Cassazione Civile, Sez. Lav., 19 febbraio 2016, n. 3291 - Straining: è sufficiente un'unica azione ostile per ottenere il risarcimento del danno


 

 

Presidente: STILE PAOLO Relatore: TRIA LUCIA Data pubblicazione: 19/02/2016

 

 

 

Fatto

 


1- La sentenza attualmente impugnata (depositata il giorno 1 aprile 2014) accoglie parzialmente l’appello principale di A.P. e l’appello incidentale dell’Azienda Ospedaliera “Spedali Civili” di Brescia proposti avverso la sentenza del Tribunale di Brescia n. 311/2013 e, riformando parzialmente tale sentenza: 1) respinge la domanda di F.M.di risarcimento del danno da demansionamento, con ogni conseguenza in ordine alla condanna dell’Azienda Ospedaliera all’affidamento di un incarico di responsabile di struttura semplice a valenza dipartimentale; 2) conferma la condanna al risarcimento del danno non patrimoniale pari ad euro 30.300,00 in relazione alla situazione di stress lavorativo subito dalla F.M., così diversamente qualificando la fattispecie costitutiva della responsabilità ex art, 2087 cod. civ.; 3) respinge integralmente l’appello incidentale della lavoratrice.
La Corte d’appello di Brescia, per quel che qui interessa, precisa che:
a) va premesso che il primo giudice laddove ha ordinato all’Azienda Ospedaliera di attribuire alla F.M. un incarico di responsabile di struttura semplice a valenza dipartimentale ha emesso una pronuncia costitutiva di un rapporto dirigenziale - il cui conferimento nel pubblico impiego contrattualizzato dipende da scelte discrezionali dell’Amministrazione - che, pertanto, non è consentita al giudice ordinario;
b) peraltro, è da escludere la sussistenza del demansionamento in quanto, benché nel primo periodo successivo al trasferimento vi siano state indubbie difficoltà logistiche e organizzative, non è emerso alcun danno alla professionalità, del resto difficilmente conciliabile dal punto di vista concettuale con il conferimento di un incarico di direzione di ima struttura semplice;
c) quanto all’ipotizzato mobbing e ai richiesti danni ulteriori rispetto al danno biologico, la sentenza appellata appare condivisibile laddove ha escluso che la riorganizzazione del reparto di Neurologia II sia stata finalizzato a danneggiare la F.M., il cui impegno part-time limitava, di fatto, le mansioni che potevano esserle affidate;
d) ne consegue che gli unici due episodi nei quali il primo giudice ritiene cristallizzata la prova - e che sono quindi da valutare - sono quello della consulenza effettuata dalla dottoressa in reparto senza il consenso del primario, cui il primario ha reagito con un atteggiamento aggressivo culminato con il gesto di stracciare la relazione di consulenza della F.M. che avrebbe dovuto essere allegata alla cartella clinica del paziente interessato e quello della mancata consegna da parte dello stesso primario della scheda di valutazione della dottoressa;
e) si tratta di due fatti avvenuti rispettivamente il 20 e il 26 ottobre 2006, poco dopo l’assegnazione della F.M. presso l’Unità riabilitativa, che sono il frutto di una tensione tra i due medici e di un atteggiamento decisamente ostile e svilente del primario nei confronti della F.M., tanto che hanno comportato la condanna in sede penale del A.P. per l’atteggiamento ingiurioso tenuto nei riguardi della collega;
f) tuttavia, deve escludersi che tali due fatti abbiano dato luogo ad un vero e proprio mobbing, mancando l’elemento della oggettiva “frequenza” della condotta ostile, al di là della soggettiva percezione da parte della F.M. di una situazione di costante emarginazione;
g) peraltro, l’esclusione del mobbing e del demansionamento non equivalgono ad esenzione di responsabilità del primario e dell’Azienda, soprattutto considerando che in base all’accertamento del CTU — non più contestato — è stato evidenziato un danno biologico del 10% in relazione ad un disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso poi cronicizzato, a causa della situazione disagevole nella quale la F.M. è stata mandata ad operare;
h) tale situazione, con riferimento al periodo compreso tra ottobre 2006 e il consolidamento dei postumi permanenti, può essere qualificata come straining, che si definisce come una situazione lavorativa conflittuale di stress forzato, in cui la vittima subisce azioni ostili limitate nel numero e/o distanziate nel tempo (quindi non rientranti nei parametri del mobbing) ma tale da provocarle una modificazione in negativo, costante e permanente, della condizione lavorativa;
i) il suddetto “stress forzato” può essere provocato appositamente ai danni della vittima con condotte caratterizzate da intenzionalità o discriminazione - come è avvenuto nella specie per i due episodi che hanno visto il A.P. come protagonista - e può anche derivare dalla costrizione della vittima a lavorare in un ambiente di lavoro disagevole, per incuria e disinteresse ne: confronti del benessere lavorativo;
i) è sufficiente, come si è detto, anche un’unica azione ostile purché essa provochi conseguenze durature e costanti a livello lavorativo, tali per cui la vittima percepisca di essere in una continua posizione di inferiorità rispetto ai suoi aggressori;
l) nella specie si riscontrano tutti i parametri di riconoscimento dello straining: ambiente lavorativo; frequenza e durata dell’azione ostile (nella specie almeno semestrale), le azioni subite appartengono ad una delle categorie tipizzate dalla scienza (che sono: attacchi ai contatti umani, isolamento sistematico, cambiamenti delle mansioni, attacchi contro la reputazione della persona, violenza o minacce di violenza), posizione di costante inferiorità percepita come permanente;
m) da quanto si è detto risulta evidente che non può ipotizzarsi alcuna violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per il fatto che, mentre la ricorrente ha fatto riferimento al mobbing, si ritenga di qualificare la fattispecie come straining, in quanto si tratta soltanto di adoperare differenti qualificazioni di tipo medico-legale, per identificare comportamenti puntualmente allegati e provati nel giudizio di primo grado;
n) quanto alla quantificazione del danno conseguente alla suddetta condotta - e, in teoria, da aggiungere al danno biologico - si ritiene che la liquidazione di tale danno come effettuata dal giudice di primo grado rispecchi esattamente la misura della sofferenza patita e il danno psichico permanente subito dalla F.M., senza che questo comporti alcuna duplicazione di voci di danno, come invece ritenuto dall’Azienda e dal A.P.; 
o) d’altra parte, diversamente da quanto richiesto dalla F.M., non residua alcuna altra voce di diurno risarcibile né a titolo di perdita di chance (privo di allegazioni) né per un autonomo danno morale ed esistenziale (già compreso nella sovrabbondante liquidazione del danno biologico).
2 - Il ricorso di F.M. domanda la cassazione della sentenza per cinque motivi; resistono, con due diversi controricorsi, l’Azienda Ospedaliera “Spedali Civili” di Brescia e A.P., che propongono, a loro volta, ricorsi incidentali, rispettivamente per cinque e per quattro motivi. Ad entrambi i ricorsi incidentali replica la ricorrente principale con due controricorsi. Anche il A.P. replica, con controricorso, al ricorso incidentale dell’Azienda Ospedaliera suindicata.
F.M.e l’Azienda Ospedaliera medesima depositano anche memorie ex art. 378 cod. proc. civ.
 

