Cassazione Civile, Sez. 6, 27 febbraio 2017, n. 4970 - Caduta dall'alto durante le operazioni di disboscamento. Nessuna responsabilità per il datore di lavoro che adotta tutte le misure possibili


 

 

Va rilevato (cfr. Cass. 5.8.2010 n. 18278) che l'art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.


La Corte territoriale, con motivazione corretta sotto il profilo giuridico e congruamente articolata, ha ritenuto che non potesse configurarsi una responsabilità civile a carico del datore di lavoro sotto il duplice profilo della osservanza dell’art. 116 comma 1 del D.Lgs 81/08 quanto all’impiego per il lavoro in quota di due funi ancorate separatamente (con osservanza delle prescrizioni imposte dalle linee guida del Ministero esplicative delle stesse disposizioni del citato art. 116 d. lgs) e dell’apprestamento di una adeguata istruzione del lavoratore in ordine ai rischi, comprovato dall’attestato di frequenza ad un corso e della consegna al lavoratore del POS (Piano Operativo di Sicurezza) dallo stesso sottoscritto, nonché dell’avvenuto addestramento tecnico pratico.


Le suddette considerazioni reggono alle censure formulate dal ricorrente nel secondo e nel terzo motivo, sol che si consideri che la diligenza richiesta è, come detto, esclusivamente quella esigibile per essere l'infortunio ricollegabile ad un comportamento colpevole del datore di lavoro, alla violazione di un obbligo di sicurezza e alla mancata predisposizione di misure idonee a prevenire ragioni di danno per i propri dipendenti. Così, come non può accollarsi al datore di lavoro l'obbligo di garantire un ambiente di lavoro a "rischio zero" quando di per sè il rischio di una lavorazione o di una attrezzatura non sia eliminabile, egualmente non può pretendersi l'adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche ragionevolmente impensabili.


 

Presidente: CURZIO PIETRO Relatore: ARIENZO ROSA Data pubblicazione: 27/02/2017

 

 

 

FattoDiritto

 


