Cassazione Penale, Sez. 6, 25 ottobre 2017, n. 49056 - Corruzione e assoluzione di un funzionario pubblico: non viene meno automaticamente la sanzione amministrativa ex d.lgs. n. 231/2001 se la società ne ha tratto vantaggio



 

 

Presidente Carcano – Relatore D’Arcangelo

 

 

Fatto

 



Il Pubblico Ministero del Tribunale di Monza, all'atto dell'esercizio dell'azione penale, ha contestato:
- ad An. En. Br. la commissione del delitto di corruzione per aver contribuito alla modifica della destinazione d'uso dei terreni intestati alle società Edil Vlb e Loviro S.r.l. (capo a).;
Secondo l'ipotesi accusatoria, il Br., quale consigliere comunale del Comune di Carate Brianza, e Ma. Al., consigliere comunale e membro della Commissione Urbanistica del Comune di Carate Brianza, unitamente ad altri pubblici ufficiali in via di identificazione, avevano pattuito la ricezione di complessivi 870 mila Euro (dei quali 391 mila effettivamente versati) nonché la cessione ad Al. (tramite la società 31 S.r.l. di cui è socio con la Emmetre S.r.l.) di parte del terreno acquistato da Pa. Vi., quale corrispettivo per la modificazione, con il piano di governo del territorio approvato il 31 marzo 2009, della destinazione d'uso di due aree di proprietà della Loviro S.r.l., in violazione dei doveri di imparzialità e correttezza dei pubblici ufficiali; tali condotte sarebbero state commesse in Carate Brianza dal 2007 al 11.10.2011.
- alla Loviro S.r.l. è stata contestato in relazione a tale reato l'illecito amministrativo dipendente da reato di cui all'art. 25 D.Lgs. n. 231 del 2001 (capo i)
- ad An. En. Br., a Wa. Lo. ed a Gi. Gi. condotte corruttive legate alla modifica della destinazione d'uso dei terreni intestati alla società Bre S.r.l. (capo b).
In particolare, Wa. Lo. e Gi. Gi., quali soci della Bre S.r.l., in concorso con Ma. Pi., beneficiario economico ed amministratore di fatto della società Bre S.r.l., Ma. Al., consigliere comunale e membro della Commissione Urbanistica del Comune di Carate Brianza, nonché socio della Bre S.r.l. (e, pertanto, in conflitto di interessi in relazione al suo voto al PGT approvato il 31 marzo 2012), si era accordati tra loro per il versamento a Br. An. di complessivi Euro. 150.000 Euro (tutti effettivamente versati) affinché fosse eliminato ogni vincolo edificatorio relativo al terreno sito in via (omissis...) attraverso l'illecito intervento nei seguenti atti amministrativi in violazione dei doveri di imparzialità e correttezza dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio:
- piano di governo del territorio del Comune di Carate Brianza approvato il 31.3.2009;
- variante del PTC del Parco Valle Lambro (in fase di realizzazione);
- delibera della Commissione Provinciale istituita presso la Regione Lombardia per l'individuazione dei beni paesaggistici del 6.4.2009.
I pagamenti corruttivi, secondo la formulazione accusatoria, sarebbero stati eseguiti in Carate Brianza nelle date del 6 aprile 2009, del 2 maggio 2009 e del 25 maggio 2009.
- alla Bre S.r.l. è stato, inoltre, contestato in relazione a tale reato l'illecito amministrativo dipendente da reato di cui all'art. 25 D.Lgs. n. 231 del 2001 (capo d);
- a Ca. Mi. e ad Angelo Mi. sono state contestate condotte di corruzione di Ma. Al., consigliere comunale e membro della Commissione Urbanistica del Comune di Carate Brianza, relativamente alla modifica della destinazione d'uso del terreno sito in Via (omissis...) (capo c).
Secondo la formulazione accusatoria, gli imputati, in concorso con Ma. Pi., si erano accordati per il versamento al pubblico ufficiale Ma. Al. (entrambi giudicati separatamente) di Euro. 30.000 Euro, di seguito effettivamente versati, quale corrispettivo per la modificazione, con il Piano di Governo del Territorio approvato in data 31 marzo 2009, della destinazione d'uso, in violazione dei doveri di imparzialità e correttezza dei pubblici ufficiali, del terreno sito in via (omissis...), foglio (omissis...).
I pagamenti corruttivi sarebbe stati posti in essere in Carate Brianza dal 20 marzo 2006 al 25 maggio 2009.
