Cassazione Civile, Sez. Lav., 15 giugno 2017, n. 14865 - Preteso risarcimento del danno biologico da parte dell'ufficiale giudiziario per mancata adibizione a mansioni più consone alla propria salute. Rigetto del ricorso


 

Presidente: NAPOLETANO GIUSEPPE Relatore: TRICOMI IRENE Data pubblicazione: 15/06/2017

 

Fatto

 


1. La Corte d'appello di Roma, con la sentenza n. 2214 del 2010, rigettava l'appello proposto da V.F. nei confronti del Ministero della Giustizia.
2. Il V.F. aveva adito il Tribunale di Roma esponendo di essere ufficiale giudiziario avente posizione economica B3 e chiedendo la condanna dell'Amministrazione al pagamento del risarcimento del danno biologico per non averlo adibito a mansioni più consone al proprio stato di salute, nonché al divieto di adibirlo al prolungamento dell'orario di lavoro; confermarsi l'ordinanza cautelare per l'assegnazione delle ferie non godute per l'anno 2002 e delle ferie per l'anno 2003; condannarsi l'Amministrazione al risarcimento del danno da perdita del posto di lavoro qualora al protrarsi dello stato delle cose dovesse seguire il licenziamento per superamento del periodo di comporto.
3. Il Tribunale dichiarava cessata la materia del contendere in riferimento alla domanda relativa al godimento delle ferie, rigettando nel resto, atteso che dalla documentazione del Ministero era emerso che il lavoratore era idoneo a svolgere il servizio di istituto.
4. La Corte d'Appello riteneva inammissibile per carenza di interesse la domanda di accertamento in astratto del diritto del lavoratore al godimento delle ferie. Poiché il ricorrente deduceva di non aver goduto delle ferie nell'anno 2002 e 2003 e l'Amministrazione sia pure su ordine del giudice vi ottemperava, il ricorrente aveva avuto il bene della vita cui aspirava con cessazione materia contendere.
Nel resto rigettava la domanda ritenendo che non vi fossero patologie riconducibili a causa di servizio e che lo stato di salute fosse compatibile con le mansioni svolte.
5. Per la cassazione della sentenza resa in grado di appello ricorre il V.F. con due motivi di ricorso.
6. Resiste il Ministero con controricorso.
7. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
 

 

Diritto

 


1. Preliminarmente, va rilevato che il controricorso è stato notificato al ricorrente parte presso l'avv. Omissis, difensore costituito nel giudizio di appello, e non presso l'avv. Omissis, difensore che lo rappresenta e difende nel presente giudizio di legittimità presso cui domicilia. A ciò consegue l'inammissibilità del controricorso.
2. Con il primo motivo è dedotta la violazione degli artt. 1218 e 2087 cod. civ., degli artt. 16 e 17 del d.lgs. n. 624 del 1994, dell'art. 21 del CCNL 16 maggio 1995, ex art. 360, n. 3, cpc.
2.1. Premette il ricorrente che, già affetto da una grave menomazione fisica invalidante, essendo privo di visus all'occhio destro, nel corso della propria vita lavorativa si ammalava risultando affetto da una grave sindrome ansioso-depressiva con manifestazioni acute.
Chiedeva quindi di essere adibito a mansioni consone al proprio stato di salute.
Ciò veniva disatteso venendo anche inibita la possibilità di fruire delle ferie annuali per sette anni e potendo avere limitatissimi periodi di riposo.
2.3. Ciò determinava la lesione degli artt. 32, 36 e 28 Cost. e dell'art. 2087 cod. civ.
Ai sensi di tale ultima disposizione, norma di chiusura del sistema antinfortunistico, il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento e il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento e il danno, ma non anche la colpa del datore di lavoro, nei cui confronti opera la presunzione posta dall'art. 1218 cod. civ., il superamento della quale comporta la prova di aver adottato tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, in relazione alle specificità del caso ossia al tipo di operazione effettuata ed ai rischi intrinseci alla stessa, potendo al riguardo non risultare sufficiente la mera osservanza delle misure di protezione individuale imposte dalla legge.
2.4. Tanto premesso, rileva il ricorrente che nel caso di specie era evidente la responsabilità datoriale con riguardo all'omessa osservanza delle specifiche norme all'epoca vigenti in materia di sorveglianza sanitaria ex artt. 16 e 17 del d.lgs. n. 626 del 1994, nonostante le indicazioni dei sanitari e le richieste del lavoratore.
Erroneamente, la Corte d'Appello, che ricostruiva la fattispecie nell'ambito del mero profilo della responsabilità acquiliana, riduceva la considerazione dell'onere probatorio alla stregua della mancata dimostrazione dell'illiceità del danno sotto il profilo comportamento colposamente omissivo dell'Amministrazione.
È censurata la statuizione che ha escluso un comportamento omissivo dell'Amministrazione che non provvedeva ad assegnare il lavoratore ad altre mansioni atteso che la Commissione medico ospedaliera con provvedimento del 23 giugno 1997 affermava che il dipendente era idoneo allo svolgimento del servizio svolto e che la patologia non dipendeva da causa di servizio (tale è il senso della frase alla fine di pag. 4, e inizio di pag. 5 della sentenza di appello, atteso che l'apparente mancanza di qualche parola non ne inficia il senso).
Spettava invece all'Amministrazione adottare tutte le misure affinchè il precario stato di salute non venisse aggravato.
Erano poi erronee le affermazioni, in ragione delle condizioni di salute, che il lavoro del ricorrente non sarebbe stato dissimile o più gravoso rispetto a quello svolto dagli altri colleghi, che sarebbe stato difficile soddisfare le richieste del lavoratore in ragione della peculiarità del tipo di lavoro.
La Corte d'Appello aveva poi omesso di motivare circa il rilievo attribuito dalla sentenza di primo grado all'art. 21 del CCNL che non era pertinente al caso in esame.


