Cassazione Penale, Sez. 4, 23 gennaio 2017, n. 3309 - Lavoratore colpito alla testa da un frammento della puleggia. Davvero è formulabile un rimprovero al datore di lavoro? Obbligo di motivazione rafforzata.


 

 

Presidente: BIANCHI LUISA Relatore: PICCIALLI PATRIZIA Data Udienza: 01/12/2016

 

 

 

Fatto

 

G. Luciano e G. Clemente ricorrono avverso la sentenza di cui in epigrafe che, riformando quella di primo grado, dichiarava la responsabilità degli stessi per il reato di lesioni colpose gravissime aggravato dalla violazione della normativa antinfortunistica (fatto del 25/11/2008) in danno del lavoratore LG.S..
Questi, secondo quanto ricostruito in sede di merito, a seguito della messa in funzione di un macchinario in cattive condizioni di conservazione - che aveva tra i suoi componenti una puleggia in ghisa, collegata all'albero motore da due soli bulloni, male avvitati- veniva colpito alla testa, con la conseguente rottura del casco protettivo, da un frammento della puleggia, distaccatasi, mentre la macchina era in fase di rotazione, cadendo sul bancale sottostante ove si trovava il lavoratore.
Così ricostruito in fatto l'infortunio, gli addebiti colposi contestati ai G., nella qualità di amministratori delegati della GP. s.r.l e di datori di lavoro della parte offesa, venivano individuati nella omessa formazione ed informazione dei lavoratori, nell'aver consentito l'utilizzo di un macchinario in cattive condizioni di conservazione con puleggia in ghisa, collegata all'albero motore da soli due bulloni non autobloccanti, e nell'omessa previsione di barriere protettiva tra il luogo delle lavorazioni e lo spazio immediatamente circostante, che avrebbe consentito di bloccare le schegge vacanti della puleggia che avevano colpito il Laguardia al capo.
Il giudice di primo grado riteneva che la causa dell'infortunio fosse ascrivibile ai tecnici incaricati del montaggio della puleggia, che era risultata priva di una protezione fissa prevista per ogni elemento mobile di trasmissione dall'art. 1 del d.P.R. 459/1996. Tuttavia rilevava che poiché l'infortunio si era verificato non durante il ciclo produttivo bensì in fase di costruzione della macchina le violazioni delle norme sulla sicurezza emerse dagli accertamenti non potevano considerarsi imputabili al datore di lavoro ma ai tecnici.
Il giudicante escludeva altresì la violazione dell'obbligo formativo poiché la difesa aveva provato l'adempimento di tale obbligo.
La Corte territoriale, su ricorso del PM e della parte civile, ribaltava il giudizio, individuando quale causa determinante dell'infortunio la mancanza di qualsiasi dispositivo di protezione della puleggia e, in particolare del carter di protezione, così che la condotta commissiva imputabile ai tecnici, consistita nell'incompleto avvitamento dei bulloni di serraggio della puleggia si poneva come concausa dell'evento, non interruttiva del nesso causale.
Nello stesso senso veniva riconosciuta influenza nella dinamica del sinistro anche all'intrinseca deficienza del materiale della puleggia, realizzata in ghisa lamellare.
Con il ricorso si articolano due motivi, strettamenti connessi, con i quali si lamenta che il giudice di appello aveva omesso di considerare il materiale probatorio acquisito dinanzi al giudice di primo grado, con particolare riferimento alla condotta dei tecnici assunti specificamente per la progettazione e realizzazione all'interno dello stabilimento di un banco prova per il collaudo dei compressori da produrre successivamente.
Si contesta la valutazione operata dalla Corte territoriale circa l'asserita scarsa qualità della puleggia, che si assume priva di riscontri e contraddetta da materiale probatorio in atti.
Si deduce, altresì, che l'obbligo di installazione del carter di protezione fosse a carico dei progettisti in quanto previsto dal capitolato e dall'art. 22 d.Lvo 81/08, che attribuisce ai progettisti la scelta delle attrezzature componenti e dei dispositivi di protezione rispondenti alle disposizioni legislative e regolamentari in materia, come evidenziato dal primo giudice che aveva colto la differenza tra le macchine destinate al ciclo produttivo da quelle che si stanno costruendo. Si sostiene che tutti gli obblighi a carico dei datori di lavoro risultavano perfettamente osservati come emergeva dal documento di valutazione dei rischi.
 

 

Diritto

 


