Cassazione Penale, Sez. 4, 19 ottobre 2017, n. 48286 - Errate operazioni di movimentazione portano a due distinti infortuni nella stessa ditta. Gli obblighi di formazione non sono certo in capo ad un RLS


 

 

Presidente: CIAMPI FRANCESCO MARIA Relatore: GIANNITI PASQUALE Data Udienza: 26/09/2017

 

 

Fatto

 

1. La Corte di appello di Brescia con la sentenza impugnata ha integralmente confermato la sentenza 31/10/2014 con la quale il Tribunale di quella città aveva dichiarato N.M. colpevole:
a) del reato di cui all'art. 590 commi 1 e 3 c.p., in relazione all'art. 583 c.p., perché, in qualità di titolare della ditta N.M. e datore di lavoro di I.W., per colpa, aveva cagionato al lavoratore predetto lesioni personali gravi consistite nella frattura composta diafisi terzo metatarso del piede sinistro, giudicate guaribili in 121 giorni (infortunio verificatosi il 27/10/2010);
b) dell'ulteriore analogo reato perché, sempre in qualità di titolare della ditta N.M., ma quale datore di lavoro di A.B.K., aveva cagionato al lavoratore predetto lesioni personali gravi consistite nella frattura scomposta alluce destro e II e III dito del piede destro, giudicate guaribili in più di 40 giorni (infortunio verificatosi il 17/12/2010).
Secondo quanto contestato in imputazione, in entrambe le occasioni, era accaduto che - mentre il lavoratore sollevava un manufatto metallico (dimensioni 100 cm X 50 cm X 50 cm), con l'ausilio di un paranco, collegato con catene ad una gru a bandiera - il paranco si era improvvisamente staccato dal gancio facente parte del sistema di sollevamento, investendo l'infortunato agli arti inferiori.
La colpa era consistita in negligenza, imprudenza, imperizia, nonché nell'inosservanza di norme preposte alla prevenzione degli infortuni sul lavoro, in quanto il datore di lavoro non aveva adottato le misure che - secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica - sarebbero state necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori, ed in particolare aveva violato:
-l'art. 70 T.U. 81/2008, in quanto aveva messo a disposizione dei lavoratori un'attrezzatura di lavoro inidonea in relazione alla sicurezza, atteso che gli uncini dei paranchi su cui agganciare le catene della gru a bandiera risultavano privi di elementi di chiusura dell'imbocco, ed erano pertanto inidonei ad assicurare la permanenza della catena sul gancio nel corso delle operazioni di sollevamento e movimentazione dei carichi pesanti;
-l'art. 71 comma 3 T.U. 81/2008, in quanto non aveva messo in atto le misure tecniche ed organizzative adeguate per ridurre al minimo il rischio di investimento ad opera del carico durante la movimentazione e per impedire l'errato e pericoloso utilizzo dei dispositivi di presa, risultati non appropriati e sicuri in riferimento alla natura e alla forma dei carichi movimentati;
-gli artt. 37 comma 1 e 71 comma 7 T.U. 81/2008, in quanto non si era assicurato che il personale addetto alle operazioni di movimentazione mediante paranco di manufatti, risultasse dotato delle informazioni, della formazione e dell'addestramento specifico necessari per operare in sicurezza, pur trattandosi di operazioni che richiedevano conoscenze e responsabilità particolari in relazione ai rischi specifici e rilevanti ad esse connessi.
2. Avverso la citata sentenza, tramite difensore di fiducia, propone ricorso il N.M. articolando tre motivi di doglianza.
2.1 Nel primo motivo denuncia violazione dell'art. 37 T.U. 81/2008.
Il ricorrente deduce che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere che lui non avesse assolto gli obblighi previsti dall'art. 37 T.U. 81/2008, in quanto: a) entrambi i dipendenti avevano ricevuto una formazione sufficiente ed adeguata al dettato normativo in relazione al lavoro da svolgere (pulitura delle asperità del ferro fuso ed ancora grezzo); b) il dipendente A.B.K. - operaio esperto e rappresentante dei lavori per la sicurezza - era stato delegato ad addestrate il lavoratore I.W.; c) la movimentazione del paranco non era prevista quale rischio specifico poiché si trattava solo di riuscire ad azionarlo per agganciare i pezzi piccoli (per quelli più grossi era previsto l'utilizzo di un muletto).
2.2. Nel secondo motivo denuncia violazione dell'art. 70 T.U. 81/2008.
Il ricorrente deduce che entrambi i dipendenti avrebbero posto in essere un comportamento abnorme ed imprevedibile, in quanto, nonostante le precise direttive aziendali prescrivevano l'utilizzo del muletto per la movimentazione dei pezzi di grosse dimensioni, essi avevano utilizzato catene e ganci per l'esecuzione del lavoro.
Aggiunge il ricorrente che il R.L.S. (e cioè il secondo infortunato A.B.K.), dopo l'infortunio verificatosi ai danni del dipendente I.W., avrebbe dovuto informarlo delle modalità con le quali lo stesso si era verificato e della non adeguatezza in termini di sicurezza delle procedure che si stavano utilizzando in azienda per sollevare i carichi, cosa che invece non era avvenuta.
2.3 Nel terzo motivo denuncia violazione di legge in punto di trattamento sanzionatorio.
Il ricorrente deduce che, in punto di trattamento sanzionatorio, la Corte territoriale non avrebbe tenuto in considerazione il comportamento processuale da lui tenuto, confondendo la volontà di dare una spiegazione a difesa dell'accaduto con una sua effettiva resipiscenza. Precisa di aver risarcito, tramite la sua compagnia assicuratrice, il danno (tanto che in sede di appello la parte civile aveva dato atto del pagamento della provvisionale, così come statuito nella sentenza di primo grado), di essere incensurato e di essere stato sempre presente durante lo svolgimento del processo.

