Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. 3, 22 giugno 2017, n. 15535 - Incidente stradale qualificato come infortunio in itinere: liquidazione del danno ed emolumenti già ottenuti





Presidente: SPIRITO ANGELO Relatore: RUBINO LINA Data pubblicazione: 22/06/2017

 

 

 

RITENUTO
- che nel 2000 B.R. conveniva in giudizio M.M., la Pedrotec s.r.l. e la Vittoria Ass.ni s.p.a. per sentirli condannare al risarcimento del danno subito a seguito di un sinistro stradale allorché l'attore, alla guida di un motociclo, veniva a collisione con un autocarro di proprietà della Pedrotec condotto dal M.M. e assicurato con la Vittoria Ass.ni s.p.a.;
- che, ritenuto il concorso di colpa dell’attore nella misura di un terzo, il Tribunale di La Spezia liquidava in favore del danneggiato alcune somme che la Vittoria Ass.ni pagava;
- che i convenuti proponevano appello lamentando, per quanto qui ancora interessa, che il tribunale non avesse detratto dall’importo spettante all’attore il valore della rendita vitalizia che l’Inail aveva preso a corrispondergli, avendo qualificato l’incidente stradale occorsogli come infortunio sul lavoro in itinere;
- che la Corte d’Appello di Genova accoglieva in parte l’appello, ritenendo che da quanto liquidato e già percepito dal B.R. dovesse essere detratto quanto dallo stesso percepito per il medesimo evento dannoso a titolo di rendita Inail, e condannando il B.R. a restituire alla Vittoria Ass.ni la differenza tra quanto da lui incassato dall’assicurazione e la somma a lui spettante detratta la rendita Inail;
- che B.R. propone ricorso articolato in due motivi ed illustrato da memoria per la cassazione della sentenza n. 466 del 2012 emessa dalla Corte di Appello di Genova nei confronti di Vittoria Ass.ni s.p.a., Pedrotec s.r.l., M.M., cui resiste la Vittoria Ass.ni s.p.a. con controricorso anch’esso illustrato da memoria;
- che la causa è stata dapprima rinviata a nuovo ruolo, in attesa della decisione delle Sezioni Unite sul contrasto evidenziato dalla ordinanza di questa sezione n. 4447 del 2015. Poiché le Sezioni Unite, con la sentenza n. 13372 del 2016, hanno deciso di non esaminare nel merito la questione oggetto di contrasto, la causa è stata rimessa all’udienza pubblica del 12 gennaio 2017.
 

 

 

 