 

Diritto

 


Preliminarmente tutti i ricorsi vanno riuniti perché proposti avverso la medesima sentenza.
I - Profili preliminari
1. - Va, in primo luogo, respinta l’eccezione di carenza della propria legittimazione passiva proposta dal controricorrente A.P. sull’assunto secondo cui nei propri confronti non potrebbe essere emessa in questa sede alcuna pronuncia sulla base del ricorso principale della F.M.— regolarmente notificatogli — in quanto, nelle “conclusioni” del ricorso stesso, la ricorrente non avrebbe minimamente contemplato il A.P..
Deve, infatti, essere precisato che le “conclusioni” non fanno parte degli elementi che il ricorso per cassazione deve contenere a pena di inammissibilità. Pertanto il loro contenuto anche se, in ipotesi, erroneo è del tutto ininfluente, ai fini dell’esame del ricorso stesso (arg. ex; Cass. SU 23 aprile 2009, n. 9658).
2. - Sempre in via preliminare va precisato che ai presenti ricorsi si applica il nuovo testo dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., introdotto dal'art. 5 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 2012, n. 134, visto che la sentenza impugnata è stata depositata il giorno 1 aprile 2014 (e, quindi, dopo il giorno 11 settembre 2012).
Ne consegue che sono inammissibili tutte le censure che fanno riferimento a tale norma senza tuttavia adeguarsi al suo nuovo contenuto.
2.1. - Infatti, come precisato dalle Sezioni unite di questa Corte (vedi: sentenze 7 aprile 2014, n. 8053 e n. 8054) e dalla successiva giurisprudenza conforme, nei giudizi per cassazione assoggettati ratione temporis alla nuova normativa, la formulazione di una censura riferita al n. 5 dell’art. 360 cit. che replica sostanzialmente il previgente testo di tale ultima disposizione — come accade nella specie - si palesa inammissibile alla luce del nuovo testo della richiamata disposizione, che ha certamente escluso la valutabilità della “insufficienza” o della “contraddittorietà” della motivazione, limitando il controllo di legittimità all’«omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti». Ciò significa che la ricostruzione del fatto operata dai giudici di merito è sindacabile in sede di legittimità soltanto quando la motivazione
ricorso soltanto l’anomalia motivazionale che si tramuti in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé e sempre che il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. SU n. 8053 del 2014 cit. e Cass. 9 giugno 2014, n. 12928; Cass. 16 luglio 2014, n. 16300).
2.2. - In particolare, nella specie, il suddetto inconveniente si riscontra per il ricorso principale. con riferimento alle censure di vizi di motivazione proposte con il terzo motivo e con il quinto nonché per il quarto motivo, nella sua integralità; con riguardo al ricorso incidentale dell’Azienda Ospedaliera: per le censure di vizi di motivazione formulate nel secondo, nel terzo, nel quarto e nel quinto motivo; per il ricorso incidentale di A.P.: in riferimento al terzo motivo.
3. - Sono altresì inammissibili, perché sfornite di specifiche argomentazioni, le censure di nullità della sentenza e/o del procedimento contenute nei seguenti motivi: primo motivo del ricorso principale: primo, secondo, terzo motivo del ricorso incidentale dell’Azienda Ospedaliera.
II - Sintesi ed esame dei motivi del ricorso principale
4. — Il ricorso principale è articolato in cinque motivi.
5 — Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, nn. 3, 4 e 5, cod. proc. civ., error in procedendo, nullità della sentenza e/o del procedimento, omessa e insufficiente motivazione, per non essersi la Corte d’appello pronunciata sulle eccezioni preliminari, proposte dalla F.M.nel proprio appello incidentale in merito alla inammissibilità e genericità degli appelli delle controparti.
5.1. - Il motivo - a parte l’impropria invocazione dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. di cui si è detto e a parte la sua formulazione senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi di ricorso per cassazione - è comunque inammissibile nella sua integralità in quanto certamente non è configurabile alcuna omessa pronuncia con riguardo al mancato esame esplicito delle anzidette eccezioni preliminari, visto che, per consolidato e condiviso orientamento di questa Corte, il vizio di omessa pronuncia da parte del giudice d’appello è configurabile allorché manchi completamente l’esame di una censura mossa al giudice di primo grado; la violazione non ricorre nel caso in cui il giudice d’appello fondi la decisione su un argomento che totalmente prescinda dalla censura o necessariamente ne presupponga l’accoglimento o il rigetto: Infatti nel primo caso l’esame della censura è inutile, mentre nel secondo essa è stata implicitamente considerata (vedi, per tutte; Cass. 19 maggio 2006, n. 11756; Cass. 17 luglio 2007, n. 15882). E, nella specie, è del tutto evidente che la Corte bresciana ha implicitamente respinto le suindicate eccezioni preliminari, visto che si è pronunciata nel merito degli appelli in argomento.
6.~ Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell'art. 63 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 e dell’art. 27 del CCNL di categoria.
Si sostiene che sarebbe viziata da ultrapetizione - perché effettuata senza riscontri negli atti di appello avversari — la statuizione con la quale la Corte territoriale ha riformato la sentenza di primo grado nella parte in cui era stato ordinato all’Azienda Ospedaliera di assegnare alla F.M. un incarico di direzione di struttura semplice a valenza dipartimentale nell’ambito del Dipartimento di Scienze neurologiche, sull’assunto secondo cui una simile pronuncia esulava dalla giurisdizione del giudice ordinario.
Si precisa che, in base alla giurisprudenza di legittimità, è pacifico che, ai sensi dell’art. 63 primo comma, del d.lgs. 30 marzo 2001 n. 165 cit., spetta al giudice ordinario la giurisdizione relativa alla controversia-promossa per il conferimento — per i periodi del rapporto di lavoro successivi al 30 giugno 1998 - degli incarichi di livello dirigenziale, in quanto detta normativa stabilisce - con una previsione per la quale la Corte costituzionale ha escluso profili di illegittimità in relazione agli art. 77 e 113 Cost. (Corte cosi., seni. n. 275 del 2001, ord. n. 140 e 165 del 2001) - la estensione della giurisdizione del giudice ordinario alle controversie concernenti "il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali”, nelle quali non vengono in questione né atti necessariamente inerenti a procedure concorsuali di assunzione, né provvedimenti di organizzazione degli uffici, quanto piuttosto atti che concernono il funzionamento degli apparati, appartenenti alla gestione dei rapporti di lavoro (vedi Cass. SU 24 gennaio 2003, n. 1128).