 

Diritto

 


1. Il ricorso è inammissibile.
2. Al riguardo, occorre rilevare che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità "deve essere limitato soltanto a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l'adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali" (in tal senso, tra le tante, Cass. Sez. 3, n. 4115 del 27.11.1995, dep. 1996, Beyzaku, Rv. 203272).
Tale principio, più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato altresì avallato dalle stesse Sezioni Unite le quali hanno precisato che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura'' degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per i ricorrenti più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (sent. n. 6402 del 30/04/1997, dep. 1997, Dessimone ed altri, Rv. 207945).
E la Corte regolatrice ha rilevato che anche dopo la modifica dell'art. 606 c.p.p., lett. e), per effetto della L. 20 febbraio 2006, n. 46, resta immutata la natura del sindacato che la Corte di Cassazione può esercitare sui vizi della motivazione, essendo rimasto preclusa, per il giudice di legittimità, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o valutazione dei fatti (Sez. 5, sent. n. 17905 del 23.03.2006, Baratta, Rv. 234109).
Pertanto, in sede di legittimità, non sono consentite le censure che si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (tra le tante, Sez. 1, sent. n. 1769 del 23/03/1995, Ciraolo, Rv. 201177; Sez. 6, sent. n. 22445 del 8/05/2009, Candita ed altri, Rv. 244181).
E la illogicità, quale vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purché siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (sent. n. 6402 del 30/04/1997, dep. 1997, Dessimone ed altri, Rv. 207945).
3. Tanto premesso, inammissibili sono i primi due motivi di ricorso, che, in quanto strettamente connessi, vengono esaminati congiuntamente.
3.1. In punto di fatto, dalle sentenze dei giudici di merito emerge l'avvenuto verificarsi, presso l'azienda di cui era titolare l'imputato (azienda che si occupava della finitura di pezzi in alluminio o ghisa), di due distinti infortuni sul lavoro (avvenuti, rispettivamente, il 27 ottobre 2010 ai danni di I. e, il 17 dicembre 2010, ai danni di A.B.K., entrambi dipendenti della ditta "N.M."), che avevano cagionato alle vittime lesioni guaribili in oltre 40 giorni (per I. si era diagnosticata la frattura composta della diafisi del terzo metatarso del piede sinistro, guarita in 121 giorni; per A.B.K., la frattura scomposta dell'alluce, del II e del III dito del piede destro con successiva amputazione delle tre dita, con conseguente malattia della durata di un anno) -
3.2. Orbene, il Tribunale di Brescia ha rilevato che entrambi gli incidenti erano avvenuti con modalità assolutamente analoghe essendosi verificati durante le fasi di movimentazione dei manufatti trattati nella fabbrica che avvenivano mediante l'utilizzo di paranchi (collegati a gru a bandiera) agli uncini dei quali venivano di volta in volta fissati, secondo le caratteristiche dei pezzi da movimentare, altri uncini o catene.
Sulla base del materiale probatorio acquisito il Tribunale ha accertato che tutti gli uncini all'uopo utilizzati erano privi dei prescritti dispositivi di chiusura idonei ad assicurare il carico durante il movimento. In tal senso, in particolare, aveva deposto il funzionario dell'A.S.L. Gianfranco B. (che aveva eseguito il sopralluogo il 12 settembre 2011), il quale, per l'appunto, aveva sottolineato l’inadeguatezza degli attrezzi usati per la movimentazione dei multiformi manufatti oggetto di lavorazione nello stabilimento (quei ganci erano adatti per le attività di fonderia nelle quali gli uncini vengono inseriti negli alloggiamenti specificamente predisposti sull'oggetto da sollevare) e aveva anche rappresentato che le catene utilizzate neppure presentavano indicazione alcuna sulla loro portata.
