Cassazione Penale, Sez. 4, 03 febbraio 2017, n. 5273 - Esposizione ad amianto e decesso di 83 lavoratori. Responsabilità dei direttori di stabilimento e dei medici aziendali? Necessario provare il nesso causale tra esposizione all'amianto e patologia


 

Presidente: D'ISA CLAUDIO Relatore: DOVERE SALVATORE Data Udienza: 21/09/2016

 

 

 

Fatto

 


A) Le sentenze di merito
1. Venivano tratti a giudizio dinanzi al Tribunale di Nola F.G., E.G., P.L., P.R., A.G., G.R., B.O. e S.R., per rispondere i primi sei del reato di cui agli artt. 113, 40 cpv., 437 e 449 cod. pen. perché nella qualità di direttori dello stabilimento di Acerra della M. s.p.a., succedutisi nel complessivo periodo dal 12.8.1976 al giugno 2004, avevano omesso di adottare cautele quali impianti di aspirazione idonei, sistemi di abbattimento delle polveri contenenti amianto ed altre misure di prevenzione ambientali e personali adeguate, e così, per colpa generica e per colpa specifica consistita nella violazione della normativa antinfortunistica, avevano cagionato i decessi di ottantatre lavoratori, dovuti a patologie eziologicamente correlabili all'esposizione professionale all'amianto, nonché lesioni personali ad altri cinque lavoratori, derivando dal fatto un pericolo per la pubblica incolumità (capo A); nonché, tutti i predetti imputati, il F.G., l'E.G., il P.L., il P.R., l'A.G. ed il G.R. nella menzionata qualità, il B.O. e lo S.R. nella qualità di medici aziendali, per rispondere altresì del reato di cui agli artt. 81, 113, 40 cpv., 589 co. 1, 2 e 3, 590, co. 3, in relazione all'art. 583 cod. pen. per aver cagionato per colpa generica e colpa specifica i menzionati decessi, conseguenti a mesotelioma peritoneale, a mesotelioma pleurico, a tumore al polmone o alla laringe, e a tumore primitivo al fegato (eziologicamente correlato, nella contestazione, a solventi alogenati e a solventi aromatici presenti nello stabilimento), nonché le già indicate lesioni personali, consistenti in tumori polmonari o alla laringe.
2. Il Tribunale reputava gli imputati - ad eccezione del G.R. - colpevoli del reato di omicidio colposo in relazione al decesso del solo lavoratore F.C., deceduto per mesotelioma peritoneale, condannandoli alla pena di un anno e otto mesi di reclusione ciascuno, con la sospensione condizionale della pena. Seguiva la condanna generica, in solido con il responsabile civile M. s.p.a., al risarcimento dei danni in favore di tutte le parti civili - costituite dai congiunti del F.C. e da alcuni lavoratori della M. in Acerra, reclamanti un danno esistenziale quale conseguenza delle condotte degli imputati - con la determinazione di una provvisionale immediatamente esecutiva.
Inoltre, il Tribunale dichiarava non doversi procedere nei confronti del F.G., dell'E.G. e del P.L., in relazione agli omicidi colposi in danno di G.R. e di M.A., per essere i reati estinti per prescrizione; ed assolveva i restanti imputati in relazione a tali decessi e tutti in relazione ai decessi non correlati a mesotelioma e alle lesioni personali, nonché dal reato di cui al capo A) perché il fatto non sussiste.
A tali statuizioni il Tribunale perveniva sulla scorta di una ricostruzione che può essere così sintetizzata.
Dalla sua nascita, risalente al 1977, e sino al 2004, presso lo stabilimento di Acerra della società M. s.p.a., ove si produceva polimero poliestere, era stato presente l'amianto, sia in forma friabile che in forma compatta, quale materiale utilizzato per la coibentazione richiesta dalle lavorazioni a caldo, ed i lavoratori, almeno nei reparti Filo, Fiocco e Poy, erano stati esposti al pericolo di inalazione delle fibre durante le operazioni di manutenzione ordinaria degli impianti, senza che ciò avesse comportato l'adozione di adeguate misure cautelari da parte della dirigenza, pur consapevole della presenza dell'agente patogeno. Tuttavia, non poteva essere affermata con certezza la sussistenza del nesso causale tra l'esposizione all'amianto e la patologia causa ultima del decesso, in relazione ai lavoratori deceduti per patologie diverse dal mesotelioma. Il Tribunale ha rammentato che l'indagine epidemiologica disposta dal P.M. aveva rilevato un eccesso di mortalità nella coorte dei lavoratori M. per il mesotelioma pleurico, il mesotelioma peritoneale, il tumore primitivo al fegato e il tumore della laringe, ma con aumento significativo in termini statistici solo per il mesotelioma pleurico e il tumore del fegato; sul piano della causalità individuale tale indagine non era idonea a fornire elementi utili a fondare un giudizio di responsabilità penale e non erano disponibili indagini medico-legali circa l'effettiva sussistenza delle patologie indicate dall'accusa come causa diretta dei decessi e delle lesioni contestate agli imputati, se non per venticinque persone offese, ammalatesi o di carcinoma epatico o di carcinoma laringeo o di carcinoma polmonare o, infine, di mesotelioma pleurico. La perizia collegiale che era stata quindi disposta dal Tribunale medesimo aveva rivisto l'indagine epidemiologica dei consulenti del P.M. giungendo alla conclusione che la sola patologia per la quale si rilevava un sicuro eccesso statistico era il tumore della pleura, mentre la mortalità per tumori polmonari e laringei era in linea con quella attesa; che le patologie neoplastiche rilevate nella coorte dei lavoratori della M., eccezion fatta per i tumori pleurici e peritoneali, avevano eziologia multifattoriale (da fumo e da abuso di bevande alcooliche; e diciannove dei trentotto soggetti considerati erano fumatori); che non era possibile procedere ad una inferenza a livello individuale sulla relazione tra esposizione all'amianto presso M. e cancro della laringe e cancro del polmone, anche per l'assenza di un indicatore biologico dell'entità dell'esposizione quale l'asbestosi; mentre per i tumori al fegato i periti avevano rilevato che, per nessuna delle sostanze nocive per la salute umana impiegate presso lo stabilimento di Acerra, era stata dimostrata la cancerogenicità e che lo stesso eccesso di mortalità per tale patologia non era di univoca interpretazione.
Diversamente, per i decessi derivati da mesotelioma il Tribunale riteneva accertato che tali patologie fossero conseguenza dell'esposizione all'amianto per i lavoratori F.C., G.R. e M.A.; anche per E.A. e L.M. sussisteva una adeguata prova dell'origine professionale della malattia, ma non quella che avrebbe consentito di attribuire rilievo causale proprio all'attività lavorativa espletata presso la M., considerato che l'E.A. aveva operato alle dipendenze della R. di Casoria dal 1954 al 1978, venendo esposto all'amianto, e solo per i tre anni successivi in Acerra, peraltro con mansioni impiegatizie. Analoghe considerazioni venivano espresse a riguardo di G.R.. Per il L.M. non era stata accertata una sicura esposizione all'amianto. Quanto a M.Z., il Tribunale escludeva la stessa sussistenza di una sicura diagnosi di mesotelioma.
Con particolare riguardo all'omicidio colposo in danno del F.C., del G.R. e del M.A., le conclusioni, in punto di nesso eziologico, venivano dal primo giudice fondate su quanto offerto dalla disposta perizia collegiale, che aveva, dapprima, accertato la patologia causa del decesso del lavoratore e,quindi, accertato la connessione tra quella e l'esposizione ad amianto o ad altri fattori di rischio presenti nell'ambiente lavorativo. Esiti peritali che venivano valutati alla luce dei dati e delle considerazioni provenienti dai consulenti della difesa Z. e R., i quali avevano messo in luce la difficoltà della diagnosi di mesotelioma e la necessità, onde avere conclusioni certe, dell'immunoistochimica; sicché il giudice evidenziava che:
- per il F.C. erano disponibili anche le indagini immunoistochimiche, con un marcatore positivo ed un marcatore negativo che, unitamente alla osservazione morfologica ripetuta dal perito, rendeva il quadro complessivo coerente alla diagnosi di mesotelioma peritoneale;
- anche per il G.R. era stata eseguita l'indagine in parola, il cui esito era stato confermato da revisione microscopica di quattro vetrini;
- per il M.A. la diagnosi era stata formulata dal perito prof. B. a seguito del diretto esame di quarantatre vetrini istologici acquisiti durante le operazioni peritali.
Quanto alla riconduzione delle malattie all'esposizione all'amianto presso lo stabilimento di Acerra, il Tribunale premetteva che lo stato delle conoscenze scientifiche non consente di stabilire con certezza il tempo dell'insorgere della patologia; riconosce l'esistenza di un periodo di latenza della stessa, all'interno del quale viene distinta la fase di induzione da quella di latenza vera e propria, che si estende sino a quando non compare la sintomatologia che consente la diagnosi, per poi aversi una ulteriore, breve, fase, di sopravvivenza.
Mentre la durata di quest'ultima è generalmente non superiore a nove mesi, la fase di complessiva latenza oscilla tra i dieci ed i trentacinque anni, mentre la latenza vera è di almeno cinque anni. Quanto alla rilevanza delle dosi di amianto inalate successivamente all'induzione, per il Tribunale dal contributo peritale emerge che esiste una relazione di proporzionalità tra esposizione e mortalità o incidenza di mesotelioma, con la conseguenza che il protrarsi dell'esposizione incrementa il rischio di sviluppare la malattia, sia per l'aumento di probabilità di iniziazione del processo neoplastico, sia per l'incidenza sull'evoluzione della cellula iniziata verso il completamento del processo. Per il Tribunale l'entità della esposizione presenta una correlazione in senso acceleratorio nel caso del mesotelioma, nel senso che ogni esposizione accelera l'avvio del processo di cancerogenesi e aumenta la probabilità di completare l'induzione. Da qui il conclusivo giudizio a riguardo dei lavoratori F.C., G.R. e M.A., una volta valutatane la storia lavorativa, i tempi della manifestazione clinica del mesotelioma e la durata della esposizione all'amianto presso lo stabilimento di Acerra, ed altresì esclusa l'incidenza di fattori causali alternativi - in specie, oltre all'esposizione a erionite e a fluorodenite, l'esposizione ad amianto durante il precedente periodo di lavoro presso la R, di Casoria.
L'affermazione di responsabilità dei direttori di stabilimento veniva, quindi, fondata sull'esercizio delle funzioni durante il periodo in cui la malattia era insorta e/o si era evoluta verso l'irreversibilità - e in ciò anche la ragione della pronuncia di assoluzione del G.R.. Mentre, per i medici aziendali B.O. e S. la condanna trovava fondamento nella riconduzione in capo ai medesimi dell'obbligo di individuare le misure specifiche di protezione e di prevenzione per la salvaguardia della salute dei lavoratori - obbligo discendente almeno dall'art. 7 d.lgs. n. 277/1991 - e, pertanto, di un ruolo attivo di cooperazione con il datore di lavoro e, conclusivamente, di una autonoma posizione di garanzia in materia sanitaria. Individuate, quindi, le condotte omissive rimproverabili ai medici aziendali (mancata visita degli ambienti lavorativi, incompleta conoscenza del ciclo tecnologico e delle sostanze impiegate, mancata collaborazione nella valutazione del rischio, disinteresse per i risultati delle indagini praticate: pg. 139) e, rilevato che il B.O. aveva operato tra l'aprile 1992 e l'agosto 1994 ed il S. dal 1994 in avanti - quindi sotto la vigenza del d.lgs. n. 277/1991 - ed erano stati a conoscenza di una serie di elementi (riepilogati dalla sentenza a pp. 140-142) che avrebbero dovuto indurli ad attivarsi per fronteggiare, secondo le specifiche competenze, il rischio alla salute indotto dalla esposizione dei lavoratori all'amianto, ponendo in essere le condotte che il Tribunale descrive a pg. 141 s., questo li ha ritenuti coautori dei reati quali cooperatori ai sensi dell'art. 113 cod. pen.
La contestazione di cui al capo A), per converso, veniva ritenuta non confermata dalle acquisizioni processuali, in specie in relazione alla necessaria ricorrenza del pericolo per la pubblica incolumità, derivante in particolar modo dalla contestazione del disastro colposo di cui all'art. 449 cod. pen. Infatti, per il Tribunale l'assoluzione in ordine alle morte e alle lesioni contestate agli imputati, fondata sulla mancata prova del nesso di causalità, influiva sul dato dimensionale della complessità e vastità degli eventi dannosi richiesto dalla nozione di disastro; nè era stata dimostrata l'attitudine della condotta contestata a proiettare gli effetti potenzialmente lesivi sì da generare un pericolo per la pubblica incolumità; anzi, quella condotta aveva generato eventi lesivi in casi singoli ed individuati. Ne derivava anche il rigetto della richiesta di risarcimento dei danni avanzata dalle parti civili Codacons e Adiconsum.
3. Con la sentenza,indicata in epigrafe,la Corte di Appello ha parzialmente riformato la decisione sin qui sintetizzata. Da un canto ne ha condiviso l'impianto generale, così pervenendo alla conferma della condanna del F.G., dell'E.G., del P.L., del P.R., dell'A.G. e dello S.R.; alla conferma della declaratoria di estinzione per prescrizione dei reati riflettenti i decessi del G.R. e del M.A.; alla conferma dell'assoluzione di tutti gli imputati per il reato sub A) e del G.R. anche per il reato sub B). Dall'altro, in contraddizione con il primo giudice, ha assolto il B.O. dal reato sub B) ritenendo che egli, nella qualità, non fosse gravato dell'obbligo di cooperazione con la dirigenza aziendale, essendo stato previsto tale obbligo del medico aziendale solo a partire dal 27.11.1994 e rilevando che nel periodo in cui questi aveva svolto le mansioni non era stata diagnosticabile la patologia del F.C.. Ha poi revocato la condanna degli imputati al risarcimento dei danni patiti dai lavoratori che avevano lamentato un danno esistenziale, ritenendo che questo fosse correlabile in astratto al solo delitto di disastro, e quindi non al decesso del F.C.; delitto di disastro che però era stato escluso dal primo giudice, con valutazione condivisa anche dalla Corte di Appello, la quale ha rilevato ulteriormente che la condanna al risarcimento non poggiava sulla prova dell'esistenza e della correlazione del singolo danno al decesso del F.C..
 

 

