Cassazione Civile, Sez. Lav., 24 ottobre 2017, n. 25157 - Infortunio in itinere. Ricorso inammissibile dell'Inail


 

Presidente: D'ANTONIO ENRICA Relatore: CAVALLARO LUIGI Data pubblicazione: 24/10/2017

 

 

 

Fatto

 


che, con sentenza depositata il 4.11.2011, la Corte d'appello di Ancona, in riforma della pronuncia di primo grado, ha condannato l'INAIL a corrispondere a L.M. l'indennità per invalidità temporanea assoluta in conseguenza dell'infortunio in itinere occorsole il 20.5.2005; che avverso tale pronuncia ha proposto ricorso per cassazione l'INAIL, deducendo tre motivi di censura; che L.M. ha resistito con controricorso;
 

 

Diritto

 


che, con il primo motivo, l'Istituto ricorrente denuncia violazione dell'art. 2-bis, d.lgs. n. 38/2000, per avere la Corte di merito ritenuto che l'uso del mezzo proprio fosse in specie necessitato, nonostante che la lavoratrice non ne avesse dato prova, e non costituisse viceversa rischio elettivo;
che, con il secondo motivo, l'Istituto ricorrente lamenta violazione dell'art. 437 c.p.c. per avere la Corte territoriale dato ingresso a nuove prospettazioni dei fatti circa la distanza intercorrente tra l'abitazione della lavoratrice e il luogo di lavoro;
che, con il terzo motivo, l'Istituto ricorrente si duole di omessa e insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo della controversia, per non avere la Corte di merito «sufficientemente spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto necessitato l'uso del mezzo privato» (così il ricorso per cassazione, pag. 11), trascurando in particolare che l'infortunio era occorso nel mese di maggio, «periodo in cui l'attività dello stabilimento balneare [scil.: presso cui prestava servizio all'epoca dei fatti la lavoratrice infortunata] è, con ogni evidenza, di modesta entità» (ibid., pag. 12) e ipotizzando per di più «ben otto spostamenti quotidiani», laddove, sulla base di quanto la stessa lavoratrice aveva dichiarato circa l'orario di lavoro che era tenuta ad osservare, tali spostamenti non potevano essere più di quattro;
che, con riguardo al primo motivo, questa Corte ha ormai consolidato il principio secondo cui il vizio di violazione di legge consiste in un'erronea ricognizione della norma recata da una disposizione di legge da parte del provvedimento impugnato, riconducibile o ad un'erronea interpretazione della medesima ovvero nell'erronea sussunzione del fatto così come accertato entro di essa, e non va confuso con l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, che è esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura in sede di legittimità era possibile, ratione temporis, solo sotto l'aspetto del vizio di motivazione (cfr. fra le più recenti Cass. nn. 15499 del 2004, 18782 del 2005, 5076 e 22348 del 2007, 7394 del 2010, 8315 del 2013); che, nella specie, le doglianze proposte da parte ricorrente incorrono nella confusione dianzi chiarita, dal, momento che, pur essendo formulate con riferimento a una presunta violazione o falsa applicazione della disposizione citata nella rubrica del motivo, hanno in realtà di mira il giudizio (di fatto) compiuto dalla Corte di merito circa la sussistenza dei presupposti per la sua applicazione;
che, con riguardo al secondo motivo, è sufficiente rilevare che, sebbene l'Istituto sostenga che l'allegazione in fatto circa l'effettiva distanza tra l’abitazione della lavoratrice e il luogo di lavoro sia stata introdotta solo in sede di gravame, la Corte di merito ha affermato che «l’accertamento sul punto [era stato] già sollecitato [...] in primo grado» (così la sentenza impugnata, pag. 2), di talché - tenuto conto del consolidato principio secondo cui il potere di esaminare direttamente gli atti di causa, che perbene a questa Corte in caso di error in procedendo, postula che parte ricorrente, in ossequio al canone dì specificità del ricorso di cui all'art. 366 nn. 4 e 6 c.p.c., ottemperi a tutte le precisazioni e ai riferimenti necessari ad individuare la dedotta violazione processuale (cfr. da ult. Cass. n. 2771 del 2017) - era onere dell'Istituto ricorrente riportare in parte qua il contenuto del ricorso introduttivo del giudizio e indicare in quale luogo del fascicolo processuale e/o di parte esso sia attualmente reperibile, ciò che viceversa non è stato fatto;
che, con riguardo al terzo motivo, è orientamento consolidato di questa Corte il principio secondo cui in tanto si può censurare una sentenza di merito di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo ex art. 360 n. 5 c.p.c. (nel testo risultante dalla modifica apportata dall'art. 2, d.lgs. n. 40/2006, e anteriore alla novella di cui all'art. 54, d.l. n. 83/2012, conv. con I. n. 134/2012) in quanto il fatto su cui la motivazione è stata omessa o è stata resa in modo insufficiente o contraddittorio sia autonomamente decisivo, ossia potenzialmente tale da portare la controversia ad una soluzione diversa, l'indagine di questa Corte dovendo spingersi fino a stabilire se in concreto sussista codesta sua efficacia potenziale (cfr. da ult. Cass. n. 7916 del 2017);
che nella specie parte ricorrente non ha addotto alcun fatto la cui considerazione da parte del giudice avrebbe di per sé condotto ad un diverso e a sé favorevole giudizio, limitandosi a evidenziare talune circostanze (e precisamente la presumibile scarsa affluenza allo stabilimento balneare e il numero degli spostamenti quotidiani cui la lavoratrice era tenuta in relazione all'orario di lavoro che doveva rispettare) del tutto prive di rilievo ai fini del decidere in ordine alla necessità dell'uso del mezzo proprio;
che, anche prima della modifica apportata all'art. 360 n. 5 c.p.c. dall'art. 54, d.l. n. 83/2012, cit., la censura di vizio di motivazione non può essere volta a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito al diverso convincimento soggettivo della parte, né per suo tramite si può proporre un preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all'ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell'apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento (cfr. da ult. ancora Cass. n. 7916 del 2017, cit.);
che il ricorso, pertanto, va dichiarato inammissibile, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza;
 

 

P. Q. M.

 


La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 2.900,00, di cui € 2.700,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.
Così deciso in Roma, nell'adunanza camerale del 5.7.2017.