Ricostruendo la dinamica degli infortuni, il Tribunale ha spiegato, sulla scorta del materiale probatorio acquisito (costituito, innanzitutto, dalle stesse dichiarazioni rese dagli infortunati e dalla documentazione anche fotografica del sopralluogo esperito dall'ASL), che i due lavoratori erano intenti a movimentare oggetti di ghisa da loro già lavorati e che, per muoverli, li avevano assicurati al gancio del paranco o mediante altro gancio a questo collegato (nel caso di A.B.K.) o a mezzo di una catena e di un altro gancio direttamente inserito nel foro (nel caso di I.W.) presente sul pezzo. I due incidenti erano appunto avvenuti in quei precisi frangenti allorché i carichi, sollevati mediante l'utilizzo di una pulsantiera, si erano sfilati dagli uncini cadendo a terra e finendo in particolare sugli arti inferiori dei due operai. Nel corso dell'istruttoria dibattimentale era stato peraltro accertato che queste modalità di spostamento dei manufatti costituivano il frutto di una prassi consolidatasi in azienda; I. aveva precisamente affermato di non aver seguito alcun corso di formazione ma di aver ricevuto istruzioni su come agire da parte del più anziano ed esperto A.B.K. dal quale, in particolare, aveva appreso le modalità di aggancio dei lavorati agli uncini e/o (quando il carico del pezzo lo esigeva) di imbracatura con catene perché gli stessi potessero poi essere spostati. Anche A.B.K. aveva però escluso di avere seguito specifici corsi formativi in materia avendo egli seguito solo corsi di formazione di carattere assolutamente generale; del resto, l'imputato non aveva potuto produrre che una sua autocertificazione attestante il fatto che le istruzioni sulle operazioni di sollevamento venivano impartite soltanto verbalmente prima dell'assunzione.
Sulla base delle considerazioni che precedono, il Giudice di primo grado ha ritenuto provata la responsabilità penale di N.M. stimando fondati gli specifici addebiti mossi in imputazione.
Per quanto atteneva all'incidente subito da I. invero, l'utilizzo di ganci non idonei all'attività per la quale erano destinati - poiché mancanti degli accorgimenti di sicurezza che avrebbero impedito lo sganciarsi degli uncini - costituiva violazione delle disposizioni di cui agli artt. 70 e 71 comma 1 e comma 3 d.lgs. 81/2008 avendo il datore di lavoro utilizzato nelle fasi di produzione attrezzature non conformi ai requisiti di sicurezza dettati dall'Allegato V allo stesso d.lgs; dunque, il datore di lavoro aveva omesso di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzatura idonee ai fini della sicurezza e adeguate rispetto all'attività da svolgere, con conseguente violazione dell'obbligo primario di porre in essere quelle misure tecniche e organizzative che fossero idonee a ridurre al minimo il rischio connesso con l'attività lavorativa. Queste conclusioni, proseguiva il Tribunale, non potevano poi essere infirmate dalla linea difensiva dell'imputato secondo la quale il gancio destinato alle operazioni di spostamento non avrebbe comportato rischio alcuno qualora correttamente utilizzato e in particolare opportunamente inserito dal lavoratore nel foro del manufatto cosicché l'evento dannoso si sarebbe verificato a causa di un comportamento negligente della stessa persona offesa. Tale obiezione non coglieva nel segno atteso il costante insegnamento giurisprudenziale secondo il quale l'imperizia o imprudenza del lavoratore non potevano svolgere alcun effetto scriminante laddove il datore di lavoro avesse comunque omesso di predisporre adeguate misure antinfortunistiche. Inoltre, parimenti fondato era l'addebito fondato sulla violazione di cui agli artt. 37 e 71 comma 7 d.lgs. 81/2008 poiché era risultato provato che la formazione e l'addestramento impartiti in azienda al lavoratore erano stati assolutamente superficiali e anche errati anche alla luce delle modalità e delle attrezzature del tutto incongrue con le quali, in ossequio alle disposizioni impartire, venivano eseguite in azienda le operazioni di movimentazione dei manufatti in lavorazione.