La causa è stata chiamata all'adunanza in camera di consiglio del 1.12.2016, ai sensi dell'art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell'art. 380 bis c.p.c.:
“Con la sentenza impugnata, la Corte di appello di Trento rigettava il gravame proposto da C.M. avverso la decisione di primo grado con la quale era stato respinto il ricorso del predetto inteso ad ottenere dalla Rigon Costruzioni s.n.c., sua datrice di lavoro, il pagamento della somma di euro 243.356,00 a titolo di risarcimento dei danni subiti nell’infortunio sul lavoro verificatosi in data 6.8.2009, allorché, durante le operazioni di disboscamento di una parete rocciosa lungo la SP 55 del Comune di Granaglione, era caduto da un’altezza di circa m. 10. Rilevava la Corte che la testimonianza resa da operaio presente sul luogo dell’incidente aveva tornito elementi certi ed oggettivi per potere confermare la pronunzia gravata, posto che era emerso che il C.M., prima dell’inizio dell’attività il giorno del sinistro, aveva tutti i dispositivi di sicurezza forniti dalla datrice di lavoro e che nello specifico lo stesso era munito di una imbragatura anticaduta completa di funi e accessori, come rilevabile anche dal documento dallo stesso sottoscritto di consegna delle attrezzature di sicurezza. Inoltre, era stato acclarato che il giorno dell’incidente lo stesso fosse agganciato con doppia fune, in conformità a quanto previsto dall’art. 116 comma 1 D.Lgs 81/08 ed in ottemperanza alle Linee Guida del Ministero del Lavoro. In sintesi osservava il giudice del gravame che, essendo stato accertato positivamente che il C.M. era in concreto munito di tutti i necessari presidi di sicurezza, che era stato adeguatamente istruito e che aveva avuto il necessario addestramento per adempiere alle sue specifiche mansioni di operaio specializzato, doveva concludersi che il verificarsi dell’incidente, qualunque fossero state le concrete modalità, non potesse essere imputato a responsabilità del datore di lavoro.
Per la cassazione di tale decisione ricorre il C.M., affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resistono, con controricorso, la Rigon Gostruzioni sne e la GBS Generali Business Solutions Sepa.
Con il primo motivo, viene dedotta violazione dell’art. 1218 c. c. e 116 cpc, in relazione all’art. 360, nn. 3 e 5, c.p.c., assumendosi che l’apprezzamento della prova testimoniale da parte del giudice del gravame non era stato né logico né coerente con gli elementi acquisiti al processo, posto che, se effettivamente la seconda fune di sicurezza vi fosse stata, l’infortunio non si sarebbe verificato e che la circostanza non aveva trovato riscontro nella deposizione dello Z. che aveva solo fatto riferimento a cordini ed a funi distanziate, ma non alla presenza di una seconda fune di sicurezza. Rileva che la ricostruzione operata sia da respingere, sia in base al criterio della verosimiglianza, che in relazione agli elementi di riscontro, che erano mancati.
Con il secondo motivo, viene denunziata violazione degli artt. 1218 e 2087 c. c., violazione degli artt. 107 e 116 d. lgs 81/2008, della Dir CEE 2001/45, del d. lgs. 8.7.2003 n. 235 e delle linee guida (art. 8.1) emanate in attuazione della direttiva e dello stesso d. lgs. 235/2003, dell’art. 115 c.p.c., in relazione all'art. 360, nn. 3, 4 e 5, c.p.c., evidenziandosi la mancanza di ogni predisposizione di misure di sicurezza previste dalla normativa richiamata.
Con il terzo motivo, viene ascritta alla impugnata decisione la violazione degli stessi articoli con riferimento, in particolare alla mancata presenza, durante lo svolgimento delle operazioni di disboscamento in quota, di preposti deputati al controllo della regolarità delle operazioni e alla direzione delle manovre di emergenza.