- alla 31 S.r.l., da ultimo, è stato contestato in relazione a tale reato l'illecito amministrativo dipendente da reato di cui all'art. 25 D.Lgs. n. 231 del 2001 (capo f).
2. Il Tribunale di Monza, all'esito del giudizio dibattimentale di primo grado, con sentenza emessa in data 6 febbraio 2015 ha assolto Angelo Mi. per non aver commesso il fatto e la 31 S.r.l. perché l'illecito amministrativo dipendente da reato non sussisteva, ed ha dichiarato responsabile:
- An. Br. dei reati di cui ai capi di imputazione a) e b) e lo ha condannato alla pena di quattro anni di reclusione;
- Ca. Mi. del reato di cui al capo c) e lo ha condannato alla pena di un anno ed otto mesi di reclusione;
- Wa. Lo. del reato di cui al capo b) e lo ha condannato alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione;
- Gi. Gi. del reato di cui al capo b) e lo ha condannato alla pena di un anno ed otto mesi di reclusione;
- la Bre S.r.l. dell'illecito amministrativo dipendente da reato di cui al capo d) ed ha irrogato la sanzione pecuniaria pari a 300 quote da 500 Euro ciascuna;
- la Loviro S.r.l. dell'illecito amministrativo dipendente da reato di cui al capo i) ed ha irrogato la sanzione pecuniaria pari a 250 quote da Euro 250 ciascuna.
3. La Corte d'Appello di Milano, nella sentenza indicata in epigrafe, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha assolto An. Br., Wa. Lo., Gi. Gi. dai reati ai medesimi ascritti e le due società Bre S.r.l. e Loviro S.r.l. dai relativi illeciti amministrativi dipendenti da reato perché i fatti non sussistevano, confermando la sentenza solo con riferimento alla posizione di Ca. Mi..
4. Avverso tale sentenza ricorre il Procuratore generale della Corte di Appello di Milano nei confronti di An. Br., Wa. Lo., Gi. Gi. e Loviro S.r.l. e gli avvocati Vi. Ni. D’As. ed En. Ma. Gi. nell'interesse di Ca. Mi..
5. Il Procuratore Generale ricorrente deduce, con unico motivo, la violazione di legge e la illogicità della motivazione della sentenza impugnata e ne chiede l'annullamento.
La sentenza di appello, ritenendo l'impianto accusatorio fondato su "mere suggestioni", aveva omesso di motivare sul fatto che Br., che era consigliere comunale a Carate Brianza, in tale veste, aveva partecipato alla stesura del testo della convenzione ed aveva votato a favore dell'approvazione della stessa nella seduta consiliare del 28 luglio 2011.
Il Br., inoltre, in palese conflitto di interessi, era stato, anche consulente dell'operatore privato per cui aveva predisposto la convenzione, che poi aveva votato come pubblico ufficiale.
La Corte di Appello aveva, tuttavia, integralmente obliterato l'anomalia conseguente a tale duplice intervento nell'atto amministrativo di interesse del privato.
Nella sentenza di primo grado il Tribunale aveva, invece, dato ampio spazio al materiale probatorio relativo all'efficacia dell'intervento di Br. in relazione all'interesse del privato Edil Vlb/Bricoman, efficacia consistita nel far approvare in tempi rapidi un progetto migliorativo rispetto a quello originariamente predisposto e approvato dalle parti private.
Errata era, inoltre, la assoluzione della Loviro S.r.l., pronunciata quale conseguenza del proscioglimento del Br., in quanto l'illecito amministrativo era stato posto in essere dal Vi., amministratore di fatto, medio tempore deceduto, e dall'amministratore di diritto Ca. Licata Caruso e le sentenze di patteggiamento emesse nei confronti degli originari coimputati avevano accertato condotte corruttive poste in essere nell'interesse ed a vantaggio di tale ente.
Illogica era, inoltre, la motivazione relativa al delitto di corruzione contestato al capo b) nella parte in cui riconosceva come effettivamente avvenuti gli esborsi in contanti di cui parlano Pi., Al., Gi. e Lo., per poi concludere che, forse, Pi. non aveva consegnato tale danaro al Br., trattenendoli per sé o dandoli ad altro politico.
6. L'avv. Vi. Ni. D’As. e l'avv. En. Ma. Gi., difensori di Ca. Mi., ricorrono avverso tale sentenza e ne chiedono l'annullamento, deducendo quattro motivi e, segnatamente:
- il vizio di motivazione e la erronea applicazione della legge penale. La Corte di Appello non aveva, infatti, motivato in ordine alle censure formulate nell'atto di appello relative ai criteri utilizzati nel valutare le dichiarazioni del Pi. e dell'Al..
Il Pi., inoltre, in dibattimento, aveva dichiarato di non conoscere i germani Mi. e di ignorare chi fossero i soci della Quadratea S.r.l. Non si era, pertanto, in presenza di una vera e propria chiamata in correità del Pi..
Deduceva, inoltre, che il fratello del Mi. era stato assolto, al pari dell'assessore Sisler, ulteriore destinatario di altre somme da parte dei corruttori, secondo quanto dichiarato dall'Al.. Incongrua era, inoltre, la valutazione espressa dal Tribunale di un prezzo di acquisto del terreno troppo alto per un fondo a destinazione agricola e la assenza di stipulazione di un preliminare al fine di dimostrare un presunto accordo corruttivo.
- il vizio di motivazione in ordine al dolo del delitto di corruzione. La sentenza impugnata, infatti, non aveva motivato in ordine alle censure formulate nell'atto di appello relativamente al ricorso a formule meramente presuntive da parte del Tribunale per argomentare la sussistenza del dolo del Mi..
- il vizio di motivazione e la erronea applicazione in ordine al "permanente asservimento agli interessi personali dei terzi" riferito all'Al., indebitamente evocato dalla Corte di Appello al fine di superare la doglianza difensiva relativa alla mancata indicazione dell'atto contrario ai doveri di ufficio nel capo di imputazione.
La condotta accertata, inoltre, in assenza della indicazione dell'atto contrario ai doveri di ufficio, oggetto dell'accordo corruttivo doveva più propriamente essere qualificata non già quale corruzione propria, bensì quale corruzione impropria susseguente ex art. 318, comma secondo, cod. pen.
- la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione alla dosimetria sanzionatoria, in quanto la sentenza impugnata aveva motivato il mancato contenimento della pena irrogata (un anno ed otto mesi di reclusione) nei limiti edittali in quanto la vicenda era "non clamorosa, ma nemmeno del tutto irrilevante". Tale motivazione, tuttavia, secondo il ricorrente, si rivelava del tutto apparente.
7. Con memoria depositata in data 4 luglio 2007, l'Avv. Alessandro Omissis, nell'interesse di Wa. Lo., ha dedotto la carenza di interesse alla proposizione del ricorso per Cassazione da parte del Procuratore generale, atteso che la prescrizione del delitto di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio contestato al capo b) si era perfezionata in data 24 novembre 2016, nelle more del termine fissato dalla Corte di Appello per il deposito delle motivazioni della sentenza di secondo grado e, pertanto, prima della presentazione del ricorso da parte del Procuratore Generale.
L'ultima condotta criminosa addebitata al Lo. era, infatti, stata posta in essere in data 25 maggio 2009 ed il termine Ma. di prescrizione, in ragione degli atti interruttivi medio tempore intervenuti, doveva essere determinato in sette anni e sei mesi alla stregua della cornice edittale allora vigente per il delitto di cui agli artt. 319-321 cod. pen.
Il ricorso del Procuratore, inoltre, si era limitato a delineare una ricostruzione alternativa del compendio probatorio, asseritamente dotata di maggior pregio, e non già a confutare la tenuta logica della sentenza impugnata.
Il ricorso si rivelava, inoltre, aspecifico in ordine alla posizione del Lo., cui venivano dedicate solo poche righe.
8. Con memoria depositata in data 10 luglio 2017, l'Avv. Lu. Po., nell'interesse di An. En. Br., ha dedotto la carenza di interesse alla proposizione del ricorso per Cassazione da parte del Procuratore generale, atteso che la prescrizione del delitto contestato al capo b) si era perfezionata nelle more del termine per il deposito delle motivazioni della sentenza di appello.
Il ricorso era, peraltro, inammissibile, in quanto si risolveva nella proposizione di una ricostruzione alternativa dei fatti di causa, asseritamente dotata di maggior pregio, senza dimostrare la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, e difettava di autosufficienza in riferimento ai numerosi atti a contenuto probatorio richiamati.