Quanto poi all'infortunio subito da A.B.K., la prospettazione difensiva - veicolata dalle parole dello stesso imputato secondo il quale, trattandosi di un manufatto di grosse dimensioni, per lo spostamento avrebbe dovuto utilizzarsi, come insegnato dal N.M. medesimo, un carrello elevatore e non già il paranco - risultava recessiva rispetto alle dichiarazioni dello stesso lavoratore (peraltro confortate da quelle di analogo tenore di altro testimone) secondo le quali nella prassi aziendale il carrello veniva utilizzato normalmente soltanto per movimentare pezzi che non presentassero fori nei quali potessero essere inseriti ganci o catene da collegare al paranco. Del resto, aveva aggiunto A.B.K., N.M. era sempre presente in azienda e mai lo aveva ripreso ordinandogli di usare, per certe operazioni, il carrello e non già il paranco. Neppure poteva valere a scagionare l'imputato, sempre secondo il Tribunale, l'ulteriore argomento difensivo secondo il quale A.B.K., che era rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, mai aveva avvisato N.M. dell'inidoneità dei mezzi di sollevamenti utilizzati per le operazioni di movimentazione dei lavorati. Infatti, l'imputato doveva pur sempre considerarsi investito della posizione primaria di garanzia e a lui direttamente faceva carico, ai sensi dell'art. 2087 cod. civ. e della normativa infortunistica, l'obbligo di mettere a disposizione dei lavoratori attrezzature idonee a garantire la loro sicurezza.
In sintesi, il Tribunale ha ritenuto fondata la prospettazione di accusa che voleva N.M. responsabile: sia per avere posto a disposizione dei lavoratori strumenti inadeguati alla bisogna e dunque ganci privi del sistema di chiusura e catene senza alcuna indicazione della portata massima; sia per non avere adeguatamente informato e formato gli stessi sui rischi e sulle corrette e sicure modalità di esecuzione di quella specifica operazione di traslazione.
3.3. D'altra parte, la Corte di Appello ha chiarito, sviluppando un percorso argomentativo tutt'altro che manifestamente illogico, che le emergenze probatorie, acquisite agli atti, evidenziavano la correttezza della ricostruzione dell'infortunio effettuata dal giudice di primo grado e la sussistenza dei profili di colpa contestati, giungendo alla conclusione che l'appello era "con ogni evidenza, del tutto infondato".
3.3.1. In particolare, la Corte: in relazione al motivo concernente la formazione dei lavoratori infortunati:
-ha ricordato l'assunto difensivo, secondo il quale A.B.K., vittima del secondo infortunio, era "rappresentante dei lavoratori per la sicurezza" e tale circostanza avrebbe investito il predetto di precisi obblighi in tema di formazione e informazione dei colleghi circa le corrette e sicure procedure di lavorazione (con la conseguenza, dedotta dalla difesa, che l'imputato avrebbe assolto agli obblighi previsti dall'art. 37 d.lgvo n. 81 del 2008 semplicemente affidando - con una "delega impropria" - a quegli l'istruzione degli operai). Peraltro - era stato sostenuto - proprio la posizione rivestita da A.B.K., operaio esperto e per di più rappresentante per la sicurezza, renderebbe evidente l'assenza di responsabilità del datore di lavoro per l'infortunio a quegli accaduto perché, veniva sottointeso, nessun obbligo di formazione poteva esserci nei confronti di chi doveva reputarsi già particolarmente formato. Al lavoratore A.B.K. avrebbe dovuto essere imputato di essere venuto meno dell'obbligo di informare l'imprenditore, dopo il verificarsi del primo sinistro, del fatto che i sistemi di sollevamento utilizzati dai lavoratori nell'azienda erano inappropriati;
- ha disatteso la prima parte di detto assunto, in quanto muoveva da una non corretta comprensione delle funzioni e delle attribuzioni proprie del rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Queste ultime sono analiticamente indicate nell'art. 50 comma 1 d Lg.vo citato e rendevano "assolutamente chiaro" come quel lavoratore sia chiamato a svolgere, essenzialmente, una funzione di consultazione e di controllo circa le iniziative assunte dall'azienda nel settore della sicurezza; non gli competono certamente quella di valutazione dei rischi e di adozione delle opportune misure per prevenirli e neppure quella di formazione dei lavoratori, funzioni che restano entrambe appannaggio esclusivo del datore di lavoro. Non a caso, con riguardo al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza la fonte normativa parla di "attribuzioni" mentre, in relazione alle