B) I ricorsi
4. Ricorre per la cassazione della sentenza il Procuratore generale presso la Corte di Appello di Napoli.
Con unitario motivo denuncia 'insufficienza della motivazione' e violazione degli arti. 40 e 41 cod. pen., in relazione al motivo di appello con il quale ci si era doluti della ritenuta non riconducibilità dei carcinomi al polmone e alla laringe "alla condotta assunta dalla M.", consistita nella mancata mappatura del rischio e nell'omesso monitoraggio sanitario dei lavoratori. 
Nell'atto di appello si era censurato che il Tribunale non avesse correlato la legge scientifica al dato processuale e,quindi non incluso la condotta gravemente omissiva della M. s.p.a. nel processo causale, almeno quale concausa, dell'insorgenza dei carcinomi e dei decessi dei lavoratori. La Corte di Appello sul punto ha reso una motivazione "assai poco esaustiva", perché incentrata sulla competenza dei periti laddove era stata censurata la erroneità del giudizio contro-fattuale: "si chiedeva di spiegare, proprio alla luce della sentenza 'Franzese' perché la accertata condotta omissiva del datore di lavoro incidente su patologie sensibili all'amianto e la numerosità dei morti per aver contratto carcinomi su organo deputato alla respirazione, in via di alta probabilità logica, erano elementi di nullo rilievo penale, di nulla credibilità razionale".
Rammenta l'esponente che il giudizio controfattuale di alta probabilità logica è sorto per mitigare la teoria che affidava alla sola scienza la risoluzione di casi giudiziali, rimanendo indifferente al dato processuale. E lamenta che le sentenze di merito non abbiano fatto corretta applicazione dei principi posti dalla sentenza Franzese, pur citandola, confermando un giudizio controfattuale basato esclusivamente sul dato scientifico.
5. Ricorre per la cassazione della sentenza l'avv. Omissis, nell'interesse delle parti civili OMISSIS articolando i motivi di seguito riassunti.
5.1. Violazione di legge in relazione agli artt. 449 e 437, co. 2 cod. pen., nonché vizio di motivazione, sub specie di omessa motivazione e travisamento del fatto, in relazione alla ritenuta insussistenza di responsabilità per le morti conseguenti a patologie diverse dal mesotelioma.
Rileva l'esponente che la Corte di Appello ha ritenuto non potersi configurare la violazione degli artt. 437 e 449 cod. pen. per la mancata prova della diffusività del pericolo della condotta, essendo stata accertata la ricorrenza di soli tre casi di decesso determinati dall'esposizione all'amianto presso la M. di Acerra; e,pertanto,per non essere stata dimostrata la ricorrenza di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, pur se non immani.
In tal modo la Corte di Appello ha confuso il pericolo richiesto per la configurabilità del reato con l'evento lesivo che può costituirne l'effetto; né il disastro deve necessariamente assumere, nell'evento che ne consegue, proporzioni immani per la prova della diffusività del pericolo. Essendo il disastro innominato colposo un reato di pericolo non occorre il verificarsi di fatti delittuosi ad esso relativi, risultando sufficiente che si metta in pericolo la salute o l'incolumità di un numero indeterminato di persone. La circostanza che si sia verificata una generalizzata aerodispersione delle fibre di amianto integra il requisito della messa in pericolo della salute e dell'incolumità fisica di un numero indeterminato di persone; inoltrerà tutela apprestata dalla norma si estende anche all'incolumità di singoli lavoratori e l'aggravante di cui all'art. 437, co. 2 cod. pen. ricorre anche ove si verifichi in infortunio individuale sul lavoro. Entrambe le sentenze hanno accertato che tre lavoratori, il F.C., il M.A. ed il G.R., sono deceduti per mesotelioma causato dall'esposizione lavorativa all'amianto.
Il travisamento del fatto e la contraddittorietà motivazionale vengono rinvenute laddove la Corte di Appello ha sì rilevato la menzionata aereodispersione ma senza metterla in correlazione con i tumori polmonari; ed ha valorizzato il tema della diffusività del pericolo all'esterno dello stabilimento nonostante essa non fosse contestata.
Per altro verso si rileva che il reato di cui all'art. 437, co. 2 cod. pen. prevale su quello di cui all'art. 449 cod. pen. in relazione ai disastri previsti dall'art. 434 cod. pen., poiché l'elemento materiale di quest'ultimo è interamente contenuto in quello di cui all'art. 437, co. 2 cod. pen. e la clausola di riserva presente nell'art. 434 riguarda solo i reati di cui agli articoli ad esso precedenti. Ne deriva che il delitto di cui all'art. 437, co. 2 cod. pen. assorbe i delitti di disastro, di lesioni e di omicidio colposi.
Per il profilo della omessa motivazione l'esponente fa riferimento al "dissolvimento straordinario anche della contestazione di cui all'art. 437, c. 2 C.p.", avvenuto senza una sufficiente motivazione.
Ancora, si evoca il travisamento del fatto, asserendo che esso sarebbe "rilevabile dal testo del provvedimento impugnato, foll. 135-139", e spiegando che sarebbe consistito nel valutare come prova negativa del disastro le morti per patologie oncologiche diverse dal mesioteloma, siccome sintomo di una non significativa aerodispersione delle fibre d'amianto nell'ambiente di lavoro; nonostante sia stata documentata la loro presenza in ogni reparto dello stabilimento di Acerra.
L'omessa motivazione si indica anche a riguardo delle richieste risarcitorie per i fatti diversi dall'omicidio; la costituzione delle parti civili era stata fatta anche per i reati contravvenzionali e quindi il diritto al risarcimento era maturato anche per essi e nei confronti anche del responsabile civile.
5.2. Con un secondo (ancorché recante numerazione '4') motivo si denuncia "travisamento del fatto, motivazione illogica e/o apparente, violazione di legge in relazione alla esclusione dei carcinomi polmonari e delle altre patologie oncologiche ... dal novero delle patologie causalmente collegate all'amianto".
Il motivo si incentra sulla motivazione resa dalla Corte di Appello a riguardo della impossibilità di dare dimostrazione del nesso causale tra l'esposizione all'asbesto, la malattia del lavoratore ed il decesso dello stesso, a riguardo di quei lavoratori operanti presso lo stabilimento di Acerra che erano non fumatori e furono colpiti da carcinoma polmonare, per i quali la Corte di Appello ha mandato assolti gli imputati sull'assunto della assenza di prova certa che non avessero agito fattori diversi dall'asbesto. L'esponente lamenta che la Corte di Appello non ha espresso alcuna autonoma considerazione sul materiale fornito dalla difesa; che non ha rilevato il contrasto tra le dichiarazioni rese in sedi giudiziarie diverse dal prof. T.; che ha travisato i criteri) del "Consensus Conference" di Helsinky; che ha immotivatamente pronunciato "il rigetto della esecuzione di nuova perizia medico legale tendente a stabilire la lacunosità di quella disposta in prime cure"; che non ha dato risposta ai rilievi avanzati con l'atto di appello e che ha errato nell'uso di quanto emerge dai "Quaderni del Mistero della salute", quanto alla significatività, ai fini dell'accertamento del nesso eziologico tra carcinomi polmonari e amianto, della assenza di asbestosi nella popolazione lavorativa della M., posto che la stessa c.t.u. di primo grado aveva smentito la necessaria correlazione tra le due patologie.
5.3. Autonomo motivo è articolato in merito a "travisamento del fatto, omessa motivazione e motivazione illogica in ordine alla causalità tra la patologia che portò a morte G.R. (e) la massiccia esposizione alle polveri di amianto . Assume l'esponente che, posta dalla corte la premessa che i cinque anni antecedenti al decesso sono irrilevanti nel processo patogenetico del mesotelioma, poiché per il G.R. la visita medica preliminare all'accesso in fabbrica avvenne tre anni prima del decesso, non essendo stata rilevata la patologia deve ritenersi che essa sia insorta dopo l'ingresso in M. (11). Le medesime considerazioni vengono formulate a riguardo del lavoratore E.A..
5.4. Violazione di legge, in relazione agli artt. 43 cod. pen. e 192 cod. proc. pen., si denuncia anche in relazione alla motivazione in ordine alla ritenuta assenza di responsabilità degli imputati per le morti da carcinoma polmonare.
La Corte di Appello ha risolto il tema della causalità omissiva e della scelta dei criteri scientifici sui quali ha fondato il proprio convincimento semplicemente indicando la valutazione dei periti quale quella più convincente, senza spiegare le ragioni della ritenuta validità della tesi scientifica portata dai ct del Tribunale (14). Lamenta l'esponente che sia stata ritenuta rilevante l'astratta possibilità di influenza del fumo di tabacco nella cancerogenesi, senza però riscontrare se nel processo fosse emersa la prova della sussistenza del tabagismo. In sintesi, si assume che la corte territoriale non abbia utilizzato correttamente i principi posti dalle SU con la nota sentenza Franzese a riguardo della necessaria esclusione di percorsi causali alternativi, dovendo trattarsi di quei processi che sono stati dimostrati nel processo.
5.5. Con ulteriore motivo si denuncia ancora il vizio di motivazione in relazione all'incidenza data a fattori alternativi solo astrattamente ipotizzabili perché non dimostrati ricorrenti nel caso di specie.
5.6. Si censura, poi, la sentenza impugnata rinvenendo in essa violazione di legge e vizio motivazionale in relazione all'esclusione del risarcimento dei danni in favore degli ex lavoratori per i quali risulta accertata una malattia psichica derivata dall'esser stati esposti a pericolo per la propria salute e dall'aver visto morire compagni di lavoro. La motivazione resa dalla Corte di Appello, secondo la quale il danno esistenziale sarebbe stato risarcibile solo ove fosse stato riconosciuto il reato di disastro, è, per l'esponente, erroneo perché il diritto al risarcimento "trova il suo titolo non nella singola fattispecie criminosa, ma nel nesso eziologico tra condotta ed eventi che saranno oggetto dell'affermazione di responsabilità penale" (19). Il nesso eziologico deve ritenersi tra la sindrome del sopravvissuto e la condotta omissiva in materia di sicurezza pacificamente accertata nel processo.
Analogo motivo si specifica a riguardo della parte civile Omissis, per il quale si asserisce esser stato provato che egli era deceduto in conseguenza delle omissioni prevenzionistiche poste in essere dagli imputati. La Corte distrettuale non ha dato replica al motivo di appello con il quale si impugnava l'esclusione del diritto degli eredi costituitisi parti civili al risarcimento dei danni.
Si denuncia, poi l'omessa motivazione in ordine all'appello proposto da B.A. ed il travisamento del fatto, non avendo dato replica la Corte di Appello al motivo di impugnazione che denunciava l'errore nel quale era incorso il primo giudice ritenendo che il B.A. avesse avuto quale sede di lavoro Milano, anziché Acerra.
Vizio motivazionale si rinviene anche a riguardo della statuizione con la quale è stato escluso il diritto al risarcimento dei soggetti ex dipendenti, sull'assunto che essi si fossero costituiti in giudizio quali eredi del sig. F.C.; ben diversamente, essi si erano costituiti per far valere il danno riportato in conseguenza dell'insorgere di loro propria malattia psichica, derivata dalla conoscenza dell'esser stati esposti a un grave fattore di pericolo per la salute.
Ci si duole, ancora, della omessa motivazione e della mancata assunzione di prova decisiva, nonché di violazione di legge, a riguardo della mancata acquisizione dell'elaborato tecnico dell'ing. P.. Poiché il dato di maggior rilevanza nel processo era costituito dalla quantità e dalla ubicazione dell'amianto friabile e quindi dall'esposizione ad esso di tutti i lavoratori, risulta "bizzarra" la motivazione con la quale la Corte di Appello ha ritenuto non necessaria la sua acquisizione, senza esprimersi sulla validità scientifica del contributo.
Si lamenta, infine, che la Corte di Appello abbia revocato le statuizioni concernenti le spese delle parti civili, per contraddittorietà tra motivazione e dispositivo.
6. Ricorre per la cassazione della sentenza l'avv. Omissis, nell'interesse di Adiconsum, Associazione Italiana Difesa Consumatori ed Ambiente, quale persona offesa costituitasi parte civile (art. 428, co. 2 cod. proc. pen.).
6.1. Con un primo motivo lamenta la nullità della sentenza per aver la Corte di Appello omesso l'esame delle richieste avanzate ai sensi dell'art. 121 cod. proc. pen. il 7.4.2014.
6.2. Chiede, ancora, l'annullamento della sentenza del Tribunale di Nola per violazione dei d.p.r. n. 547/1955, 303/1956, 1124/1965, della legge n. 780/1975, del "d.lgs. 15 agosto 1991" e della legge n. 257/1992. Nell'articolazione del motivo l'esponente asserisce che sono stati commessi ottantotto omicidi volontari plurimi aggravati dal nesso eziologico e dalla premeditazione, sicché si impone una diversa qualificazione dei fatti, con conseguente applicazione dell'art. 21 cod. proc. pen. Si sostiene l'affermazione con il richiamo degli elementi processuali dai quali si ricava la sussistenza dell'esposizione all'amianto dei lavoratori dello stabilimento di Acerra della M. s.p.a., concludendo che il disastro colposo realizzato implica in re ipsa un danno alla salubrità dell'ambiente di lavoro e di quello circostante, con conseguente diritto al risarcimento dei danni patiti iure proprio dalla Adiconsum.
7. Ricorre per la cassazione della sentenza la responsabile civile M. s.p.a.
7.1. Con un primo motivo si denuncia violazione di legge e vizio motivazionale, a riguardo della ricostruzione in forza della quale è stato ritenuto il nesso causale tra le esposizioni all'amianto durante l'attività lavorativa presso lo stabilimento di Acerra ed i mesoteliomi subiti dai lavoratori F.C., G.R. e M.A.. Il motivo viene articolato in più punti.
Un primo attiene alla "illogicità della motivazione sulla causalità generale".
Dopo aver rammentato i principi giuridici espressi da questa Corte in materia di causalità generale e causalità individuale (sentenza Franzese) e del ruolo del giudice rispetto al sapere scientifico (sentenza Cozzini), il ricorrente lamenta che la Corte di appello, al riguardo del tema dell'effetto acceleratore dell'esposizione a fibre di amianto abbia assunto una congettura dei periti di ufficio quale scienza corroborata, laddove la giurisprudenza di legittimità richiede di fondare il giudizio di responsabilità unicamente su acquisizioni scientifiche accettate dalla comunità scientifica.
Rileva l'esponente che "sulla maggior parte dei punti trattati, e d'interesse nel processo, i periti hanno esposto un sapere condiviso, in sintonia con i consulenti sia del PM che della difesa ... Sull'effetto acceleratore, i periti hanno espresso una loro opinione, e hanno dato atto, correttamente, di un quadro di opinioni divergenti. Hanno anche dato atto del carattere congetturale di talune loro opinioni: appunto questo è il senso del salto di fantasia evocato dal prof. T...." In particolare, secondo quanto emerso nel processo, risulta condiviso che il mesotelioma può avere causa nell'Inalazione di absesto anche a bassissime dosi; che il tempo di latenza, ovvero quello che corre tra la prima esposizione e la diagnosi, è nella maggioranza dei casi stimato intorno alle decine di anni (trentacinque anni nelle affermazioni del Tribunale, tra 15 e 50 per la Corte di Appello); che la cancerogenesi del mesotelioma può essere descritta secondo un modello multistadio, per il quale il protrarsi della esposizione incrementa il rischio di sviluppare la malattia; che la durata dell'esposizione è un indicatore di rischio meno preciso e che non esiste una soglia di esposizione al di sotto della quale ulteriori incrementi di dose non portino più ad alcun aumento di mortalità o di incidenza; infine, che le esposizioni più lontane nel passato - a parità di condizioni - sono più pericolose di quelle recenti.
All'interno di questo quadro, secondo quanto riferito dai periti, l'esistenza di un effetto acceleratore dell'esposizione non costituisce il portato di una legge scientifica sufficientemente radicatala l'opinione di taluni pur autorevoli ricercatori; anche in relazione al persistere nel tempo dell'effetto acceleratore non vi sono condivise conoscenze scientifiche perché permangono incertezze sulla durata della fase di induzione (iniziazione e promozione del processo), sicché non è possibile stabilire quando essa finisce ed inizia quella della latenza in senso proprio, cioè il periodo tra il completamento dell'induzione e la manifestazione del cancro, nel quale l'ulteriore esposizione non ha effetto causale. Con la conseguenza che non è possibile stabilire quale sia l'effetto delle singole esposizioni succedutesi: se esse abbiano o meno inciso sull'induzione.
Sicché, nonostante il sapere scientifico possa svolgere la funzione di fondamento di una affermazione di responsabilità solo ove trovi comune accettazione nella comunità scientifica, la Corte di Appello ha affermato l'esistenza dell'effetto acceleratore discostandosi dal criterio espresso dalla giurisprudenza di legittimità e traendo, dall'adesione al modello multistadio, conseguenze che non sono in esso implicate.
Un secondo rilievo dell'esponente muove dalla assunzione ipotetica della teoria dell'effetto acceleratore, per formulare all'indirizzo della sentenza impugnata la censura di una omessa motivazione in ordine ai nessi causali concreti tra esposizione all'amianto e le patologie sofferte dal F.C., dal G.R. e dal M.A.. E' stato precisato dai periti che la legge scientifica che prevede l'aumento della incidenza di mesotelioma in funzione della durata e dell'intensità dell'esposizione è di tipo probabilistico, nel senso chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (sentenza Cozzini): la relazione si concretizza non immancabilmente ma solo in una definita percentuale di casi. Sarebbe stato,quindi, necessario accertare se anche nei casi concreti si era realizzata quella relazione, mentre invece, è mancata qualsiasi ricostruzione della cd. causalità individuale.
Un terzo punto investe il passo in cui la Corte di Appello ha affermato che le inalazioni hanno rilevanza causale sino a un periodo convenzionalmente indicato in 5 anni prima della manifestazione clinica. Osserva l'esponente che in nessun atto del processo si rinviene l'affermazione di un periodo convenzionale di inefficacia dell'esposizione; il che mette a nudo l'assenza di incontroversa base scientifica dell'assunto.
7.2. Con un secondo motivo di ricorso viene denunciata la contraddittorietà della motivazione in merito alla diagnosi di mesotelioma concernente F.C..
Assume l'esponente che la Corte di Appello ha ritenuto che il decesso del lavoratore fosse stato dovuto al mesotelioma, nonostante la relazione peritale avesse indicato un grado intermedio di affidabilità della diagnosi, e ciò perché fa affidamento decisivo su una frase del prof. B., secondo il quale "c'è sufficiente materiale per ritenere la diagnosi attendibile". Rammentato che per il massimo livello di certezza diagnostica occorre l'immunoistochimica e che nel caso concreto i periti avevano affermato che la diagnosi sul F.C. è solo parzialmente supportata dai risultati dalle indagini immunoistochimiche, l'esponente conclude che un grado intermedio di affidabilità sta a significare la persistenza di un dubbio ragionevole.
7.3. Con un terzo motivo si denunciano violazione di legge e vizio motivazionale a riguardo della asserita esposizione del F.C. all'amianto e alla ritenuta inosservanza di regole cautelari, nonché sulla causalità della colpa.
In primo luogo, rammentato che la Corte di Appello ha affermato che la presenza dell'amianto nello stabilimento non era ubiquitaria e aveva misura moderata, l'esponente lamenta che la corte distrettuale non si sia confrontata con i dati analitici che erano stati documentati e riassunti nell'atto di appello (esposti anche nel ricorso), che rappresentavano un quadro di conformità dell'ambiente di lavoro alle prescrizioni vigenti. I giudici di merito hanno quindi negato rilievo alla mancanza di prova di superamenti di limiti legalmente stabiliti circa la presenza in atmosfera di polveri di amianto, ed hanno fatto ricorso al principio della massima sicurezza fattibile ma senza indicare quali fatti avrebbero integrato le inosservanze dei diversi direttori dello stabilimento, nel tempo succedutisi. Sul piano della descrizione delle condotte che ognuno degli imputati avrebbe dovuto tenere, alla luce dei dati di fatto e delle prescrizioni vigenti al tempo, la sentenza impugnata è silente. Come mancante è la motivazione a riguardo della causalità della colpa, avendo la Corte di Appello confuso la valutazione del nesso di causa 'materiale' con quella della causalità della colpa, la quale avrebbe richiesto, non già di poter affermare che l'esposizione all'amianto era stata causa delle patologie,ma che i comportamenti doverosi esigibili da ciascun imputato avrebbero inciso sull'insorgenza o sulla progressione delle patologie. 
8. Hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati F.G., P.L., P.R., A.G. e S.R., a mezzo del comune difensore avv. Omissis.
Il testo del ricorso è identico a quello redatto per il responsabile civile e se ne discosta unicamente per i seguenti, aggiuntivi rilievi, concernenti le specifiche posizioni degli imputati ricorrenti.
In relazione al F.G. e al P.L. si osserva che negli anni in cui questi assunsero il ruolo (rispettivamente dal 12.4.1978 al 1.6.1981 e dal 1.12.1983 al 2.6.1985), i valori soglia erano fissati per l'amianto in misura di gran lunga superiore alle concentrazioni moderate e non ubiquitarie delle quali parla la Corte di Appello; se anche gli imputati fossero stati a conoscenza della presenza dell'amianto nelle coibentazioni ciò non avrebbe potuto rappresentare un segnale di allarme atteso il diffuso uso del materiale nei più diversi settori; il F.C. lavorò alle loro dipendenze con mansioni che non comportavano un contatto, nemmeno indiretto, con fibre di amianto; altrettanto si afferma per il G.R. e per il M.A..
A riguardo del P.R., che fu direttore dello stabilimento tra il 2.8.1990 ed il 1.6.1993, si lamenta la mancanza di accertamento in ordine alla causalità della colpa, posto che delle violazioni prevenzionistiche rinvenute non è stata indagata la rilevanza sul decorso della patologia del F.C., certamente già insorte in epoca precedente all'assunzione della funzione da parte dell'imputato.
Con riferimento all'A.G. si pone in rilievo che al tempo della sua dirigenza non esisteva in azienda un rischio amianto e che una eventuale - ma negata - esposizione del F.C. non avrebbe mutato l'esito della malattia, posto che sono otto gli anni che separano il periodo di dirigenza dell'A.G. dal decesso del lavoratore.
In relazione alla affermazione di responsabilità del medico aziendale S.R., si opera una ricognizione del quadro normativo, per come si é andato evolvendo nel tempo, per contestare in linea generale che il medico aziendale fosse titolare di obblighi in merito alla salubrità dell'ambiente di lavoro, e per descriverne il ruolo come limitato alle attività di informazione sanitaria al datore di lavoro. Si conclude, quindi, nel senso della erroneità della sentenza, che ha rimproverato allo S.R. di aver tenuto una condotta negligente, incidente sulla omessa predisposizione di una strategia aziendale di messa in sicurezza dei lavoratori, nucleo di una operazione colposa causativa dell'evento; di non aver presentato alcuna osservazione e di non aver interloquito con la dirigenza nonostante il rischio derivante dalle condizioni di lavoro. Si dubita, infine, che una eventuale diversa condotta dello S.R. potesse incidere sul decorso della patologia del F.C..
Con un ulteriore motivo si lamenta violazione di legge e vizio motivazionale in relazione al trattamento sanzionatorio.
L'esponente censura sia la scelta di non riconoscere le attenuanti generiche e di infliggere una pena più alta del minimo edittale nonostante agli imputati venga rimproverato non di aver causato la malattia ma di averne accelerato il decorso; sia la scelta di una pena eguale per tutti, nonostante gli anni che separavano la dirigenza dell'uno da quella dell'altro, la diversità delle funzioni di direttore e di medico; si lamenta, poi, il silenzio mantenuto dal giudice su molti altri elementi pur rilevanti.
Con un ultimo motivo si denuncia la violazione dell'art. 525, co. 2 cod. proc. pen. e vizio di motivazione.
Con l'atto di appello si era dedotta la nullità assoluta del decreto che dispone il giudizio perché emesso da giudice dell'udienza preliminare diverso da quello dinanzi al quale si era celebrata una precedente udienza sino alla presentazione delle conclusioni da parte del P.m. Il rigetto dell'eccezione pronunciato dalla Corte di Appello è per l'esponente viziato in diritto, perché applica erroneamente il principio dell'immutabilità del giudice che, affermato anche in relazione alle udienze camerali tipiche, a maggior ragione deve ritenersi valido per quelle a contraddittorio necessario. La discussione nell'udienza preliminare non può essere considerata attività meramente ordinatoria, tanto più che l'udienza può esitare in una sentenza, pronunciabile solo dal giudice che ha presenziato alle attività che concorrono alla formazione del convincimento.
9. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza infine E.G., a mezzo del difensore avv. Omissis.
9.1. Il primo motivo attiene a violazione di legge (artt. 40 e 589 cod. pen.) e a vizio motivazionale in ordine alla asserita esposizione all'amianto di F.C. tra il 1.6.1981 ed il 30.11.1983.
Si sostiene che durante la direzione dell'E.G.,il F.C. era addetto al laboratorio di controllo di qualità del filo e che non è stato accertato se egli, svolgendo tale mansione, fosse esposto all'inalazione di amianto. Pur avendo più volte affermato che la presenza dell'amianto in azienda era moderata e non ubiquitaria e che il pericolo rimaneva circoscritto agli operai manutentori e a quelli a contatto con le linee a caldo nei reparti Filo, Fiocco Poy e Saus, la Corte di Appello non ha tenuto conto che il F.C. non rientrava tra questi, sicché non ha spiegato perché ha ritenuto il lavoratore esposto all'amianto, nonostante nell'atto di appello, a pg. da 12 a 26, la questione venisse posta in termini specifici.
Di qui le censurate violazioni: dell'art. 589 cod. pen. per aver la corte territoriale condannato l'imputato per omicidio colposo senza accertare se il lavoratore era stato esposto all'amianto nel periodo di direzione; dell'art. 40 cod. pen. per aver omesso di esaminare il nesso causale specifico; ed il vizio motivazionale, per la contraddizione tra la descrizione dell'estensione del rischio amianto e le conclusioni cui si perviene. 
9.2. Il secondo motivo denuncia i medesimi vizi, riferiti alla motivazione in punto di diagnosi di mesotelioma per il F.C..
Rammentato che i periti avevano riferito della difficoltà diagnostica proposta dal mesotelioma, e della correlata necessità di immunoistochimica corredata da almeno due marcatori positivi e due marcatori negativi, e che il prof. B. ha riferito che per il F.C. il mesotelioma è solo probabile e non certo, l'esponente afferma che la Corte di Appello ha disatteso il concorde giudizio dei periti, valorizzando una frase pronunciata in udienza dal prof. B., espressiva solo di una sua valutazione soggettiva e contestata dal prof. R.. Si rileva, quindi, che il perito non è chiamato a dare una propria valutazione soggettiva ma a riferire al giudice le acquisizioni scientifiche cui si è pervenuti.
9.3. Si censura, con ulteriore motivo, ancora violazione di legge e vizio motivazionale in relazione alla ritenuta rilevanza delle esposizioni succedutesi nel tempo.
La Corte di Appello, nell'optare per la teoria di un effetto acceleratore delle esposizioni successive alla fase di iniziazione, ha operato una forzatura dell'assunto dei periti, che si sono espressi in termini assolutamente cauti. Inoltre, si è ignorato il profilo della causalità individuale, peraltro, da analizzare con specifico riferimento al periodo di dirigenza dell'E.G., tenendo presente che i periti hanno affermato non esser conoscibile il momento del passaggio dalla induzione alla latenza propriamente detta. Sulla base di una affermazione fatta in udienza dal prof. T. la Corte di Appello ha ritenuto di poter fissare il termine di cinque anni dalla manifestazione della malattia, con ciò fraintendendo quella affermazione, intendendola come equivalente all'affermazione che oltre quel termine le esposizioni sono sicuramente rilevanti.
9.4. Ancora violazione di legge e vizio motivazionale si lamentano a riguardo della ritenuta sussistenza della colpa.
La difesa aveva posto il tema della applicabilità nel caso di specie - e quindi con riferimento al periodo dell'E.G. - dell'art. 21 d.p.r. 303/1956, perché questo fa riferimento a casi di esposizioni molto consistenti alle polveri di amianto. La Corte di Appello non ha svolto alcun accertamento circa la ricorrenza di un simile presupposto. Inoltre, ha marginalizzato la presenza di aspiratori perché funzionali al ciclo produttivo, nonostante essi svolgessero,comunque, la funzione di abbattere le polveri; e non ha tenuto conto delle specifiche mansioni e della allocazione del posto di lavoro del F.C., addetto al laboratorio di controllo della qualità del filo, collocato ben lontano dalle parti calde dell'impianto del reparto Filo, peraltro nuovo, proprio perché aperto nel 1982. Sicché ha affermato la colpa dell'E.G. senza considerare i dati di fatto che le erano stati segnalati.
Inoltre, trattando della esigibilità di condotte alternative, non è stato indicato quali misure di protezione avrebbero potuto evitare l'esposizione all'amianto del F.C., visto che l'ambiente di lavoro di questi era dotato di sistemi di condizionamento ed era privo di amianto.
A tal riguardo la Corte di Appello ha anche frainteso il senso della questione posta dalla difesa in punto di prevedibilità dell'evento, che non si intendeva riferire alla cancerogenicità dell'amianto bensì alla possibilità per l'E.G., stante il quadro ambientale appena descritto, di prevedere che un'esposizione assolutamente occasionale e sporadica del lavoratore F.C. potesse produrre un effetto nocivo alla sua salute.
9.5. Un ultimo motivo investe il trattamento sanzionatorio. Diversamente da quanto ritenuto dalla Corte di Appello l'imputato non aveva sollecitato il riconoscimento delle attenuanti generiche sulla base dello stato di incensuratezza, ma aveva evidenziato il comportamento processuale e quello post factum; dati che la Corte di Appello non ha in alcun modo valutato. Lamenta poi l'inflizione di pene uguali per tutti gli imputati, carente di adeguata motivazione.
10. In data 2.9.2016 è pervenuta 'Memoria nell'interesse del responsabile civile M. spa' nella quale si ribadiscono le argomentazioni poste a sostegno del ricorso e si argomenta in merito alla ritenuta 'inconsistenza del ricorso del Pg sui tumori polmonari'. In particolare si rimarca l'erroneità e la carenza della motivazione resa dalla Corte di Appello a riguardo della sussistenza della colpa, intesa come violazione di regola cautelare, sia per la mancanza di prova del superamento di valori soglia indicati dalla normativa, sia per aver fondato il rimprovero su regola cautelare difforme da quella codificata, valorizzando il principio di massima sicurezza tecnologicamente fattibile a scapito dei valori soglia indicati dalla legislazione.
Inoltre, poiché la regola cautelare è modale e quindi deve avere un contenuto ben determinato, la motivazione si mostra carente nell'indicazione dei mezzi da adottare e dei risultati da raggiungere, in relazione alla misura del rischio amianto ritenuto esistente (e che non è stato accertato con riferimento ai vari periodi).
L'esponente si sofferma poi sulla motivazione anche per rimarcare l'assenza di trattazione del problema della causalità della colpa rispetto alla morte del F.C..
 

