Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 23 gennaio 2017, n. 3291 - Art. 589 c.p.: evoluzione legislativa


 

 

 

Presidente: IZZO FAUSTO Relatore: TANGA ANTONIO LEONARDO Data Udienza: 05/10/2016

 

 

 

Fatto

 


1. Con la sentenza n.655/15 del 28/01/2015, la Corte di Appello di Napoli, in riforma della sentenza n. 387/2010 pronunciata in data 25 novembre 2010 dal Tribunale di Sant'Angelo dei Lombardi, confermava la responsabilità di C.A. per il reato di cui agli artt. 41, commi 1 e 3, e 589, comma 1, c.p. di cui al capo di imputazione sub a), e dichiarava non dovendosi invece procedere per il reato di cui agli artt. 41, commi 1 e 3, e 590 c.p. di cui al capo di imputazione sub b), siccome estinto per intervenuta prescrizione, e, per l'effetto, lo condannava alla pena, come rideterminata, di mesi sei di reclusione, determinando, ai fini civili, il quantum di responsabilità dell'imputato C.A. nella causazione dell'occorso nel 30% e della vittima P.S. nel 70%. Fatti accertati il 04/08/2005.
2. Avverso tale sentenza, propone ricorso per cassazione C.A., a mezzo del proprio difensore, lamentando (in sintesi giusta il disposto di cui all'art.173, comma 1, disp. att. c.p.p.):
I) Violazioni di legge e vizi motivazionali in relazione agli artt. 191 c.p.p. e 41 c.p.;
II) Violazioni di legge e vizi motivazionali in relazione all'art. 41 c.p.. Deduce che agli atti del processo vi sarebbe la prova del fatto che l'occorso è imputabile esclusivamente alla condotta della vittima P.S. tale da interrompere il nesso di causalità essendo da sola sufficiente a produrre l'evento;
III) Violazioni di legge e vizi motivazionali. Deduce che la morte di P.S. potrebbe ben essere avvenuta prima del sinistro ed, anzi averlo causato;
IV) Violazioni di legge in relazione agli artt. 157 e 161 c.p. e 590, comma 2, c.p. nel testo vigente al momento del fatto. Deduce che se è vero che il reato di cui al capo b) di imputazione è estinto per intervenuta prescrizione per il decorso del termine di sette anni e mezzo, come statuisce chiaramente la sentenza di appello, anche il reato di cui al capo a) di imputazione è prescritto per intervenuta prescrizione per il decorso del termine di sette anni e mezzo.
 

 

Diritto

 