condotte del datore di lavoro, si parla di "obblighi". In particolare, per quanto riguarda gli "obblighi" di informazione, formazione e addestramento (art. 36 e 37) essi fanno senz'altro capo al datore di lavoro e ai dirigenti come espressamente dispone l'art. 18, lett. I, d.lgvo n. 81 del 2008. Né questi precisi obblighi potrebbero essere, neppure in astratto, oggetto di delega al rappresentante dei lavoratori per la sicurezza perché, altrimenti, si verificherebbe una commistione di funzioni tra di loro inconciliabili (essendo alla figura prevista dall'art. 50 affidate funzioni di controllo sull'adempimento degli obblighi datoriali) che negherebbe il sistema stesso delineato nella vigente normativa antinfortunistica (tanto che lo stesso art. 50 comma 7 prevede che "L'esercizio delle funzioni di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza è incompatibile con la nomina di responsabile o addetto al servizio di prevenzione e protezione"). L'art. 50, nel prevedere i requisiti formativi che devono contraddistinguere il rappresentante del lavoratori per la sicurezza, ai commi 10 ed 11, dispone che lo stesso "ha diritto ad una formazione particolare in materia di salute e sicurezza concernente i rischi specifici esistenti negli ambiti in cui esercita la propria rappresentanza, tale da assicurargli adeguate competenze sulle principali tecniche di controllo e prevenzione dei rischi stessi" (comma 10) e tale formazione deve avere i seguenti "contenuti minimi: a) principi giuridici comunitari e nazionali; b) legislazione generale e speciale in materia di salute e sicurezza sul lavoro; c) principali soggetti coinvolti e i relativi obblighi; d) definizione e individuazione dei fattori di rischio; e) valutazione dei rischi; f) individuazione delle misure tecniche, organizzative e procedurali di prevenzione e protezione; g) aspetti normativi dell'attività di rappresentanza dei lavoratori; h) nozioni di tecnica della comunicazione" (comma 11). Orbene, era di "solare evidenza" che A.B.K. era del tutto sprovvisto di particolare tale formazione che non poteva essere certamente supplita dalla mera anzianità sul lavoro e da una non meglio testata esperienza nelle diverse attività lavorative che si svolgevano in azienda. Infatti A.B.K., richiesto dal difensore dell'imputato se avesse fatti "i corsi di rappresentanza dei lavoratori", aveva così risposto: "Si, ho fatto circa dei corsi, tipo due o tre corsi, ma cioè nessuno dei quali riguarda veramente il lavoro, sono corsi generali, tipo un corso di italiano e poi un altro, che hanno partecipato tutti, che insegnano anche alle persone che fanno le pulizie ...". Vi era invero in atti un "attestato di formazione" relativo alla partecipazione dell'operaio a un corso per rappresentante dei lavoratori per la sicurezza tenutosi nel settembre - ottobre 2008. Tuttavia era significativo che la così attestata frequenza era ben anteriore a quella del corso di italiano per stranieri cui lo stesso operaio ebbe infatti a partecipare solo nel 2010, così autorizzandosi più di un dubbio circa l'effettiva preparazione conseguita da A.B.K. nello specifico settore antinfortunistico. Le dichiarazioni del lavoratore, quindi, erano certamente significative nel dimostrare che allo stesso non era stata sicuramente impartita una formazione specifica che lo rendesse in grado di esercitare le attribuzioni che a lui competevano ai sensi di legge. Anche per questo, quindi, il costante riferimento da parte della difesa dell'imputato alle capacità professionali e alle conoscenze tecniche del lavoratore, poi infortunatosi, appariva "pretestuoso e comunque non conferente";