Inoltre il suddetto art. 63 stabilisce che il giudice ordinario può adottare, nei confronti delle Pubbliche Amministrazioni, tutti i provvedimenti, di accertamento, costitutivi o di condanna, richiesti dalla natura dei diritti tutelati e che le sentenze con le quali riconosce il diritto all’assunzione, ovvero accerta che l’assunzione è avvenuta in violazione di norme sostanziali o procedurali, hanno anche effetto rispettivamente costitutivo o estintivo del rapporto di lavoro.
Ciò vale, a maggior ragione, in caso di violazione, da parte dell’Amministrazione, dei canoni generali della correttezza e buona fede, quale si è avuta nella specie, per effetto alle vicende di tipo discriminatorio verificatesi in danno della ricorrente prima del suo trasferimento alla UO di Riabilitazione, con allontanamento da Neurologia, che è il campo di elezione della dottoressa.
6.1. - Il motivo è infondato.
Infatti, in base alla giurisprudenza di questa Corte che il Collegio condivide e che la stessa ricorrente menziona, la estensione della giurisdizione del giudice ordinario alle controversie concernenti “il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali” presuppone che si tratti di controversie nelle quali, per quel che qui interessa, non vengano in questione “provvedimenti di organizzazione degli uffici quanto piuttosto atti che concernono il funzionamento degli apparati, appartenenti alla gestione dei rapporti di lavoro” (vedi Cass. SU 24 gennaio 2003, n. 1128 e successiva giurisprudenza conforme).
In particolare, il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo è basato sulla seguente bipartizione generale: è riservata alla potestà amministrativa (e quindi al giudice amministrativo) la definizione delle linee fondamentali dell’organizzazione, ivi comprese l’identificazione degli uffici di maggior rilievo, la specificazione delle procedure necessarie per accedervi e la determinazione delle relative dotazioni organiche, mentre tutte le determinazioni per la organizzazione degli uffici e tutte le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro sono assunte dagli organi preposti alla gestione con la capacità ed i poteri del privato datore di lavoro (e, quindi, le relative controversie sono riservate al giudice ordinario).
Nella specie il giudice di primo grado, ordinando, all’Azienda Ospedaliera di attribuire alla F.M. un incarico di responsabile di struttura semplice a valenza dipartimentale creandolo ex novo, ha emesso una pronuncia non consentita al giudice ordinario perché costitutiva non solo di un rapporto dirigenziale — come tale di carattere fiduciario, quale è quello di dirigente sanitario di struttura semplice, al pari di quello di dirigente sanitario di struttura complessa (Cass. 3 novembre 2006, n. 23549; Cass. 6 aprile 2005, n. 7131) - ma addirittura di una nuova posizione lavorativa non prevista nell’organigramma dell’Azienda Ospedaliera.
7 - Con il terzo motivo si denunciano: a) “omesso, insufficiente e parziale esame di elementi probatori, costituendo un vizio di omesso esame di più di un punto della controversia e di fatti decisivi”; b) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione dell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001 e dell’art. 2103 cod. civ.
Si afferma che la decisione della Corte d’appello di escludere il demansionamento, con i conseguenti effetti, ha infetto alla ricorrente “un vulnus di portata non inferiore ai vulnera da essa patiti per tanti anni nel corso del rapporto di lavoro de quo”.
Si aggiunge che la Corte bresciana non ha correttamente valutato il curriculum e il bagaglio professionale della F.M. e neppure ha preso nella dovuta considerazioni le molteplici umiliazioni e sottrazioni del ruolo e professionali subite da quando, nell’ottobre 2005, il Prof. A.P. ha fatto ingresso nel reparto di Neurologia II.
Sulla base di tali elementi la Corte territoriale non avrebbe potuto escludere la palese deminutio subita dalla ricorrente, visto che la Riabilitazione è un servizio privo di letti di degenza, mentre la Neurologia, oltre ad essere la specialità di elezione della ricorrente, è un Reparto con letti di degenza nel quale la ricorrente poteva esercitare la professione di Neurologo e dove le era stata affidata la responsabilità del Laboratorio di Neuropsicologia, che poi le è stata sottratta.
Questo comporterebbe illogicità della motivazione della sentenza sul punto e la sua contrarietà alla giurisprudenza di legittimità, che ha affermato, nell’ipotesi in cui con la destinazione ad altre mansioni, vi sia stato il sostanziale svuotamento dell’attività lavorativa, la vicenda esula dall’ambito delle problematiche sull’equivalenza delle mansioni - secondo cui in base all’art. 52 del d.lgs. n. 165 cit. si applica il solo al criterio dell’equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione - configurandosi la diversa ipotesi della sottrazione pressoché integrale delle funzioni da svolgere, vietata anche nell’ambito del lavoro pubblico.
Inoltre, l’assegnazione della F.M.a  Riabilitazione - oltre ad essere accompagnato da comportamenti del A.P. volti ad allontanare la F.M. da Neurologia, obbligando addirittura i neurologi a non avere nessun contatto con la dottoressa - ha violato anche il principio di buona amministrazione della c.d. “manutenzione della professionalità” dei dipendenti.
7.1. - Il motivo, oltre ad essere inammissibile per la parte in cui si denuncia il vizio di motivazione per quanto si è detto, per il resto non è comunque da accogliere.