 

Diritto

 


11. Assume carattere pregiudiziale il motivo di ordine processuale proposto dalla difesa degli imputati patrocinati dall'avv. Omissis, poiché esso, qualora fondato, determinerebbe l'annullamento della sentenza impugnata per tutti i ricorrenti.
Il motivo è infondato.
Si può convenire con l'esponente che nell'evoluzione della giurisprudenza di legittimità l'ambito di applicazione del principio di immutabilità del giudice è stato esteso sino a comprendere le udienze camerali (Sez. 1, n. 4927 del 17/12/1991 - dep. 17/01/1992, Ciacci, Rv. 188906), ancorché l'art. 525 cod. proc. pen. sia disposizione che apre il Capo I del Titolo III, subito seguente quello che disciplina il dibattimento, e faccia esso stesso riferimento alla partecipazione 'al dibattimento'. Tanto esclude che rimangano sottratte al principio in parola quelle ipotesi nelle quali l'esito del giudizio non assume la forma tipica della decisione dibattimentale, la sentenza.
Ma proprio le ragioni di fondo di siffatto principio, quelle stesse che hanno motivato una sua più ampia applicazione, concorrono a descriverne anche i limiti; limiti in forza dei quali si ritiene che tale principio non sia azionabile quando il giudice sostituito, nel corso dell'udienza preliminare, non abbia compiuto alcuna attività istruttoria (come quando sia stato eseguito incidente probatorio, in quanto esso non è parte dell'udienza preliminare) (Sez. 5, n. 11938 del 09/02/2010 - dep. 26/03/2010, Mortillaro e altri, Rv. 246896). Il compimento dell'istruttoria è, invero, il dato che, rappresentando l'in sé del dibattimento (cfr. Sez. 2, n. 32367 del 17/07/2013 - dep. 24/07/2013, P.G. in proc. Baldi e altri, Rv. 256559), impone l'identità del giudice deliberante. Su tali premesse è stato affermato che il principio di immutabilità del giudice non trova applicazione nel giudizio abbreviato cd. semplice (cioè senza integrazione probatoria), rimarcandosi che l’art. 442 cod. proc. pen. non richiama l’art. 525 cod. proc. pen. e che questa disposizione si riferisce ad una deliberazione emessa all'esito di un dibattimento caratterizzato per essere la sede di formazione della prova (Sez. 2, n. 32367/2013, cit., che ha precisato come nel giudizio abbreviato sia applicabile il principio di immediatezza - che impone che il giudice che ha assistito alla discussione proceda alla deliberazione - che è liberamente rinunciabile dalle parti). In sintesi, il principio di immutabilità del giudice ha riguardo alla identità fisica del giudice che assume la prova e decide. Riprova ne sia la ferma esclusione dell'applicazione del principio allorché il mutamento della persona del giudicante intervenga esclusivamente per la decisione incidentale sulla ammissibilità di un rito alternativo (Sez. 3, n. 30416 del 01/07/2016 - dep. 18/07/2016, P.G. in proc. Bianco, Rv. 267353); quando la decisione sulla richiesta di sospensione del dibattimento, al fine di valutare la possibilità di richiedere il cosiddetto patteggiamento "allargato", è stata assunta da un giudice in composizione collegiale diversa rispetto alle precedenti udienze (Sez. 3, n. 44393 del 13/10/2010 - dep. 16/12/2010, C. e altro, Rv. 249118); e lo si afferma vincolante nel procedimento di sorveglianza, perché pur sempre caratterizzato da un'attività semplificata di raccolta del materiale probatorio (Sez. 1, n. 17146 del 05/04/2016 - dep. 26/04/2016, Loi, Rv. 267242).
Nel caso di specie il menzionato principio viene evocato a riguardo dell'udienza preliminare conclusasi con l'emissione del decreto che dispone il giudizio; udienza che non ha visto svolgersi alcuna attività istruttoria. Correttamente, quindi, la Corte di Appello ha escluso che vi fosse materia per l'applicazione del principio di immutabilità del giudice. L'accento posto dalla difesa sulla estensione del principio al giudizio cartolare non coglie il fulcro della disciplina, incentrata, come già rilevato, sullo svolgimento dell'istruttoria, alla quale non può equipararsi ex se la discussione sulla richiesta di rinvio a giudizio.
12. Per una più snella trattazione risulta utile prendere le mosse dall'esame dei ricorsi proposti dagli imputati e dal responsabile civile, i quali possono essere trattati unitariamente, stante la prevalente comunanza dei motivi proposti. Ovviamente, si tratteranno partitamente le censure espresse specificamente per taluno degli imputati.
12.1. Assumono carattere pregiudiziale il secondo motivo del ricorso della responsabile civile, del ricorso a firma dell'avv. Omissis e del ricorso E.G., che censurano la motivazione nella parte in cui ha riguardato l'accertamento della natura della patologia all'origine del decesso del F.C., ritenuta essere un mesotelioma peritoneale.
Portando l'attenzione sulle espressioni utilizzate dalla relazione peritale, i primi ricorrenti sostengono che "un grado intermedio di affidabilità fornisce un'affidabilità non completa; nello scarto rispetto al massimo grado di affidabilità c'è spazio per un dubbio ragionevole". Poiché i periti hanno definito di grado intermedio di affidabilità la diagnosi concernente il F.C., risulterebbe il dubbio ragionevole sulla natura della malattia, con evidenti riflessi sul giudizio conclusivo, che non potrebbe che essere assolutorio.
Va dato atto ai ricorrenti che la motivazione resa sul punto dalla Corte di Appello è quanto mai contratta. A pg. 124 si legge che l'interpretazione dei difensori appellanti non riposa su una corretta disamina degli atti processuali i quali "hanno fornito elementi ulteriori e convergenti sul giudizio diagnostico del F.C., che, conformemente alla valutazione del giudice impugnato, convergono in termini di sufficiente certezza sulla diagnosi della patologia sofferta quale mesotelioma peritoneale". Ma una simile motivazione lascia emergere agevolmente la complessità e la compiutezza di quanto è da essa soltanto evocato non appena si pone in connessione con quanto esplicitato con dovizia di dettagli e valutazioni dal Tribunale, come a breve si scriverà. Nel caso che occupa vale il principio per il quale, ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013 - dep. 04/11/2013, Argentieri, Rv. 257595).
Orbene, è senz'altro fondata la pretesa di veder edificata l'affermazione di responsabilità per aver cagionato per colpa una malattia (o una lesione) e, con questo, la morte di una persona sulla certezza della identità della malattia medesima. 
In tema di responsabilità medica questa Corte ha già rimarcato che, nell'affrontare il tema del nesso di causalità, il giudizio controfattuale - imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, avrebbe potuto evitare l'evento - muova preliminarmente dall'accertamento di ciò che è accaduto (c.d. giudizio esplicativo), per il quale deve essere raggiunta la certezza processuale (Sez. 4, n. 23339 del 31/01/2013 - dep. 30/05/2013, Giusti, Rv. 256941).
Già il Tribunale si era confrontato, in merito alla diagnosi di mesotelioma pleurico concernente il F.C. (ma non solo) con la questione della necessarietà o meno di indagini di tipo istologico, rappresentata dal consulente tecnico R., per il quale l'immunoistochimica è allo stato l'unica tecnica capace di distinguere un mesotelioma pleurico da altre patologie tumorali similari, quali l'adenocarcinoma primitivo del polmone. Il Tribunale ha preso in esame il dato introdotto dal consulente, operando una approfondita disamina dello stato delle conoscenze scientifiche in tema di metodologia diagnostica del mesotelioma, avvalendosi di quanto introdotto nel giudizio dal perito prof. B..
Le argomentate conclusioni alle quali è pervenuto il B. - che non sono criticate dai ricorrenti - sono nel senso della riconosciuta rilevanza della immunoistochimica, che tuttavia è metodica, né esclusiva, né elettiva, poiché "l'approccio consigliabile è pur sempre quello di carattere multidisciplinare". Una multidisciplinarietà imposta dalla soggettività di interpretazione del quadro microscopico intrinseca alla diagnostica istopatologica, implementata nel caso del mesotelioma dalla varietà morfologica e dalla versatilità istologica capace di mimare altre patologie. Sicché, ha riferito il perito e riportato il Tribunale, sono nel tempo emersi parametri supplementari alla morfologia microscopica - che va integrata da citologia e analisi biochimica sul liquido di versamento, da istochimica enzimatica per mucosostanze - ovvero la morfologia macroscopica, le indagini strumentali, l'anamnesi e altri dati clinici. In tale quadro l'immunoistochimica è una tecnica di laboratorio di aiuto alla sola valutazione morfologica microscopica dei preparati istologici; essa, secondo le raccomandazioni dell'International Mesothelioma Panel e della II Consensus Conference italiana sul mesotelioma, deve avvalersi di un pannello anticorpale discriminante tra mesotelioma epiteliale e metastasi pleurica di adenocarcinoma che include almeno due marcatori positivi per mesotelio e due marcatori negativi. Il B. ha poi riferito che alcuni studi risalenti alla metà degli anni 90 del secolo scorso e poi uno studio del 2010 hanno evidenziato che "l'informazione aggiuntiva fornita dalla immunoistochimica non variava più di tanto le diagnosi, rispetto a quelle espresse con la colorazione routinaria in ematossilina-eosina".
E, quindi, facendo riferimento alla classificazione del sistema di voto adottato dal CEC Mesothelioma Panel della C.E.E. ai fini dei Registri Nazionali del Mesotelioma, che egli ha parlato di diagnosi 'probabile' di mesotelioma pleurico (come si vedrà, si verificherà al riguardo uno slittamento, invero irrilevante nel complessivo assetto, dalla specificazione 'pleurico' a quella 'peritoneale').
Si tratta, quindi, non di un giudizio in termini assoluti, ma riferito ad un particolare sistema di classificazione. Tanto che la valutazione del perito, operata sulla scorta dell'esame istologico, del referto delle indagini immunoistochimiche avente esito positivo alla Citocheratina e all'Erma ed esito negativo al Cea, nonché sulla base della osservazione morfologica ripetuta dal perito medesimo su dieci vetrini istologici acquisiti in sede di perizia, è stata quella di un "quadro complessivo coerente con la diagnosi di mesotelioma maligno del peritoneo".
Il Tribunale ha ponderato l'attendibilità di tali valutazioni anche considerando la particolare competenza del B., apprezzata alla luce della trentennale esperienza nel campo della diagnosi del mesotelioma; ed ha ritenuto che la perdurante incertezza diagnostica ritenuta dal R. - "per una residua percentuale stimata al 20%" -, derivante dalle indagini immunoistochimiche dell'epoca, non potesse essere decisiva perché questi non aveva preso parte alla rivisitazione del materiale istologico fatta dal perito. Ha anche rammentato in qual senso il B. abbia utilizzato il termine 'probabile' riferito alla diagnosi di mesotelioma, secondo le precisazioni dal medesimo esperto fatte in sede dibattimentale; precisazioni che non esprimono l'incertezza ma la corretta prudenza nella formulazione di una diagnosi non perplessa.
A fronte di ciò i motivi in esame indugiano su alcuni passaggi della relazione peritale, senza considerare quanto dal Tribunale tratto anche dalla deposizione dibattimentale; di questa estraggono alcuni passi, per lo più coincidenti con quelli riportati anche nella sentenza di primo grado, formulando una propria valutazione che li fa scivolare verso una riedizione del giudizio sulla prova formulato dal giudice di merito; diversa valutazione che si vorrebbe avallata da questa Corte, in contraddizione con il proprium del sindacato di legittimità.
In conclusione, i motivi in discussione sono infondati.
12.2. Con il primo motivo comune ai ricorsi M. e F.G. ed altri e con il terzo motivo del ricorso E.G. si pongono questioni che attengono al giudizio causale. Premesso che per il F.C. (ma anche per il M.A. e il G.R.) si registra un significativo periodo di esposizione professionale all'amianto già prima dell'assunzione presso lo stabilimento di Acerra (il dato non è in discussione), da un verso si censura la motivazione che ha assunto quale criterio di inferenza la tesi dell'effetto acceleratore perché esprime un errato utilizzo dei principi formulati dalla giurisprudenza di legittimità a governo del ragionamento probatorio; dall'altro si critica la motivazione che fonda il riconoscimento di una effettiva efficienza causale dell'esposizione all'amianto nella produzione del mesotelioma sofferto dal F.C..
Il primo tema si articola in due questioni distinte. Da un canto vi è la denuncia della inesistenza di una legge scientifica sufficientemente radicata circa l'effetto acceleratore delle esposizioni successive. La Corte di Appello avrebbe assunto la tesi dell'effetto acceleratore senza osservare i criteri individuati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di utilizzazione giudiziale del sapere esperto, ovvero facendo proprie le congetture di un singolo consulente, nonostante su tale teoria non vi sia il consenso della comunità scientifica. Dall'altro vi è la evidenziazione della incertezza persistente nella comunità scientifica - emergente da tutti i contributi esperti acquisiti al giudizio - in ordine all'ampiezza temporale del dispiegarsi dell'effetto acceleratore, non essendo noto sino a quando le esposizioni successive influenzano il processo patogenetico.
12.3. Come accade in generale per i procedimenti penali aventi ad oggetto le conseguenze sulla salute dell'uomo dell'esposizione professionale all'amianto, anche nel presente giudizio ricorrono terminologie variegate; si scrive di teoria multistadio, di effetto acceleratore, di malattia dose-correlata, di dose-indipendenza e di altro ancora. Può essere utile tener presente - pur se semplificatorio - che, secondo quanto emerge anche dalle sentenze pronunciate dal Tribunale di Nola e dalla Corte di Appello di Napoli, la teoria della trigger dose e quella, antagonista, della dose-correlata attengono al tema della quantità di fibre di asbesto necessaria a produrre l'insorgenza della patologia. Si afferma che la malattia insorge per effetto di una dose 'killer', risultando irrilevanti sul piano eziologico le ulteriori fibre eventualmente inalate; oppure,che vi è una relazione di proporzionalità tra dose cumulativa (durata-intensità dell'esposizione) e occorrenza di mesotelioma.
La teoria dell'effetto acceleratore mette radici nella teoria della dose-correlata, ma non concerne il tema della quantità (rectius: della proporzione tra dose cumulativa e incidenza della malattia) bensi quello dei meccanismi di azione delle fibre che vengono inalate proseguendo l'esposizione all'agente patogeno. Si assume che ogni fibra inalata determina l'accelerazione del processo verso il momento della irreversibilità della malattia e di conseguenza l'abbreviazione della vita.
La teoria multistadio, dal canto suo, descrive l'evoluzione biologica della malattia, ricostruendola come processo piuttosto che come ictus; e un processo all'interno del quale si colgono distinti e connessi sub-eventi.
Se sono evidenti le connessioni tra le teorie della dose-correlata, dell'effetto acceleratore e multistadio, pure nell'ambito del discorso giuridico risulta utile tener ben presente le diverse implicazioni.
Già nella sentenza Cozzini (Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010 - dep. 13/12/2010, Cozzini e altri, Rv. 248944) si rimarcava come la questione della quantità delle fibre necessarie a determinare l'iniziazione del processo patogenetico fosse distinta da quella della cronologia dello sviluppo della malattia. Nella successiva sentenza Sez. 4, n. 18933 del 27/02/2014 - dep. 08/05/2014, P.C., P.G. in proc. Negroni e altri, Rv. 262139 si è posto l'accento sulle differenti implicazioni delle teorie della malattia dose-correlata e dell'effetto acceleratore. 
Quanto appena esposto non pretende di prendere posizione rispetto a questioni scientifiche ancor oggi molto controverse ma solo di evidenziare l'esatto perimetro dei temi posti dai ricorrenti. I quali non pongono in discussione la teoria multistadio, che intendono come teoria che afferma la dipendenza della insorgenza del processo patogeno dalla misura della esposizione. Affermano in particolare i primi due ricorsi citati che sull'adesione fatta dal Collegio alla teoria multistadio "vi è il consenso di tutti gli esperti sentiti nei processo ...La comunità scientifica è concorde nel rilevare che il rischio di contrarre il mesotelioma aumenta con aumentare dell'esposizione" (pg. 16).
Non è in discussione, nel presente processo, il fatto che l'amianto sia causa di mesotelioma; che esiste una correlazione tra l'entità dell'esposizione ed il rischio di ammalarsi. La contestazione mossa dai ricorrenti attiene al fatto che nella comunità scientifica si sia formato un sufficiente consenso a riguardo dell'effetto acceleratore delle esposizioni successive a quelle che hanno determinato l'insorgenza del processo patogenetico. Contestazione che investe sia l'esistenza stessa di (una legge scientifica sufficientemente condivisa che affermi) un effetto acceleratore sia la scansione temporale che gli è propria. Esemplare, al riguardo, è la seguente affermazione: "già sul piano della causalità generale, anche chi ammette un potenziale effetto acceleratore ammette che non disponiamo di una legge di copertura sufficientemente precisa nella quantificazione dei tempi. C'è un periodo di anni (quanti, non si sa), prima della manifestazione clinica del tumore, nel quale eventuali esposizioni ad amianto certamente non hanno efficacia causale nel processo di sviluppo del tumore".
Le due questioni vengono proposte come concernenti il piano della causalità generale. Ma gli esponenti aggiungono che, essendosi in presenza di una legge probabilistica, anche ad ammettere che simili vuoti cognitivi non esistano, la Corte di Appello avrebbe dovuto ancora verificare se nel caso concreto essa si era inverata; e qui si denuncia l'assenza di una qualsivoglia motivazione in ordine alla causalità individuale.
12.4. La prima questione chiama in causa il ruolo del giudice dinanzi al sapere scientifico necessario all'accertamento giudiziario. Questo Collegio intende richiamarsi ai principi formulati principalmente nelle decisioni Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002 - dep. 11/09/2002, Franzese, Rv. 222138 e la già citata Sez. 4, n. 43786 del 17/09/2010 - dep. 13/12/2010, Cozzini e altri, Rv. 248944. Si tratta di principi ai quali anche nel presente procedimento i giudici hanno fatto ampio richiamo; tuttavia non riuscendo a farne integrale corretta applicazione.
E' noto che almeno a partire dalla sentenza Cozzini la giurisprudenza di legittimità ha abbandonato un vetusto e fuorviante modo di intendere quel ruolo, ridefinendo il significato del tradizionale iudex peritus peritorum sulla scia del più ampio dibattito animatosi nell'epistemologia legale, specie oltreoceano: poiché il giudice è portatore di una 'legittima ignoranza' a riguardo delle conoscenze scientifiche, "si tratta di valutare l'autorità scientifica dell'esperto che trasferisce ne! processo la sua conoscenza della scienza; ma anche di comprendere, soprattutto nei casi più problematici, se gii enunciati che vengono proposti trovano comune accettazione nella comunità scientifica. Da questo punto di vista il giudice è effettivamente, nel senso più alto, peritus peritorum: custode e garante della scientificità della conoscenza fattuale espressa dal processo".
Il giudice riceve quella che risulta essere accolta dalla comunità scientifica come la legge esplicativa - si dice ne sia consumatore - e non ha autorità per dare patenti di fondatezza a questa piuttosto che a quella teoria.
L'acquisizione della legge che funge da criterio inferenziale non è però acritica; anzi è in questo segmento dell'attività giudiziale che si condensa l'essenza di questa. Non essendo esplorabile in autonomia la valenza intrinseca del sapere introdotto dall'esperto, l'attenzione si sposta sugli indici di attendibilità della teoria: "Per valutare l'attendibilità di una teoria occorre esaminare gli studi che la sorreggono. Le basi fattuali sui quali essi sono condotti. L'ampiezza, la rigorosità, l'oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi. La discussione critica che ha accompagnato l'elaborazione dello studio, focalizzata sia sui fatti che mettono in discussione l'ipotesi sia sulle diverse opinioni che nel corso della discussione si sono formate. L'attitudine esplicativa dell'elaborazione teorica. Ancora, rileva il grado di consenso che la tesi raccoglie nella comunità scientifica. Infine, dal punto di vista del giudice, che risolve casi ed esamina conflitti aspri, è di preminente rilievo l'identità, l'autorità indiscussa, l'indipendenza del soggetto che gestisce la ricerca, le finalità per le quali si muove".
La corretta conduzione di tale verifica rifluisce sulla "logica correttezza delle inferenze che vengono elaborate facendo leva, appunto, sulle generalizzazioni esplicative elaborate dalla scienza".
In ciò è anche l'indicazione del contenuto del sindacato del giudice di legittimità, che attraverso la valutazione della correttezza logica e giuridica del ragionamento probatorio ripercorre il vaglio operato dal giudice di merito non per sostituirlo con altro ma per verificare che questi abbia utilizzato i menzionati criteri di razionalità, rendendo adeguata motivazione (da ultimo, con ampiezza di dettaglio Sez. 4, n. 18933 del 27/02/2014 - dep. 08/05/2014, P.C., P.G. in proc. Negroni e altri, Rv. 262139).