CONSIDERATO:
- che con il primo motivo di ricorso, il ricorrente (danneggiato a seguito di incidente stradale, e fruitore della rendita Inail essendo stato riconosciuto che trattavasi di infortunio in itinere) deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 10, commi 6 e 7, del d.P.R. n. 1124\65 in relazione all'art. 360, primo comma n. 3 c.p.c.. Ricostruisce la normativa di riferimento nel senso che, nel sistema delineato dall’art. 10 , dettato a tutela degli infortuni sul lavoro, l’Inail, assicuratrice obbligatoria, si sostituisce al datore di lavoro assicurato, erogando al lavoratore danneggiato una rendita vitalizia in luogo del risarcimento che avrebbe dovuto corrispondergli il suo datore di lavoro, ed il diritto al risarcimento del danneggiato verso il datore di lavoro si riduce in corrispondenza. Dopo il pagamento l’Inail ha diritto di regresso verso i civilmente responsabili, surrogandosi nella posizione del danneggiato. Il ricorrente evidenzia che le norme citate sono poste a tutela del datore di lavoro che è parte del rapporto di assicurazione obbligatoria, mentre la loro applicazione non può legittimamente determinare un vantaggio in favore del terzo responsabile dell'infortunio. Nel caso di specie, che trae origine da un incidente stradale tra due soggetti tra loro estranei ( in conseguenza del quale l'Inail ha riconosciuto al lavoratore danneggiato una rendita vitalizia perché il B.R. si trovava alla guida del motociclo in ragione del suo lavoro), in cui la corte d’appello ha decurtato da quanto dovuto dal danneggiante al danneggiato l’importo da questi percepito dall’Inail, il ricorrente sostiene che si sia consequenzialmente venuta a svuotare di contenuto la responsabilità del danneggiante. Aggiunge il ricorrente che neppure è fondata, in via assoluta, la considerazione della corte d’appello, secondo la quale diversamente opinando il danneggiato verrebbe a fruire di una duplicazione di risarcimento, in quanto ciò potrebbe accadere, in concreto, solo allorché l’assicuratore (in questo caso, l’Inail) non si surroghi nei diritti del danneggiato verso il danneggiante;
- che con il secondo motivo, in via subordinata, il ricorrente deduce nuovamente la violazione dell’art. 10 del d.P.R. n.1124 del 1965 in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c., nonché dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 345 c.p.c. in relazione all’art. 360 primo comma n. 4 c.p.c., sotto il profilo processuale, affermando che la norma di cui al richiamato art. 10 del d.P.R. n. 1124 del 1965 non può essere applicata d’ufficio e che la questione della detraibilità dall’importo dovuto al B.R. a titolo di risarcimento danni dell’importo riconosciutogli dall’Inail, essendo stata introdotta solo in appello, sarebbe stata inammissibile in quanto eccezione nuova;
- che la principale questione di diritto posta dal ricorso all’attenzione della Corte è la seguente: se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, in virtù degli emolumenti versatigli da assicuratori privati, da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante.
Tale questione giuridica viene tradizionalmente indicata come “problema della compensatio lucri cum damno”.
Di essa — nella sua complessiva portata - erano state investite le Sezioni Unite civili con ordinanza interlocutoria n. 4447 del 2015 (a seguito di cui il presente giudizio è stato rinviato a nuovo ruolo in attesa del relativo pronunciamento), le quali, con sentenza n. 13372 del 30 giugno 2016, non ne hanno esaminato il fondo, reputando che, nella causa ad Esse rimessa, la questione “della compensatio lucri cum damno, pur di estremo interesse sul piano giuridico, si presenta(sse) in concreto quanto meno prematura” per ragioni intrinseche alla vicenda processuale ivi rilevante;
- che la seconda questione, introdotta dal secondo motivo di ricorso, è una ricaduta processuale della precedente, in quanto tende a verificare se il giudice possa legittimamente tener conto anche d’ufficio, nella determinazione del danno risarcibile, di eventuali emolumenti corrisposti al danneggiato da soggetti pubblici o privati in conseguenza del fatto illecito, o se ciò sia oggetto di eccezione di parte e possa essere tenuto in considerazione soltanto ove introdotto in giudizio nel rispetto delle preclusioni maturatesi;
- che la decisione impugnata segue questo percorso motivazionale:
- essa ha quantificato il danno subito dal danneggiato (comprensivo del danno morale, del danno da mancato guadagno, del danno da invalidità permanente e da inabilità temporanea (recuperando la quantificazione fatta dal tribunale in primo grado), abbattendolo percentualmente in considerazione dell’accertato concorso di colpa;
- ha accertato, previa richiesta di informazioni all’Inail, che questa aveva deliberato di corrispondere al B.R. una rendita vitalizia a ristoro del danno patrimoniale (trattasi di infortunio verificatosi in data 7.4.2000, precedente all'entrata in vigore del d.m. 12 luglio 2000, previsto dal d.lgs. n. 38 del 2000) e che la rendita era stata poi effettivamente corrisposta;
- ha ritenuto che le somme riconosciute a carico del danneggiante a titolo di solo danno patrimoniale non fossero dovute perché “interamente assorbite dall’indennizzo Inail” (non esistendo contestazione sul quantum della rendita e del risarcimento) e che non sussistesse un interesse giuridicamente tutelabile del danneggiato a duplicare il proprio risarcimento;
- ha ritenuto che il danneggiato, ricevuto il proprio ristoro, non avesse alcun interesse giuridicamente tutelabile alla corretta distribuzione dell’onere risarcitorio tra danneggiati ed Inail, e che quindi rimanesse irrilevante, ai fini della quantificazione dell’importo che i danneggiami avrebbero dovuto corrispondere al danneggiato, che l’esercizio dell’azione di regresso da parte dell’Inail fosse intervenuto o meno , e perfino che l’azione stessa fosse o meno concretamente esercitabile.
Sulla base di queste considerazioni, la corte d’appello con la sentenza impugnata ha condannato il danneggiato a restituire all’assicurazione la somma percepita in eccedenza, scomputando dall’importo liquidato in primo grado quanto percepito dall'Inail a titolo di rendita.
Poiché la questione anzidetta, nella presente controversia, assume diretto e centrale rilievo per la decisione del ricorso, della relativa decisione il Collegio ritiene di dover investire nuovamente le Sezioni Unite di questa Corte.
Le ragioni della rimessione ai sensi dell’art. 374 cod. proc. civ. sono le seguenti:
- Nella giurisprudenza di questa Corte il problema della compensatio lucri cum damno ha trovato soluzioni contrastanti, sebbene debba registrarsi — almeno sino ad un certo momento - l’emersione di contrasti occulti, in assenza di corredi argomentativi, a sostegno dell’uno o dell’altro orientamento, che si facciano carico di confutare le opposte ragioni.
Invero, tale questione suscita un estremo interesse anche nell’elaborazione dottrinale, nella significativa presenza di soluzioni diversamente calibrate, tanto nei presupposti teorici, quanto negli effetti pratici.
In questo contesto ritiene il Collegio che il tema in questione vada, dunque, rimeditato funditus, e che, a prescindere dalla ricerca spesso illusoria d’una soluzione dogmaticamente perfetta, ad esso sia data una sistemazione chiara, idonea ai sensi dell'art. 65 ord. giud. a prevenire le liti e a rendere prevedibili le decisioni giudiziarie.
Ed è, quindi, in tale più ampia prospettiva che si ritiene necessario attivare, per l’appunto, il meccanismo di cui all’art. 374 cod. proc. civ., tenuto conto, altresì, che la problematica in questione investe anche materie diverse dalla responsabilità civile e dai relativi profili assicurativi, sulle quali insistono competenze tabellari di altre Sezioni civili.
 

 

Le posizioni della dottrina. I problemi della compensatio lucri cum damno nascono al momento stesso in cui si cerca di definirla.
In dottrina, infatti, si ravvisano ben tre orientamenti diversi: alcuni autori negano del tutto che nel nostro ordinamento esista un istituto giuridico definibile come “compensatio lucri cum damno” altri ammettono che in determinati casi danno e lucro debbano compensarsi, ma negano che ciò avvenga in applicazione di una regola generale; altri ancora fanno della compensatio lucri cum damno una regola generale del diritto civile.
Chi aderisce al primo orientamento fa leva principalmente sulla mancanza di una regola ad hoc che definisca l’istituto e aggiunge un immancabile richiamo alla “iniquità” di un istituto che ha l’effetto di sollevare l’autore d’un fatto illecito dalle conseguenze del suo operato.
Chi aderisce al secondo orientamento condivide l’affermazione secondo cui non esiste nel nostro ordinamento alcuna norma generale che sancisca l’istituto della compensatio lucri cum damno, ma soggiunge che il problema delle individuazione delle conseguenze risarcibili d’un fatto dannoso è una questione di fatto, da risolversi caso per caso; e che nel singolo caso non può escludersi a priori che concause preesistenti o sopravvenute al fatto illecito consentano alla vittima di ottenere un vantaggio.
Chi aderisce al terzo orientamento, infine, sostiene che l’istituto della compensatio lucri cum damno — il quale ha radici storiche antiche e ramificatesi nel tempo sino ai giorni nostri (muovendo dalle fonti romane per transitare attraverso il diritto dei glossatori e la dogmatica pandettistica) - è implicitamente presupposto dall’art. 1223 cod. civ., là dove ammette il risarcimento dei soli danni che siano “conseguenza immediata” dell’illecito e che, inoltre, quel principio generale è desumibile da varie leggi speciali (tra queste, hart. 1, comma 1 -bis, della legge 14 gennaio 1994, n. 20 o l'art. 33, comma 2, del d.P.R. 8 giugno 2011, n. 327).
Occorre, comunque, soggiungere che anche gli autori i quali ammettono l’esistenza dell’istituto della compensatio lucri cimi damno, esprimono poi opinioni assai diverse quando si tratta di ravvisarne il fondamento e l’ambito di operatività.
Alcuni ammettono la compensatio solo per i danni patrimoniali, altri anche per i danni non patrimoniali.
Alcuni ammettono la compensatio solo se danno e lucro siano conseguenza diretta della lesione del diritto; altri si contentano che danno e lucro traggano origine dalla condotta illecita.
Alcuni esigono, per l’applicabilità della compensatio, che danno e lucro siano generati dall’azione del danneggiato, senza il concorso di altri; altri ammettono che la compensatio possa operare anche quando il lucro derivi dalla condotta di un terzo.
La maggior parte degli autori che ammettono la compensatio, infine, per l’operatività dell’istituto pretende che il fatto illecito sia stato causa, e non già mera occasione, tanto del danno, quanto del lucro: salvo poi tornare a dividersi allorché si tratta di stabilire quando un fatto illecito possa dirsi “causa”, e quando “occasione”, del lucro.