3. Il motivo non è fondato.
4. In via preliminare, è opportuno ricordare i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in relazione al contenuto precettivo dell'art. 2087 cod. civ.
4.1. Come questa Corte ha avuto modo di affermare (ex multis Cass., n. 9817 del 2008) la responsabilità ex art. 2087 cod. civ. che insieme all'art. 1218 cod. civ., viene richiamato dal ricorrente, è di carattere contrattuale, in quanto il contenuto del contratto individuale di lavoro risulta integrato per legge (ai sensi dell'art. 1374 cod. civ.) dalla disposizione che impone l'obbligo di sicurezza e lo inserisce nel sinallagma contrattuale, sicché il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno differenziale da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini che nell'art. 1218 cod. civ. sull'inadempimento delle obbligazioni. Ne consegue che il lavoratore deve allegare e provare la esistenza dell'obbligazione lavorativa, del danno ed il nesso causale di questo con la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare che il danno è dipeso da causa a lui non imputabile e cioè di avere adempiuto al suo obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno.
4.2. Si è poi precisato che, ai fini dell'accertamento della responsabilità ex art. 2087 cod. civ., incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro - una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze - l'onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo (Cass., n. 3788 del 2009).
L'art. 2087 cod. civ. non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento. Ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare l'esistenza di tale danno, come pure la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'uno e l'altro, e solo se il lavoratore abbia fornito la prova di tali circostanze sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi. Né la riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di servizio" implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito dell'art. 2087 cod. civ., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (Cass. n. 2038 del 2013).
4.3. Ciò in continuità con l'affermazione che la responsabilità del datore di lavoro per la violazione dell'obbligo posto dall'art. 2087 cod. civ. non ricorre per la sola insorgenza della malattia del lavoratore durante il rapporto di lavoro, richiedendosi che l'evento sia ricollegabile a un comportamento colposo dell'imprenditore che, per negligenza, abbia determinato uno stato di cose produttivo dell'infermità (Cass., n. 10175 del 2004) e che l'oggetto della prova del datore di lavoro è necessariamente correlato alla identificazione delle modalità del fatto e presuppone, in relazione ad esse, l'accertamento delle cause che lo hanno determinato, cause che devono essere provate dal lavoratore. Tra le misure da apprestare non rientra la diminuzione del carico lavorativo del dipendente, quando non vi sia la prova della eccessività quantitativa o qualitativa delle prestazioni richieste (Cass., n. 11932 del 2004).
4.4. Si è inoltre affermato che l'art. 2087 c.c., il quale fa carico al datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità del dipendente, introduce un dovere che trova fonte immediata e diretta nel rapporto di lavoro e la cui inosservanza, ove sia stata causa di danno, può essere fatta valere con azione risarcitoria. Tuttavia, è pur sempre necessario che siano ravvisabili, nella condotta del datore di lavoro, profili di colpa cui far risalire il danno all'integrità fisica patito dal dipendente. Pertanto, quando l'espletamento delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e comporti l'aggravamento di una preesistente malattia, non può ritenersi responsabile il datore di lavoro per non aver adottato le misure idonee a tutelare l'integrità fisica del dipendente, ove non risulti che egli era a conoscenza dello stato di salute di quest'ultimo e dell'incompatibilità di tale stato con le mansioni affidategli (Cass., n. 6454 del 2009, n. 23167 del 2007).