 

 

Diritto

 



1. Il ricorso presentato dal Procuratore Generale della Corte di Appello di Milano deve essere accolto nei limiti che di seguito si precisano.
2. Inammissibile si rivela, invero, tale ricorso, per carenza di interesse, nella parte in cui si duole della carenza e della illogicità della motivazione relativa al delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio contestato al capo b) nei confronti di An. Br., Wa. Lo. e Gi. Gi..
2.1. Come hanno, infatti, correttamente rilevato i difensori degli imputati Lo. e Br., la prescrizione del delitto di corruzione contestato al capo b) si è perfezionata nelle more del termine indicato per il deposito della motivazione della sentenza di appello e, pertanto, prima della presentazione del ricorso.
Secondo una consolidata interpretazione della giurisprudenza di legittimità, dalla quale non vi è ragione per discostarsi, infatti, il delitto di corruzione è un reato a duplice schema e, pertanto, si perfeziona alternativamente con l'accettazione della promessa ovvero con la dazione-ricezione dell'utilità, e tuttavia, ove alla promessa faccia seguito la dazione-ricezione, è solo in tale ultimo momento che, approfondendosi l'offesa tipica, il reato viene a consumazione (Sez. U, n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246583; Sez. 6, n. 33435 del 04/05/2006, n. 33435, Battistella, Rv. 234360); pertanto, quando alla promessa segue l'effettiva dazione del denaro, il termine di prescrizione decorrere da tale momento (Sez. 6, n. 4105 del 01/12/2016, Fe., Rv. 269501; Sez. 6, n. 50078 del 28/11/2014, Cicero, Rv. 261540).
Atteso che l'ultima dazione in favore del pubblico ufficiale accertata con riferimento al delitto di corruzione contestato al capo b), secondo la ricostruzione dei fatti operata in sede di merito, sarebbe intervenuta in data 25 maggio 2009 (come indicato alle pagg. 60 e 61 della sentenza di primo grado), le condotte di corruzione contestate in tale imputazione sono state poste in essere anteriormente alla entrata in vigore della legge n. 190 del 2012 e della legge n. 69 del 2015 e, pertanto, quando la pena massima per il delitto di cui agli artt. 319 e 321 cod. pen. era di cinque anni di reclusione.
Stante la permanente applicabilità di tale previsione, in quanto lex mitior, ai sensi dell'art. 2, comma quarto, cod. pen., il termine Ma. di prescrizione, in ragione degli atti interruttivi medio tempore intervenuti, deve essere determinato in sette anni e sei mesi.
La prescrizione del delitto di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio contestato al capo b) si è, pertanto, perfezionata in data 25 novembre 2016, prima del deposito della sentenza di appello, intervenuto in data 30 dicembre 2016.
2.2. Ancorché il Pubblico Ministero possa ricorrere al fine di ottenere l'esatta applicazione della legge, occorre, pur tuttavia, che, in caso di epilogo favorevole, possa raggiungere un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche tale da essere praticamente apprezzabile (cfr., Sez. U, n. 9616 del 24/03/1995, Bo., Rv. 202018; Cass., Sez. 1, n. 3083 del 23/9/2014, dep. 22/1/2015, St., Rv. 262181).
L'interesse richiesto dall'art. 568, quarto 4, cod. proc. pen., quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve, infatti, essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l'eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l'impugnante rispetto a quella esistente; pertanto, qualora il pubblico ministero denunci, al fine di ottenere l'esatta applicazione della legge, la violazione di una norma di diritto formale, in tanto può ritenersi la sussistenza di un interesse concreto che renda ammissibile la doglianza, in quanto da tale violazione sia derivata una lesione dei diritti che si intendono tutelare e nel nuovo giudizio possa ipoteticamente raggiungersi un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole (ex plurimis: Sez. U, n. 42 del 13/12/1995, Timpani, Rv. 203093).
La giurisprudenza di legittimità ha, pertanto, reiteratamente affermato che è inammissibile il ricorso per cassazione proposto dal pubblico ministero avverso una sentenza del giudice di appello di assoluzione con formula "perché il fatto non sussiste" quando, successivamente a tale pronuncia, il reato si estingue per decorso del termine di prescrizione (Sez. 4, n. 23178 del 15/03/2016, Tr., Rv. 267940; Sez. 6, n. 16147 del 02/04/2014, Re Ma., Rv. 260121), atteso che il mezzo di impugnazione deve perseguire un risultato non solo teoricamente corretto ma anche praticamente favorevole (in questo senso Sez. 6, n. 27355 del 15/03/2013, Be., Rv. 255740), ovvero deve tendere alla tutela di un interesse concreto, anche se rispondente ad una ragione esterna al processo purché obiettivamente riconoscibile (Sez. 5, n. 30939 del 24/6/2010, P. G. in proc. Ma., Rv. 247971).