3. Il ricorso è infondato e costituisce, sostanzialmente, mera riproposizione dei medesimi motivi d'appello attenenti il fatto.
4. I motivi sub I), II) e III), sono addirittura inammissibili.
4.1. Mette conto, infatti, evidenziare che il ricorrente ignora le analitiche ragioni esplicitate dal giudice di appello per rigettare analoghi motivi di gravame.
4.2. La Corte territoriale ha, in vero, fornito puntuale spiegazione del ragionamento posto a base della propria sentenza procedendo alla coerente e corretta disamina di ogni questione di fatto e di diritto. Va, ancora, rammentato che le sentenze di primo e secondo grado si compenetrano in un unica motivazione, versandosi in ipotesi di sostanziale c.d. "doppia conforme".
4.3. Quanto alla manifesta illogicità della motivazione, è consolidata in giurisprudenza la massima secondo cui la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito propone effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione è compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento. Sul punto, è appena il caso di richiamare il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, ai sensi del quale la modificazione dell'art. 606 c.p.p., lett. e), introdotta dalla L. n. 46 del 2006 consente la deduzione del vizio del travisamento della prova là dove si contesti l'introduzione, nella motivazione, di un'informazione rilevante che non esiste nel processo, ovvero si ometta la valutazione di una prova decisiva ai fini della pronuncia (Sez. 4, n.49361 del 04/12/2015). E ciò nella specie non è.
4.4. Il ricorso per cassazione deve, infatti, rappresentare censura alla sentenza impugnata, criticandone eventuali vizi in procedendo o in iudicando; esso, quindi, non può consistere in una supina riproposizione delle doglianze espresse con l'appello, ma deve consistere in una critica alle ragioni in fatto o in diritto sulla cui scorta il secondo giudice ha ritenuto di dover disattendere il gravame (sez. 4 n. 44139 del 27/10/2015).
4.5. La Corte regolatrice ha, inoltre, più volte chiarito che non è sufficiente che gli atti indicati dal ricorrente siano contrastanti con le valutazioni del giudice o siano astrattamente idonei a fondare una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudice; gli atti del processo su cui fa leva il ricorrente per sostenere l'esistenza di un vizio della motivazione devono essere autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l'intero ragionamento svolto dal giudice e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente contraddittoria la motivazione: nella specie ciò non si verifica. In secondo luogo la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che resta preclusa al giudice di legittimità la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti.
4.6. Ne consegue l'inammissibilità dei motivi in questione.
5. In ordine alla doglianza sub IV), si osserva:
5.1. Il reato ascritto all'imputato viene contestato come commesso il 04/08/2005. Al tempo l'art. 589 c.p. constava di tre commi. Nel primo era descritta l'ipotesi 'base', caratterizzata dal cagionare la morte di una persona; la pena prevista era quella della reclusione da sei mesi a cinque anni. Il secondo comma prevedeva un inasprimento del trattamento sanzionatorio, limitato al minimo edittale (la pena, infatti, si elevava al minimo di un anno di reclusione, fermo il massimo di cinque anni) se il fatto era commesso con violazione delle norme sulla disciplina stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. Il terzo comma considerava l'ipotesi della morte di più persone e quella delle morte di una o più persone e di lesioni di una o più persone, definendo la pena per il concorso formale di reati che così veniva a profilarsi.
5.1.1. Con l'art. 2 della legge 21/02/2006, n. 102 si intervenne, per quel che qui occupa, sul secondo comma dell'art. 589 c.p., elevando la pena minima prevista per il caso che il fatto fosse commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro; tale pena venne fissata in due anni di reclusione, ancora fermo il massimo di cinque anni di reclusione.
5.1.2. Con l'art. 1 d.l. 23/05/2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla legge n. 125/2008, si elevò invece la pena massima prevista dal secondo comma dell'art. 589 c.p., fissandola in sette anni di reclusione. Inoltre, si introdusse un ulteriore comma dopo il secondo, con il quale si articolò l'aggravante incentrata sulla violazione delle norme in materia di circolazione stradale, prevedendo la pena della reclusione da tre a dieci anni se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da: 1) soggetto in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell'articolo 186, comma 2, lett. e) Cod. str.; 2) soggetto sotto l'effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope. Con tecnica normativa non esemplare (si era contestualmente introdotto un nuovo terzo comma), il menzionato comma 1 del d.l. n. 92/2008 stabilì che la pena prevista dal terzo comma dell'art. 589 c.p. (quello originario, disciplinante il concorso formale di morti e di lesioni) divenisse, nella sua espressione massima, di quindici anni di reclusione. In sede di conversione si introdusse all’art. 1 del d.l. un comma c-bis), con il quale si ripristinò la correttezza dei rinvìi previsti dall'art. 157 c.p., nel frattempo modificato dalla legge n. 251/2005, e che presentava il seguente tenore: «all'articolo 157, sesto comma, le parole: "589, secondo e terzo comma", sono sostituite dalle seguenti: "589, secondo, terzo e quarto comma».
5.1.3. Per effetto della successione degli interventi sin qui rammentati l'art. 589 c.p. consta dall'entrata in vigore del d.l. n. 92/2008 di quattro commi.