I ricorsi sono fondati.
La sentenza impugnata non è motivata in termini di assoluta coerenza logica rispetto agli elementi probatori acquisiti.
Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di confutare specificamente, pena altrimenti il vizio di motivazione, le ragioni poste dal primo giudice a sostegno della decisione assolutoria, dimostrando puntualmente l'insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti della sentenza di primo grado, anche avuto riguardo ai contributi eventualmente offerti dalla difesa nel giudizio di appello e deve quindi corredarsi di una motivazione che, sovrapponendosi pienamente a quella della decisione riformata, dia ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati ( v., tra le altre, Sez.6, n. 10130 del 20/01/2015, Marsili, Rv. 262907).
Nel caso in esame, i giudici del gravame hanno argomentato la responsabilità degli imputati rilevando che un preciso profilo di colpa nei confronti degli stessi doveva essere individuato, anzitutto, nell'avere omesso di applicare il dispositivo di protezione alla puleggia (carter), un frammento della quale, mentre era in fase di rotazione, si sfilava dal giunto di collegamento dell'albero motore, cadendo sul bancale sottostante e colpendo il lavoratore alla testa.
E' stato, pertanto, ritenuto che il carter di protezione costituiva un presidio antinfortunistico, la cui mancanza era imputabile al datore di lavoro.
Nella medesima prospettiva è stato affermato che la responsabilità dei datori di lavoro non è esclusa dalla condotta commissiva negligente dei tecnici, consistita nel difettoso avvitamento dei bulloni, che pure ha contribuito alla verificazione dell'infortunio.
La decisione impugnata, nel ribaltare il giudizio assolutorio, non affronta però il punto cruciale della vicenda processuale, costituito dal particolare contesto lavorativo in cui l'incidente si è verificato, descritto analiticamente dal primo giudice.
L'attività principale dell'impresa, nell'ambito della quale si verificò l'infortunio, era quella di "progettazione, costruzione e commercializzazione di macchine per la produzione di energia", ed il team di ingegneri, di cui faceva parte il LG.S.., era impegnato in un'attività di progettazione e realizzazione, ai fini della ricostruzione, del "banco prova" ( una macchina utilizzata per effettuare i collaudi dei compressori alternativi, prodotti dalla stessa ditta), sia pure utilizzando parte dei pezzi provenienti dalla vecchia attrezzatura.
L'infortunio si è verificato in questo contesto, in cui, come evidenziato dal primo giudice, il lavoratore infortunato, incaricato della progettazione, dava assenso all'accensione del motore per fare le ultime prove di funzionamento prima del trasporto nella nuova sede: a questo punto, contestualmente alla messa in moto, la puleggia- i cui bulloni di fissaggio erano stati male avvitati- si distaccava dall'albero rotante e, toccando a terra, esplodeva, frantumandosi.
In questo quadro fattuale il giudice di primo grado escludeva la responsabilità dei datore di lavoro, osservando che l'ordine di mettere in funzione l'apparecchio, non riconducibile agli imputati, sarebbe dovuto giungere solo dopo il montaggio della protezione, laddove esso era stato Impartito, prima di tale momento, proprio dalla persona offesa.
A fronte di tale dettagliata ricostruzione, il giudice di appello si è limitato ad affermare, in via generale, che il rischio connesso alla realizzazione delle macchine era di carattere ordinario e doveva essere necessariamente oggetto di specifica e precipua valutazione da parte del datore di lavoro, obbligandolo ad adottare tutte le misure necessaria a prevenire gli infortuni ad esso correlato, ivi comprese quelle di predisporre i dispositivi di protezione.
E' condivisibile il principio che la tutela della sicurezza dei lavoratori, gravante sul datore di lavoro, si estende anche alla fase della costruzione della macchina che verrà immessa nel ciclo produttivo, trovando la sua ragione d'essere, non soltanto nei rischi inerenti la sua utilizzazione ma anche nei pericoli insiti nella stessa fase di costruzione.
Le norme sulla tutela della salute e sicurezza del lavoro, hanno, infatti, una applicazione generalizzata, estesa a tutti i settori di attività, pubblici e privati e a tutte le tipologia di rischio, nonché a tutti i lavoratori, subordinati ed autonomi ed ai soggetti che si trovino nell'ambiente di lavoro indipendentemente dall'esistenza di un rapporto con il titolare dell'impresa, a meno che tale presenza non rivesta carattere di anormalità ed eccezionalità.
La corretta applicazione di tale principio non può però prescindere dall' attento esame della situazione concreta, che nel caso in esame, è mancata, laddove il giudice di secondo grado ha attribuito al datore di lavoro un onere di controllo assoluto, senza affrontare compiutamente la questione analiticamente trattata dal primo giudice afferente, in sostanza, l'imprevedibilità della condotta del lavoratore.
E' vero, infatti, che, in tema di infortuni sul lavoro, il principio in forza del quale l'addebito di responsabilità formulabile a carico del datore di lavoro non è escluso dai comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del lavoratore, salvo che ci si trovi in presenza di comportamenti abnormi, come tali eccezionali ed imprevedibili (cfr. articolo 41, comma 2, cod.pen.), deve comunque tenere conto dell'altro principio secondo cui, per poter formalizzare il giudizio di responsabilità, occorre in ogni caso accertare la "colpa" del datore di lavoro, la quale è pur sempre il presupposto dell'addebito.
Ciò significa che, una volta compiuta l'indagine causale, il giudice di merito deve procedere, in maniera distinta ma ugualmente imprescindibile, all'accertamento in concreto della colpa del datore di lavoro, anche nell'ipotesi in cui la condotta imprudente del lavoratore non soddisfi i caratteri dell'esorbitanza o dell'abnormità.
In altre parole, è necessario accertare che a seguito di tale indagine sia comunque formulabile un rimprovero a carico del datore di lavoro, ovvero stabilire con giudizio ex ante se il datore di lavoro avrebbe potuto, nel caso concreto, prevedere l'evento lesivo verificatosi con quelle specifiche modalità, o se invece si sia concretizzato un rischio diverso da quello che il datore di lavoro, con tutta la diligenza, prudenza e perizia richiesta, avrebbe dovuto e potuto evitare (v. in tal senso Sez.4, n. 9200/14 del 03/12/2013, Cecchini, Rv. 259087).
In altri termini, la motivazione svolta della Corte territoriale non ottempera ai requisiti delineati dalla giurisprudenza, progressivamente affermatasi, di questa Corte di Cassazione per assolvere a quell'obbligo di motivazione rafforzata, atta in quanto tale a derogare al principio di valutazione generale dell'oltre ogni ragionevole dubbio dettato all'art. 533, comma 1, cod.proc.pen.. "
Si impone,in conclusione, l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio al giudice competente, che si atterrà ai principi sopra delineati, provvedendo, altresì, alla regolamentazione delle spese di questo giudizio tra le parti.
 

 

P.Q.M.

 


Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo esame alla Corte di Appello di Salerno cui demanda la regolamentazione delle spese tra le parti di questo giudizio.
Così deciso il 01/12/2016