Questa Corte non ignora che proprio in tema di esposizione professionale ad agenti nocivi in alcune pronunce di legittimità successive alla sentenza Cozzini emergono accenti non del tutto consonanti. Già in tale decisione si era rilevata la possibilità che si cogliesse una diversa posizione nella sentenza Sez. 4, n. 988 del 11/07/2002 - dep. 14/01/2003, Macola e altro, Rv. 227001 - tra le pronunce più rilevanti per i temi qui in trattazione -, ritenendo però che essa "lungi dal proporre un proprio punto di vista scientifico, si limita a riscontrare le basi logiche del ragionamento del giudice di merito, articolatosi alla stregua di informazioni scientifiche in ordine all’effetto acceleratore dell'esposizione protratta penetrate nel processo nel corso del giudizio di appello". Tuttavia non è infrequente leggere espressioni che sembrano alludere ad una decisa opzione del giudice di legittimità per questa piuttosto che per altra teoria scientifica. Il rilievo ha una duplice necessità nel caso che occupa; in primo luogo perché la stessa Corte di Appello ritiene di poter consolidare le proprie conclusioni in merito alla legge scientifica da adottare richiamando (pg. 115) la giurisprudenza di legittimità che "ha affermato che la teoria della trigger dose non rappresenta un modello eziologico plausibile bensì una mera congettura" e che essa "si fonda su una vera e propria distorsione dell'intuizione del Selikoff" (il riferimento è a Sez. 4, n. 33311 del 24/05/2012 - dep. 27/08/2012, Ramacciotti e altri, Rv. 255585); in secondo luogo perché le sentenze di legittimità evocate si sono espresse nei termini appena rammentati proprio a riguardo del mesotelioma in presenza di esposizione professionale all'amianto (Sez. 4, n. 24997 del 22/03/2012 - dep. 21/06/2012, Pittarello e altro, Rv. 253303, nella quale si è scritto che "quanto alla legge di copertura necessaria per la valutazione del nesso di causalità, la Corte territoriale ha correttamente adottato quella della "dose cumulativa"", invero traendo il giudizio dal fatto che "è stata al riguardo richiamata ¡a letteratura scientifica sostanzialmente convergente Sez. 4, n. 46428 del 19/04/2012 - dep. 30/11/2012, Stringa, Rv. 254073, che lascia indenne la motivazione impugnata perché questa esibisce l'assunzione di teorie scientificamente accreditate, portate nel processo dagli esperti compulsati; la già citata Sez. 4, n. 33311 del 24/05/2012 - dep. 27/08/2012, Ramacciotti e altri, Rv. 255585, e Sez. 4, n. 11128 del 21/11/2014 - dep. 16/03/2015, Lemetti ed altri, n.m., che richiama proprio la sentenza Macola come decisione a favore della teoria della dose-correlazione; nello stesso ordine concettuale Sez. 4, n. 37762 del 21/06/2013 - dep. 13/09/2013, Battistella e altri, Rv. 257113, in tema di malattie correlate all'esposizione al cromo esavalente).
Questo Collegio è dell'opinione che non possa parlarsi di un vero e proprio contrasto tra orientamenti perché tutte le decisioni appena evocate mancano di una preliminare presa di posizione avversa ai principi posti dalla sentenza Cozzini in tema di utilizzo del sapere scientifico nel ragionamento probatorio giudiziale, che anzi richiamano come fonte dei dettami che il giudice di merito deve osservare.
12.5. La censura che ascrive alla Corte di Appello di aver assunto la teoria dell'effetto acceleratore senza osservare i criteri metodologici indicati da questa Corte risulta fondata. La questione va affrontata considerando che già il Tribunale aveva dato atto dell'esistenza di opinioni discordanti tra gli esperti in ordine alla identificazione di un effetto acceleratore determinato dalle esposizioni all'amianto successive al tempo di insorgenza del processo cancerogenetico, tanto da indursi a conferire incarico peritale, formulando tra gli altri il quesito "se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata (indicando nel caso gli elementi obiettivi che la supportano) una spiegazione dell'eventuale effetto acceleratore della protrazione della esposizione dopo la fase dell'induzione, ad esempio in termini di riduzione del periodo di c.d. latenza e/o dell'anticipazione dell'evento morte o della manifestazione clinica della malattia per il caso delle lesioni".
Nell'esporre ciò che i periti avevano restituito al processo in termini di informazioni il Tribunale aveva operato una lunga illustrazione delle nozioni scientifiche assunte dall'IARC (l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro), secondo le quali il rapporto causale tra mesoteliomi e amianto è ormai ampiamente dimostrato; che,con riferimento ai tumori (in generale), la più accreditata spiegazione scientifica della loro genesi è quella della cancerogenesi multistadio; che nel mesotelioma sono presenti tutte le sei originali caratteristiche di comportamento biologico che una cellula deve acquisire per trasformarsi in senso maligno; che non si può assumere che le prime fibre respirate abbiano invariabilmente successo nel compiere il percorso dal polmone alla pleura o al peritoneo, ma che la ripetizione nel tempo dei tentativi aumenta la probabilità di successo; che la probabilità cumulativa dell'evento è in funzione del tempo trascorso dall'inizio dei tentativi; che le fibre di amianto hanno una lunga biopersistenza che permette a quelle inalate in un determinato periodo di agire lungo un prolungato arco di tempo; che in presenza di un'esposizione perdurante si ha l'iniziazione di ulteriori cellule, con la creazione di un intero comparto di cellule iniziate e ciò aumenta la probabilità che almeno una tra le cellule iniziate completi l'intera serie di alterazioni richieste lungo il percorso della cancerogenesi; che una volta che le fibre hanno raggiunto il tessuto bersaglio il mesotelioma si manifesta clinicamente dopo alcuni decenni; che il periodo che intercorre tra il completamento dell'induzione di un cancro e la sua manifestazione, durante il quale esso è in irreversibile sviluppo ma clinicamente occulto, viene definito 'latenza in senso proprio'. Aveva altresì aggiunto che non è calcolabile la durata del periodo di induzione, né quello della latenza in senso proprio. Citando poi il rapporto della Consensus Conference di Torino dell'anno 2011, il Tribunale aveva affermato che "non vi sono dubbi sull'interpretazione dell'evidenza disponibile nel senso dell'esistenza di una proporzionalità tra dose cumulativa e occorrenza di mesotelioma, sia pleurico che peritoneale".
A questo punto (pg. 107), il Tribunale era passato a trattare dell'effetto acceleratore, esponendo che i periti avevano affermato che esso era stato esplorato, sotto il profilo statistico, soltanto in poche circostanze, citando lo studio di Julian Peto; da tale studio - avevano riferito i periti - emergeva evidente l'esistenza di una relazione tra tassi di incidenza e tempi all'evento, ovvero che l'entità dell'esposizione è in grado di incidere sia sull'insorgenza del tumore che sulla durata della sua latenza. Il Tribunale aveva poi riportato letteralmente le conclusioni sul punto rassegnate dai periti, nelle quali la tesi che all'aumento dell'incidenza corrisponda un anticipo della malattia veniva attribuita, oltre che al Peto, anche ad un ulteriore ricercatore, Geoffrey Berry. Il collegio territoriale era quindi passato a dare conto del grado di condivisione nella comunità scientifica della tesi della correlazione dose-risposta, citando le conclusioni del convegno di Helsinki del 1997 e della già citata Conference di Torino, aveva riportato l'interpretazione che il prof. T. aveva fatto delle affermazioni del prof. Pira, secondo la quale questi non nega "che l'incidenza del mesotelioma sia in funzione dell'entità dell'esposizione" e, muovendosi ancora nell'orizzonte dell'opposizione teorica trigger-dose/dose dipendenza, aveva trascritto la precisazione operata dal prof. T. a riguardo della tesi del Selikoff. Infine, il collegio territoriale aveva esposto il giudizio di infondatezza espresso a riguardo di quanto sostenuto dal prof. C., per il quale dalle casistiche non risultavano significative differenze nel periodo di latenza tra i soggetti con esposizione breve o prolungata.
Conclusivamente, il Tribunale aveva fatto proprio il giudizio dei periti secondo i quali le esposizioni subite presso lo stabilimento di Acerra dal F.C., dal M.A. e dal G.R. erano state certamente rilevanti.
La Corte di appello, dal canto suo, ha dato conto del contrasto manifestatosi in giurisprudenza in merito all'effetto acceleratore, con sentenze che ora lo hanno riconosciuto, ora lo hanno negato; ha dato atto che la posizione delle difese degli imputati, per la quale l'effetto acceleratore non è fondato su leggi scientifiche era "formalmente corretta" ma "riduttiva, non riconducibile alla più complessiva trattazione della problematica sul piano scientifico e giurisprudenziale", ciò, non di meno, non tacendo che è "ancora in atto un dibattito aperto su entrambi i fronti e, per quanto massimamente qui rileva, non risultando liquidata la questione neppure dalla giurisprudenza attuale sia di merito che di legittimità" (pg. 101); quindi ha replicato all'argomentazione difensiva che faceva ricorso all'affermazione del prof. T., secondo la quale "ci vuole un salto un po' di fantasia ..." per ritenere che "aumentando l'esposizione vi sia un anticipo del momento di sviluppo di malattia per coloro che si ammalano", evidenziando il carattere recessivo dell'affermazione, a fronte della più ampia ed univoca esposizione fatta dal perito nella perizia e nel corso dello stesso esame dibattimentale.
Questa didascalica ricognizione appare necessaria per evidenziare come, per i giudici distrettuali, il nucleo della questione propostagli non fosse il peso della singola espressione utilizzata dal perito quanto la contestata sussistenza di un sufficiente consenso della comunità scientifica in merito all'effetto acceleratore quale legge di spiegazione causale.
Nessuna delle sentenze di merito appare aver fatto corretta applicazione dei criteri che si sono in questa sede richiamati; il Tribunale ha parlato di un unico studio che ha investigato l'ipotesi; non ha mostrato di aver approfondito il valore di tale studio, alla luce dell'ampiezza, della rigorosità e dell'oggettività della ricerca; non ha evidenziato la discussione critica che ha seguito lo studio e ne ha eventualmente rafforzato la persuasività; e nemmeno ha esposto l'esistenza di un sufficiente consenso nella comunità scientifica, nutrito di precisi riferimenti e argomentazioni. 
Per suo conto, la Corte di appello dopo aver convenuto sulla 'correttezza formale' della critica dei difensori, si è limitata a verificare le singole affermazioni del T., senza però riuscire a superare i limiti della prima motivazione. Per l'una e per l'altra vale rimarcare che certamente non è risolutiva - ed anzi è metodologicamente impropria - l'evocazione delle sentenze che avrebbero avvalorato la scientificità della tesi dell'effetto acceleratore in guisa di definitiva dimostrazione dell'accettabilità del suo uso nel processo.
12.6. La radicalità del vizio appena evidenziato lo renderebbe sufficiente a sostenere una pronuncia di annullamento con rinvio. Tuttavia la rilevanza dei temi e la necessità di orientare l'operato del giudice del rinvio militano per la disamina delle ulteriori censure.
Come correttamente rilevato dai ricorrenti, dai materiali processuali emerge una persistente incertezza scientifica anche in merito alla cronologia del periodo che viene definito di "latenza vera e propria". Su tale punto entrambe le motivazioni manifestano l'assunzione di dati incerti, oscillanti, senza che tali caratteri vengano discussi e superati.
In via di inquadramento generale il Tribunale ha rammentato (pg. 96 ss. e poi pg. 120) che i "... i consulenti del p.m. hanno chiarito che non vi sono oggi sufficienti conoscenze per stabilire quando si sia innescato il processo patogenetico biomolecolare, sicché la scienza medica individua quale momento dell'insorgenza quello della manifestazione clinica della patologia e della conseguente diagnosi. Il periodo che va dall'esposizione alla diagnosi della malattia, viene definito latenza, proprio per indicare che non è conoscibile dall'esterno il momento dell'insorgenza della lesione a livello biologico. Tuttavia, all'interno del periodo di latenza, vengono distinte due fasi, un periodo di induzione, in cui l'organismo subisce un insulto che nel corso del tempo causerà la lesione e quello di latenza vera e propria, in cui la lesione è presente ma non manifesta, fino alla comparsa della sintomatologia che si conclude con la diagnosi...". Per alcuni ammalati, ha aggiunto il Tribunale, il tempo di latenza complessiva - dalla prima esposizione alla diagnosi - può essere tra i 10 e i 15 anni; nella maggioranza dei casi è di circa 35 anni.
"Quanto al periodo minimo di latenza"- ha continuato - "... si ritengono necessari quanto meno 5 anni di esposizione".
Il Tribunale ha poi fatto riferimento alle affermazioni dei periti, tra le quali alcune meritano di essere riportate in questa sede. Secondo il T. "noi non siamo in grado di dire quanto dura, di dare una dimensione quantitativa del tempo necessario per trasformare una cellula normale in una cellula tumorale, certamente siamo convinti che sia un processo non istantaneo, che richieda un periodo relativamente lungo ..." (pg. 103); "più il tempo passa e più i tentativi si succedono, maggiore diviene la probabilità che un tentativo abbia infine 'successo'". Con particolare riguardo ai tempi, il perito ha affermato: "Non si può calcolare con certezza la durata del periodo di induzione, né quello della latenza propriamente detta .... Gli eventi temporalmente identificabili e quindi precisabili in modo definito sono l'inizio dell'esposizione all'agente causate e la manifestazione/diagnosi della neoplasia" (106); "esclusa la situazione degli ultimi cinque anni, ... però tutto quello che è successo prima degli ultimi cinque anni, cioè da meno cinque a magari meno trenta, in tutto quel lasso di tempo, qualsiasi esposizione ad amianto durante quel lasso di tempo ha contribuito, può avere contribuito alla genesi, all'induzione e allo sviluppo del mesotelioma"; "è ragionevole ritenere che per qualsiasi tumore destinato a manifestarsi clinicamente, lo stadio di irreversibilità - e quindi di indipendenza rispetto a stimoli esogeni che contribuiscono al processo di cancerogenicità - venga raggiunto non prima di pochi anni prima della comparsa dei sintomi"; data l'aggressività del mesotelioma "è poco credibile che la fase pre-clinica (quando cioè il tumore ha completato la sua fase irreversibile) possa durare decenni, mentre è plausibile ritenere che sia proprio la fase di induzione a durare per diversi anni" (109). Infine, il Tribunale ha adottato l'indicazione per la quale "la durata della latenza in senso stretto è stimata pari a circa 10/5 anni..." (111).
Dal canto suo la Corte di Appello, a pg. 98, ha rammentato che i periti propendono per "una efficacia delle inalazioni sino a un periodo convenzionalmente indicato in 5 anni prima della manifestazione clinica ...". La Corte di Appello ha rimarcato, richiamando i periti ed il Consensus Conference di Torino, che le esposizioni più remote hanno rilevanza maggiore e che nei cinque anni precedenti la diagnosi le esposizioni non hanno incidenza causale.
La lettura delle motivazioni lascia agevolmente emergere l'assenza di esplicazione dell'esistenza di un quadro di conoscenze definito e condiviso nella comunità scientifica circa i tempi del periodo di 'latenza vera e propria', rispetto al quale i giudici si affidano in definitiva alla indubbia autorevolezza dei periti; e, però, cosi incorrendo nell'errore metodologico dal quale la giurisprudenza di questa Corte ha messo in guardia ripetutamente. Le sentenze, costellate di espressioni che rimandano alle opinioni dei periti, non lasciano emergere alcun riferimento agli studi, alle evidenze che sostengono la identificazione di un periodo di 5/10 anni come arco temporale che, corrente a ritroso a partire dalla manifestazione della malattia, permetterebbe di identificare il momento iniziale della latenza vera e propria. Già l'uso eclettico delle due misure (5 o 10 anni) evidenzia il vuoto cognitivo; eppure esso ha grande effetto sull'accertamento giudiziale. Basterà considerare che se la latenza vera inizia cinque anni prima della diagnosi, l'intero periodo durante il quale gli odierni ricorrenti hanno ricoperto il ruolo ricadrebbe in quello di induzione della malattia del F.C.. Ma se l'inizio dovesse essere arretrato a dieci anni prima della manifestazione della malattia, l'esposizione verificatasi sotto la direzione dell'A.G. e del P.R. non avrebbe avuto rilievo causale rispetto alla malattia del F.C..
Questo significativo gap viene superato dai giudici di merito evocando l'effetto acceleratore. Ma questo segnala come la singola fibra interagisce con il processo patogenetico, non quali sono i termini temporali di questo. Per tale motivo, le evidenze processuali rese disponibili dal presente giudizio rendono la teoria dell'effetto acceleratore inidonea a dare risposta al quesito causale in relazione alle esposizioni più prossime alla manifestazione clinica della malattia.
Ma ben più radicalmente, ben oltre l'incerta incidenza di questo o quel periodo di esposizione all'agente patogeno, assume rilievo l'assunzione di una teoria che presenta incertezze esplicative che risultano decisive ai fini della soddisfacente spiegazione causale richiesta dalle imputazioni.
Giova ribadire che il postulato della incidenza di ciascuna esposizione (ovvero dose inalata) non è sufficiente a risolvere il problema causale quando durante il periodo di esposizione rilevante sia necessario distinguere sub-periodi in dipendenza dell'avvicendarsi di diversi garanti, perché in tal caso è necessario poter affermare che proprio nel sub-periodo in considerazione si è determinata (l'insorgenza o) la ulteriore evoluzione del processo morboso.
12.7. Il ricorso è fondato anche laddove lamenta la incompiutezza della motivazione, che una volta posta la premessa per la quale quella che postula l'effetto acceleratore è una legge probabilistica (concetto ribadito ancora dalla Corte distrettuale: pg. 98), avrebbe dovuto sciogliere il dubbio circa il suo effettivo inverarsi nel caso concreto.
Poiché l'effetto acceleratore non si verifica in tutti i casi, il giudice era tenuto ad individuare i segni fattuali che permettono di affermare che in ciascuno dei differenti periodi - definiti dall'avvicendarsi degli imputati nel ruolo di garante - si era prodotto l'effetto in via teorica possibile.
In ordine al modello di spiegazione causale da adottarsi ove la legge utilizzata abbia natura probabilistica ed in particolare quando si tratti della legge sull'effetto acceleratore, la più volte menzionata sentenza Cozzini ha affermato: "il sapere generalizzante probabilistico (in senso statistico) trasmette tal quale nella conclusione del ragionamento il coefficiente percentualistico che caratterizza la legge: se la probabilità di sopravvivere all'infarto è dell'85%, il singolo paziente sarà teoricamente portatore, in prima approssimazione, di una tale probabilità di salvezza. Le particolarità del caso potranno poi, eventualmente, modificare la prognosi in rapporto alla condizione dei singolo, concreto malato. Subentra, in tale secondo passaggio, un momento valutativo, "vago", articolato alla luce della base induttiva, cioè delle peculiarità dei caso concreto, che si esprimerà in termini di probabilità logica: espressione che designa (anche questo deve essere ripetuto) non un dato numerico ma un apprezzamento conclusivo, un giudizio dotato di particolare affidabilità, di speciale credibilità razionale".
Con specifico riferimento al tema che qui occupa, la Corte ha ulteriormente precisato: "ove la legge relativa all'effetto acceleratore fosse solo probabilistica ..., ciò significherebbe che lo stesso effetto si determinerebbe solo in una determinata percentuale dei casi e comunque non immancabilmente. Dunque, traducendo tale informazione probabilistica nell'inferenza deduttiva del caso concreto si perverrebbe aita conclusione che il lavoratore aveva solo la probabilità (statistica) di subire l'accelerazione dell'evoluzione del processo carcinogenetico; con l'ulteriore conseguenza che agli imputati che hanno operato in azienda dopo l'iniziazione non potrebbe essere mossa l'imputazione causale condizionalistica che, come è noto, richiede un certo ruolo eziologico della condotta rispetto all’evento". A meno che "le contingenze del caso concreto siano appunto se possibile copiose e comunque significative; e, per le loro peculiari caratterizzazioni, riescano a risolvere il dubbio insito nel carattere probabilistico del sapere utilizzato nell'inferenza deduttiva. ... Si vuol dire che, in ipotesi astratta, il carattere probabilistico della legge potrebbe condurre alla dimostrazione del nesso condizionalistico solo ove fossero note informazioni cronologiche e fosse provato, ad esempio, che il processo patogenetico si è sviluppato in un periodo significativamente più breve rispetto a quello richiesto nei casi in cui all’iniziazione non segua un'ulteriore esposizione. Analogamente potrebbe argomentarsi ove fossero noti i fattori che nell'esposizione protratta accelerano il processo ed essi fossero presenti nella concreta vicenda processuale".
Proprio perché non provato il nesso di causalità tra la condotta dell'imputato, omissiva delle misure a tutela dei lavoratori esposti ad amianto, e l’evento morte di un operaio, avendo il predetto dirigente assunto la posizione di garanzia per appena sei mesi in un più ampio periodo di esposizione alle polveri di amianto del lavoratore deceduto, peraltro essendosi verificatasi in esso la contrazione dell’orario di lavoro, questa Corte ha confermato la sentenza di assoluzione ribadendo che "in tema di omicidio colposo in danno di lavoratori esposti ad amianto, non è sufficiente per ritenere sussistente il nesso di causalità affermare che l’esposizione a polveri di amianto viene indicata da leggi scientifiche universali e probabilistiche come causa dell’asbestosi, del tumore polmonare, del mesoltelioma pleurico e delle placche pleuriche, essendo, invece, necessario accertare che la malattia che ha afflitto il singolo lavoratore sia insorta, si sia aggravata o si sia manifestata in un più breve periodo di latenza per effetto dell’esposizione a rischio, così come verificata" (Sez. 4, n. 30206 del 28/03/2013 - dep. 12/07/2013, P.C. in proc. Ciriminna, Rv. 256374).