5.2. Ai limitati fini della presente trattazione basta ripetere che il primo comma stabilisce che chiunque cagiona per colpa la morte di una persona è punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni, mentre il secondo comma prevede che se il fatto è commesso con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro la pena è della reclusione da due a sette anni.
5.3. Sin qui gli interventi del legislatore sulle comminatorie edittali.
5.4. In parallelo si sono registrate le note modifiche in materia di prescrizione.
5.4.1. Il primo termine di riferimento è ovviamente la legge n. 251/2005 (cd. ex-Cirielli), che nel contesto di una articolata disciplina da un canto ha riscritto l'art. 157 c.p. ponendo la regola per la quale la prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria. Dall'altro - limitando per ora la ricognizione a quel che più rileva - ha inserito per la prima volta la regola del raddoppio dei "termini di cui ai commi che precedono ... per i reati di cui agli articoli 449 e 589, secondo e terzo comma,..." cod. pen. (così l'originario comma 6 del novellato art. 157 c.p., come visto modificato dall'art. 1 del d.l. 92/2008, che ha inserito il richiamo del quarto comma dell'art. 589 c.p., che si legge nel testo oggi vigente). Non è inutile segnalare che alla data del 08/12/2005, di entrata in vigore della legge cd. ex-Cirielli, l'art. 589 c.p. constava ancora di tre commi e che l'ipotesi aggravata dalla violazione delle norme prevenzionistiche era prevista dal comma 2.
5.5. Così delineato un primo quadro normativo cui fare riferimento, si può passare a considerare che al tempo in cui venne commesso il reato ascritto al ricorrente la pena massima prevista per l'omicidio colposo aggravato dalla violazione di norme prevenzionistiche era quella di cinque anni di reclusione.
5.5.1. Come noto, il succedersi di differenti discipline della prescrizione impone di ricercare ed applicare quella più favorevole al reo, tenendo ben presente il divieto di realizzare soluzioni combinatorie (ex multis, sez. 4, n. 7961 del 17/01/2013, Rv. 255103). Orbene, secondo la disciplina della prescrizione vigente al 04/08/2005, l'estinzione del reato di cui ci si occupa si determinava in dieci anni, trattandosi di delitto per cui la legge stabiliva la reclusione non inferiore a cinque anni; dovendosi considerare, per determinare il tempo necessario a prescrivere, il massimo della pena stabilita dalla legge per il reato, consumato o tentato, tenuto conto dell'aumento massimo della pena stabilito per le circostanze aggravanti e della diminuzione minima stabilita per le circostanze attenuanti (assenti nella imputazione).
5.5.2. Le regole sulla interruzione del termine di prescrizione conducevano poi a individuare in quindici anni il termine massimo di prescrizione.
5.6. Nel nuovo regime instaurato dalla legge n. 251/2005 il termine di prescrizione per reati che prevedono la pena massima di cinque anni di reclusione - come quello contestato all'imputato - non è quello corrispondente al massimo della pena prevista bensì quello fissato in via sussidiaria dal legislatore con valenza generale, pari ad anni sei di reclusione. Tuttavia per il reato previsto dall'art. 589, comma 2, c.p. tale termine è raddoppiato, secondo la previsione del comma 6 dell'art. 157 c.p.
5.7. Qui occorre una prima puntualizzazione. La regola del raddoppio attiene al regime della prescrizione e non certo a quella del reato di omicidio colposo aggravato ai sensi del comma 2 dell'art. 589 c.p.. Sicché non si pone neppure il dubbio se questa regola possa applicarsi o meno ad un reato commesso prima dell'entrata in vigore della legge n. 251/2005. La questione della lex mitior si pone nei diversi termini del raffronto delle soluzioni cui conduce l'applicazione dell'una e dell'altra complessiva disciplina della prescrizione.
5.8. La seconda puntualizzazione concerne la identità della regola del raddoppio: la quale non incide sulla pena edittale bensì sul termine di prescrizione che a quella è coordinato (e che, come visto, può essere corrispondente oppure no al massimo della pena prevista). Ed inoltre, poiché i commi che precedono il sesto nell'art. 157 c.p. attengono unicamente al termine "ordinario", ovvero quello che non tiene conto di eventuali sospensioni o interruzioni del medesimo, la regola del raddoppio si applica su tale termine e non su quello massimo (che infatti risulta dalla regola posta dall'art. 161, comma 2, c.p.). Per esemplificare, ove il termine ordinario sia quello di sei anni e quindi quello massimo di sette anni e sei mesi, il raddoppio del termine concerne la misura di sei anni, non quella di sette anni e sei mesi. Ove si determini una causa interruttiva o di sospensione del termine, la previsione delfart. 161, comma 2. c.p., secondo la quale in nessun caso l'interruzione della prescrizione può comportare l'aumento di più di un quarto del tempo necessario a prescrivere, condurrà a calcolare l'aumento sul termine raddoppiato, ovvero su dodici anni (e non sul termine di sette anni e sei mesi). 
5.9. Orbene, applicando la più recente disciplina della prescrizione risulta che il termine massimo di prescrizione è di quindici anni, esattamente come nel diverso contesto normativo previgente; per contro, il termine "ordinario" di prescrizione secondo la disciplina previgente è di anni dieci; secondo quella attualmente vigente è di dodici anni.
5.10. A questo punto ci si può avviare rapidamente alle conclusioni.
5.11. Posto che, nel caso di specie, il termine massimo di prescrizione è in ogni caso di quindici anni, la doglianza in questione è infondata.
6. Ai sensi dell'art. 616 c.p.p., con il provvedimento che rigetta il ricorso, il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese del procedimento.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 05/10/2016