 


Le posizioni della giurisprudenza. I contrasti - come si accennava — non mancano nella stessa giurisprudenza di questa Corte.
Essa ha sempre ritenuto esistente un istituto giuridico generale definibile “compensatio lucri cum dammi. Tuttavia, quando si è trattato di stabilirne l’ambito applicativo, le soluzioni adottate si sono mostrate sensibilmente distanti tra loro.
Secondo un primo orientamento, la compensatio lucri cum damno opera solo quando sia il danno che il lucro scaturiscano in via “immediata e diretta” dal fatto illecito.
In applicazione di questo principio è stata esclusa la compensatio in tutti i casi in cui la vittima di lesioni personali, oppure i congiunti di persona deceduta in conseguenza dell’illecito, avessero ottenuto il pagamento di speciali indennità previste dalla legge da parte di assicuratori sociali, enti di previdenza, pubbliche amministrazioni, come pure di indennizzi da parte di assicuratori privati contro gli infortuni. In questi casi — si disse — il diritto al risarcimento del danno trae origine dal fatto illecito, mentre il diritto all’indennità scaturisce dalla legge. Mancando la medesimezza della fonte, mancherebbe l’operatività della compensatio.
Si è esclusa, in particolare, la detraibilità:
(a) della pensione di reversibilità dal risarcimento del danno patrimoniale da morte dovuto alla vedova della vittima (Cass.: n. 5504 del 10 marzo 2014; n. 3357 dell’11 febbraio 2009; n. 18490 del 25 agosto 2006; n. 12124 del 19 agosto 2003; n. 8828 del 31 maggio 2003; n. 2117 del 14 marzo 1996; n. 9528 del 22 dicembre 1987; n. 1928 del 10 ottobre 1970; n. 2491 del 17 ottobre 1966; n. 2530 del 7 ottobre 1964);
(b) degli indennizzi erogati dallo Stato al Comune di Castellavazzo, in conseguenza del disastro del Vajont, dal risarcimento del danno (patrimoniale e non) dovuto al medesimo Comune dal responsabile della sciagura (Cass., 15 aprile 1998, n. 3807);
(c) della indennità di accompagnamento (ex lege 11 febbraio 1980, n. 18) dal diritto al risarcimento del danno patrimoniale dovuto alla vittima di lesioni personali (Cass., 27 luglio 2001, n. 10291);
(d) della pensione di invalidità civile (art. 2 della legge 30 marzo 1971, n. 118) dal risarcimento del danno patrimoniale da lesioni personali (Cass., 18 novembre 1997, n. 11440);
(e) dell’indennizzo pagato dall’assicuratore privato contro gb infortuni dal risarcimento del danno biologico dovuto aba vittima di lesioni personab (Cass., 15 aprile 1993, n. 4475).
Le decisioni che aderiscono a questo orientamento non sono motivate in altro modo che col richiamo — spesso tralatizio - al principio per cui la compensatio lucri cum damno non opera quando danno e lucro traggano origine da fonti diverse (in alcune decisioni peraltro si parla di “titoh” diversi).
Un diverso orientamento, all’opposto, ammette con maggior larghezza l’operatività deba compensatio lucri cum damno. Questo orientamento tuttavia perviene a tale risultato attraverso percorsi diversi.
Talune decisioni ammettono l’istituto della compensatio ed ammettono, altresì, che essa operi solo quando danno e lucro scaturiscono in via immediata e diretta dal fatto illecito: tuttavia, elevando la causa del lucro dal rango di “occasione” a quello di “causa”, giungono al risultato di dettarlo dal risarcimento.
In applicazione di questo principio si è escluso il cumulo tra risarcimento del danno alla persona patito dal militare di leva durante lo svolgimento del servizio in conseguenza d’un fatto colposo dell’amministrazione della difesa e la pensione c.d. “privilegiata tabellare” dovuta alla vittima ex d.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 (Cass., 4 gennaio 2002, n. 64; Cass., 16 settembre 1995, n. 9779).
Altre decisioni pervengono al medesimo risultato, ma senza dichiarare apertamente di fare applicazione dell’istituto della compensatio. Si afferma, piuttosto, che se non si tenesse conto del lucro derivato dall’illecito, il danneggiato sarebbe pagato due volte sine causa; ed il danneggiante a risarcire due volte lo stesso danno. In applicazione di questi principi si è escluso:
(a) il cumulo tra risarcimento del danno patrimoniale da incapacità di lavoro e quanto percepito dalla vittima a titolo di pensione di invalidità (Cass., 13 maggio 2004, n. 9094; Cass., 12 luglio 2000, n. 9228);
(b) il cumulo tra il risarcimento del danno dovuto al lavoratore infortunato (od ai suoi congiunti) dal datore di lavoro responsabile dell’infortunio e la rendita attribuita alla vittima (od ai suoi congiunti) dall’INAIL (Cass.: n. 5964 del 16 novembre 1979; n. 3806 del 15 aprile 1998; n. 3503 del 24 maggio 1986);
(c) il cumulo tra il risarcimento del danno dovuto alla vittima di infezione da emottasfusione e l’indennizzo erogatole ai sensi della legge 25 febbraio 1992, n. 210 (tra le altre, Cass., 20 gennaio 2014, n. 991; Cass., 14 marzo 2013, n. 6573).
Il Collegio ritiene che i problemi interpretativi ed applicativi sin qui riassunti potrebbero rinvenire una soluzione in base ai seguenti princìpi:
(a) alla vittima d’un fatto illecito spetti il risarcimento del danno esistente nel suo patrimonio al momento della liquidazione;
(b) nella stima di questo danno occorre tenere conto dei vantaggi che, prima della liquidazione, siano pervenuti o certamente perverranno alla vittima, a condizione che il vantaggio possa dirsi causato del fatto illecito;
(c) per stabilire se il vantaggio sia stato causato dal fatto illecito deve applicarsi la stessa regola di causalità utilizzata per stabilire se il danno sia conseguenza dell’illecito.
Corollario di quanto precede è che non potrebbe dirsi esistente nel nostro ordinamento un istituto definibile “compensatio lucri cum damno”.
La regola tralatiziamente definita con questa espressione altro non è che un modo diverso di definire il principio di integralità della riparazione o principio di indifferenza, in virtù del quale il risarcimento deve coprire l’intera perdita subita, ma non deve costituire un arricchimento per il danneggiato.
Tale principio è desumibile dall'art. 1223 cod. civ.
All’illustrazione dei princìpi appena esposti saranno dedicati i §§ che seguono, nei quali si esporranno dapprima i vulnera dell’orientamento tradizionale (§ 5.5. e relativi sottoparagrafi) e, quindi, le ragioni che il Collegio riterrebbe rilevanti per la soluzione del problema qui in esame (§ 5.6. e ss.).
In tal senso il Collegio intende collaborare fattivamente al compito di nomofilachia riservato alle Sezioni Unite in funzione della rimessione ai sensi dell’art. 374 cod. proc. civ., evidenziando quali siano le ragioni di criticità degli orientamenti in campo, senza però celare il proprio intendimento al riguardo.
L’orientamento che nega la compensatio lucri cum damno quando vantaggio e svantaggio non trovino ambedue causa immediata e diretta neU’illecito si fonda su quattro presupposti teorici che non parrebbero condivisibili.
 