In particolare, appare inammissibile la denuncia di pretesa violazione dell’art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001 sia perché si risolve, nella sostanza, nell’espressione di un dissenso rispetto alla valutazione delle risultanze processuali operata dalla Corte territoriale per escludere il demansionamento, sia perché la Corte d’appello è pervenuta a tale conclusione rilevando che piuttosto che uno svuotamento delle mansioni si è avuto un arricchimento professionale, derivante anche dal conferimento di un incarico dirigenziale. E la ricorrente non contraddice tali affermazioni che da sole sono sufficienti a sostenere la statuizione contestata, anzi in armonia con le stesse sottolinea di essere riuscita dopo il primo periodo di difficoltà, a sviluppare a Riabilitazione “un’attività ben strutturata” con consistenti benefici economici e di prestigio scientifico per l’Amministrazione (v. pp. 10-11 del ricorso).
8 - Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., “omessa insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”.
Si contesta la statuizione con la quale la Corte d’appello ha escluso la configurabilità di un caso di mobbing ed ha, invece, qualificato la vicenda come straining.
SÌ sottolinea che l’erroneità di tale assunto emerge, ictu oculi, dal fatto che la Corte bresciana ha riconosciuto la sussistenza dì un complesso di condotte illecite tenute sia dal primario prof. A.P. (che ha anche subito una condanna per il reato di ingiuria al riguardo) sia dall’Amministrazione ospedaliera reiterate nel tempo e ciononostante ha qualificato la fattispecie come straining quando questo fenomeno, diversamente dal mobbing, si riscontra nelle ipotesi in cui l’atto lesivo è unico.
8.1. - Il motivo, come si è detto, è integralmente inammissibile, per impropria applicazione dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ.
A ciò può aggiungersi che - come esattamente afferma la Corte territoriale -le nozioni di mobbing e straining sono nozioni di tipo medico-legale, che non hanno autonoma rilevanza ai fini giuridici e servono soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l’art. 2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro.
9.- Con il quinto motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli arti. 1223,2043,2087,2059 cod. civ.; in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., “insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio”; c) violazione degli artt. 2, 3, 32, 35 e 41 Cost.
Si contesta la parte della sentenza impugnata in cui è stata negata la sussistenza di un danno da perdita di chance (per mancanza di specifica allegazione in ordine a possibili progressi lavorativi o mutamenti professionali osteggiati dalla condotta datoriale) nonché di un danno patrimoniale e non patrimoniale ulteriore rispetto al riconosciuto danno biologico,
SÌ sottolinea che ai fini del danno per la lesione dell’immagine e della professionalità nonché da perdita di chance avrebbero dovuto essere adeguatamente valutati i seguenti elementi: la subita privazione degli incarichi professionali, la riduzione ad un solo giorno alla settimana dell’attività nel Laboratorio di Neuropsicologia (di cui prima era responsabile), la sottrazione della responsabilità dei letti di degenza nella Clinica di Neurologia e delle consulenze rimaste a carico esclusivo del Prof. A.P. e della sua equipe nonché la contemporanea assegnazione a turni di Pronto soccorso di sei ore. 
Inoltre, si sostiene che la Corte d’appello avrebbe dovuto liquidare anche un autonomo danno morale ed esistenziale, derivante dall’emarginazione e dallo stravolgimento del tenore di vita subiti dalla F.M. in un lungo periodo di tempo.
9.1. - Il motivo è inammissibile sia per la parte di denuncia del vizio di motivazione sia per la parte in cui, senza specifiche argomentazioni, si prospetta la violazione delle norme costituzionali suindicate. È, invece, infondato per la parte in cui si denuncia la violazione delle norme codicistiche richiamate.
9.2. - Infatti, com’è noto, la consolidata e condivisa giurisprudenza di questa Corte, specialmente a partire da Cass. SU 11 novembre 2008, n. 26972, ha affermato che: “La liquidazione del danno non patrimoniale deve essere complessiva e cioè tale da coprire l’intero pregiudizio a prescindere dai nomina iuris dei vari tipi di danno, i quali non possono essere invocati singolarmente per un aumento della anzidetta liquidazione. Tuttavia, sebbene il danno non patrimoniale costituisca una categoria unitaria, le tradizionali sottocategorie del danno biologico e del danno morale continuano a svolgere una funzione, per quanto solo descrittiva, del contenuto pregiudizievole preso in esame dal giudice, al fine di parametrare la liquidazione del danno risarcibile” (Cass. 15 gennaio 2014, n. 687).
Ebbene, la Corte territoriale si è attenuta a tale orientamento in quanto ha affermato che, ancorché il danno conseguente allo straining in linea teorica avrebbe potuto essere aggiunto al danno biologico, tuttavia la liquidazione di tale ultimo danno come effettuata dal giudice di primo grado era da considerare tale da comprendere esattamente sia la misura della sofferenza patita dalla F.M. sia il danno psichico permanente subito.
Nella stessa ottica la Corte bresciana ha poi escluso un autonomo danno morale ed esistenziale, perché già compreso nella sovrabbondante liquidazione del danno biologico ed ha anche escluso la risarcibilità di un danno da perdita di chance, per mancanza di specifica allegazione in ordine a possibili progressi lavorativi o mutamenti professionali osteggiati dalla condotta datoriale, aggiungendo altresi che un simile danno non è neppure configurabile, nella specie, in quanto alla perdita parziale (meramente diagnostica) di professionalità si è accompagnato l’acquisito della professionalità inerente le scelte riabilitative da ritenere ugualmente importante e professionalmente qualificante. La ricorrente contesta solo la prima statuizione - peraltro senza il dovuto rispetto del principio di specificità dei motivi del ricorso per cassazione - ma nulla dice in merito alla seconda, che comunque rappresenta una ratio decidendi, autonoma idonea da sola a sostenere il rigetto della liquidazione del danno da perdita di chance.
III - Sintesi ed esame dei motivi del ricorso incidentale dell’Azienda Ospedaliera “Spedali Civili” di Brescia
10- Il suindicato ricorso è articolato in cinque motivi.
Il — Con il primo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione degli arti. 112 e 113 cod. proc. civ.; b) in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., error in procedendo, nullità della sentenza.