- ha disatteso anche la seconda parte dell'assunto difensivo (secondo il quale ad A.B.K. avrebbe dovuto esser imputata l'omessa informazione al datore di lavoro delle modalità con le quali si era verificato il precedente infortunio a danno di I.W. e della non adeguatezza in termini di sicurezza delle procedure che si stavano utilizzando in azienda per sollevare i carichi): sia perché A.B.K. non aveva egli stesso - perché mai gli erano state insegnate - le specifiche competenze tecniche per valutare se quelle procedure, che lui stesso peraltro seguiva, fossero o meno congrue e sicure; sia perché gli obblighi di vigilanza sui comportamenti dei dipendenti e di precisa presa di coscienza degli eventuali effetti che tali condotte possono avere sull'incolumità fisica degli operai incombono in prima persona sull'imprenditore e, quindi, nel caso di specie facevano capo proprio all'imputato. Peraltro, nell'azienda del N.M. lavoravano all'epoca soltanto 5-6 dipendenti, cosicché era anche del tutto inverosimile che il N.M., pur essendo costantemente in fabbrica, non si rendesse esattamente conto di come detti suoi dipendenti movimentassero i pezzi in lavorazione. D'altronde, anche I.W. aveva escluso che gli fossero state impartite precise informazioni tecniche su come eseguire gli spostamenti dei carichi salvo precisare di avere ricevuto istruzioni pratiche, quando aveva iniziato a lavorare, dal collega più anziano A.B.K.. In sintesi la formazione pratica del lavoratore, nell’azienda di N.M., era stata affidata a un soggetto che a sua volta non era stato adeguatamente formato;
- in definitiva, secondo la Corte, la violazione da parte dell'imputato del preciso obbligo, su di lui incombente, previsto dall'art. 37 d.lgvo n. 81 del 2008, era "clamorosa";
3.3.2. Infondate, secondo la Corte, erano anche le altre argomentazioni difensive, che si sostanziavano nell'assunto che i due infortuni sarebbero ascrivibili a un comportamento abnorme dei due lavoratori.
Secondo l'assunto difensivo, erano i due lavoratori che dovevano adottare il sistema di sollevamento più adeguato a seconda del peso, della forma e delle dimensioni del pezzo che stavano lavorando. In particolare, dovevano optare per la movimentazione mediante muletto nel caso in cui il pezzo (come nel caso di A.B.K.) fosse particolarmente ingombrante. L'avere essi scelto il sistema sbagliato, concludeva la difesa, costituirebbe appunto un comportamento abnorme e imprevedibile per il datore di lavoro, che quindi dovrebbe essere mandato assolto dall'imputazione di avere colposamente cagionato le lesioni poi patite dai lavoratori stessi;
Anche detto assunto è stato ritenuto dalla Corte "assolutamente" infondato:
-sia perché, in linea generale, secondo consolidata giurisprudenza di legittimità, peraltro puntualmente richiamata, la posizione di garanzia propria del datore di lavoro impone a questi di apprestare tutti gli accorgimenti, i comportamenti e le cautele necessari a garantire la massima protezione del bene protetto, la salute e l'incolumità del lavoratore appunto, posizione che esclude che il datore di lavoro stesso possa fare affidamento sul diretto, autonomo, rispetto da parte del lavoratore delle norme precauzionali, essendo invece suo compito non solo apprestare tutti gli accorgimenti che la migliore tecnica consente per garantire la sicurezza degli impianti o macchinari utilizzati ma anche di adoperarsi perché la concreta esecuzione del lavoro avvenga nel rispetto di quelle modalità;
-sia perché laddove, come nel presente caso, il datore di lavoro non abbia assolto a tali obblighi non può certo rimproverarsi al lavoratore, alla stregua di un comportamento abnorme, di essersi discostato nel suo operare dai canoni di prudenza, di attenzione e di cautela che sarebbero nella specie doverosi.
Nel caso di specie, quindi, non poteva rimproverarsi ai due lavoratori di avere sbagliato a scegliere il più sicuro sistema di imbragamento e di sollevamento del pezzo atteso che mai nessuno aveva insegnato loro, come invece sarebbe stato obbligatorio per il datore di lavoro, le più corrette e sicure procedure al riguardo. Lo stesso A.B.K., in relazione all'uso del muletto per la movimentazione del pezzo, aveva riferito che a quella macchina si doveva fare ricorso quando non vi era un foro al quale potesse agganciarsi un uncino e che nessuno gli aveva dato precise istruzioni in merito.