 

Il primo vulnus dell’orientamento tradizionale è di tipo logico.
Esso, infatti, pretendendo la medesimezza del “titolo” per il danno e per il lucro, al fine dell’operare della compensatio, finisce per disapplicare di fatto l’istituto della compensatio, come attenta dottrina non ha mancato di segnalare. E’ infatti assai raro (se non impossibile) che un fatto illecito possa provocare da sé solo, e cioè senza il concorso di nessun altro fattore umano o giuridico, sia una perdita, sia un guadagno.
Come messo in evidenza dalla dottrina prevalente da oltre un secolo, la compensatio lucri cum damno di compensazione non ha che il nome. Essa non costituisce affatto una applicazione della regola di cui all’art. 1241 cod. civ., così come la “compensazione delle spese” di cui all’art. 92 cod. proc. civ. non è una compensazione in senso tecnico, né lo è la c.d. “compensazione delle colpe” di cui all’art. 1227, comma 1, cod. civ..
La c.d. compensatio lucri cimi damno costituisce piuttosto una regola per l’accertamento dell’esistenza e dell’entità del danno risarcibile, ai sensi dell’art. 1223 cod. civ.
“Lucro” e “danno”, pertanto, non vanno concepiti come un credito ed un debito autonomi per genesi e contenuto, rispetto ai quali si debba indagare soltanto se sussista la medesimezza della fonte. Del c.d. “lucro” derivante dal fatto illecito occorre invece stabilire unicamente se costituisca o meno una conseguenza immediata e diretta del fatto illecito ai sensi dell’art. 1223 cod. civ.
 

 

Il secondo vulnus dell’orientamento tradizionale è di tipo dogmatico.
L’affermazione secondo cui la regola della compensatio opera soltanto se “danno” e “lucro” scaturiscano in modo diretto ed immediato dal fatto illecito appare infatti frutto di un equivoco, a sua volta scaturente da un inconsapevole fraintendimento della dottrina tradizionale.
Questa già alla fine dell’Ottocento aveva individuato, tra i presupposti della compensatio lucri cum damno, la necessità che danno e lucro derivassero dalla stessa condotta del responsabile. Colui il quale con una condotta “A” dovesse causare un danno, e con una condotta “B” dovesse procurare un vantaggio al danneggiato, se richiesto del risarcimento non potrà invocare la compensatio, a meno che non ricorrano i presupposti dell’ingiustificato arricchimento (art. 2041 cod. civ.). Se, infatti, tali presupposti mancassero, non potrà giammai attribuirsi all’autore dell’illecito una posizione più favorevole rispetto a chi ha causato ad altri un vantaggio, non ripetibile ex art. 2041 cod. civ., senza avere commesso alcun fatto illecito.
La regola secondo cui la compensatio esige la medesimezza della condotta, col passare degli anni, venne applicata sempre più tralatiziamente: e poiché la condotta è uno degli elementi dell’illecito, intorno agli anni Cinquanta del XX sec. la giurisprudenza nell’applicare il principio in esame incorse in un’autentica metonimia, finendo con l’indicare la parte per il tutto: così l’originario requisito della “medesimezza della condotta”, da secoli fondamento della compensatio lucri cum damno, si trasformò nella “medesimezza del fatto”, e questa a sua volta nella “medesimezza della fonte” tanto del lucro quanto del danno.
Ma è ovvio che altro è affermare che danno e lucro, per essere compensati, devono scaturire da una unica condotta del danneggiante, ben altro è sostenere che debbano scaturire dalla stessa causa. Mentre infatti la prima concezione ammetteva il concorso di cause, la seconda lo esclude.
La regola applicata dall’orientamento tradizionale, in definitiva, non è affatto fondata sulla “dottrina tradizionale”, come si pretenderebbe, ma costituisce anzi una deviazione dai princìpi di quella.