Si sostiene che la sentenza impugnata sia viziata da ultrapetizione laddove, dopo l’esclusione della ricorrenza del mobbing, la Corte ha riqualificato la fattispecie come straining, essendo soltanto due i “fatti eclatanti” posti in essere dal Brof. A.P., che però avrebbero innescato una reazione che si è cronicizzata a causa della situazione lavorativa disagevole in cui operava la F.M..
11.1. - Il motivo - inammissibile per la denuncia di nullità della sentenza, come si è detto - è infondato per la censura di ultrapetizione.
Al riguardo va ricordato, in linea preliminare, che è ius receptum che il vizio di “ultra” ed “extra” petizione — derivante dalla violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (art. 112 cod. proc. civ.) - ricorre soltanto quando il giudice pronuncia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili di ufficio, attribuendo un bene della vita non richiesto o diverso da quello domandato, mentre al di fuori di tali specifiche previsioni il giudice, nell’esercizio della sua potestas decidendo resta libero non solo d’individuare l’esatta natura dell’azione e di porre a base della pronuncia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle all’uopo prospettate, ma di rilevare, altresì, indipendentemente dall’iniziativa della controparte, la mancanza degli elementi che caratterizzano l’efficacia costitutiva od estintiva di una data pretesa della parte, in quanto ciò attiene all’obbligo inerente all’esatta applicazione della legge (vedi, per tutte: Cass. 1 ottobre 1994, n. 7977; Cass. 23 febbraio 1998, n. 1940; Cass. 16 maggio 1998, n. 4923; Cass. 5 ottobre 1998, n. 9887; Cass. 28 agosto 2003, n. 12265; Cass. 31 gennaio 2006, n. 2146; Cass. 22 marzo 2007, n. 6945; Cass. 26 ottobre 2009, n. 22595).
Inoltre, nell’indagine diretta all’individuazione del contenuto e della portata della domanda sottoposta alla sua cognizione, il giudice del merito non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali la stessa sia contenuta, in quanto deve anzi avere riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, quale desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, senza limitare la sua pronuncia in relazione alla prospettazione letterale della pretesa, occorrendo accertare il suo effettivo contenuto sostanziale, tenendo conto anche delle domande che risultino implicitamente proposte o necessariamente presupposte, in modo da ricostruire il contenuto e l’ampiezza della pretesa medesima secondo criteri logici che permettano di rilevare l’effettiva volontà della parte in relazione alle finalità concretamente perseguite dalla stessa (Cass. n. 830 del 2006; 2 dicembre 2004, n. 22665; Cass. 10 febbraio 2010, n. 3012; Cass. 26 settembre 2011, n. 19630).
Incorre, infatti, nel vizio di omesso esame il giudice che limiti la sua pronuncia alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell’effettivo contenuto sostanziale della stessa (Cass. 14 novembre 2011, n. 23794).
Ciò ancor di più nel rito del lavoro nel quale la necessità di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all'art. III, secondo comma, Cosi, e in coerenza con l’art. 6 CEDU, comporta l’attribuzione di una maggiore rilevanza allo scopo del processo - costituito dalla tendente finalizzazione ad una decisione di merito - che impone di discostarsi da interpretazioni suscettibili di ledere il diritto di difesa della parte o che, comunque, risultino ispirate ad un eccessivo formalismo, tale da ostacolare il raggiungimento del suddetto scopo (vedi, per tutte: Cass. 1 agosto 2013, n. 18410).
11.2. - Comunque, non sussiste violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato allorché il giudice, qualificando giuridicamente in modo diverso rispetto alla prospettazione della parte i fatti da questa posti a fondamento della domanda, le attribuisca un bene della vita omogeneo, ma ridimensionato, rispetto a quello richiesto (Cass. 30 settembre 2015, n. 19502; Cass. 5 novembre 2009, n. 23490; Cass. 26 aprile 1971, n. 1232).
11.3. - Nella specie i fatti storici presi in considerazione dalla Corte territoriale sono i medesimi sui quali si è pronunciato il Tribunale e sui quali quindi si è svolto il contraddittorio delle parti, solo che la Corte d’appello ha ritenuto di qualificarli applicando la nozione di tipo medico-legale dello straining anziché quella del mobbing. Peraltro, è pacifico che lo straining consiste in una forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, come può accadere, ad esempio, in caso di demansionamento, dequalificazione, isolamento o privazione degli strumenti di lavoro. In tutte le suddette ipotesi: se la condotta nociva si realizza con una azione unica ed isolata o comunque in più azioni ma prive di continuità si è in presenza dello straining, che è pur sempre un comportamento che può produrre una situazione stressante, la quale a sua volta può anche causare gravi disturbi psico-somatici o anche psico-fisici o pscichici. Pertanto, pur mancando il requisito della continuità nel tempo della condotta, essa può essere sanzionata in sede civile sempre in applicazione dell’art. 2087 cod. civ. ma può anche dare luogo a fattispecie di reato, se ne ricorrono i presupposti (vedi, per tutte: Cass., VI Sezione penale, 28 marzo - 3 luglio 2013, n. 28603).
11.4. - Detto questo, come già si è rilevato, ai fini giuridici ciò che conta è che, nella specie, sia stata accertato il compimento di una condotta contraria all'art. 2087 cod. civ. e alla successiva normativa in materia, di importazione comunitaria, senza che abbia rilievo - sotto il profilo di una eventuale ultrapetizione - la originaria prospettazione della domanda giudiziale in termini di danno da mobbing e non da straining, in tale diversa qualificazione (mutuata dalla scienza medica) è stata effettuata dalla Corte bresciana lasciando inalterati sia il petitum che la causa petendi e non attribuendo un bene diverso da quello domandato o introducendo nel tema controverso nuovi elementi di fatto (Cass. 23 marzo 2005, n. 6326; Cass. 1° settembre 2004, n. 17610; Cass. 12 aprile 2006, n. 8519).
12 - Con il secondo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli arti 1173, 2087, 1225, 2043, 2055, 2056, 2059 cod. civ.; b) in relazione all'art. 360, nn. 4 e 5, cod. proc. civ., erronea, illogica e/o contraddittoria motivazione nel punto in cui, nonostante l’esclusione del mobbing e del demansionamento, si è affermata la responsabilità anche dell’Azienda per il riconosciuto danno biologico, per la situazione lavorativa disagevole in cui la F.M.è stata mandata a lavorare.
