisiti di sicurezza mancanti, conferendo al preposto - come suo "alter ego" - non solo la generica delega a sorvegliare lo svolgimento del lavoro in cantiere ma anche dotandolo dei poteri di autonoma iniziativa - anche eventualmente di spesa o di modifica delle condizioni di lavoro, delle fasi e dei tempi del processo lavorativo - per l'adeguamento e l'uso, in condizioni di sicurezza, dei mezzi forniti (conferente e tuttora attuale è il richiamo al pur risalente precedente costituito da sez. 4, n. 523 del 26/11/1996, Rv. 206644).
Nel caso in esame -ed è questo un punto di grande importanza nello snodo decisionale- dall'esame dell'imputato P.S.C. era emerso che lo stesso si era riservato ogni potere di spesa.
Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia i ricorrenti chiedono una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma un siffatto modo di procedere è inammissibile perché trasformerebbe questa Corte di legittimità nell'ennesimo giudice del fatto.
10. Vanno, dunque, confermate le statuizioni civili e condannati i ricorrenti alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile in questo giudizio, liquidate come in dispositivo.
 

P.Q.M.


Annulla senza rinvio ai fini penali la sentenza impugnata per essere il reato estinto per intervenuta prescrizione. 
Conferma le statuizioni civili e condanna i ricorrenti alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile in questo giudizio, liquidate in euro 3.000,00 , oltre accessori come per legge.
Così deciso in Roma il 16 giugno 2016