 


Il terzo vulnus dell’orientamento tradizionale è un corollario del secondo: negando infatti l’operare della compensatio se non quando lucro e danno abbia per causa unica ed immediata la condotta del danneggiante, non si ammette l’operatività dell’istituto quando la vittima in conseguenza del fatto illecito abbia ottenuto un vantaggio patrimoniale in conseguenza d’una norma di legge (ad esempio, nel caso di percezione di benefìci da parte di enti previdenziali, assicuratori sociali, pubbliche amministrazioni) o d’un contratto (ad esempio, nel caso di percezione di indennizzi assicurativi).
In questi casi, si afferma, il fatto illecito costituirebbe una mera occasione del lucro, e non la causa di esso, con conseguente esclusione della compensatio.
Questa opinione (oltre che tralatiziamente erronea nei presupposti storici da cui è desunta) è, soprattutto, incoerente:
(a) con la nozione di “causalità” che si è venuta sviluppando nella giurisprudenza di questa Corte ormai da molti anni in qua;
(b) sia coi princìpi generali della responsabilità civile.
(a.l.) E’ incoerente con la moderna nozione di causalità giuridica, che ha assunto a proprio fondamento il concetto di “regolarità causale”, il quale — abbandonando la sottile, ma difficile distinzione tra “causa” ed “occasione” — ricorre, per affermare resistenza d’un nesso di causalità giuridica tra condotta e danno, al criterio della condicio sine qua non, in forza del quale una condotta è causa di un evento tutte le volte che, senza la prima, il secondo non si sarebbe verificato.
Questa Corte, infatti, ha ripetutamente affermato che ai sensi dell’art. 1223 cod. civ. “tutti gli antecedenti in mancanza dei quali un evento dannoso non si sarebbe verificato debbono considerarsi sue cause, abbiano essi agito in via diretta e prossima o in via indiretta e remota” (così Cass., 13 settembre 2000, n. 12103; nello stesso senso, tra le altre, Cass., 17 settembre 2013, n. 21255; Cass., 22 ottobre 2003, n. 15789); e che — come in precedenza già evidenziato - “il nesso di causalità va inteso in modo da ricomprendere nel risarcimento anche i danni indiretti e mediati che si presentino come effetto normale secondo il principio della c.d. regolarità causale, con la conseguenza che, ai fini del sorgere dell'obbligazione di risarcimento, il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato se, ferme restando le altre condizioni, il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo” (Cass., 21 dicembre 2001, n. 16163, che si aggiunge alle pronunce innanzi citate).
Non è, dunque, corretto interpretare l'art. 1223 cod. civ. in modo asimmetrico e ritenere che “il rapporto fra illecito ed evento può anche non essere diretto ed immediato” quando si tratta di accertare il danno, ed esigere al contrario che lo sia, quando si tratta di accertare il vantaggio per avventura originato dal medesimo fatto illecito.
(b.l.) La tesi secondo cui l’illecito sarebbe mera “occasione” del lucro, quando questo è ottenuto dalla vittima in virtù della legge o del contratto, collide infine coi princìpi generati della responsabilità civile.
Non vi è dubbio che nel rapporto tra assistito o assicurato e il soggetto obbligato al pagamento del beneficio (poniamo, un ente previdenziale o una compagnia assicurativa) il diritto al beneficio scaturisce dalla legge o dal contratto e l’illecito è mera condicio iuris per l’erogazione di esso. E’ nell’ambito di questo rapporto, dunque, che il fatto illecito può dirsi mera occasione o condicio iuris dell’attribuzione patrimoniale.
Ben diversa è la prospettiva se ci si pone nell’ottica del rapporto di diritto civile che lega vittima e responsabile. 
In questo diverso rapporto giuridico si tratta di stabilire non già se il beneficio dovuto per legge o per contratto spetti o meno, ma di quantificare con esattezza le conseguenze pregiudizievoli dell'illecito. E per quantificare tali conseguenze dal punto di vista economico non può spezzarsi la serie causale e ritenere che il danno derivi dall’illecito e l’incremento patrimoniale no: per la semplice ragione che, senza il primo, non vi sarebbe stato il secondo.
Dunque, l'affermazione secondo cui l’illecito non sarebbe “causa” in senso giuridico delle attribuzioni erogate alla vittima per legge o per contratto non tiene conto dell'intrecciarsi dei due ordini di rapporti: quello tra danneggiato e terzo sovventore e quello tra danneggiato e danneggiante. Che l’illecito non sia “causa” dell’attribuzione patrimoniale è affermazione che potrà ammettersi forse nell’ambito del primo di tali rapporti, ma non certo nell’ambito del secondo.

 