In questo quadro fattuale - nel quale la formazione dei lavoratori era affidata allo spontaneistico attivarsi degli stessi - andavano poi calate due circostanze che marcavano ancora di più la responsabilità dell'imprenditore: a) oggetto delle lavorazioni affidate a ogni singolo lavoratore, per come risultava dai rilievi fotografici in atti, erano pezzi di foggia, peso e dimensioni di volta in volta diversi, che, anche per quanto riguardava le possibilità di aggancio ai sistemi di sollevamento, presentavano ciascuno la propria particolarità; b) a disposizione dei lavoratori erano messe attrezzature intrinsecamente pericolose (i ganci privi di sistema di chiusura) o comunque non adeguate al sollevamento di quei manufatti.
I suddetti due fattori avevano all'evidenza moltiplicato il negativo rilievo del già rilevato difetto di formazione perché, da un lato, impedivano il formarsi di procedure codificate su cui fare affidamento; e, dall'altro, consentivano che soggetti privi di adeguate conoscenze tecniche ricorressero ad attrezzature, delle quali essi neppure erano in grado di apprezzare la intrinseca pericolosità in quelle condizioni di utilizzo; in particolare:
-per quanto in particolare atteneva ai ganci, la difesa aveva sostenuto che il loro utilizzo non costituiva violazione dell'art. 71 d.lgvo perché si trattava di ganci da fonderia che potevano essere benissimo utilizzati nell'officina di N.M., dovendosi "alzare blocchi di ferro muniti di apposito buco". Sennonché, come aveva chiarito in sede dibattimentale l'ispettore dell'ASL Gianfranco B., quel tipo di ganci, privi del sistema di chiusura, serviva per movimentare in fonderia carichi che erano dotati di "apposite prese dove il gancio viene infilato"; nella fattispecie, invece, il gancio veniva infilato in fori, pertugi, aperture che non erano certo realizzate ai fini del sollevamento ma che erano comunque presenti nel pezzo per ragioni inerenti alla sua stessa struttura e funzionalità. In tal modo, il pezzo stesso finiva per essere precariamente agganciato all'uncino, cosicché concreto era il pericolo che durante l'operazione di sollevamento e di traslazione il primo potesse sganciarsi e cadere a terra. Ed era proprio questo pericolo che nella specie si era concretizzato provocando la caduta del pezzo sui piedi dei due lavoratori;
-quanto poi alle modalità di movimentazione, era evidente che la scelta del più idoneo sistema di sollevamento implicava un'attenta considerazione delle caratteristiche particolari di ciascuna tipologia dei pezzi in lavorazione e di una competente scelta, per ciascuna, di un particolare sistema. Il che era "sideralmente distante" dall'improvvisazione e dallo spontaneismo con cui quelle operazioni venivano fatte fare ai lavoratori dipendenti dall'imputato.
3.3.3. Per le ragioni che precedono, la Corte ha confermato il giudizio di penale responsabilità del N.M., pronunciato dal giudice di primo grado, in quanto fondato "su rilievi di fatto e su considerazioni veramente ineccepibili e quindi meritevoli di convinta adesione".
3.4. Richiamato l'orizzonte dello scrutinio di legittimità, sopra delineato, occorre rilevare che la congiunta lettura di entrambe le sentenze di merito - che, concordando nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, valgono a saldarsi in un unico complesso corpo argomentativo (cfr. Cass., Sez. 1, n. 8868 del 26/6/2000, Sangiorgi, Rv. 216906) - evidenzia che i giudici di merito hanno sviluppato un conferente percorso argomentativo, relativo all'apprezzamento del compendio probatorio, che risulta immune da censure rilevabili dalla Corte regolatrice; e che il ricorrente invoca, in realtà, una inammissibile riconsiderazione alternativa del compendio probatorio, proprio con riguardo alle inferenze che i giudici di merito hanno tratto dagli accertati elementi di fatto, ai fini della affermazione della di lui penale responsabilità.
4. Inammissibile è anche il terzo motivo di ricorso, concernente il trattamento sanzionatorio.
4.1. Come noto, in tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione e per quanto riguarda la dosimetria della pena ed i limiti del sindacato di legittimità su detti punti, la giurisprudenza di questa Suprema Corte non solo ammette la c.d. motivazione implicita (Sez. 6, 4/7/2003 n. 36382, Dell'Anna ed altri, n. 227142) o con formule sintetiche (tipo "si ritiene congrua": Sez. 6, sent. N. 9120 del 2/7/1998, Urrata, Rv. 211583), ma afferma anche che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui alfart. 133 cod. pen., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (Sez. 3, sent. n. 26908 del 22/4/2004, Ronzoni, Rv. 229298).