Invece, il Tribunale, dopo aver dato atto della natura probabilistica della legge, ha risolto il tema dell'avveramento della probabilità richiamando la durata dell'esposizione presso M. (24 anni) e la valutazione fattane dal prof. T., che però riguardava solo l'esclusione dell'ipotesi che il completamento dell'induzione fosse avvenuto durante il precedente periodo lavorativo svolto in Casoria, presso la Rhodiatoce; e nello stesso ambito ricade la valutazione della circostanza che la manifestazione clinica del mesotelioma era avvenuta ben oltre i cinque anni dall'inizio dell'esposizione in Acerra.
Quanto alla Corte di Appello, essa risolve il tema nella seguente affermazione: "l'adesione al modello multistadio consente di svolgere con esito positivo entrambi gli accertamenti necessari al giudizio di causalità: quanto al primo accertamento ... bisogna sempre ritenere che tutte le esposizioni abbiano giocato un ruolo concausale, quanto meno nell'anticipare la malattia e la morte" (pg. 116).
Ma il tema - lo si ribadisce - era quello della sicura verificazione dell'effetto acceleratore sotto il governo di ciascuno degli imputati. Su questo piano in definitiva il riscontro singolare è affidato dai giudici di merito al richiamo dell’auctoritas delle sentenze del giudice di legittimità - che, si dice, "hanno dato atto della completezza e logicità argomentativa delle sentenze di merito che avevano accolto la teoria di patologia 'dose-correlata' del mesotelioma pleurico" - e all'eccesso esplicativo (sul piano giuridico) attribuito alla teoria dell'effetto acceleratore. Del tutto appropriata è la chiosa dei ricorrenti, per la quale il precedente giurisprudenziale non costituisce il nomos in tema di sapere scientifico - per le ragioni ampiamente esposte anche nella presente motivazione.
Neppure appare pertinente allo scopo l'evidenziazione della "significativa diversità di incidenza di decessi per mesotelioma rilevata tra i lavoratori della M., rispetto al tasso di mortalità per la medesima malattia rilevabile tra la popolazione generale". Ancora una volta, come l'indagine sui fattori causali alternativi, esclusi dai giudici di merito, l'argomento concerne la riconducibilità del mesotelioma patito dai lavoratori all'esposizione presso la M., non al contributo offerto dalle condotte dei singoli imputati.
In ambiti così complessi risulta opportuno tener presente che aumento del rischio ed effettiva produzione dell'effetto non hanno le medesime implicazioni giuridiche. Affermare che "il rischio decresce (anche nel solo senso che l'insorgenza della malattia si allontana nel tempo) col trascorrere del tempo dall'ultima esposizione, di talché è facile concludere che ogni assunzione successiva aumenta il rischio" (Sez. 4, n. 33311 del 24/05/2012 - dep. 27/08/2012, Ramacciotti e altri, Rv. 255585) è certamente corretto ma richiede che poi si rintraccino i segni dell'inveramento del rischio nel caso concreto.
Anche sul punto sin qui esaminato la sentenza merita di essere annullata.
12.8. Infondato è invece il motivo (rimarcato nel ricorso E.G., ma emergente anche negli altri in esame) che censura il vizio di motivazione in merito alla misura delle concentrazioni di amianto presso lo stabilimento di Acerra, in relazione all'esposizione patita dal F.C. nei diversi periodi distinti dall'avvicendarsi degli imputati nel ruolo.
La questione dell'inquinamento dell'ambiente di lavoro avrebbe acconcia collocazione preliminare rispetto al problema della legge di spiegazione causale; tuttavia essa presenta rilevanza anche su piani diversi, concettualmente successivi. Sicché per comodità espositiva se ne fa ora la trattazione.
Quanto al fatto che il F.C. venne esposto alle polveri di amianto durante l'intera sua vita lavorativa presso la M., la censura dei ricorrenti mette in evidenza le indagini che ebbero luogo a partire dal 1997 e che esse fecero emergere la presenza di un numero di fibre inferiori ai limiti previsti dalla legislazione allora vigente; inoltre, rimarca la particolarità della mansione e del posto di lavoro del F.C., per sostenere che egli non era interessato alle polluzioni.
Alla presenza di amianto aerodisperso nello stabilimento di Acerra la Corte di Appello ha dedicato le pg. 86 e ss. Rispetto al giudizio espresso dal Tribunale i giudici di secondo grado hanno adottato una valutazione di minore gravità del fenomeno, affermando esser stata dimostrata la presenza dell'agente nocivo "in misura moderata, non ubiquitaria", ma, comunque, tale da rappresentare un rischio per la salute dei lavoratori addetti ai reparti Fiocco, Filo, Poy e Saus. La Corte di Appello ha dato atto che i valori TVL indicativi della soglia di allarme non sono stati rilevati ma ha evidenziato che ciò non significò l'assenza di rilascio di fibre, che invece è stato accertato avvenne nel corso degli interventi di manutenzione, di coibentazione e di coibentazione, con interessamento non solo degli operatori ma anche di tutti i lavoratori del reparto interessato all'intervento, perché questi rimanevano al loro posto. I rilievi elevati con i ricorsi sono meramente ripetitivi delle prospettazioni che hanno trovato replica ad opera della Corte di Appello con motivazione coerente alle acquisizioni processuali e non manifestamente illogica e tendono a sovrapporre una antagonista valutazione a quella formulata dai giudici di merito.
Con particolare riguardo alla esposizione del F.C. (avversata essenzialmente dall'E.G., per il relativo periodo di direzione), il Tribunale, nel ripercorrerne il curriculum lavorativo, rilevò che tra il 1979 ed il gennaio 1984 questi era stato addetto al laboratorio di filatura nei reparti Filo/Poy, nei quali ritenne fosse stata documentata la diffusione dell'amianto, però puntualizzando "specie nei filatoi dove era impiegato per il mantenimento del livello termico". Questo è l'unico riferimento al periodo che chiama in causa l'E.G.. L'appello si è inserito su questa affermazione, evidenziando che il luogo di lavoro del F.C., nel periodo che occupa, era lontano dai filatoi e pertanto non valevano le osservazioni del primo giudice. Era,quindi,necessario replicare a simili rilievi, spiegando perché essi dovevano essere superati. La Corte di Appello ha svolto puntualmente tale compito, anche se in termini che richiedono un'attenta lettura. Infatti, il giudice di secondo grado, dopo aver ritenuto che il rischio amianto fosse circoscritto ai reparti Filo, Fiocco, Poy e Saus, ha rilevato che da quanto reso noto dal perito P. emergeva che l'impianto di aspirazione e di condizionamento ed il pavimento antipolvere presenti in alcuni "settori" di tali reparti non avevano incidenza sull'aerodispersione di amianto perchè destinati ad eliminare la polvere, ma non ad intercettare le fibre di asbesto. Tale affermazione si lascia meglio comprendere - anche nella sua valenza di replica alla prospettazione difensiva - tenendo presente che a pg. 69 il Tribunale aveva scritto che l'impianto di aspirazione era collocato nella "zona sita dopo te Filiere, cioè dopo i Filatoi (...), in ragione dell'esigenza prioritaria di raffreddare il prodotto". Tanto dimostra che la Corte di Appello ha avuto ben presente la specifica collocazione del luogo di lavoro del F.C. sotto la direzione dell'E.G., ritenendo che anche in esso - per le ragioni appena rammentate - l'amianto fosse aerodisperso.
12.9. Il ricorso M. e quello F.G. ed altri lamentano, quanto alle condotte avutesi sino al 1991, la genericità della fonte dell'obbligo (art. 21 d.p.r. n. 303/1956), "pensata", si scrive nella memoria nell'interesse del responsabile civile, "60 anni fa in relazione al problema di ridurre la presenza di 'polveri fisicamente avvertibili e oggettivamente moleste sia quantitativamente che qualitativamente'".
Sicché essa non potrebbe essere applicata all'aerodispersione di fibre di amianto. Nel ricorso per l'E.G. si opera una variatio: sarebbe la giurisprudenza a ritenere che l'art. 21 si applichi in caso di esposizioni molto consistenti alle polveri di amianto. Ulteriore argomento: il carattere di regola cautelare generica implica che essa va concretizzata alla luce dei noti criteri di prevedibilità ed evitabilità. Sicché, non essendo al tempo nota la tossicità dell'amianto se non per l'asbestosi, non può trarsi da essa una regola cautelare mirata sul rischio di insorgenza del mesotelioma.
Si tratta di temi che la giurisprudenza di questa Corte ha già affrontato. La delimitazione dell'ambito di applicazione della norma a polveri moleste o fastidiose è stata esclusa perché l'obbligo di ridurre l'esposizione "per quanto è possibile" è imposto indipendentemente dalla natura tossica o nociva della sostanza (Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006 - dep. 06/02/2007, P.G. in proc. Bartalini e altri, in motivazione). Più di recente, si è ribadito che la regola cautelare di cui all'art. 21 d.P.R. n. 303 del 1956 non mira a prevenire unicamente l'inalazione di polveri moleste (di qualunque natura), ma anche a prevenire le malattie che possono conseguire all'inalazione (Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010 - dep. 04/11/2010, Quaglierini e altri, Rv. 248852).
Anche ad avviso di questo Collegio il tenore della norma ("polveri di qualunque specie") non permette di operare distinzioni tra tipi di polveri; si tratta di una norma che incorpora un giudizio di pericolosità dell'esposizione dei lavoratori a qualunque polvere. Non è nemmeno condivisibile che essa trovi applicazione solo in presenza di 'esposizioni molto consistenti' o di definite concentrazioni di fibre di amianto. Come si è scritto, la disciplina intendeva eliminare del tutto l'esposizione, ove possibile. E nel caso che occupa - tanto tiene conto di un rilievo della difesa dell'E.G. - non era stato fatto quanto possibile, posto che i giudici di merito hanno concordemente affermato che la M. non aveva adottato alcun provvedimento per fronteggiare il rischio connesso all'amianto, addirittura negandone la pericolosità. Le diverse affermazioni della difesa dell'E.G. sono meramente oppositive a quanto ritenuto in fatto dalla Corte di Appello e pertanto non determinano la censura della motivazione.
Altro tema è l'indicazione modale che può essere tratta dalla disposizione. Ad avviso del Collegio la norma ha un contenuto precettivo modale non puntualmente individuato; essa abbisogna della etero-integrazione operata attraverso le conoscenze scientifiche disponibili al tempo in cui deve (doveva) farsene applicazione; questo il senso del richiamo ai provvedimenti atti a impedire o ridurre "per quanto possibile" lo sviluppo e la diffusione delle polveri nell'ambiente di lavoro. Anche su questo aspetto si deve ribadire quanto già è stato affermato da questa Corte: "è frequente la scelta del legislatore, nel caso di attività pericolose, di imporre determinate cautele idonee a ridurre il rischio facendo riferimento a criteri generici che possono di volta in volta essere specificati con il richiamo alle cautele che la scienza, l'esperienza e l'evoluzione tecnologica dell'epoca sono in grado di suggerire. Nelle attività pericolose consentite (e questo vale anche per le attività non di tipo lavorativo) l'agente deve attivare le misure preventive che le conoscenze del momento consentono di ritenere le più idonee ad evitare il verificarsi di eventi dannosi... la formula "per quanto è possibile" utilizzata dagli arti. 20 e 21 significa che l'agente deve fare riferimento alle misure idonee in base alla miglior scienza ed esperienza, conosciute all'epoca della condotta, per ridurre il più possibile le esposizioni; e ciò indipendentemente dal loro costo ... E' infatti ovvio che il legislatore non poteva che prevedere una fattispecie di tipo aperto che tenesse conto dell'evoluzione delle conoscenze e soprattutto dell'evoluzione tecnologica. Se una sostanza è tossica - e purtuttavia ne è consentita la manipolazione - l'agente dovrà fare riferimento, nel momento in cui opera, ai mezzi di prevenzione esistenti e se ne esistono di idonei ad eliminare l'esposizione dovrà eliminarla; diversamente dovrà ridurla nei limiti in cui lo consentono i mezzi conosciuti che siano disponibili in quel momento": in tal senso già Sez. 4, n. 3567 del 05/10/1999 - dep. 20/03/2000, Hariolf A, Rv. 216207).
Decisivo risulta pertanto l'accertamento di quale fosse il bagaglio di conoscenze al quale poteva e doveva attingere un soggetto apicale nell'ambito di un'impresa come M.. L'indagine è stata compiuta dai giudici di merito: il Tribunale (pg. 125 ss.), all'esito di un accurato esame della legislazione vigente nel periodo assunto dalle contestazioni, ha evidenziato come a quelle date fosse già emersa la pericolosità dell'amianto non solo nelle attività che contemplavano la manipolazione di prodotti che lo contenevano,ma in ogni condizione favorevole alla sua inalazione (d.p.r. n. 648/56); ed anche la capacità della polvere di amianto di produrre asbestosi e neoplasie, sia pure, queste ultime, considerate come patologie derivate da precedenti asbestosi. (l. n. 780/75). Quindi, si può senz'altro dire incensurabile la motivazione sulla scorta della quale si è affermato che al tempo era prevedibile che l'esposizione all'amianto potesse causare neoplasie, sia pure come associate ad asbestosi. 
Entrambi i giudici poi rilevano che erano disponibili misure idonee ad evitare le inalazioni, di agevole approntamento per un'impresa come M., quali mascherine filtranti, tute, sistemi di abbattimento delle polveri (mette conto rimarcare che a questo livello dell'indagine non assume ancora rilievo l'efficacia della misura nel caso singolare). Pertanto non è fondata la doglianza di una genericità non determinabile del precetto cautelare.
12.10. Quanto al tempo segnato dalla vigenza del d.lgs. n. 277/91, il tema posto è quello del rapporto tra colpa specifica e colpa generica; o, forse meglio, della ammissibilità, alla stregua del principio di legalità, di una pretesa comportamentale ulteriore rispetto a quella esplicitamente richiesta dal legislatore. Come è noto, la giurisprudenza di questa Corte ha formulato il principio per il quale, in tema di tutela dei lavoratori dai rischi connessi all'esposizione all’amianto, il datore di lavoro risponde del delitto di omicidio colposo nel caso di morte del lavoratore conseguita a malattia connessa a tale esposizione quando, pur avendo rispettato le norme preventive vigenti all'epoca dell'esecuzione dell'attività lavorativa, non abbia adottato le ulteriori misure preventive necessarie per ridurre il rischio concreto prevedibile di contrazione della malattia, assolvendo così all'obbligo di garantire la salubrità dell'ambiente di lavoro (Sez. 4, n. 5117 del 22/11/2007 - dep. 01/02/2008, Biasotti e altri, Rv. 238778). Non è dubitabile quanto afferma la decisione appena menzionata, ovvero che l'obbligo di prevenzione del datore di lavoro richiede che questi non si fermi a rispettare le norme tecniche, dovendo agire in ogni caso con la diligenza, la prudenza e l'accortezza necessarie ad evitare che dalla propria attività derivi un nocumento a terzi ed in primis ai lavoratori. Ma, è il caso di aggiungere, ciò deve pur sempre trovare concreta specificazione in regole, positivizzate o meno, che descrivano il comportamento da tenere. Per questo motivo lo stesso art. 2087 c.c., tradizionalmente evocato quale norma che definitivamente avvince l'imprenditore-datore di lavoro all'obbligo di garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori, in realtà risulta norma di dovere, dalla quale si trae lo status di garante ma non ancora il comportamento concreto da dispiegare nella situazione data (cfr., sulla distinzione tra norme di dovere e regole cautelari Sez. 4, n. 12478 del 19/11/2015 - dep. 24/03/2016, P.G. in proc. e altri in proc. Barberi e altri, Rv. 267813).
Sicché in presenza di regole positivizzate dal legislatore e a carattere rigido non è ipotizzabile una preclusione di principio verso le regole cautelari generiche (non positivizzate); ma va verificato se esse operano integrandosi, oppure ponendosi in conflitto.
Tuttavia, nel caso dei valori limite espressi dal d.lgs. n. 277/91 è già stato convincentemente affermato che essi "vanno intesi come semplici soglie di allarme, il cui superamento, fermo restando il dovere di attuare sul piano oggettivo le misure tecniche, organizzative e procedurali concretamente realizzabili per eliminare o ridurre al minimo i rischi, in relazione alle conoscenze, acquisite in base al progresso tecnico, comporti l'avvio di un'ulteriore e complementare attività di prevenzione soggettiva, articolata su un complesso e graduale programma di informazioni, controlli e fornitura di mezzi personali di protezione diretto a limitare la durata dell'esposizione degli addetti alle fonti di pericolo" (Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010 - dep. 04/11/2010, Quaglierini e altri, in motivazione, riprendendo affermazioni contenute in Sez. 4, n. 3567 del 05/10/1999 - dep. 20/03/2000, Hariolf A, Rv. 216207).
Ed infatti, l'obbligo di perseguire l'assenza di emissioni di polvere di amianto previsto dall'art. 27, co. 1 lett. d), investe tutte le attività in cui vi è rischio di esposizione, secondo la previsione dell'art. 22; il che conferma che ai valori limite sono coordinate ulteriori prescrizioni, non già la liceità di emissioni controllabili.
Ed, invero, in ordine al fatto che l'ambiente di lavoro del F.C., del M.A. e del G.R. fosse inquinato dalla presenza di amianto aerodisperso risulta insuperata la esaustiva e non manifestamente illogica motivazione resa dai giudici di merito.
Ne deriva la sicura infondatezza della prospettazione dei ricorrenti, che reputano illegittima la pretesa di un comportamento ulteriore rispetto all'assicurazione di un ambiente di lavoro nel quale le emissioni di fibre di amianto risultino entro i predetti valori limite; che affermano la necessità che sia data prova del superamento di tali limiti.
12.11. E' stato dubitato, in specie dal P.R. e dall'A.G., della evitabilità delle malattie accertate, di talché una pur supposta condotta colposa non avrebbe comunque rilievo penale, mancando quel che ormai usualmente si denomina 'causalità della colpa'.
Il tema va affrontato tenendo presente che "nell'ambito delle malattie lavorative determinate dall'esposizione all’amianto le vittime sono colpite da affezioni determinate dalla contaminazione con la sostanza e che la condotta attribuibile ai responsabili dell'azienda è, nel suo nucleo significativo, attiva". Quel che di omissivo vi è, in questi casi, attiene al concetto di colpa, ravvisabile laddove 'manchi' il comportamento dovuto. L'attinenza della evitabilità alla dimensione causale l'attrae verso il paradigma della 'ragionevole certezza condizionalistica' e al tempo stesso ne avvia la verifica attraverso l'utilizzo del procedimento per eliminazione mentale (per la più diffusa esplicazione di tali concetti si rimanda alla più volte menzionata sentenza Cozzini). Detto altrimenti, al quesito se l'esposizione all'amianto abbia determinato l'evento va ricercata risposta eliminando quell'esposizione (espressione che sintetizza i profili di violazione alla normativa prevenzionistica) dal novero degli antecedenti.
Così ricostruito il percorso logico-giuridico (di oggettiva complessità, e di ciò va dato atto alle sentenze di merito), risulta evidente la correttezza della conclusione alla quale pervengono i giudici territoriali.
12.12. In quanto sin qui esposto trova replica quanto prospettato in particolare dal F.G., il quale ha evidenziato che egli fu direttore dello stabilimento nei primi anni del suo funzionamento, avendo impianti all'avanguardia; che non esistendo al tempo 
una normativa in materia di amianto, non potendo ritenersi tale quella dettata in materia di polveri, occorre tener conto dei TVL, i limiti fissati dai tecnici che in quegli anni era tali da superare quelle corrispondenti ad una presenza di amianto moderata, non ubiquitaria, come ritenuto dalla Corte di appello. Si tratta di considerazioni che sovvertono la ricostruzione fattuale operata nei gradi di merito senza dimostrarne la incongruità rispetto alle acquisizioni processuali; o che poggiano su presupposizioni la cui infondatezza è stata già spiegata.
Tanto vale anche per le osservazioni svolte per il P.L..
Tutti gli imputati, poi, pongono il tema della colpa in senso soggettivo, essenzialmente per il profilo della prevedibilità dell'evento mesotelioma alla luce di un quadro di conoscenze che non contemplava tale patologie tra i possibili effetti dell'esposizione all'amianto. Anche il riferimento all'esigibilità della condotta doverosa si pone in questa prospettiva; salvo che per un accenno ad una indisponibilità di mezzi che risulta già convincentemente esclusa dalle indicazioni date dai giudici di merito alle misure che avrebbero dovuto essere adottate.
Orbene, rammentato che la valutazione in ordine alla prevedibilità dell'evento va compiuta avendo riguardo anche alla concreta capacità dell'agente di uniformarsi alla regola cautelare in ragione delle sue specifiche qualità personali, in relazione alle quali va individuata la specifica classe di agente modello di riferimento (Sez. 4, n. 49707 del 04/11/2014 - dep. 28/11/2014, Incorvaia e altro, Rv. 263283), ci si è già soffermati sul fatto che il Tribunale - e con esso la Corte di appello - ha rimarcato la notorietà della relazione asbesto-neoplasie. Giova ribadire che ai fini del giudizio di prevedibilità richiesto per la rimproverabilità della condotta, l'evento termine di riferimento non è il mero danno alla salute ma nemmeno la specifica patologia. Il principio è stato di recente formulato anche dal S.C., il quale ha affermato che in tema di colpa, la necessaria prevedibilità dell'evento non può riguardare la configurazione dello specifico fatto in tutte le sue più minute articolazioni, ma deve mantenere un certo grado di categorialità, nel senso che deve riferirsi alla classe di eventi in cui si colloca quello oggetto del processo (Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014 - dep. 18/09/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261106).