Il ricorso è infondato.
Va premesso che l'obbligo di sicurezza, posto a carico del datore di lavoro in favore del lavoratore, è previsto in generale, con contenuto atipico e residuale, dall'art. 2087 c.c. (Cass. 21 febbraio 2004 n. 3498, Cass. 25 luglio 2003 n. 12467, Cass. 30 luglio 2003 n. 11704) ed in particolare, con contenuto tipico, dalla dettagliata disciplina di settore concernente gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali e le misure di prevenzione.
Quanto al primo motivo, si rileva innanzitutto un profilo di inammissibilità, mancando una chiara indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le disposizioni indicate o con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina.
Come è noto, infatti, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa. Viceversa, l'allegazione - come prospettato da parte del ricorrente - di una erronea ricognizione della fattispecie concreta o meglio di una erronea valutazione dei fatti come ricostruiti, è esterna alla esatta interpretazione delle norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità sotto l'aspetto del vizio di motivazione. Lo scrimine tra luna e l'altra ipotesi - violazione di legge in senso proprio a causa della erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta - è segnato in modo evidente, atteso che solo quest'ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (recentemente, in termini, specie in motivazione, Cass. 6 marzo 2012, n. 3455; id. 30 gennaio 2012, n. 1312; 27 settembre 2011, n. 19748; 6 agosto 2010, n.18375, tra le tante).
In ogni caso, non si rilevano nella decisione impugnata errori di diritto, posto che il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro, seppure non debba provare la colpa del datore di lavoro, nei cui confronti opera la presunzione posta dall'art. 1218 cod. civ. è pur sempre onerato, in base al principio generale affermato da Cass. S.U. 30 ottobre 2001, n. 13533, della prova del fatto costituente l'inadempimento e del nesso di causalità materiale tra l'inadempimento e il danno (cfr. Cass. 19 luglio 2007, n. 16003).
Infatti, soltanto "una volta provato l'inadempimento consistente nell'inesatta esecuzione della prestazione di sicurezza nonché la correlazione fra tale inadempimento ed il danno, la prova che tutto era stato approntato ai fini dell'osservanza del precetto dell'art. 2087 cod. civ. e che gli esiti dannosi erano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile deve essere fornita dal datore di lavoro" (v. Cass. 8 maggio 2007, n. 10441). La prova liberatoria a carico del datore di lavoro va, poi, generalmente correlata alla quantificazione della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle misure di sicurezza, imponendosi, di norma, allo stesso l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici i quali, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli "standard" di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (Cass. 24 febbraio 2006, n. 4148; id. 25 maggio 2006, n. 12445; 24 luglio 2006, n. 16881; 27 luglio 2010, n. 17547).
Nel caso in questione, il ricorrente si duole poi della ricostruzione dei fatti operata dalla Corte, che ha escluso, sulla base delle testimonianze raccolte, che i dispositivi di sicurezza prescritti mancassero. Tanto precisato, va osservato che le valutazioni delle risultanze probatorie del Giudice di appello sono congruamente motivate e l'iter logico-argomentativo che sorregge la decisione è chiaramente individuabile, non presentando alcun profilo di manifesta illogicità o insanabile contraddizione. Inoltre, contrariamente a quanto lamentato dal ricorrente, la Corte territoriale ha debitamente considerato tutte le circostanze emerse nell'ambito della ricostruzione fattuale dell'infortunio occorso al C.M.. In ogni caso, la critica mossa in relazione all’omesso esame di un fatto decisivo è prospettata in termini tali che non rientra nel paradigma di cui alla nuova formulazione dell’art. 360 n. 5 cpc, applicabile ratione temporis, che prescrive che il ricorrente deve indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività", fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie. Il "fatto storico" censurabile ex art. 360 n. 5 c.p.c. non può, dunque, identificarsi con la pretesa erronea valutazione degli elementi di causa espressa dalla Corte del merito (cfr. Cass. s. u n. 8053/2014).
Il vizio denunciato, poi, neppure sussiste alla stregua dell'art. 132 c.p.c. e art. 360 c.p.c., n. 4, alla luce dei quali l'inosservanza dell'obbligo di motivazione è deducibile soltanto nelle ipotesi di mancanza assoluta della motivazione, ovvero di motivazione meramente apparente o perplessa o assolutamente illogica, ipotesi nella specie non ravvisabili. Quanto ai successivi motivi, va rilevato (cfr. Cass. 5.8.2010 n. 18278) che l'art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento.
Va anche aggiunto che, in tema di danno alla salute del lavoratore, gli oneri probatori spettanti al datore di lavoro ed al lavoratore sono diversamente modulati nel contenuto a seconda che le misure di sicurezza omesse siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici, oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 cod. civ., che impone l'osservanza del generico obbligo di sicurezza: nel primo caso, riferibile alle misure di sicurezza cosiddette "nominate", la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell'insussistenza dell'inadempimento e del nesso eziologico tra quest'ultimo e il danno; nel secondo caso, relativo a misure di sicurezza cosiddette "innominate", la prova liberatoria a carico del datore di lavoro è invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli "standards" di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (cfr. Cass. 2.7.2014 n. 15082).