Il quarto vulnus dell’orientamento tradizionale è anch’esso di tipo sistematico e riguarda l’ipotesi in cui il lucro derivato dal sinistro consiste nella percezione d’un beneficio previdenziale od assicurativo.
L’orientamento che nega la compensatio tra il danno ed i benefìci erogati alla vittima dall’ente previdenziale o dall’assicuratore (non rileva se privato o sociale), infatti, finisce per abrogare in via di fatto l’azione di surrogazione spettante (ex artt. 1203 e 1916 cod. civ. o in base alle singole norme previste dalla legislazione speciale) a quest’ultimo.
E’ noto infatti che limite oggettivo della surrogazione è il danno effettivamente causato dal responsabile, il quale non può mai essere costretto, per effetto dell’azione di surrogazione, a pagare due volte il medesimo danno: una al danneggiato, l’altra al surrogante (principio pacifico e consolidato: tra le tante, Cass.: n. 4642 del 27 aprile 1995; n. 8597 del 7 agosto 1991; n. 380 del 15 febbraio 1971).
Pertanto, una volta che il responsabile del sinistro sia costretto a pagare l’intero risarcimento senza tener conto del beneficio previdenziale od assicurativo percepito dalla vittima per effetto dell’illecito, non potrebbe poi essere costretto dall’ente previdenziale od assicurativo a rifondergli le somme da questo pagate alla vittima.
Questo risultato però cozza contro evidenti ragioni di diritto e di giustizia. 
Quanto alle prime, l'orientamento tradizionale priva l’assicuratore o l’ente previdenziale d’un diritto loro espressamente attribuito dalla legge (tra gli altri, art. 1916 cod. civ., applicabile anche alle assicurazioni sociali in virtù del rinvio di cui all’art. 1886 cod. civ.; artt. 10 e 11 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, con riferimento all’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro; art. 42, comma 1, della legge 4 novembre 2010, n. 183, con riferimento alle prestazioni di malattia erogate dall’INPS).
Quanto alle seconde, l’orientamento tradizionale - privando l’ente previdenziale o l’assicuratore dell’azione di surrogazione - addossa alla fiscalità generale, e quindi alla collettività, un onere il cui peso economico serve non a ristorare la vittima, ma ad arricchirla: così posponendo di fatto l’interesse generale a quello individuale.
Giova in ogni caso evidenziare che l’istituto della surrogazione e la stima del danno da fatto illecito non sono legati da alcun nesso di implicazione bilaterale.
Se le conseguenze del fatto illecito sono state eliminate dall’intervento d’un assicuratore (privato o sociale che sia), ovvero da un qualsiasi ente pubblico o privato, il pagamento da tale soggetto compiuto, se ha avuto per effetto o per scopo quello di eliminare le conseguenze dannose, andrà sempre detratto dal credito risarcitorio, a nulla rilevando né che l’ente pagatore non abbia diritto alla surrogazione, né che, avendolo, vi abbia rinunciato.
La detrazione dell'aliunde perceptum è infatti necessaria per la corretta stima del danno, non per evitare al danneggiante un doppio pagamento.
Detto delle ragioni per le quali non sarebbe condivisibile l’orientamento tradizionale che ammette la compensatici lucri cum damno nei ristretti limiti sopra censurati, occorre ora stabilire se ed a quali condizioni il vantaggio patrimoniale scaturito da un fatto illecito vada imputato nel risarcimento, con conseguente riduzione di quest’ultimo di un importo pari al vantaggio.
Che nella stima del danno risarcibile debba tenersi conto dei vantaggi economici procurati alla vittima dall’illecito è principio che discende dal c.d. “principio di indifferenza” del risarcimento.
Il principio di indifferenza è la regola in virtù della quale il risarcimento del danno non può rendere la vittima dell’illecito né più ricca, né più povera, di quanto non fosse prima della commissione dell’illecito.
Esso si desume da un reticolo di norme diverse.
Innanzitutto dall’art. 1223 cod. civ., secondo cui il risarcimento deve includere solo la perdita subita ed il mancato guadagno.
In secondo luogo dagli artt. 1909 e 1910 cod. civ., i quali assoggettano l’assicurazione contro i danni al c.d. principio indennitario e, di conseguenza, escludono che la vittima d’un danno possa cumulare il risarcimento e l’indennizzo.
Il principio in esame è, altresì, confermato indirettamente dall’art. 1224, primo comma, ultima parte, cod. civ.: tale norma, stabilendo che nelle obbligazioni pecuniarie sono dovuti dal giorno della mora gli interessi legali “anche se il creditore non prova di aver sofferto alcun danno”, rende palese che, là dove il legislatore ha inteso derogare al principio di indifferenza, ha sentito la necessità di farlo in modo espresso.
Il principio indennitario è altresì desumibile da varie norme codicistiche che lo richiamano implicitamente: si considerino al riguardo le fattispecie previste dagli artt. 1149 cod. civ. (che prevede la compensazione tra il diritto del proprietario alla restituzione dei frutti e l’obbligo di rifondere al possessore le spese per produrli); 1479 cod. civ. (che nel caso di vendita di cosa altrui prevede la compensazione tra il minor valore della cosa e il rimborso del prezzo,); 1592 cod. civ. (compensazione del credito del locatore per i danni alla cosa con il valore dei miglioramenti).
Anche varie previsioni contenute in leggi speciali confermano l’esistenza del principio in esame: ad esempio (e si tratta di disposizioni già citate) l’art. 1, comma 1 -bis, della legge n. 20 del 1994 (compensazione del danno causato dal pubblico impiegato con i vantaggi conseguiti dalla pubblica amministrazione), o l’art. 33, comma 2, del d.P.R. n. 327 del 2011 (il quale in tema di espropriazione per pubblica utilità prevede la compensabilità del credito per l’indennità espropriativa col vantaggio arrecato al fondo).
Da tali disposizioni - e da molte altre analoghe - si desume l’esistenza d’un principio generale, secondo cui vantaggi e svantaggi derivati da una medesima condotta possono compensarsi anche se alla produzione di essi hanno concorso, insieme alla condotta umana, altri atti o fatti, ovvero direttamente una previsione di legge.
Corollario di questo principio è che il risarcimento non può creare in favore del danneggiato una situazione migliore di quella in cui si sarebbe trovato se il fatto dannoso non fosse avvenuto, immettendo nel suo patrimonio un valore economico maggiore della differenza patrimoniale negativa indotta dall’illecito.
A queste conclusioni si obiettò in passato (e la ricorrente incidentale fa propria tale obiezione) che ammettere la compensatio in limiti così ampi solleverebbe il responsabile del danno dalle conseguenze di questo.