Si sottolinea che i due fatti sicuramente offensivi dai quali la Corte d’appello ha desunto la sussistenza del danno da straining - il referto stracciato in presenza di un paziente e la scheda di valutazione negata, rispettivamente posti in essere il 20 e il 26 ottobre 2006 - sono da ascrivere a due condotte di’impeto del A.P., non riferibili in alcun modo all’Azienda, neppure in termini di prevedibilità dell’evento.
D’altra parte, tali due episodi sono antecedenti al trasferimento della attuale ricorrente alla Riabilitazione Funzionale (che, peraltro, come la stessa Azienda precisa, è avvenuto nell’ottobre 2006 n.d.r. v. p. 57 del controricorso), legittimamente disposto nell’esercizio dello ius variandi che compete al datore di lavoro.
Di qui la contraddittorietà, illogicità e comunque insufficienza della motivazione, non avendo la Corte bresciana chiarito le ragioni della contestata decisione.
12.1. - Il motivo è inammissibile in quanto, a parte l’invocazione impropria dell’art. 360, n. 5, tutte le censure si risolvono in una inammissibile critica della valutazione delle risultanze probatorie operata dalla Corte bresciana.
Né va omesso di rilevare che l’Azienda Ospedaliera, dopo il primo episodio ingiurioso, anziché restare sostanzialmente inerte avrebbe dovuto adottare concrete misure e una adeguata vigilanza, secondo quanto disposto dall’art. 54 del d.lgs. n, 165 del 2001, dall’art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2008 e dalle norme contrattuali conseguenti (vedi: Cass. 11 settembre 2008. n. 22858; Cass. 20 luglio 2013, n. 18093).
Peraltro, la Corte d’appello fa esplicito riferimento allo svolgimento della prestazione professionale in un “ambiente di lavoro disagevole, per incuria e disinteresse nei confronti del benessere lavorativo” e queste affermazioni non sono utilmente prese in considerazione negli atti difensivi del presente giudizio di cassazione della Azienda Ospedaliera.
13.- Con il terzo motivo si denunciano: a) in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione e falsa applicazione degli artt. 1228, 2087, 2043, 2049 cod. civ.; b) in relazione all’art. 360, nn. 4 e 5, cod. proc. civ., insufficiente, contraddittoria e comunque erronea nel punto in cui, nonostante l’affermazione secondo cui i fatti causativi del danno biologico sono quelli commessi dal A.P., aventi carattere intenzionale e discriminatorio, comunque si è ritenuta anche l’Azienda responsabile per il riconosciuto danno biologico, senza spiegarne le ragioni.
13.1. - Il motivo è inammissibile per le stesse ragioni che portano all’inammissibilità del precedente motivo (vedi sopra punto 12.1).
14 - Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame dei seguenti fatti decisivi e discussi tra le parti, rilevanti per escludere qualunque responsabilità dell’Azienda: 1) scelta espressa dalla F.M. nel senso di essere trasferita alla UO (Unità Operativa) di Riabilitazione funzionale della Divisione di Medicina; 2) avvenuta consegna della scheda di valutazione, grazie all’intervento dell’Azienda nei confronti del Prof. A.P..
14.1. - Il motivo è inammissibile, per la principale ragione del mancato rispetto, nella formulazione delle censure, di quanto prescritto dal nuovo testo dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., come si è detto. Va, comunque, precisato che, i fatti evidenziati, che sono da considerare implicitamente ritenuti irrilevanti dalla Corte d’appello, sono comunque privi del carattere di decisività. Infatti, nella sentenza impugnata, quanto al trasferimento, è stato escluso che esso abbia comportato un demansionamento, sicché, ai presenti fini, non ha alcun rilevo che tale trasferimento sia stato il frutto di una scelta espressa dalla dottoressa. D’altra parte, altrettanto irrilevante è la circostanza che, ad avviso della ricorrente incidentale, consegna successiva della scheda di valutazione alla F.M. sia avvenuta per interessamento dell’Azienda, in quanto quand’anche ciò sia stato, certamente un simile interessamento non è sufficiente ad escludere la responsabilità dell’Azienda Ospedaliera per mancato intervento tempestivo sulla situazione stressogena che si era determinata dopo il primo episodio ingiurioso, per quel che si è detto sopra al punto 12.1..
15.- Con il quinto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame del seguente fatto decisivo e discusso tra le parti: la mancata contestazione in giudizio dell’accertamento compiuto dal CTU, che invece sarebbe stato ampiamente censurato dai CTP, da molti punti di vista, a partire dalla rilevata sussistenza di un danno psichiatrico (con invalidità permanente del 10%), che risulterebbe incompatibile con l’importante attività scientifica tuttora svolta dalla F.M..
15.1. - Anche questo motivo è inammissibile perché, benché nella relativa rubrica si faccia riferimento ad un “omesso esame” di un “fatto decisivo e discusso tra le parti”, nelle relative argomentazioni non si fa altro che riferirsi sostanzialmente al testo dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ. vigente prima delle modifiche del 2012, deducendo — peraltro, in modo generico — che la Corte d’appello avrebbe affermato che l’accertamento compiuto dal CTU sulle condizioni di salute della F.M. non è stato oggetto di contestazione in giudizio, senza dare conto delle ampie censure proposte dai CTP.
Pertanto, non si tratterebbe di un omesso esame di un fatto decisivo, ma eventualmente di una motivazione insufficiente o carente sul punto in contestazione e, come è già specificato, la valutabilità della “insufficienza” o della “contraddittorietà” della motivazione in sede di giudizio di cassazione è stata certamente esclusa dalla novella.
IV - Sintesi ed esame dei motivi del ricorso incidentale di A.P.
16 - Il suddetto ricorso è articolato in quattro motivi.
17. — Con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 4, cod. proc. civ., violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., sostenendosi che la sentenza impugnata sia viziata da ultrapetizione laddove, dopo l’esclusione della ricorrenza del mobbing, la Corte ha riqualificato la fattispecie come straining, situazione alla quale l’interessata non aveva mai fatto riferimento.