12.13 Quanto allo S.R., il cui ruolo fu quello di medico competente a partire dal 1994, il relativo ricorso lamenta che la Corte di Appello abbia impropriamente richiamato la sentenza Camposano perché in essa la condanna del medico competente non metteva radici nella violazione dei doveri a questi facenti capo ma sulla titolarità di una posizione dirigenziale. Posizione manchevole nel caso dello S.R., al quale, quindi, si sarebbe rimproverato di non aver adempiuto un obbligo, quello di predisporre una strategia aziendale di messa in sicurezza dei lavoratori" che l'ordinamento non assegna al medico competente (pur tenuto conto dell'evoluzione della normativa). Risultando inoltre priva di giustificazione l'evocazione fatta dalla Corte di Appello della mancata attivazione a fronte di segnali di allarme perché questi non avevano riguardato la situazione ambientale presso M., bensì lo stabilimento di Casoria: perché le denunce di A.M. erano state indirizzate all'Asl e non allo S.R., perché a quel tempo l'azienda aveva già posto all'attenzione il tema dell'amianto.
In estrema sintesi, in relazione alla posizione dello S.R. si asserisce l'assenza di una posizione di garanzia che sia in grado di renderne penalmente rilevante il comportamento omissivo. L'assunto è infondato.
Per un considerevole lasso di tempo il medico competente è rimasto sostanzialmente estraneo alla gestione della sicurezza in ambiente lavorativo, limitandosi ad eseguire le visite preassuntive e periodiche; ma già con il d.lgs. n. 277/91 egli è stato coinvolto nelle attività di prevenzione in modo molto più incisivo. Ben oltre la sola verifica dell'idoneità del prestatore d'opera al lavoro cui è destinato e al monitoraggio del suo stato di salute, il medico competente è stato chiamato a concorrere alla definizione delle misure di salvaguardia della salute dei lavoratori, sia pure nell'ambito delle attività che espongono al piombo metallico e ai suoi composti ionici, all'amianto ed al rumore, e sotto il limitato profilo della 'programmazione del controllo dell'esposizione dei lavoratori' e della definizione di misure preventive e protettive per singoli lavoratori, rispetto alla quale il medico competente deve esprimere un parere.
Con riferimento al d.p.r. n. 303/1956 questa Corte ha rilevato che "... la norma dell'art. 33, se prevede che il datore di lavoro deve fare sottoporre a visite mediche i lavoratori "nelle lavorazioni industriali che espongono all'azione di sostanze tossiche o infettanti o che risultano comunque nocive", e se prevede che le visite mediche siano eseguite da un medico competente, la competenza non può non essere sia la competenza a valutare le condizioni di salute, avuto riguardo alle sostanze cui il lavoratore è esposto, sia la competenza a coadiuvare il datore di lavoro/dirigente - tenendo conto dell'esito delle visite - nella individuazione dei rimedi, anche di quelli dettati dai progresso della tecnica, da adottare contro le sostanze tossiche o infettanti o comunque nocive. E tutto ciò in particolar modo allorché il datore di lavoro istituzionalizzi, come nella specie, il medico, facendone il medico dell'impianto o di fabbrica e avendo cura di descriverne i compiti con apposite circolari" (Sez. 4, n. 5037 del 30/03/2000 - dep. 06/02/2001, Camposano P e altri, Rv. 219423). Si tratta della pronuncia che, citata anche dalla Corte di Appello, è stata ritenuta non conferente dal ricorrente, perché in realtà avrebbe giustificato l'affermazione di responsabilità del medico competente sull'assunzione di fatto di compiti dirigenziali. Ma una simile lettura della decisione non coglie che la valorizzazione di quanto concretamente compiuto dal medico aziendale è stata posta dalla Corte a servizio della posizione del principio sopra riportato. Non in contrapposizione ad esso.
In ogni caso, l'assunzione di una posizione di garanzia è divenuta ancor più palese allorquando con il d.lgs. n. 626/94 ha preso corpo la sorveglianza sanitaria, quale espressione del principio della massima sicurezza tecnologicamente fattibile. In relazione alla posizione dello S.R., che assunse il ruolo nel 1996, è a questo testo che occorre far riferimento. Orbene, con il d.lgs. n. 626/1994 al medico competente non è stato più richiesto soltanto di esprimere un parere in favore del datore di lavoro ma è stato prescritto di collaborare con questi alla predisposizione dell'attuazione delle misure per la tutela della salute e dell'Integrità psico-fisica dei lavoratori, sulla base delle specifica conoscenza dell'organizzazione dell'azienda e delle situazioni di rischio. Al medico competente è stato attribuito il diritto ad avere tutte le informazioni necessarie a svolgere concretamente e fattivamente quel ruolo di collaborazione [art. 4, co. 2 lett. g)] e, ove dipendente del datore di lavoro, a ricevere i mezzi e veder realizzate le condizioni necessarie per lo svolgimento dei suoi compiti, come espressamente previsto dall'art. 17, co. 6 d.lgs. n. 626/94. Ma, ancor più significativamente, la valutazione dei rischi, atto per così dire primigenio della politica di sicurezza aziendale, ha richiesto la sua collaborazione nei casi in cui è obbligatoria la sorveglianza sanitaria (art. 4, co. 6 D.lg. 626/94).
E' stato pertanto persuasivamente affermato che il "medico aziendale viene così a configurarsi come collaboratore necessario del datore di lavoro, dotato di professionalità qualificata, per coadiuvare il primo nell'esercizio della sorveglianza sanitaria nei luoghi di lavoro dove essa è obbligatoria. In altri termini, la sorveglianza sanitaria, pur costituendo un obbligo del datore di lavoro per la tutela della integrità psicofisica dei lavoratori, deve essere svolta attraverso la collaborazione professionale del medico aziendale" (Sez. 3, n. 1728 del 09/12/2004 - dep. 21/01/2005, Fortebuono, Rv. 231117).
Può essere utile rammentare, a riprova del ruolo conferito al medico competente, che il d.lgs. n. 81/2008 ha ulteriormente accentuato l'integrazione dell'operato del medico competente con il sistema di prevenzione e, ribadito il dovere di vigilanza del datore di lavoro (e del dirigente) anche sul medico competente. L'art. 18, co. 3-bis TU dispone che "Il datore di lavoro e i dirigenti sono tenuti altresì a vigilare in ordine all'adempimento degli obblighi di cui agli articoli 19, 20, 22, 23, 24 e 25, ferma restando l'esclusiva responsabilità dei soggetti obbligati ai sensi dei medesimi articoli qualora la mancata attuazione dei predetti obblighi sia addebitabile unicamente agli stessi e non sia riscontrabile un difetto di vigilanza del datore di lavoro e dei dirigenti". Si può agevolmente osservare che la disposizione pone senza indugi l'obbligo di vigilanza del datore di lavoro (ma anche dei dirigenti, non meri esecutori delle direttive datoriali ma co-determinatori della politica di sicurezza, sia pure con le modalità coerenti alle specifiche attribuzioni e competenze) sugli adempimenti del medico competente, assurgendo a principale fonte normativa di tale obbligo (con opportuna emarginazione dell'art. 2087 c.c.). Anche per la S.C., l'art. 18, co. 3-bis TU riafferma 'a chiare lettere' il principio secondo il quale il datore di lavoro è tenuto a vigilare sul modo in cui gli altri soggetti titolari di posizioni di garanzia adempiono ai propri obblighi, così riproducendo in norma il dovere di vigilanza e di controllo che tradizionalmente compete al datore di lavoro (e ai dirigenti) sulla base dell'art. 2087 c.c. (Sez. 4, sent. n. 34373 del 13/7/2011, dep. il 20/9/2011, P.M. in proc. Calvino, n.m.). Merita di essere rammentata anche la puntualizzazione operata da Sez. 3, n. 1856 del 11/12/2012 - dep. 15/01/2013, Favilli, Rv. 254268, per la quale l'obbligo di collaborazione con il datore di lavoro cui è tenuto il medico competente e il cui inadempimento integra il reato di cui agli artt. 25, comma primo, lett. a) e 58, comma primo, lett. c), del D.lgs. n. 81 del 2008, non presuppone necessariamente una sollecitazione da parte del datore di lavoro ma comprende anche un’attività propositiva e di informazione da svolgere con riferimento al proprio ambito professionale.
Orbene, posto che sotto la vigenza del d.lgs. n. 626/1994, in materia di sicurezza del lavoro, il medico competente era titolare di obblighi strumentali e concorrenti con quelli del datore di lavoro, non può che valere per tale figura quel che le Sezioni unite hanno affermato per il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, che come il medico competente ha un ruolo di collaborazione (e l'accostamento è espressamente operato dal S.C.) nella materia della sicurezza nei luoghi di lavoro.
Mutuando gli strumenti concettuali che il S.C. ha ritenuto di offrire, va considerato che la normativa in considerazione individua nel medico aziendale un soggetto che concorre al governo dei rischi per la salute dei lavoratori, al quale partecipa mettendo in atto quanto la disciplina gli prescrive di fare. Di qui la pertinenza al medico competente del principio espresso dalle S.U. a riguardo del rspp: "questa figura svolge una delicata funzione di supporto informativo, valutativo e programmatico ma è priva di autonomia decisionale: essa, tuttavia coopera in un contesto che vede coinvolti diversi soggetti, con distinti ruoli e competenze. In breve, un lavoro in équipe ... con l'assunzione dell'incarico, essi assumano l'obbligo giuridico di svolgere diligentemente le funzioni che si sono viste. D'altra parte, il ruolo svolto da costoro è parte inscindibile di una procedura complessa che sfocia nelle scelte operative sulla sicurezza compiute dal datore di lavoro. La loro attività può ben rilevare ai fini della spiegazione causale dell'evento illecito ..."(Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014 - dep. 18/09/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261107). Può aggiungersi che per il medico competente l'art. 17 d.lgs. n. 626/1994 scandiva adempimenti (si pensi all'obbligo di visitare almeno due volte l'anno gli ambienti di lavoro) che ne definivano i compiti operativi in termini ancor più ampi che per il responsabile del servizio di prevenzione e protezione.
Deve quindi ribadirsi l'infondatezza del rilievo difensivo.
Giova precisare che per lo S.R. valgono le considerazioni che a riguardo degli altri imputati hanno determinato questa Corte all'annullamento della sentenza.
12.14. Restano assorbiti i motivi concernenti il trattamento sanzionatorio. 
12.15 In conclusione, la sentenza impugnata va annullata relativamente al reato sub B), con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli.
13. Il ricorso del P.G. è manifestamente infondato.
Egli si duole che, ai fini della riconducibilità agli imputati dei carcinomi al polmone e alla laringe, non sia stato tenuto conto della condotta assunta dalla M., consistita nella mancata mappatura del rischio e nell'omesso monitoraggio sanitario dei lavoratori e lamenta, al riguardo, una errata applicazione dei principi posti dalle Sezioni unite con la sentenza in causa Franzese (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002 - dep. 11/09/2002, Franzese, Rv. 222138). Lamenta che la Corte di Appello non abbia dato risposta alla richiesta di considerare le gravi violazioni prevenzionistiche quali concause dei tumori testé citati.
In una simile censura si presentano più profili di palese erroneità. In primo luogo, vertendosi in tema di giudizio di responsabilità individuale, in rapporto alle coordinate indicate per ciascuno degli imputati nelle due contestazioni, il riferimento al comportamento della società M. risulta del tutto insufficiente a dare un contributo sia pure critico alla valutazione delle condotte dei singoli accusati.
In secondo luogo, l'enfasi posta sull'inosservanza di obblighi prevenzionistici quali la valutazione dei rischi connessi all'uso dell'amianto e la sorveglianza sanitaria non è accompagnata dalla indicazione del criterio inferenziale in forza del quale tali violazioni dovrebbero assumere "il ruolo di 'concausa' dell'evento morte". E' ben possibile che esse abbiano contribuito a determinare l'esposizione all'asbesto dei lavoratori indicati nelle imputazioni; ma non per questo possono dirsi causa diretta delle patologie, le quali derivano dall'inalazione delle fibra di amianto. Per porre a fuoco la erroneità della doglianza del ricorrente, è sufficiente rammentare nuovamente che i giudici sono pervenuti alla conclusione censurata per la non ricorrenza di un eccesso statistico di morti dovute alle patologie in questione, per l'eziologia multifattoriale delle stesse, per l'assenza di un indicatore biologico dell'entità dell'esposizione quale l'asbestosi. Tali elementi assumono rilievo nella trattazione del tema causale sulla base di un presupposto quadro nomologico, in ordine al quale il ricorso è silente. Salvo prospettare un errore della corte distrettuale nella lettura dei principi posti dalla giurisprudenza di legittimità in merito alla funzione della corroborazione processuale.
Ma ben diversamente l'errore si coglie nelle argomentazioni dell'esponente. Il giudizio contro fattuale - ma sembra che il P.G. alluda alla verifica della validità della spiegazione generalizzante nel caso individuale - non è stato richiamato all'attenzione dei giudici per marginalizzare il ruolo delle conoscenze scientifiche nell'ambito dell'accertamento processuale, segnatamente in rapporto al tema della spiegazione causale, bensì per la necessità di prendere atto della limitatissima disponibilità di leggi scientifiche universali (ovvero prive di eccezioni) e della conseguente necessità di verificare sempre se la ricostruzione offerta da una legge scientifica (anche statistica; ma anche da massime di esperienza o da cognizioni epidemiologiche) sia valevole anche nel caso concreto. All'accorto uso della legge scientifica si accompagna quindi ¡1 riscontro della sua effettiva operatività nel caso singolo, attraverso l'intercettazione delle evidenze probatorie di tale operatività. Abduzione-induzione, che permette di mettere in campo il giudizio di elevata probabilità logica del quale ha fatto insegnamento la sentenza Franzese e le altre che ad esse sono succedute.
L'intero percorso si scinde in due stadi; in un primo si individua il criterio inferenziale in forza del quale poter affermare l'esistenza di una relazione causale tra un definito antecedente e il susseguente evento che interessa al giudizio su un piano astratto; in un secondo si procede alla verifica dell'effettivo attuarsi della 'legge' generale nel caso concreto, singolare. In questa verifica assume un ruolo ogni dato disponibile, purché abbia un'attitudine informativa rispetto a ciò che deve essere conosciuto e sia reso disponibile dal processo (l'evidenza processuale). La regola di giudizio in forza della quale valutare il compendio è quella della elevata credibilità razionale, indicata dalla sentenza Franzese.
Per poter attribuire rilievo esplicativo alla 'omessa messa a disposizione di dati probatori', all'assenza di monitoraggio sanitario adeguato, occorrerebbe quindi svelare in forza di quale criterio inferenziale tali condotte colmano il vuoto cognitivo che si rinviene a riguardo della relazione causale tra esposizione all'amianto e decessi e lesioni. Ma una simile 'scoperta' appare impossibile, perché per quanto gravi possano essere state le condotte 'ostruzionistiche' della dirigenza M., non sono esse ad aver determinato i processi biologici che esitano nella patologia oncologica ma la inalazione delle fibre di asbesto; ed è quindi di questa che occorre conoscere le condizioni di efficienza patogenetica. Il ricorso evita di confrontarsi con il nucleo della ricostruzione operata dai giudici di merito, credendo di poter risolvere il tema causale nell'enfasi posta su quelle condotte, accompagnata dal richiamo a conforto di una lettura dei principi formulati da questa Corte in tema di accertamento causale che è radicalmente erronea. Tale essendo già il contenuto dei motivi di appello che, secondo la doglianza del ricorrente non sarebbero stati considerati dalla motivazione impugnata, quand'anche ciò corrispondesse al vero (ma la complessità delle argomentazioni offerte dal Tribunale e dalla Corte di Appello collocano esattamente i dati evidenziati dal ricorso), non si aprirebbe il campo all'annullamento della decisione, perché ciò sarebbe escluso dalla manifesta infondatezza di quei motivi (cfr., ex multis, Sez. 2, n. 10173 del 16/12/2014 - dep. 11/03/2015, Bianchetti, Rv. 263157).
In conclusione il ricorso va dichiarato inammissibile.
14. Il ricorso di Adiconsum. 
Il ricorso è inammissibile, siccome non correlato alla trama argomentativa della sentenza impugnata. La quale, come del resto la decisione di primo grado, ha operato la verifica della fondatezza delle contestazioni elevate dall'accusa. La stessa articolata, complessa, approfondita esposizione delle ragioni per le quali sussistono i delitti colposi costituisce esplicazione della non riconducibilità degli eventi lesivi al paradigma del delitto doloso; d'altro canto evocato in termini del tutto generici.
Così come risulta generica la doglianza circa l'omessa motivazione in merito alla memoria depositata l'8.4.2014. Occorre considerare che l'omessa valutazione di memorie difensive non può essere fatta valere in sede di gravame come causa di nullità del provvedimento impugnato, ma può influire sulla congruità e correttezza logico-giuridica della motivazione che definisce la fase o il grado nel cui ambito siano state espresse le ragioni difensive (Sez. 5, n. 4031 del 23/11/2015 - dep. 29/01/2016, Graziano, Rv. 267561). Da ciò deriva l'onere del ricorrente di individuare il vizio motivazionale che trova origine nella mancata valutazione di quanto espresso con la memoria difensiva. Onere che nella fattispecie non è stato soddisfatto.
Segue alla declaratoria di inammissibilità la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento alla cassa delle ammende della somma di euro 2.000,00.
15. Il ricorso delle parti civili patrocinate dall'avv. Omissis.
Le doglianze esposte dalle parti civili patrocinate dall'avv. Omissis possono essere per una loro migliore intelligibilità aggregate intorno ad alcuni, limitati, poli.
In primo luogo ci si duole della interpretazione che la Corte di Appello ha dato degli artt. 437, co. 1 e 2 e 449 cod. pen., che in quanto errata si ripercuote sulla correttezza delle conclusioni tratte dai giudici territoriali sia sul piano della negata affermazione di responsabilità degli imputati - che per l'esponente, anche a voler concedere l'inidoneità della prova della ricorrenza dell'evento aggravatore di cui al comma 2 dell'art. 437 cod. pen., avrebbe dovuto comunque misurarsi con la previsione del primo comma di tale disposizione - che sul piano dell'escluso diritto al risarcimento dei danni dei lavoratori superstiti.
In secondo luogo ci si duole della motivazione resa per giustificare la conferma del giudizio assolutorio in relazione ai decessi non derivati da mesotelioma pleurico, anche in rapporto alle determinazioni assunte dalla Corte di Appello su richieste di rinnovazione istruttoria avanzate dai ricorrenti.
In terzo luogo si avanzano censure in merito alle statuizioni rese dalla Corte di Appello in punto di diritto al risarcimento del danno esistenziale dei lavoratori superstiti.
Il ricorso è fondato esclusivamente in relazione al primo nucleo tematico e alle connesse statuizioni civili.
15.1. L'applicazione degli artt 437 e 449 c.p. 
Pur accompagnata da rilievi che non possono trovare l'avallo di questa Corte (ad esempio si evoca impropriamente il 'travisamento del fatto'), la censura principale mossa alla motivazione impugnata, quella di aver fatto errata applicazione dell'art. 437 cod. pen., coglie il segno.
Per una più agevole trattazione occorre prendere le mosse dai lineamenti dell'imputazione sub A) e dalla interpretazione che ne è stata fatta nel presente procedimento.
Non prima, però, di aver posto una premessa attinente ad un aspetto dirimente, concernente la nozione di disastro, rilevante per entrambe le norme in parola; essa risponde al quesito se il disastro proponga una situazione di pericolo per la pubblica incolumità che derivi esclusivamente da causa violenta o, invece, si presenti anche quando il pericolo sia determinato dalla duratura esposizione all'opera di un agente patogeno. E' del tutto evidente che se quella nozione si riducesse alla sola prima ipotesi il tema posto dall'imputazione sarebbe risolto in radice, non potendosi configurare né il delitto di cui all'art. 437, co. 2 cod. pen. né quello ipotizzato di cui all'art. 449, in relazione all'art. 437, co. 2 c.p.