4.5. Tanto premesso, occorre rilevare che il lavoratore agiva in giudizio in sede cautelare per chiedere di essere adibito a mansioni confacenti al proprio stato di salute, ad avere assegnato il periodo di ferie corrente, a rispettare l'ordinario orario di lavoro, ad evitare di essere sottoposto a straordinari incompatibili con il proprio stato di salute (cfr., pag. 8 del ricorso per cassazione), e che nel giudizio di merito introdotto dopo il procedimento cautelare (cfr., pag. 12 del ricorso per cassazione) chiedeva conferma della statuizione sulle ferie, insisteva nella domanda di assegnazione a mansioni confacenti al proprio stato di salute e le altre domande formulate nelle conclusioni di merito nel ricorso ex art. 700. cod. proc. civ.
Viene, quindi in rilievo, la prospettata responsabilità del datore di lavoro quanto meno per l'aggravamento (cfr., pag. 24 del ricorso per cassazione) di uno stato di malattia connesso alla mansioni svolte -carichi di lavoro, orari, fruizione periodi di riposo.
4.6. La Corte d'Appello poneva a fondamento della propria decisione:
il V.F., come suggerito dall'Amministrazione (che a seguito di una prima istanza del lavoratore di essere adibito a mansioni più consone al proprio stato di salute, e di una seconda istanza di assegnazione a mansioni meno faticose, con orari normali di lavoro, mansioni interne d'ufficio o a zone con carichi di lavoro meno gravosi, rappresentava la difficoltà di soddisfare tale richiesta in dipendenza della peculiarità del tipo di lavoro svolto e suggeriva di inoltrare istanza di assegnazione ad altra zona lavorativa), aveva chiesto di essere adibito alla zona operativa "ex Pisa Maja", ove veniva assegnato, di ridotte dimensioni territoriali e prossima alla residenza del V.F., mentre gli adempimenti presso la casa comunale erano effettuati da altro ufficiale giudiziario;
che la Commissione medica ospedaliera nel verbale del 23 giugno 1997 che era stato allegato dal lavoratore nel formulare la prima istanza aveva riferito che il dipendente era idoneo allo svolgimento del servizio e che la sua patologia non dipendeva da causa di servizio, da considerarsi non particolarmente gravoso o stressante;
che le allegazioni del lavoratore circa la maggiore gravosità delle zone assegnate allo stesso rispetto a quelle dei colleghi apparivano del tutto generiche e infondate atteso al maggior parte degli atti giornalieri in media da notificare (140) venivano notificati in gran parte presso gli stessi uffici e studi legali;
che il V.F. aveva rifiutato di essere adibito esclusivamente all'interno dell'Ufficio UNEP poiché troppo gravoso per il proprio stato di salute l'impatto con il pubblico.
4.7. Ora se la mancanza di dipendenza da causa di servizio della malattia non esclude la possibile violazione degli obblighi ex art. 2087 cod. civ., nella specie è mancata la prova che l'espletamento delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza fosse incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e comportasse l'aggravamento di una preesistente malattia, non risultando che il datore di lavoro fosse a conoscenza dell'incompatibilità di tale stato di salute con le mansioni affidategli; ciò come affermato dalla Corte d'Appello, in ragione del verbale della Commissione medica ospedaliera, che aveva rilevato che «la (recte: il) ricorrente era affetto da "note nevrotiche in allegata personalità con elementi anancastico paranoidei" escludendo la dipendenza da causa di servizio e ritenendo il V.F. abile allo svolgimento delle funzioni del proprio profilo professionale; aveva poi ritenuto che la patologia, risalente a pochi anni successivi l'assunzione in servizio, fosse riconducibile a eziogenesi costituzionale» (pag. 5 della sentenza di appello), della nuova destinazione presso la zona "ex Pisa Maja", nonché della ritenuta genericità delle allegazioni dell'appellante e delle circostanze relative alla zona di assegnazione e del relativo carico di lavoro.
Diversamente, come già questa Corte ha avuto modo di affermare (Cass., n. n. 11981 del 2016 che richiama Cass. n. 8855 del 2013) si finirebbe per porre a carico del datore di lavoro non soltanto il danno derivante dalla mancata adozione di misure cautelari nominate o, a seconda dei casi, innominate, ma altresì quello derivante dalla qualità intrinsecamente usurante dell'ordinaria prestazione lavorativa e/o dal logoramento dell'organismo del dipendente che sia rimasto esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, laddove questa Corte ha già avuto modo di precisare che detti eventi restano fuori dall'ambito della responsabilità ex art. 2087 c.c. (citata Cass. n. 2038 del 2013).