17.1. - TI motivo è analogo alla censura di ultrapetizione formulata nel primo motivo del ricorso incidentale dell’Azienda Ospedaliera ed è quindi infondato per le ragioni già esposte a proposito di tale censura (vedi sopra punto 11).
18. - Con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione degli artt. 2087 e 2697 cod. civ., per avere la Corte bresciana affermato la ricorrenza dello straining, pur non sussistendone i presupposti - come delineati dalla scienza medica - peraltro neppure dedotti e tanto meno provati.
18.1. - Anche questo motivo non è da accogliere.
E pacifico che i fatti sui quali si è pronunciata la Corte d’appello sono sempre i medesimi discussi e provati in giudizio e sui quali vi è stato un ampio contraddittorio fra le parti. È anche noto che lo straining è una forma attenuata di mobbing e che, in ogni caso, entrambe tali nozioni sono proprie della scienza medica, mentre, ai fini giuridici, ciò che conta è l’accertata esistenza di una condotta intenzionale ingiuriosa - e penalmente sanzionata a tede titolo - mossa da motivazione discriminante, da cui è nata una situazione di stress lavoro-correlata. Tanto basta per la affermazione della responsabilità dell’attuale ricorrente incidentale ex art. 2087 cod. civ. e art. 28 d.lgs. n. 81 del 2008.
19 - Con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame di un fatto decisivo e discusso tra le parti, essendovi nella sentenza “un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, laddove la Corte d’appello dopo aver affermato che per la sussistenza dello straining sono stati fissati sette parametri tassativi e necessari, aggiunge che nella specie tali parametri sono stati riscontrati, ma poi argomenta tale riscontro solo con riguardo a cinque di tali parametri, peraltro in modo insufficiente.
Peraltro, di tali parametri ne sussisterebbe solo uno cioè l’ambiente lavorativo, quindi non essendo configurabile lo straining, la Corte bresciana avrebbe affermato la sussistenza di una responsabilità ex art. 2087 cod. civ. in assenza dei necessari presupposti.
19.1. - Il motivo, come si è detto, è, in linea generale, inammissibile in quanto benché nella relativa rubrica si faccia riferimento ad un “omesso esame” di un “fatto decisivo e discusso tra le parti”, nelle relative argomentazioni non si fa altro che riferirsi sostanzialmente al testo dell’art. 360, n. 5, cod. proc. civ., per il profilo della motivazione contraddittoria.
Inoltre, essendo la nozione dello straining ima nozione appartenente alla scienza medica - come anche nella sentenza impugnata viene sottolineato - i “fatti” che, ad avviso del ricorrente incidentale, sono stati omessi non sono fatti giuridici e, come tali, non hanno rilevanza decisiva. A ciò va aggiunto, per precisione, che la Corte d’appello ha espressamente ritenuto presenti i primi cinque parametri che caratterizzano lo straining per la scienza medica, mentre non ha espressamente fatto riferimento agli altri due parametri, rappresentati dall’andamento secondo fasi successive e dell’intento persecutorio. Tuttavia, il fatto stesso che siano stati accertati due comportamenti posti in essere dal A.P. forieri di danno e che sia stato affermato il carattere intenzionale e discriminatorio — affermazione, quest’ultima, che, nel presente ricorso incidentale, non viene efficacemente contestata — della condotta di A.P. ben possono indurre a considerare implicitamente sussistenti anche i due parametri non espressamente elencati e, quindi, ad escludere che — anche solo dal punto di vista logico, visto che, dal punto di vista giuridico, ciò non rileva — non vi sia alcuna contraddizione nella specificazione operata dalla Corte bresciana in merito alla rinvenuta sussistenza, nella specie, di tutti e sette i parametri dello straining in oggetto.
In ogni caso, a prescindere dalle definizioni e dalle classificazioni di tipo medico, ciò che conta, in questa sede, è che il CTU ha accertato che il comportamento illecito in argomento come ricostruito senza contestazioni, ha determinato una lesione di carattere permanente sull’integrità psico-fisica della lavoratrice, la quale risulta aver riportato un danno biologico permanente quantificato nella misura del 10%.
20- Con il quarto motivo si denuncia, in relazione all’art. 360, n. 3, cod. proc. civ., violazione degli arti. 2087 e 2697 cod. civ., per avere la Corte territoriale condannato il A.P. al pagamento, a titolo risarcitorio, di una somma di denaro “esorbitante” (specialmente in considerazione della operata riqualificazione della fattispecie), sull’erroneo presupposto che fossero stati provati i relativi danni. 
Infatti, in base alla giurisprudenza di legittimità, il prestatore di lavoro che chieda la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno (anche nella sua eventuale componente del danno alla vita di relazione o di cosiddetto danno biologico) subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita — lesione che, per l’appunto, si profila idonea a determinare una dequalificazione del dipendente stesso - è tenuto ad indicare in maniera specifica il tipo di danno che assume di aver subito ed a fornire la prova dei pregiudizi da tale tipo di danno in concreto scaturiti e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una sua valutazione, anche eventualmente equitativa (vedi, per tutte: Cass. SU 24 marzo 2006, n. 6572).
20.1. - Il motivo è infondato.
In merito alla quantificazione del danno subito dalla F.M. la Corte d’appello ha affermato che la liquidazione di tale danno come effettuata dal giudice di primo grado rispecchiava esattamente la misura della sofferenza patita e il danno psichico permanente subito dalla dottoressa senza che questo comporti alcuna duplicazione di voci di danno (come invece ritenuto dall’Azienda e dal A.P.) ed ha aggiunto che, d’altra parte, diversamente da quanto richiesto dalla F.M., non residuava alcuna altra voce di danno risarcibile né a titolo di perdita di chance (privo di allegazioni) né per un autonomo danno morale ed esistenziale (già compreso nella sovrabbondante liquidazione del danno biologico).
Da ciò si desume che il danno è stato - discrezionalmente, ma motivatamente - così liquidato in quanto comprensivo di tutte le voci (esistenziale, biologico, morale) di danno alla persona.