Questo Collegio ritiene di aderire alla interpretazione maggiormente condivisa in giurisprudenza, per la quale il concetto di disastro sta nella "potenza espansiva del nocumento" (come recita la Relazione del Guardasigilli al Re) alla integrità e alla sanità, più che nel modo in cui esso viene prodotto (Sez. 5, n. 40330 del 11/10/2006 - dep. 07/12/2006, Pellini, Rv. 236295; Sez. 3, n. 9418 del 16/01/2008 - dep. 29/02/2008, Agizza, Rv. 239160). Sicché la norma ben può trovare applicazione anche nella seconda delle ipotesi sopra prospettate. Tanto è stato ritenuto, da ultimo, in relazione al disastro innominato previsto dall'art. 434 cod. pen. ("altro disastro"), del quale si è scritto che risulta integrato non soltanto dal macroevento di immediata manifestazione esteriore che si verifica in un arco di tempo ristretto, ma anche dall'evento, non visivamente ed immediatamente percepibile, che si realizza in un periodo molto prolungato, sempre che comunque produca una compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività tale da determinare una lesione della pubblica incolumità. Dal che è derivata la riconduzione alla nozione di disastro innominato pure dei fenomeni derivanti da immissioni tossiche che incidono sull'ecosistema e sulla qualità dell'aria respirabile, determinando imponenti processi di deterioramento, di lunga e lunghissima durata, dell'"habitat" umano [Sez. 1, n. 7941 del 19/11/2014 - dep. 23/02/2015, P.C., R.C. e Schmidheiny, Rv. 262790; similmente, in riferimento alla contaminazione di siti a seguito di sversamento continuo e ripetuto di rifiuti di origine industriale, Sez. 3, n. 46189 del 14/07/2011 - dep. 13/12/2011, Passarielllo e altri, Rv. 251592; ma già Sez. 4, n. 4675 del 17/05/2006 - dep. 06/02/2007, P.G. in proc. Bartalini e altri, Rv. 235669, per la quale "Il delitto di disastro colposo innominato (artt. 434 e 449 cod.pen.) è integrato da un "macroevento", che comprende non soltanto gli eventi disastrosi di grande immediata evidenza (crollo, naufragio, deragliamento ecc.) che si verificano magari in un arco di tempo ristretto, ma anche quegli eventi non immediatamente percepibili, che possono realizzarsi in un arco di tempo anche molto prolungato, che pure producano quella compromissione delle caratteristiche di sicurezza, di tutela della salute e di altri valori della persona e della collettività che consentono di affermare l'esistenza di una lesione della pubblica incolumità"].
Si vuole aggiungere che le norme in considerazione non possono essere sottratte ad un'interpretazione evolutiva, nella duplice direzione della conformazione ai principi costituzionali (sia sufficiente rammentare la traiettoria percorsa dal connotato del pericolo) e dell'adeguamento ai mutamenti tecnologici che hanno grandemente mutato il contesto entro il quale esse sono state 'distillate' dal legislatore. Si tratta, quanto a questa seconda necessità, di un'esigenza riconosciuta dalla stessa Corte costituzionale, che intervenendo sul tema del rispetto del principio di determinatezza della norma incriminatrice di cui all'art. 434 cod. pen., ha rimarcato la giustificazione sottesa alla previsione dell"'altro disastro", ovvero la "impossibilità pratica di elencare analiticamente tutte le situazioni astrattamente idonee a mettere in pericolo la pubblica incolumità e, ciò, soprattutto in correlazione all'incessante progresso tecnologico che fa continuamente affiorare nuovi fonti di rischio e, con esse, ulteriori e non preventivabili modalità di aggressione del bene protetto" (C. cost. n. 327/2008). Beninteso, l'interpretazione evolutiva non può condurre ad attribuire alla norma estensioni non ragionevolmente prevedibili, pena l'impossibilità di fondare su di essa un'affermazione di responsabilità (un vincolo in tal senso deriva anche dalla giurisprudenza sovranazionale; da ultimo si veda Corte edu 14.4.2015, Contrada c. Italia). Ma in questi limiti è ben possibile attribuire al testo della legge significati compatibili con esso ancorché non contemplati dal legislatore storico.
15.2. La contestazione elevata dal P.M. richiama gli arti. 113, 40 cpv., 437 e 449 cod. pen. e dopo aver rimproverato agli imputati di aver omesso di adottare le cautele a tutela dei lavoratori (impianti di aspirazione e sistemi di abbattimento delle polveri, oltre a misure di prevenzione ambientali e personali), aggiunge che per colpa generica e specifica essi cagionavano i decessi nonché le lesioni patite dai lavoratori indicati, concludendo "derivandone dal fatto un pericolo per la pubblica incolumità".
Nell'udienza preliminare l'imputazione era stata letta come recante la contestazione del delitto di disastro colposo, tanto che il Gup aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati in relazione alla identica imputazione elevata nel procedimento riunito e concernente i decessi delle ulteriori vittime G., A., P., ritenendo ricorrente un non ammissibile bis in idem sostanziale. Rilevò il Gup - lo si apprende dalla sentenza del Tribunale - che il danno alla persona non è ricompreso nei concetti normativi di disastro o di infortunio; che l'indicazione nel capo di imputazione di una pluralità di morti o di lesioni è, di fatto, pleonastica e può essere al più funzionale a delineare l'entità del disastro. Di particolare interesse è la giustapposizione compiuta dal Gup del caso in cui ad essere contestata è l'ipotesi colposa del combinato disposto dagli artt. 449 e 437 cod. pen. al caso in cui viene ascritta l'ipotesi dolosa di cui all'art. 437 cod. pen., con l'evento disastro (o infortunio) a fare da circostanza aggravante; facendo chiaramente intendere che nella vicenda in esame oggetto del giudizio era la prima ipotesi.
Il Tribunale, dal canto suo, ha rimproverato all'accusa di aver formulato una contestazione non corretta, perché avente ad oggetto il disastro colposo, laddove il reato di cui all'art. 437 cod. pen. è previsto unicamente nella forma dolosa e non è ricompreso tra i delitti colposi di danno di cui all'art. 449 cod. pen.; ed ha rimarcato che una violazione colposa delle misure antinfortunistiche può configurare al più il delitto di cui all'art. 451 cod. pen.
Ciò posto, però, ritenendo di poter tralasciare il rilievo perché concernente 'aspetti teorici', il Tribunale si è rapidamente indirizzato verso la conclusione, evidentemente avvertita come radicale, della insussistenza della prova del disastro ed ha quindi pronunciato l'assoluzione dal delitto di cui agli artt. 437 e 449 cod. pen.
La Corte distrettuale, dal canto suo, ha affermato che la contestazione formulata con il richiamo del combinato disposto dagli artt. 437 e 449 cod. pen. postula una condotta - quella della rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro - aggravata dall'evento (disastro), imputabile a titolo di colpa.
Come è agevole considerare, si sono succedute nel presente procedimento diverse ricostruzioni della relazione tra l'art. 437 e l'art. 449 cod. pen., rese plausibili da una contestazione di non cristallina fattura, ma echeggianti una reale incertezza teorica.
Senza dilungarsi in una ricognizione complessiva, ché sarebbe eccedente gli scopi di questa motivazione, vale rammentare che in un rilevante precedente di questa Corte è stato sostenuto che la fattispecie di reato in parola non è ricompresa tra i delitti colposi di danno previsti dall'art. 449 cod. pen., che richiama soltanto l'incendio o gli altri disastri, sicché il fatto tipico previsto dall'art. 437 non rientra tra queste ipotesi (incendio o disastro) e il disastro è previsto soltanto nella fattispecie aggravata di cui al secondo comma ma non nell'ipotesi base (così, in motivazione, Sez. 4, n. 4575 del 17/05/2006 - dep. 06/02/2007, P.G. in proc. Bartalini e altri, Rv. 235663; per l'ipotesi di circostanza aggravante sono anche Sez. 1, n. 7337 del 21/12/2006 - dep. 22/02/2007, Volpe e altri, Rv. 235712; Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006 - dep. 14/06/2006, Simonetti ed altri, Rv. 233779; diversamente Sez. 4, n. 10048 del 16/07/1993 - dep. 08/11/1993, P.G. ed altri, Rv. 195699 ha ritenuto che la disposizione di cui all'art. 437, comma secondo, cod. pen., non preveda una circostanza aggravante in senso proprio bensì in'ipotesi di concorso formale di reati, quello di omissione di impianti antinfortunistici e quello di disastro colposo, unificati ai fini della pena per evitare la maggiore severità del cumulo materiale).
Questo Collegio ritiene di aderire alla tesi prevalente; ne discende la correttezza della presa di posizione espressa sul punto dalla Corte di Appello.
15.3. Tuttavia la Corte di Appello ha fatto erronea applicazione dell'art. 437 cod. pen. e reso una motivazione manifestamente illogica per un diverso e decisivo profilo.
Il secondo comma di tale disposizione menziona il disastro.
Cosa debba intendersi con tale locuzione non può essere definito se non a partire dalla già menzionata pronuncia del Giudice delle leggi, secondo il quale si tratta di un "evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi, gravi, complessi ed estesi, ed idoneo a determinare un pericolo per la vita e l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone (senza che sia richiesta anche l'effettiva verificazione della morte o della lesione di uno o più soggetti)".
Similmente la giurisprudenza di legittimità afferma, ad esempio in relazione al disastro colposo previsto dall’art. 449 cod. pen., che "è necessario e sufficiente che si verifichi un accadimento macroscopico, dirompente e quindi caratterizzato, nella comune esperienza, per il fatto di recare con sé una rilevante possibilità di danno alla vita o all'incolumità di numerose persone, in un modo che non è precisamente definibile o calcolabile (Sez. 4, n. 14859 del 13/03/2015 - dep. 10/04/2015, P.G. in proc. Gianca, Rv. 263146; Sez. 4, n. 15444 del 18/01/2012 - dep. 20/04/2012, Tedesco e altri, Rv. 253500); in relazione al crollo colposo di edifici, si insegna che il disastro è "un avvenimento di tale gravità da porre in concreto pericolo la vita delle persone, indeterminatamente considerate, in conseguenza della diffusività degli effetti dannosi nello spazio circostante" (Sez. 4, n. 18432 del 01/04/2014 - dep. 04/05/2015, Papiani e altri, Rv. 263886); in tema di disastro ferroviario colposo, si è ritenuto che sussiste il delitto di cui all'art. 449 cod. pen. solo quando effettivamente si verifichi un evento di gravità, complessità ed estensione straordinari, dal quale la legge penale presume il pericolo per la pubblica incolumità (Sez. 4, n. 40799 del 18/09/2008 - dep. 31/10/2008, P.G. in proc. Merli, Rv. 241473).
Con precipuo riferimento al delitto di cui all'art. 437, co. 2 cod. pen., si è in dottrina evidenziato che occorre utilizzare un 'doppio calibro', non potendo essere colta la nozione di disastro assimilandola a quella di infortunio (come se si trattasse di una nozione 'altra' rispetto a quella assunta dalle altre norme del Capo I del Titolo VI del codice penale) e, allo stesso modo, non essendo consentito definire il significato di infortunio pretendendone la 'disastrosità'. L'indicazione è opportuna, perché occorre guardarsi dal rischio di operare una ingiustificata sovrapposizione. Quando si tratta del primo comma dell'art. 437 la destinazione dell'oggetto materiale del reato a prevenire anche solo infortuni finisce con il rendere nella pratica del tutto marginale la distinzione tra essi e i dispostivi 'anti disastro'.
Tuttavia, quando a venire in considerazione è il secondo comma della norma l'alternativa disastro/infortunio assume una rilevanza ben maggiore. Il disastro non può che essere l'esposizione a pericolo di un numero indeterminato - quantitativamente o qualitativamente - di soggetti; ed esso non ricorre allorquando l'esposizione a pericolo attenga ad un solo lavoratore. E' comunque sufficiente ad integrare l'aggravante in parola anche il solo infortunio individuale; ma in questo caso non potrà parlarsi di disastro.
Ciò posto va però ribadito che non è richiesto che il pericolo investa l'intera comunità lavorativa o un numero elevato di lavoratori; ancor oggi appare fondata l'interpretazione per la quale la nozione di disastro non comprende soltanto gli eventi di vasta portata o tragici, ma anche quegli eventi lesivi connotati da diffusività e non controllabilità che pure, per fattori meramente casuali, producano un danno contenuto, sicché i parametri della "imponenza" e della "tragicità" non possono essere assunti come misura del "disastro" genericamente inteso (Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006 - dep. 14/06/2006, Simonetti ed altri, Rv. 233779).
15.4. Poste le premesse, è possibile venire alle affermazioni contenute nelle sentenze di merito concernenti la (non) ricorrenza dell'evento 'disastro'.
Il Tribunale aveva affermato che era venuto a "mancare il dato dimensionale della complessità e della vastità degli eventi dannosi" (189); Tesser "rimasta soltanto enunciata, ma non adeguatamente dimostrata, l'attitudine della condotta contestata a proiettare gli effetti potenzialmente lesivi ed a generare comunque pericolo per la pubblica incolumità" (189). Ciò però aveva fatto dopo aver varie volte descritto e valutato una situazione di generalizzata esposizione dei lavoratori all'inalazione: cfr. pg. 48, 49 ss. 67, 71, tanto da concludere per una presenza di amianto massiccia ed ubiquitaria.
La Corte di Appello, dal canto suo, a pagina 9 riassume la motivazione del primo giudice affermando che era stato accertato che "l'amianto fosse presente in M., sia in forma compatta che in forma friabile, quanto meno in alcuni reparti..."; e che i lavoratori - manutentori ma anche addetti alle lavorazioni specifiche del reparto - erano stati esposti all'asbesto certamente nei reparti Filo, Fiocco e Poy (11).
A pg. 87 la corte distrettuale afferma di ritenere accertato che nello stabilimento fosse presente amianto "in misura moderata, non ubiquitaria, ma tale da rappresentare un rischio per la salute dei lavoratori addetti a taluni reparti identificati...". Poi elabora la seguente soluzione: "non si ha prova della diffusività del pericolo della condotta -... - avendo accertato la ricorrenza di soli tre casi di decesso determinati dalla esposizione ad amianto in M. in Acerra, anche perché non sono recuperabili i decessi per patologie diverse dal mesotelioma". Ed ancora: "non è stata riconosciuta la presenza ubiquitaria dell'amianto in M.; non è dimostrata la diffusività inquinante all'esterno dello stabilimento, il pericolo resta circoscritto agli operai manutentori e a quelli in contatto con le linee a caldo nei reparti Filo Fiocco Poy e Saus ... Inoltre non è stato ritenuto accertato sul piano della diffusività il fatto nei termini dell'imputazione, poiché non è stata raggiunta la prova della causalità intercorsa tra l'evento ossia ii numero dei casi di decesso indicati nel capo di imputazione e la condotta ascritta - ossia la rimozione e/o omissione dolosa ..." (137).
Poi, la Corte di appello richiama la tesi per la quale, ai fini degli artt. 434, co. 3 e 437, co. 2 cod. pen. "deve essersi realizzato in fatto un evento distruttivo, un danneggiamento materiale di un'entità empirica ben definita,... l'evento disastroso deve essere certamente offensivo sul piano scientifico e deve sussistere un'omogeneità di fondo tra la dimostrazione dell'offensività del disastro e il pericolo per l'incolumità, omogeneità garantita proprio dalla certezza scientifica della dannosità del disastro". Soggiunge che quando il disastro risulti dannoso in termini scientificamente certi possono valere le evidenze epidemiologiche, che in ogni caso è necessario che la idoneità del disastro a danneggiare beni personali sia intesa come probabilità dannosa nel caso concreto; quindi conclude: "non si è raggiunta la certezza scientifica di una dannosità diffusa concreta neppure quale situazione di pericolo per la pubblica incolumità, non risultando proposto dalla impostazione accusatoria, ... , un approccio epidemiologico nel contesto in esame non registrandosi incidenze statistiche significative sul piano della rilevanza penale in relazione al contesto ambientale esterno" (139).
Orbene, ribadito anche in questa sede che lo stabilire, ai fini dell'integrazione del disastro, quale siano stati i caratteri del pericolo verificatosi nel caso di specie costituisce un'indagine di fatto, incensurabile in sede di legittimità se congruamente motivata (Sez. 1, n. 6393 del 02/12/2005 - dep. 20/02/2006, Strazzarino, Rv. 233826), va rilevato che la motivazione resa dalla Corte di Appello è censurabile perché assume indici incongrui rispetto alla nozione di disastro valevole, quasi a ricercare un fenomeno diverso da quello che descrive la giurisprudenza di questa Corte.
In primo luogo si è negata la diffusività del pericolo perché l'aerodispersione non era ubiquitaria ma localizzata ad alcuni reparti. L'affermazione contrasta con il principio che riconosce la ricorrenza del disastro anche quando ad essere esposta sia una cerchia indeterminata di persone, indeterminata anche solo per la fungibilità dei suoi componenti, e senza che sia necessario un loro rilevante numero. La stessa Corte di Appello afferma che l'amianto era presente in misura "tale da rappresentare un rischio per la salute dei lavoratori addetti a taluni reparti identificati".
L'elemento della localizzazione dell'aerodispersione non è stato valutato alla luce dell'intensità, della durata, dell'entità delle polluzioni, in rapporto alla efficienza patogénica delle fibre di amianto aerodisperse, al numero degli addetti a vari reparti, alla frequenza delle turnazioni. 
Quanto al numero di decessi determinati dalla esposizione ad amianto, se l'utilizzazione di tale dato è già stato avallata da questa Corte (la più volte citata sentenza Cozzini), esso però va apprezzato tenendo conto del carattere probabilistico della legge scientifica che identifica nell'asbesto un fattore produttivo di mesotelioma (ovviamente tale fattore viene in considerazione per il fatto che si sta valutando la razionalità della decisione in rapporto alle sue stesse determinazioni).
Inoltre, si è attribuita rilevanza alla mancata prova della diffusività inquinante all'esterno dello stabilimento nonostante tale dato risulti neutro, sia perché la mancata prova non deriva da una indagine sfociata in un accertamento negativo bensì dall'assenza di indagini; sia perché non risulta spiegato in forza di quale percorso logico e di quali dati fattuali e scientifici l'esposizione a pericolo della popolazione dei lavoratori avrebbe necessariamente determinato l'inquinamento dell'ambiente esterno allo stabilimento.
Non va poi dimenticato, come invece fatto dalla Corte di Appello, che l'art. 437, co. 2 cod. pen. fa riferimento anche al singolo infortunio. E' noto che la giurisprudenza di questa Corte riconduce alla nozione di infortunio di cui alla disposizione testé menzionata anche la malattia-infortunio, alla cui nozione appartiene anche la malattia asbesto-correlata. La Corte di Appello ha completamente pretermesso ogni considerazione della necessità di tener conto del secondo tipo di evento indicato dall'art. 437, co. 2 cod. pen. nonostante l'imputazione facesse espresso riferimento alle morti e alle lesioni riconducendole etiologicamente alla condotta consistente nella omessa collocazione di dispostivi prevenzionali. Per rendere legittimo il mancato approfondimento del tema il collegio distrettuale avrebbe dovuto quanto meno escludere che la nozione di infortunio di cui all'art. 437, co. 2 cod. pen. possa trovare applicazione a quelle malattie, facendo propria la tesi corrente in dottrina che adotta una accezione restrittiva del termine.
Né risulta destituita di fondamento la doglianza delle parti civili che denuncia la carenza di motivazione in ordine alla integrazione del delitto di cui all'art. 437, co. 1 cod. pen. L'ipotesi base, come si è già rilevato, è integrata solo che con consapevolezza della funzione antinfortunistica del presidio e volontà di non adottarlo o di rimuoverlo, si ometta la collocazione di impianti, apparecchi o segnali prevenzionistici o li si rimuova o danneggi. Dalla sentenza impugnata non è dato comprendere quale valutazione abbia fatto al riguardo la Corte di Appello, che pure ha qualificato l'ipotesi di cui al seconda comma dell'art. 437 cod. pen. come circostanza aggravante del delitto previsto nel primo comma della disposizione.
Si impone quindi l'annullamento della sentenza impugnata, limitatamente al capo A) della rubrica e agli effetti civili, con rinvio alla Corte di Appello di Napoli, la quale dovrà accertare se la ritenuta condizione di pericolo sia risultata connotata sotto il profilo dimensionale dalla sua vastità (non necessariamente immane) e sotto quello della proiezione soggettiva dalla sua capacità di interessare un numero indeterminato di persone (con l'importante precisazione che l'indeterminatezza può derivare anche dalla fungibilità degli esposti a pericolo, nel complesso non ammontanti a un grande numero). A tal scopo, impregiudicata la valutazione di eventuali ulteriori indici, dovrà rendere esplicito di aver considerato la consistenza numerica della popolazione lavorativa dello stabilimento di Acerra; il numero dei lavoratori esposti alla fibra aerodispersa, in assoluto ma anche nella sua composizione (turnazioni, sostituzioni ecc.); la durata e l'intensità delle polluzioni.
15.5. Il disposto annullamento implica l'estensione della cognizione del giudice del rinvio alla domanda risarcitoria avanzata dalle parti civili che hanno lamentato un danno esistenziale.
E' necessario ripercorrere le statuizioni dei giudici di merito. Il Tribunale riconobbe il diritto al risarcimento dei danni anche ai lavoratori sopravvissuti, ritenendo che il danno morale soggettivo, inteso quale turbamento psichico e sofferenza d'animo, derivato dalla 'sindrome del sopravvissuto' fosse da ricondurre alle omissioni degli imputati e agli eventi-morte del F.C., del G.R. e del M.A., limitando la riferibilità della pretesa risarcitoria a coloro tra gli imputati alle cui dipendenze le parti civili avevano svolto l'attività lavorativa "poiché soltanto tali imputati possono essere ritenuti responsabili di condotte omissive generatrici, oltre che del danno diretto ai lavoratori deceduti, del danno esistenziale riflesso risentito dai colleghi di lavoro" (158).
Detto più esplicitamente, il Tribunale ha connesso il danno da risarcire agli omicidi colposi accertati.
La Corte di Appello ha invece ritenuto che "un risarcimento per sopravvissuti ... è configurabile per ii danno derivante da un disastro e che in ogni caso "non è collegabile il danno psicologico relativo al patema d'animo ai decesso dei tre casi di accertata correlazione