A prescindere dal rilievo che nella maggior parte dei casi di compensatio l’offensore non si sottrae affatto alle conseguenze dell’illecito, ma semplicemente cambia creditore (pagherà infatti, invece che la vittima a titolo di risarcimento, il terzo solvens a titolo di surrogazione: tuttavia, ciò non è stato nel caso di specie, ma sul punto si ritornerà più avanti), l’obiezione, ancorandosi ad una rigida concezione sanzionatoria dell’illecito, è, comunque, distonica rispetto al nostro sistema della responsabilità civile che, in linea generale, non assegna funzioni punitive al risarcimento del danno e non vede nel responsabile un reo da sanzionare (né di vera e propria sanzione potrebbe mai parlarsi, al cospetto degli innumerevoli casi di responsabilità presunta od oggettiva previsti dall’ordinamento).
Il nostro diritto della responsabilità civile è, nel suo assetto generale, mirato sul danno, non sull’offensore: sicché, nella liquidazione del risarcimento, all’entità di questo deve guardarsi e non alla punizione del secondo.
Essendo il risarcimento del danno governato dal principio di indifferenza, nella stima di esso deve tenersi conto di tutte le conseguenze che sono derivate dall’illecito: sia in bonam, che in malam partem.
Nello stabilire quali siano le conseguenze dell’illecito, non può che applicarsi il principio di equivalenza causale, di cui all’art. 41 cod. pen., a norma del quale “il concorso di cause preesistenti o simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione od omissione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione od omissione e l’evento”. 
Nota è l’evoluzione della giurisprudenza di questa corte in merito all’applicazione di tale norma in materia di responsabilità civile: il nesso di causa sussiste — si è ripetutamente stabilito - quando, senza l’illecito, il danno non si sarebbe mai verificato (teoria della “regolarità causale”: tra le molte, in particolare, Cass., sez. un., 11 gennaio 2008, n. 576).
Il risarcimento spettante alla vittima dell’illecito andrà dunque ridotto in tutti i casi in cui, senza l’illecito, la percezione del vantaggio patrimoniale sarebbe stata impossibile.
Tale condizione ricorre in tutti i casi in cui il vantaggio dovuto alla vittima è previsto da una norma di legge che fa dell’illecito, ovvero del danno che ne è derivato, uno dei presupposti di legge per l’erogazione del beneficio.
Tale requisito sussisterà dunque di norma:
(a) rispetto al credito risarcitorio per danno biologico, quando la vittima di lesioni personali abbia percepito dall’INAIL l’indennizzo del danno biologico ai sensi dell’art. 13 del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38;
(b) rispetto al credito risarcitorio per danno patrimoniale da incapacità lavorativa, quando la vittima di lesioni personali, avendo patito postumi permanenti superiori al 16%, abbia percepito dall’INAlL una rendita maggiorata, e limitatamente a tale maggiorazione;
(c) rispetto al credito risarcitorio per danno patrimoniale da incapacità lavorativa, quando la vittima di lesioni personali abbia percepito dall’INPS la pensione di invalidità (legge n. 118 del 1971);
(d) rispetto al credito risarcitorio per danno patrimoniale da spese mediche e di assistenza, quando la vittima di lesioni personali abbia percepito dall’INPS l’indennità di accompagnamento (legge n. 18 del 1980);
(e) rispetto al credito risarcitorio per danno patrimoniale da perdita delle elargizioni ricevute da un parente deceduto, quando il superstite abbia percepito dall’INAIL la rendita di cui all’art. 66, comma primo, n. 4, del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 124, ovvero una pensione di reversibilità.
Ciò vale, ovviamente, anche nel caso di assicurazione contro i danni, dove il beneficio (indennizzo) ha natura contrattuale, essendo però la legge (artt. 1904 cod. civ. e 19 ss.) a tipizzare il contratto in funzione del “danno sofferto dall’assicurato in conseguenza del sinistro” (principio indennitario), limite coessenziale alla funzione stessa del contratto assicurativo, e rimosso il quale quest’ultimo degenererebbe in una scommessa.
Corollario di quanto esposto è il superamento della concezione della compensatio come una regola da applicare dopo avere liquidato il danno, allo scopo di “evitare l’arricchimento”.
In realtà quando i procede alla aestimatio dei danni civili non ci sono affatto due operazioni da compiere (prima si liquida e poi si “compensa”). L’operazione è una soltanto e consiste nel sottrarre dal patrimonio della vittima ante sinistro il patrimonio della vittima residuato al sinistro. E se in tale operazione ci si imbatte in un vantaggio che sia conseguenza dell’illecito non si dirà che per quella parte si sta “compensando” danno e lucro, ma si dirà che l’illecito non ha provocato danno.
I princìpi appena esposti sono gli unici coerenti col quadro normativo sopra illustrato e non sarà superfluo ricordare che la regola secondo cui nella stima del danno deve tenersi conto dei vantaggi realizzati dalla vittima, che siano conseguenza dell’illecito, risulta:
(a) condivisa dalla Corte di giustizia dell’Unione Europea, la quale ha affermato che in un giudizio di responsabilità l’eccezione di compensatio “non si può, in via di principio, considerare infondata” (Corte giust. CE, 4 ottobre 1979, Deutsche Getreideverwertung, in cause riunite C-241/78 ed altre);
(b) recepita dai princìpi europei di diritto della responsabilità (Principles of European Tort Taw - PETL, art. 10:103, secondo cui “when determining thè amount of damages benefits, which thè injuredparty gains through thè damaging event, are to be taken into account unless this cannot he reconciled with thè purpose of thè benefif), i quali ovviamente non hanno valore normativo, ma costituiscono pur sempre un utile criterio guida per l’interprete.
A quanto precede va soggiunta una ultima notazione, di carattere processuale.
La circostanza che la vittima abbia realizzato un vantaggio in conseguenza del fatto illecito, e che questo vantaggio abbia ridotto od escluso il danno, non costituisce oggetto di una eccezione in senso stretto: essa infatti attiene alla stima del danno, e gli elementi costitutivi del danno sono rilevabili d’ufficio dal giudice.
Ne consegue che essa non soggiace all’onere di tempestiva allegazione, né di tempestiva deduzione, secondo quanto stabilito dalle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., sez. un., 7 maggio 2013, n. 10531).
Tuttavia resta onere di chi invoca la compensatio dimostrarne il fondamento, ed in caso di insufficienza di prova (sull del vantaggio ottenuto dalla vittima, od anche solo sul quantum di esso), le conseguenza di essa ricadranno sul convenuto, che resterà tenuto al risarcimento integrale (cfr. Cass., 24 settembre 2014, n. 2011 e Cass., 10 maggio 2016, n. 9434).
Quanto, poi, ai profili più strettamente attinenti al problema del cumulo tra indennizzo dovuto in forza di un contratto di assicurazione contro i danni e risarcimento dovuto dal terzo responsabile dell’evento dannoso, alle già esposte considerazioni di carattere generale e di sistema occorre soggiungere per completezza talune puntualizzazioni.