20.2. - Il relativo onere probatorio è quello previsto per la violazione dell’art. 2087 cod. civ.
Al riguardo va considerato che, grazie al carattere di “norma di chiusura” del sistema antinfortunistico pacificamente riconosciuta alla suddetta disposizione codicistica nonché all’ammissibilità della interpretazione estensiva della predetta norma alla stregua sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute (art. 32 Cost.), sia dei principi di correttezza e buona fede (artt. 1175 e 1375 cod. civ.) ai quali deve ispirarsi anche lo svolgimento del rapporto di lavoro, la giurisprudenza di questa Corte ha inteso l’obbligo datoriale di “tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”, sancito da questa norma, nel senso di includere anche l’obbligo della adozione di ogni misura “atipica” diretta alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori, come, ad esempio, le misure di sicurezza da adottare in concreto nella organizzazione tecnico-operativa del lavoro allo scopo di prevenire ogni possibile evento dannoso, ivi comprese le aggressioni conseguenti all’attività criminosa di terzi (Cass. 22 marzo 2002, n. 4129).
Questo implica, reciprocamente, l’obbligo del datore di lavoro di astenersi da iniziative, scelte o comportamenti che possano ledere, già di per sé, la personalità morale del lavoratore, come l’adozione di condizioni di lavoro stressogene o non rispettose dei principi ergonomici, oltre ovviamente a comportamenti più gravi come mobbing, straining, bum out, molestie, stalking e così via, alcuni anche di possibile rilevanza penale (sulla scorta di quanto affermato anche dalla Corte costituzionale;vedi per tutte: Corte cost. sentenza n. 359 del 2003 e Cass. 5 novembre 2012, n. 18927). 
A ciò è da aggiungere che - poiché, in base al “diritto vivente”, nell’interpretazione delle norme il canone preferenziale dell’interpretazione conforme a Costituzione è rinforzato dal concorrente canone dell’interpretazione non contrastante con la normativa comunitaria e con la CEDU - al fine della corretta individuazione della potenzialità lesiva (nei detti termini) delle indicate condotte, si deve tenere conto anche degli esiti del lungo processo evolutivo che si è avuto in ambito comunitario, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di giustizia, in materia di diritto antidiscriminatorio e antivessatorio, in genere e in particolare nei rapporti di lavoro, che ha portato - a partire dalla introduzione dell’art. 13 nel Trattato CE (Trattato di Amsterdam del 1997) divenuto poi art. 19 TFUE in materia di azioni positive e art. 141 TCE, ora art. 157 TFUE in materia di non discriminazione, che si limitavano a prevedere dei divieti strettamente funzionali ai differenti settori di competenza e di intervento dell’originaria CE - all’affermazione di un generale principio di uguaglianza analogo a quello previsto da molte delle Costituzioni degli Stati membri, declinato nei due diversi aspetti dell’uguaglianza e della non discriminazione, con un ulteriore rafforzamento, al livello di normativa primaria,per effetto dell’adozione della Carta di Nizza, ora Carta dei diritti fondamentali della UE, i cui artt. 20, 21 e 23 riconoscono rispettivamente in linea generale l’uguaglianza davanti alla legge, il principio non discriminazione e il principio di parità tra uomini e donne e la necessità di adottare azioni positive.
Tale processo, poi proseguito in sede comunitaria e nazionale, ha portato, nel corso del tempo e principalmente per effetto del recepimento di direttive comunitarie, alla conseguenza che anche nel nostro ordinamento condotte potenzialmente lesive dei diritti fondamentali di cui si tratta abbiano ricevuto una specifica tipizzazione, come discriminatorie (in modo diretto o indiretto).
Infatti, la prova presuntiva (o indiziaria) - che esige che il Giudice prenda in esame tutti i fatti noti emersi nel corso dell’istruzione, valutandoli tutti insieme e gli uni per mezzo degli altri e quindi esclude che il Giudice, avendo a disposizione una pluralità di indizi, li prenda in esame e li valuti singolarmente, per poi giungere alla conclusione che nessuno di essi assurga a dignità di prova (Cass. 9 marzo 2012, n. 3703) - consente attraverso la complessiva valutazione di precisi elementi dedotti (caratteristiche, gravità, frustrazione personale e/o professionale, altre circostanze del caso concreto) di poter risalire coerentemente, con un prudente apprezzamento, al fatto ignoto, ossia all’esistenza del danno, facendo ricorso, ai sensi dell'art. 115 cod. proc. civ., a quelle nozioni generali derivanti dall’esperienza, delle quali ci si serve nel ragionamento presuntivo e nella valutazione delle prove (vedi per tutte: Cass. 5 novembre 2012, n. 18927 cit.).
Ciò, del resto, è conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità in materia di prova del danno da demansionamento (Cass. SU 22 febbraio 2010, n. 4063; Cass. SU 24 marzo 2006, n. 6572 del 2006; Cass. 19 dicembre 2008, n. 29832; Cass. 26 novembre 2008, n, 28274), oltre che trovare riscontro nella giurisprudenza amministrativa in materia di mobbing (Cons. Stato 21 aprile 2010, n. 2272).
Tali principi sono applicabili anche nell’ipotesi dello straining individuata dalla scienza medica come forma attenuata di mobbing nella quale non si riscontra il carattere della continuità delle azioni vessatorie, le quali, ancorché finalisticamente non accumunate, possono risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati, di cui si è detto (arg. ex Cass. sez. VI pen. 8 marzo 2006 n. 31413).
20.3. - La Corte bresciana, nella determinazione dei danni in argomento si è attenuta, con congrua e logica motivazione, a tutti i suindicati principi, sicché anche da questo punto di vista, la sentenza impugnata non merita alcuna censura.
V - Conclusioni
21.- In sintesi, tutti i ricorsi devono essere respinti. In considerazione della reciproca soccombenza le spese del presente giudizio di cassazione vanno compensate tra le parti, dandosi atto della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa tra le parti le spese del presente giudizio di cassazione.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale e per i ricorsi incidentali, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.

 

Così deciso in Roma, nella camera di Consiglio della Sezione Lavoro, il 4 novembre 2015