Orbene, l'annullamento ai fini civili della sentenza impugnata in relazione alla pronuncia assolutoria quanto al capo A) fa venire meno la ragione sulla quale la Corte di Appello ha fondato la propria statuizione revocatoria. Con il che rimane assorbito anche il motivo sulla revoca della condanna alla rifusione delle spese di giudizio, limitatamente al patrocinio dei lavoratori costituitisi in proprio, patrocinati dall'avv. Omissis. Per i restanti patrocinati, trattandosi di congiunti di lavoratori deceduti, la limitazione della condanna per il reato sub B) al solo decesso del F.C. implica la soccombenza.
Resta solo da aggiungere che il rinvio deve essere unitariamente davanti al giudice penale, posto che il rinvio al giudice civile, di cui alla seconda parte dell'art. 622 cod. proc. pen., è limitato alla sola ipotesi di accoglimento del ricorso della parte civile proposto ai soli effetti civili e di contestuale mancata presentazione o rigetto di ricorsi rilevanti agli effetti penali (Sez. 5, n. 10097 del 15/01/2015 - dep. 10/03/2015, P.C. in proc. Cassaniti e altro, Rv. 262633). 
15.6. I restanti motivi sono infondati.
15.6.1. L'esponente ha lamentato che non sia stata resa motivazione in merito alle richieste risarcitorie avanzate per le contravvenzioni, in relazione alle quali, a suo dire, sarebbe stata pronunciata condanna. L'assunto non coglie il vero. Occorre rammentare che la descrizione della colpa in senso oggettivo, ovvero della condotta consistente nella mancata adozione di una misura prevenzionale, necessaria in ragione del carattere normativo e non naturalistico di essa, è cosa ben diversa dalla contestazione di un autonomo reato consistente nell'omissione di tali misure. Nel caso di specie non vi è stata alcuna contestazione di contravvenzioni prevenzionistiche ma solo la formalizzazione dell'accusa concernente il delitto di cui all'art. 437 cod. pen.(con le specificità sulle quali ci si è soffermati anche in questa sede) e di quella concernente i delitti di omicidio colposo e di lesioni colpose. E' quindi insussistente il presupposto dal quale muove l'esponente; e la censura non richiede ulteriore trattazione.
15.6.2. Ci si è doluti, poi, che la Corte di Appello abbia escluso la correlazione tra il carcinoma polmonare e l'esposizione all'asbesto presso M., rimarcando l'erroneo utilizzo del procedimento di esclusione indicato dalle Sezioni unite con la nota sentenza Franzese, con l'effetto di non aver dato spiegazione delle morti dei lavoratori non fumatori, a riguardo dei quali l'esponente ritiene che si dia una sola causale credibile e logicamente probabile: l'esposizione all'amianto nel periodo lavorativo presso lo stabilimento di Acerra.
Il tema è quindi quello delle patologie multifattoriali, da tenersi distinte dalle malattie insorgenti e/o ingravescenti in ragione dell'azione sinergica di più fattori patogeni; si è invece nel distinto campo delle patologie che possono essere causate da fattori diversi ed alternativi tra loro.
L'accertamento del nesso causale in tali casi propone un assetto coincidente con quello valevole in via generale. Poiché non può essere escluso l'utilizzo di leggi scientifiche probabilistiche, dopo aver rinvenuto una legge di copertura sul piano della causalità generale è ancora necessario rinvenire la prova che quella legge abbia operato nel caso concreto; il che significa escludere l'operatività di quei fattori alternativi ai quali il compendio probatorio abbia dato una reale concretezza nel caso specifico.
La 'regola dell'esclusione', in presenza di patologie multifattoriali, impone che la malattia possa essere attribuita alla causa indiziata solo dopo che sia stato escluso che abbia avuto un ruolo eziologico il fattore alternativo. Il che va accertato - ovviamente - tenendo presente che la natura causale di un determinato antecedente non è esclusa dalla esistenza di una concausa (art. 41 cod. pen.). E' pertanto opportuno distinguere - come si è fatto in precedenza - tra fattori interferenti che spiegano una efficienza sinergica, in corrispondenza dell'insorgenza della malattia e/o della sua ingravescenza, da quelli che operano in assoluta autonomia, per i quali sembra appropriato parlare di fattori alternativi. In un caso può legittimamente parlarsi di incidenza concausale, con gli effetti che sono noti quanto all'ascrizione del fatto (ferma restando la necessità di pervenire alla concreta prova del ruolo concausale, che non può essere affermato in astratto ma va verificato in concreto). Nel secondo caso l'evocazione del tema delle concause è del tutto fuori luogo e segnala immediatamente la debolezza dell'impianto motivazionale (si veda, in termini analoghi, Sez. 4, n. 37762 del 21/06/2013 - dep. 13/09/2013, Battistella e altri, Rv. 257113).
L'argomento delle patologie multifattoriali è stato affrontato più volte da questa sezione. Per limitarsi alle pronunce più recenti possono citarsi quelle che hanno affrontato il dubbio in ordine alla relazione tra adenocarcinoma di un lavoratore esposto all'inalazione di fibre di amianto e il tabagismo del medesimo (Sez. 4, n. 11197 del 21/12/2011 - dep. 22/03/2012, Chino e altri, Rv. 252153); il caso di esposizione del lavoratore al cromo esavalente, nella ipotizzata riconducibilità della malattia a fattori diversi (Sez. 4, n. 37762 del 21/06/2013 - dep. 13/09/2013, Battistella e altri, Rv. 257113); la vicenda di un lavoratore ammalatosi di carcinoma non a piccole cellule del polmone, esposto al rischio di inalazione delle fibre di lana di vetro e però dedito al tabagismo (Sez. 4, n. 4489 del 17/10/2012 - dep. 29/01/2013, Melucci, n.m.); quella di un lavoratore portatore di una epicondilite, patologia che può essere causata dalle vibrazioni prodotte dalle attrezzature di lavoro (in uso all'ammalato) ma anche da altri fattori pur ricorrenti nel caso di specie (Sez. 4, n. 13138 del 09/03/2016 - dep. 01/04/2016, Capello, Rv. 266362).
Orbene, i principi formulati dalla Corte indicano al giudice di merito un chiaro percorso ricostruttivo, a partire dalla prescrizione a non ricercare il legame eziologico, necessario per la tipicità del fatto, sulla base di una nozione di concausalità meramente medica: "infatti, in tal caso, le conoscenze scientifiche vanno ricondotte nell'alveo di categorie giuridiche ed in particolare di una causa condizionalistica necessaria". Ciò implica che, per poter affermare la causalità della condotta omissiva ascritta all'imputato, rispetto alla patologia sofferta dal lavoratore, è necessario dimostrare che questa non ha avuto un'esclusiva origine nel diverso fattore astrattamente idoneo e che l'esposizione al fattore di rischio di matrice lavorativa è stata una condizione necessaria per l’insorgere o per una significativa accelerazione della patologia. Infatti il rapporto causale va riferito non solo al verificarsi dell'evento prodottosi, ma anche e soprattutto alla natura e ai tempi dell'offesa, sì che dovrà riconoscersi il rapporto eziologico non solo nei casi in cui sia provato che la condotta omessa avrebbe evitato il prodursi dell'evento verificatosi, ma anche nei casi in cui sia provato che l'evento si sarebbe verificato in tempi significativamente più lontani ovvero quando, alla condotta colposa omissiva o commissiva, sia ricollegabile un'accelerazione dei tempi di latenza di una malattia provocata da altra causa (Cass. Sez. 4, sent. n. 11197 del 21/12/2011, Chino e altri, Rv. 252153; Cass. Sez. 4, sent. n. 40924 del 02/10/2008, Catalano, Rv. 241335). 
Ora, se in generale l'affermazione di una relazione causale tra esposizione al fattore di rischio e la malattia manifestasi richiede che quella possa essere affermata con "un alto o elevato grado di credibilità razionale", secondo la nota formulazione della sentenza Franzese, nel caso di malattia multifattoriale quell'elevato grado non potrà mai dirsi raggiunto prima di e a prescindere da un'approfondita analisi di un quadro fattuale il più nutrito possibile di dati relativi all'entità dell'esposizione al rischio professionale, tanto in rapporto all'entità degli agenti fisici dispersi nell'area che in rapporto al tempo di esposizione, tenuto altresì conto dell'uso di eventuali dispostivi personali di protezione; dati che devono poi essere necessariamente correlati alle conoscenze scientifiche disponibili (Sez. 4, n. 4489 del 17/10/2012 - dep. 29/01/2013, Melucci, n.m.).
Un particolare accento va posto sulla necessità di non arrestarsi alla ipotizzabilità del fattore alternativo e di ricercarne concretamente l'azione causale; come è stato rimarcato, in presenza di patologie neoplastiche multifattoriali, la sussistenza del nesso causale non può essere esclusa sulla sola base di un ragionamento astratto di tipo deduttivo, che si limiti a prendere atto della ricorrenza di un elemento causale alternativo di innesco della malattia, dovendosi procedere ad una puntuale verifica - da effettuarsi in concreto ed in relazione alle peculiarità della singola vicenda - in ordine all'efficienza determinante dell'esposizione dei lavoratori a specifici fattori di rischio nel contesto lavorativo nella produzione dell'evento fatale (Sez. 4, n. 37762 del 21/06/2013 - dep. 13/09/2013, Battistella e altri, Rv. 257113).
In forza dei principi appena riproposti, per affermare la causalità della condotta omissiva del datore di lavoro, nell'insorgenza del tumore polmonare del lavoratore, occorre dimostrare che esso non abbia avuto esclusiva origine dal prolungato ed intenso fumo di sigarette e che l'esposizione all'amianto sia stata una condizione necessaria per l'insorgenza o per la significativa accelerazione della patologia.
Orbene, ben diversamente da quanto asserito dai ricorrenti, la Corte di Appello (91 ss.) non ha affermato che, risultando la sicura correlazione tra asbestosi e carcinoma polmonare nel caso di specie doveva essere esclusa la derivazione del carcinoma dall'esposizione all'amianto, non essendo stati documentati casi di asbestosi; all'inverso, la corte territoriale ha dato atto dell'incertezza che allo stato persiste in merito alla relazione asbestosi-carcinoma polmonare, senza per questo concludere per la sicura assenza di una relazione causale che facesse capo all'esposizione degli ammalati presso lo stabilimento di Acerra. Piuttosto, la Corte di Appello ha rimarcato che per "un carcinoma in assenza di asbestosi, deve chiarirsi se possa essere attribuito all'amianto, in quanto del carcinoma in quanto tale non sono state individuate tutte le cause possibili" (92).
Ancorché la Corte di Appello abbia affermato che "non sembra possibile escludere decorsi causali alternativi, proprio perché manca la conoscenza di tutte le cause possibili", non coglie il segno la censura dei ricorrenti, che lamentano il peso attribuito ad una possibilità astratta, non radicata in precise emergenze processuali, come invece richiesto da questa Corte.
In realtà, i giudici distrettuali si sono comunque impegnati a verificare l'esistenza di indici che lasciassero emergere il ruolo causale dell'amianto nei casi proposti dalla contestazione: l'eventuale presenza di casi di asbestosi; l'eventuale eccedenza statistica tra i carcinoma polmonari rilevati tra i lavoratori della M. rispetto a quelli registrati tra la popolazione della zona.
A tanto deve aggiungersi quanto ritenuto dal Tribunale, ovvero la indisponibilità di dati attendibili in ordine al livello individuale di esposizione a fibre di asbesto, rilevante per il carcinoma polmonare perché, diversamente che per il mesotelioma, la comunità scientifica esprime un generale consenso sulla necessità di una esposizione ripetuta nel tempo e quantitativamente ragguardevole; l'insufficienza di dati desumibili dalla documentazione sanitaria sullo stile di vita dei lavoratori deceduti per i quali non era nota l'abitudine al fumo (19) ed il fatto che altrettanti erano tabagisti.
A fronte di tali affermazioni, che si issano sul contributo offerto dai periti, l'esponente afferma che la Corte di Appello ha posto una correlazione necessaria tra asbestosi e carcinoma. Affermazione inesatta, che rende il motivo aspecifico. Ha rimarcato la mancata considerazione della assenza di abitudine tabagica in alcuni lavoratori ammalatisi di carcinoma polmonare: senza considerare che l'argomentazione della sentenza impugnata fa leva su un più ampio corredi di elementi, tra i quali spicca - al proposito - l'incertezza in ordine alle abitudini di vita di quei lavoratori. Incertezza che conferma lo stesso esponente quando propone la tabella redatta dai periti del Tribunale nella quale, in corrispondenza della colonna 'Fumo' mentre per taluni lavoratori si riporta 'si', per gli altri si riporta '?'. Ha lamentato la valorizzazione dell'ipotesi di decorsi alternativi senza che di essi vi fosse traccia nel processo, così ignorando che i giudici di merito hanno ricercato la presenza di indici positivi della derivazione della singola patologia dall'esposizione presso lo stabilimento di Acerra, risultando il tabagismo o ignote le abitudini degli ammalati di carcinoma polmonare.
Infine, in merito alla censura che attinge la negata rinnovazione istruttoria, rammentato che la rinnovazione dell'istruttoria nel giudizio di appello, attesa la presunzione di completezza dell'istruttoria espletata in primo grado, è un istituto di carattere eccezionale al quale può farsi ricorso esclusivamente allorché il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015 - dep. 25/03/2016, Ricci, Rv. 266820), è sufficiente rilevare che la Corte di Appello ha analiticamente giustificato quel diniego (cfr. pg. 95 e s.), con stretta attinenza ai dati processuali, posto che nel trattare il tema delle conoscenze in merito all'esposizione individuale e quello dell'assenza di asbestosi la Corte di Appello ha reso esplicite le ragioni per le quali non risultavano possibili gli accertamenti richiesti in funzione della applicazione dei criteri fissati dal Consesus Conference di Helsinki (un anno di pesante esposizione o almeno di cinque anni di esposizione moderata; asbestosi accertata radiologicamente con valori prestabiliti o con il conteggio di 15.000 corpuscoli dell'asbesto per grammo di tessuto polmonare secco o 2 milioni di fibre o altri parametri numerici prefissati).
Per quanto concerne la lamentata carenza motivazionale in merito alla richiesta di rinnovazione istruttoria mediante l'acquisizione di una relazione tecnica a firma P., avente ad oggetto i livelli di esposizione dei lavoratori, essa appare insussistente, atteso che il tema delle condizioni ambientali presso lo stabilimento di Acerra è stato ampiamente trattato dai giudici di merito, che hanno fatto riferimento alla perizia del T. (per la Corte di Appello si veda pg. 107) per la conoscenza della percentuale di fibre di amianto rilevate dagli atti acquisiti. L'esponente non ha esplicitato perché il documento del P. assumesse valore decisivo rispetto alle conclusioni della Corte di Appello.
L'ultima censura che si muove nell'ambito che si sta esplorando investe una volta di più il peso attribuito dai giudici di merito all'ipotesi di causali alternative: per l'esponente sarebbe stato onere degli imputati farsi carico del rinvenimento nel materiale probatorio di un fattore causale diverso dall'amianto. Si tratta di una affermazione non condivisibile, poiché grava sull'accusa dare dimostrazione della derivazione della malattia dall'inalazione di fibre oncogene durante l'attività lavorativa e tanto implica - allo stato delle conoscenze scientifiche - anche la dimostrazione che non siano intervenute cause diverse, da sole efficienti.
15.6.3. Per i rilievi che riguardano il G.R. (ma gli eredi di questi non sono tra i ricorrenti citati dal difensore) ed E.A. (gli eredi sono OMISSIS), la Corte di Appello ha ritenuto che per il G.R., uscito dalla M. il 31.10.1987 e deceduto nello stesso 1987, il periodo di esposizione presso la M. non avesse avuto rilievo causale, perché coincidente con parte del periodo di latenza vera, indicato in almeno cinque anni dal prof. T. (125).
Quanto all'E.A., si è ritenuto non provato il nesso causale con le polluzioni presso la M. perché addetto a reparto (quello imballaggi) in cui non era stata registrata la presenza di amianto (125). Il Tribunale chiarisce ulteriormente che l'E.A. aveva per oltre vent'anni lavorato presso altra impresa, che era stato alle dipendenze della M. tra il 1.4.1978 ed il 31.12.1982, aveva manifestato i sintomi della malattia nel luglio 1984 (sarebbe poi deceduto il 20.1.1985), e che anche in considerazione delle mansioni di tipo impiegatizio non poteva ritenersi la rilevanza causale del lavoro presso M. (179).
A fronte di ciò l'esponente articola per il G.R. censure che da un canto appaiono fondate su dati ipotetici (che la visita preventiva fatta per l'assunzione in M. avrebbe certamente svelato la patologia) o di sfuggente linearità: laddove si richiama il dato della irrilevanza degli ultimi cinque anni di vita e poi si insiste per la sicura insorgenza (ma sarebbe lo stesso ove si fosse parlato di abbreviazione della latenza) della malattia.
Quanto alle censure coinvolgenti la posizione dell'E.A., se pur fosse vero che i giudici del merito hanno errato nel ritenere che questi avesse avuto mansioni di addetto agli imballaggi, essendo invece addetto al personale, risulterebbe comunque una mansione che - stando alla ricostruzione circa i reparti interessati alle polluzioni - non offre certezze in ordine all'esposizione dell'E.A. alle polveri di amianto.
15.6.4. Manifestamente infondati sono anche i rilievi che investono la statuizione concernente la richiesta di risarcimento dei danni avanzata dagli eredi di A.DR.. Il Tribunale ha precisato che si sono costituiti in giudizio gli eredi OMISSIS "avanzando richieste risarcitoria in relazione al decesso del congiunto" (avvenuto dopo il rinvio a giudizio). Ha quindi escluso il diritto al risarcimento perché tale decesso non era stato oggetto di contestazione e non era stata quindi espletata istruttoria al riguardo. Similmente la Corte di Appello ha ribadito che la costituzione di parte civile era avvenuta prospettando quale causa petendi la morte del congiunto. L'esponente replica che "gli eredi del sig. A.DR. si sono costituiti nel processo penale come soggetti danneggiati dal reato per i quali gli imputati sono stati sottoposti a processo e condannati ..."; pertanto l'omicidio colposo in danno del F.C., rilevando che la morte del congiunto non andava qualificata come evento del reato ma come conseguenza dannosa della condotta degli imputati; ove per condotta si intendono le violazioni prevenzionistiche.
Orbene, le osservazioni dell'esponente non paiono cogliere con sufficiente nettezza che l'azione civile inserita nel processo penale permette il risarcimento e le restituzioni in relazione al danno che sia derivato dal reato. Sicché, non rileva qualsiasi condotta idonea a produrre danno (il fatto di vita), come sembra ritenere l'esponente, ma solo la condotta che corrisponde alla fattispecie tipica oggetto dell'imputazione (il fatto-reato). Pertanto, anche ad ammettere che il decesso del De Rosa fosse derivato dalle condotte omissive descritte nell'imputazione sub B) (ma sul punto già il Tribunale ha rimarcato l'assenza di accertamento), nel presente giudizio il diritto al risarcimento per gli eredi A.DR. potrebbe ammettersi solo ove connesso alla morte del F.C.. Ma nemmeno l'esponente pone una simile relazione.
Tale giudizio si coglie già nella motivazione impugnata; con l'effetto di una integrale insussistenza del lamentato vizio di carenza di motivazione.
15.6.5. Il motivo proposto nell'interesse di B.A. non è autosufficiente ed è pertanto aspecifico.
A pg. 160 della sentenza di primo grado si spiega che il B.A., costituitosi come portatore di un diritto al risarcimento del danno esistenziale, risultava aver lavorato a Milano; e quindi non presso la sede di Acerra.
La medesima affermazione è fatta dalla Corte di Appello a sostegno della conferma della statuizione del Tribunale.
L'esponente assume che i giudici siano incorsi in un travisamento della prova (il curriculum lavorativo in atti). Ma, al proposito, va rilevato che l'articolazione del motivo non soddisfa il requisito della specificità poiché, a fronte della giurisprudenza di questa Corte per la quale costituisce vizio denunciabile in cassazione la contraddittorietà della motivazione risultante dal testo del provvedimento impugnato, ovvero da altri atti del processo indicati nei motivi di gravame e, pertanto, l’errore cosiddetto revocatorio che cadendo sul significante e non sul significato della prova si traduce nell'utilizzo di una prova inesistente per effetto di una errata percezione di quanto riportato dall'atto istruttorio (Sez. 5, n. 18542 del 21/01/2011 - dep. 11/05/2011, Carone, Rv. 250168), il motivo avrebbe dovuto indicare precisamente quale sia stato l'elemento testuale (il significante) travisato; e ciò pur a prescindere dall'ulteriore ragione di inammissibilità del rilievo determinato dalla conformità delle statuizioni dei giudici di merito (cfr. Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009 - dep. 08/05/2009, P.C. in proc. Buraschi, Rv. 243636).
 

 

P.Q.M.

 


Annulla ai soli effetti civili la sentenza impugnata quanto al reato di cui al capo A) con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli, cui rimette anche la regolamentazione delle spese tra le parti per il presente giudizio.
Rigetta nel resto il ricorso delle parti civili OMISSIS.
Annulla la sentenza impugnata relativamente al reato sub B), con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della Corte di Appello di Napoli.
Dichiara inammissibile il ricorso di Adiconsum, e condanna la stessa al pagamento delle spese processuali e al versamento in favore della cassa delle ammende della somma di euro 2000,00. 
Dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore Generale della Corte di Appello di Napoli.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21/9/2016.