4.2. Detta evenienza che non ricorre nel caso di specie.
4.2.1. Invero, il Tribunale ha ritenuto concedibili le circostanze attenuanti generiche con giudizio di equivalenza rispetto alle contestate aggravanti, alla luce della risalenza nel tempo e della lieve entità delle condanne per contravvenzione risultanti a carico dell'imputato, della prestata ottemperanza alle indicazioni dell'A.S.L. e del corretto contegno processuale. Peraltro, il primo giudice ha ritenuto, nella commisurazione della pena, di doversi distaccare dal minimo edittale e questo in misura maggiore per il capo d'imputazione sub B data l'esistenza, in relazione a quest'ultimo, di un precedente analogo infortunio e della maggiore entità delle lesioni arrecate dal fatto. Pene congrue venivano pertanto stimate quella di mesi 2 di reclusione per il primo delitto e quella di mesi 3 per il secondo così da pervenire a una pena complessiva pari a 5 mesi di reclusione. Erano concessi i doppi benefici poiché, in ragione della natura colposa dei reati e dei provvedimenti assunti in conformità alle prescrizioni imposte, poteva essere formulata prognosi positiva circa la capacità dell'imputato di astenersi dal commettere ulteriori reati.
Quanto alle statuizioni civili, il Giudice di primo grado ha ritenuto senz'altro sussistente il diritto al risarcimento dei danni - patrimoniale, biologico e morale - subiti dalla parte civile costituita A.B.K., così come risultanti dalle dichiarazioni dell'infortunato, dalla documentazione medica acquisita e dalle relazioni medico legali agli atti che attestavano tutte una invalidità temporanea protrattasi per lungo tempo e di reliquati permanenti e menomanti la capacità lavorativa in misura dell'8%. Per la liquidazione del danno dunque esistente il Giudice ha rimandato le parti davanti al competente tribunale civile ritenendo comunque di riconoscere alla persona offesa una provvisionale immediatamente esecutiva, nei limiti del danno da reputarsi in ogni caso provato, pari a euro 15.000.
4.2.2. E la Corte territoriale ha dato atto che, in sede di conclusioni, era stato chiesto che le concesse attenuanti generiche fossero stimate prevalenti (e non semplicemente equivalenti) rispetto alle aggravanti contestate, ma ha ritenuto la richiesta non accoglibile: sia perché era particolarmente elevato il grado della colpa caratterizzante la condotta dell'imputato (fu necessario attendere il secondo infortunio e, finalmente, il sopralluogo dell'ASL, perché il N.M., su prescrizione dei funzionari di quest'ultima, si facesse finalmente carico delle modalità, fino ad allora assai pericolose, con cui veniva eseguita in azienda l'operazione di spostamento dei pezzi in lavorazione); sia per le conseguenze lesive, cagionate dalla condotta dell'imputato, specie per quanto atteneva all'infortunio occorso a A.B.K. (che si era visto amputate tre dita del piede); d'altronde l'imputato non risultava incensurato e non aveva mostrato, al di là dell'obbligato adeguamento alle prescrizioni dell'ASL, alcuna reale resipiscenza (tentando anzi di riversare sulle vittime la responsabilità per quanto alle stesse occorso).
5.Ne consegue che il ricorso va dichiarato inammissibile e che alla suddetta dichiarazione consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost., sent. n. 186 del 2000), anche al versamento a favore della cassa delle ammende di una sanzione pecuniaria che si stima equo determinare nella misura indicata in dispositivo. Il ricorrente infine dovrà rifondere le spese di costituzione e giudizio sostenute dalla parte civile, spese che si liquidano nella misura indicata in dispositivo.
 

 

P.Q.M.

 


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 2.000,00 in favore della cassa delle ammende, nonché alla rifusione in favore della parte civile costituita delle spese che liquida in complessive euro 2500, oltre accessori come per legge.
Così deciso il 26/09/2017.