Va, altresì rilevato che l'accertamento di fatto effettuato dalla Corte d'Appello è censurato in modo generico, assumendone la mera erroneità (cfr. fine pag. 27 del ricorso inizio pag. 28 del ricorso per cassazione), e la deduzione che successivamente all'assegnazione alla zona "ex Pisa Maja" il lavoratore si assentava per la durata di 133 giorni lavorativi a causa di una sindrome ansioso depressiva con disturbi dell'equilibrio, cui seguivano brevi periodi di lavoro intervallati anche da periodi lunghi di malattia (circostanza di cui si dà atto nella sentenza di appello), prospettata quale sintomatica dell'inutilità del cambio, non è accompagnata dalla intervenuta deduzione di elementi volti a soddisfare l'onere della prova che grava sul lavoratore secondo la giurisprudenza di legittimità sopra richiamata.
Poiché la Corte d'Appello non ha posto a fondamento della propria decisione l'art. 21 del CCNL la relativa censura è priva di rilevanza.
5. Con il secondo motivo di ricorso è dedotta insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell'art. 360, n. 5, cod. proc. civ.
La censura (motivazione insufficiente se non addirittura omessa) verte sulla statuizione relativa alla dedotta mancata concessione del periodo annuale di ferie con conseguente diritto al risarcimento del danno biologico per l'aggravamento della patologia del dipendente, atteso che la Corte d'Appello, che disattendeva richiesta di CTU come già il Tribunale, si limitava alla mera affermazione della sussistenza in astratto del diritto alla fruizione delle ferie, tralasciando di valutare il conseguente aggravamento della patologia. La Corte d'Appello ha tralasciato omettendo di considerare le risultanze mediche (in particolare relazione medico-legale del 26 marzo 2002 del dr. A. F.) e la stretta correlazione di queste con il documentato atteggiamento negativo e gravemente omissivo dell'Amministrazione.
6. Il motivo è inammissibile.
La censura si sostanza nella doglianza del vizio di omessa o erronea valutazione della documentazione agli atti da parte del giudice di appello, atteso che l'omessa pronunzia da parte del giudice di merito integra un difetto di attività che deve essere fatto valere dinanzi alla Corte di cassazione attraverso la deduzione del relativo "error in procedendo" e della violazione dell'art. 112 cod. proc. civ. , non già con la denuncia della violazione di una norma di diritto sostanziale o del vizio di motivazione ex art. 360, n. 5, cod. proc. civ., giacché queste ultime censure presuppongono che il giudice del merito abbia preso in esame la questione oggetto di doglianza e l'abbia risolta in modo giuridicamente scorretto ovvero senza giustificare o non giustificando adeguatamente la decisione resa (Cass., n. 329 del 2016).
Va, quindi, rilevato che il ricorrente per cassazione, il quale intenda dolersi dell'omessa od erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere - imposto dall'art. 366, comma 1, n. 6), cod. proc. civ. - di produrlo agli atti (indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale ed in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione) e di indicarne il contenuto (trascrivendolo o riassumendolo nel ricorso); la violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile (Cass., n. 19048 del 2016).
Nella specie il ricorrente da un lato non circostanzia di aver sottoposto al giudice di appello tale documentazione nella prospettazione dei motivi d'appello, dall'altro, non lo produce nei termini sopra indicati, non bastando riprodurne parte.
Circa il profilo dell'insufficiente motivazione concernente la mancata ammissione della consulenza tecnica d'ufficio, occorre ricordare che questa Corte ha da tempo affermato che la consulenza tecnica d'ufficio non è un mezzo di prova, ma uno strumento di valutazione, sotto il profilo tecnico-scientifico, di dati già acquisiti al processo, che non può essere utilizzato al fine di esonerare le parti dall'onere probatorio gravante su di esse (cfr. tra e tante, Cass. n. 7319 del 1999).
7. Il ricorso deve essere rigettato.
8. Nulla spese in ragione dell'inammissibilità del controricorso.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte rigetta il ricorso. Nulla spese.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 2 marzo 2017.