A tal riguardo, il Collegio ritiene di porre in rilievo gli argomenti espressi da Cass., 11 giugno 2014, n. 13233, che si pongono in linea con le coordinate sopra delineate e da esse sono, a loro volta, confortati.
Un prima precisazione attiene al profilo del pagamento dei premi assicurativi.
Non sembrerebbe potersi affermare, anzitutto, che, avendo l’assicurato pagato i premi, egli avrebbe comunque diritto all’indennizzo in aggiunta al risarcimento, altrimenti il pagamento dei premi sarebbe sine causa.
Il pagamento del premio, infatti, non è mai sine causa, perché al momento in cui viene effettuato sussiste l’obiettiva incertezza sul verificarsi del sinistro e sulla solvibilità del responsabile.
Invero, il pagamento del premio è in sinallagma col trasferimento del rischio e non con il pagamento dell’indennizzo, tanto è vero che se alla scadenza del contratto il rischio non si è verificato, il premio resta ugualmente dovuto.
Il rapporto sinallagmatico che si istituisce soltanto tra pagamento del premio e trasferimento del rischio esclude, altresì, che detto pagamento rappresenti una posta patrimoniale risarcibile, ai sensi dell’art. 1223 cod. civ., in conseguenza dell’evento dannoso che fa sorgere, al tempo stesso, il diritto all’indennizzo assicurativo ed al risarcimento del danno (non cumulabili tra loro).
Del resto, se fosse sufficiente pagare il premio per cumulare indennizzo e risarcimento, e quindi trasformare il sinistro in una occasione di lucro, allora si dovrebbe conseguentemente ammettere che il contratto concluso non è più un’assicurazione, ma una scommessa, nella quale puntando una certa somma (il premio) lo scommettitore può ottenere una remunerazione complessiva assai superiore al danno subito.
Un siffatto mutamento causale del contratto da assicurazione a scommessa troverebbe conferma, peraltro, anche nella circostanza per cui la possibilità di cumulare indennizzo e risarcimento darebbe luogo, in teoria, ad un interesse positivo dell’assicurato all’awerarsi del sinistro, venendo così meno sia il requisito strutturale - funzionale del rischio (che, ai sensi dell’art. 1895 cod. civ., deve configurarsi come la possibilità di avveramento di un evento futuro, incerto, dannoso e non voluto), sia il fondamentale requisito d’un interesse dell’assicurato contrario all’awerarsi del sinistro, desumibile dall’art. 1904 cod. civ.
Una seconda precisazione riguarda il profilo della surroga dell’assicuratore, nel caso in cui — come nella specie — quest’ultimo non abbia manifestato la volontà di avvalersene nei confronti del responsabile, ex art. 1916 cod. civ.
A tal fine, si deve ribadire che la surrogazione dell’assicuratore non interferisce in alcun modo con il problema dell’esistenza del danno e, quindi, col principio indennitario.
E’, infatti, indifferente la rinuncia o meno dell’assicuratore alla surroga, perché non può essere risarcito il danno inesistente ab origine o non più esistente; e il danno indennizzato dall’assicuratore è un danno che ha cessato di esistere dal punto di vista giuridico, dal momento in cui la vittima ha percepito l’indennizzo e fino all’ammontare di quest’ultimo.
Del resto, la surrogazione ex art. 1916 cod. civ. costituisce, secondo la giurisprudenza unanime, una successione a titolo particolare dell’assicuratore nel diritto dell’assicurato e, quindi, perché il diritto si trasferisca, è necessario che esso sia perso dall’assicurato ed acquistato dall’assicuratore.
Tuttavia, l’estinzione del diritto al risarcimento in capo all’assicurato avviene per effetto del solo pagamento e non per effetto della surrogazione, la quale, semmai, è un effetto dell’estinzione e non la causa di essa.
Pertanto, l’effetto estintivo, prodotto dal pagamento, è indifferente alle vicende del diritto di surrogazione da parte dell’assicuratore. Questi, rinunciando alla surrogazione sin dal momento della stipula del contatto, dispone di un proprio diritto (futuro) e non dell’altrui e tale atto di disposizione non muta l’effetto estintivo del pagamento.
In altri termini, la percezione dell’indennizzo, da parte del danneggiato, elide in misura corrispondente il suo credito risarcitorio nei confronti del danneggiante, che pertanto si estingue e non può essere più preteso, né azionato.
Se così non fosse, il danneggiato avrebbe un interesse positivo al realizzarsi del sinistro, il che — come detto - contrasta insanabilmente con il principio indennitario e con la “neutralità” dell’intervento dell’assicuratore rispetto alle condizioni patrimoniali dell’assicurato in epoca anteriore al sinistro.
Dunque, se l’assicuratore della vittima abbia rinunciato alla surrogazione, ovvero non abbia ancora manifestato l’intenzione di esercitarla al momento in cui il danneggiato pretende il risarcimento dal responsabile (pur avendo corrisposto l’indennizzo), è circostanza irrilevante ai fini del problema. Ed infatti, a prescindere dalla circostanza se la surrogazione dell’assicuratore operi ipso iure o per effetto di una apposita denuntiatio, è dirimente osservare che non sussiste alcun nesso di implicazione reciproca tra il diritto di surrogazione ed il divieto di cumulo tra indennizzo e risarcimento. Il primo, infatti, costituisce una modificazione soggettiva dell’obbligazione, finalizzata ad evitare il depauperamento dell’assicuratore, e che può mancare senza che il contratto di assicurazione perda la sua natura; l’altro è un principio che attiene al nucleo causale del contratto di assicurazione e la cui mancanza finisce inevitabilmente per trasformare quest’ultimo in un contratto diverso.
Del resto, le sezioni unite di questa Corte (sentenza n. 5119 del 10 aprile 2002) hanno escluso la possibilità per 1’assicurato di cumulare più indennizzi che, complessivamente, eccedano l’ammontare del danno patito; sicché, se non possono cumularsi più indennizzi, a maggior ragione non putì ritenersi possibile cumulare indennizzi e risarcimento.
In conclusione, si ripropone, ai fini della rimessione ex art. 374 cod. proc. civ., il quesito iniziale:
“se nella liquidazione del danno debba tenersi conto del vantaggio che la vittima abbia comunque ottenuto in conseguenza del fatto illecito, ad esempio percependo emolumenti versatigli da assicuratori privati, da assicuratori sociali, da enti di previdenza, ovvero anche da terzi, ma comunque in virtù di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante”.
Quesito che, dunque, in sé pone anche l'interrogativo sul se la c.d. “compensatio lucri cutn damno” (così icasticamente denominato il meccanismo liquidatorio anzidetto) possa operare come regola generale del diritto civile ovvero in relazione soltanto a determinate fattispecie.

 

P.Q.M.

 

rimette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Terza Sezione Civile