Nel caso di specie, che ricade nella prima delle ipotesi indicate, diverge, evidentemente, il giudizio sulla valenza delle prescrizioni di sicurezza e sulla relativa osservanza da parte del datore di lavoro, al fine di ritenere sussistente ovvero escludere la responsabilità di quest’ultimo.
La Corte territoriale, con motivazione corretta sotto il profilo giuridico e congruamente articolata, ha ritenuto che non potesse configurarsi una responsabilità civile a carico del datore di lavoro sotto il duplice profilo della osservanza dell’art. 116 comma 1 del d. lgs 81/08 quanto all’impiego per il lavoro in quota di due funi ancorate separatamente (con osservanza delle prescrizioni imposte dalle linee guida del Ministero esplicative delle stesse disposizioni del citato art. 116 d. lgs e dell’apprestamento di una adeguata istruzione del lavoratore in ordine ai rischi, comprovato dall’attestato di frequenza ad un corso e della consegna al lavoratore del POS (Piano Operativo di Sicurezza) dallo stesso sottoscritto, nonché dell’avvenuto addestramento tecnico pratico.
Le suddette considerazioni reggono alle censure formulate dal ricorrente nel secondo e nel terzo motivo, sol che si consideri che la diligenza richiesta è, come detto, esclusivamente quella esigibile per essere l'infortunio ricollegabile ad un comportamento colpevole del datore di lavoro, alla violazione di un obbligo di sicurezza e alla mancata predisposizione di misure idonee a prevenire ragioni di danno per i propri dipendenti. Così, come non può accollarsi al datore di lavoro l'obbligo di garantire un ambiente di lavoro a "rischio zero" quando di per sè il rischio di una lavorazione o di una attrezzatura non sia eliminabile, egualmente non può pretendersi l'adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche ragionevolmente impensabili. Diversamente vi sarebbe una responsabilità oggettiva in quanto attribuita quando la diligenza richiesta sia stata già soddisfatta (al pari del caso in cui una prestazione sia ineseguibile o la diligenza richiesta non sia più esigibile). Si veda anche la recente Cass. 17 aprile 2012, n. 6002 secondo cui: "L'obbligo di prevenzione di cui all'art. 2087 c.c., che non configura una ipotesi di responsabilità oggettiva, impone al datore di lavoro di adottare non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione allo specifico tipo di attività esercitata e quelle generiche dettate dalla comune prudenza, ma anche tutte le altre che in concreto si rendano necessarie per la tutela del lavoratore in base all'esperienza e alla tecnica; tuttavia, da detta norma non può desumersi la prescrizione di un obbligo assoluto di rispettare ogni cautela possibile ed innominata diretta ad evitare qualsiasi danno, con la conseguenza di ritenere automatica la responsabilità del datore di lavoro ogni volta che il danno si sia verificato, occorrendo invece che l'evento sia riferibile a sua colpa, dal momento che la colpa costituisce, comunque, elemento della responsabilità contrattuale del datore di lavoro".
Ne deriva che l’infortunio di cui trattasi, ancorché indennizzabile (ed indennizzato), non è, tuttavia, risarcibile a titolo di danno differenziale.
Si propone, pertanto, il rigetto del ricorso”. 
Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio. Il C.M. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380 bis, secondo comma, cpc.
Osserva il Collegio come il contenuto della sopra riportata relazione sia pienamente condivisibile in ragione di quanto rilevato con riguardo alla inesigibilità di misure e cautele diverse da quelle prescritte, alla cui predisposizione il datore sia contrattualmente tenuto e che nella specie sono state accertate come pienamente osservate, quando di per sè il rischio di una particolare operazione non sia eliminabile e non sia possibile l'adozione di accorgimenti per fronteggiare evenienze infortunistiche ragionevolmente impensabili. Le osservazioni mosse in memoria al contenuto della relazione sul punto non sono pertanto idonee a scalfirne il contenuto, con la conseguenza che deve pervenirsi al rigetto del ricorso.
Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza del ricorrente e si liquidano, in favore di ciascuno dei controricorrenti, come da dispositivo.
Attesa la proposizione del ricorso in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, vigente l’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228, deve rilevarsi, in ragione del rigetto dell’impugnazione, la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato previsto dall’indicata normativa, posto a carico del ricorrente (cfr. Cass. Sez. Un. n. 22035/2014).
 

 

P.Q.M.
 

 

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi, curo 3645,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimorso delle spese forfetarie in misura del 15%, in favore di ciascuno dei controricorrenti.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell'art.13, commal bis, del citato D.P.R..
Così deciso in Roma, in data 1 dicembre 2016