Nel caso di specie, tuttavia, il risultato che l'impugnante intende perseguire (l'annullamento della sentenza con rinvio) non è concretamente ottenibile, poiché, in presenza di una causa di estinzione del reato, non sono rilevabili in sede di legittimità vizi di motivazione della sentenza impugnata, in quanto il giudice del rinvio avrebbe comunque l'obbligo di procedere immediatamente alla declaratoria della causa estintiva, senza possibilità alcuna di addivenire ad una statuizione di merito (Sez. U., n. 35490 del 28/5/2009, Te., Rv. 244275).
3. Fondato si rivela, invece, il ricorso formulato dal Procuratore Generale della Corte di Appello di Milano nella parte cui deduce la carenza e la illogicità della motivazione della sentenza impugnata relativamente al delitto di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio contestato all'imputato An. Br. al capo a).
3.1. Per tale delitto non è, peraltro, intervenuta la prescrizione, atteso che le ultime due dazioni corruttive, secondo quanto accertato nei giudizi di merito, sono intervenute in data 28 luglio 2011 (50.000 Euro) ed in data 11 ottobre 2011 (100.000 Euro) e, pertanto, il termine di perfezionamento di tale causa estintiva per il delitto di corruzione contestato al capo a) è, allo stato, determinabile nel 10 aprile 2019.
3.1. Deduce il Procuratore Generale ricorrente che la sentenza di appello, ritenendo l'impianto accusatorio fondato su "mere suggestioni", aveva omesso di motivare sul fatto che il Br., in qualità di consulente della Edil Vb, aveva partecipato alla stesura del testo della Convenzione del Piano Attuativo dell'Ambito A6 ed, in qualità di consigliere comunale a Carate Brianza, aveva votato a favore dell'approvazione della stessa nella seduta consiliare del 28 luglio 2011.
La Corte di Appello aveva, pertanto, integralmente obliterato l'anomalia conseguente a tale duplice intervento da parte del Br. nell'atto amministrativo di interesse del privato ed alla palese condizione di conflitto di interesse nel quale l'imputato aveva operato.
Nella sentenza di primo grado il Tribunale di Monza aveva, invece, posto in essere una ampia disamina del materiale probatorio relativo all'efficacia dell'intervento del Br. in relazione all'interesse del privato Edil Vlb/Bricoman, efficacia consistita nel far approvare in tempi rapidi un progetto dal contenuto migliorativo rispetto a quello originariamente predisposto ed approvato.
Il Tribunale, in particolare, aveva ritenuto estremamente significativa la mail invitata dall'avv. Ma., che assisteva la parte venditrice Edil Vlb, all'avv. Corrias, che operava nell'interesse della parte acquirente Bricoman, nella quale il primo, dopo aver ricostruito la cronistoria della operazioni immobiliare, aveva allegato un nuovo progetto, definendolo "frutto di ripensamenti successivi derivanti dal cavalcare la concretezza dimostrata dall'arch. Ad., dal suo staff, e da qualche santo in paradiso!!".
3.2. La difesa del Br., con la memoria depositata in data 10 luglio 2017, ha eccepito la inammissibilità del ricorso presentato dal Procuratore Generale della Corte di Appello, in quanto lo stesso, lungi dal dimostrare la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, si limitava genericamente a lamentare l'omesso accoglimento di una tesi alternativa a quella accolta dalla sentenza di impugnata.
Il Procuratore Generale, inoltre, non aveva allegato gli atti richiamati nel proprio ricorso e, comunque, non li aveva trascritti, limitandosi a riproporre alla Corte di Cassazione le statuizioni del Tribunale di Monza, ritenute preferibili rispetto a quelle della Corte di Appello di Milano.
3.3. Il ricorso si rivela, tuttavia, fondato e deve essere accolto sul punto.
Infondate si rivelano le eccezioni formulate dalla difesa del Br., in quanto il ricorso del Procuratore Generale è, infatti, inteso non già a pervenire ad una diversa valutazione di atti non allegati o a ribadire la preferenza per la soluzione in fatto adottata dal Tribunale di Monza, bensì a contestare la struttura argomentativa della decisione impugnata che, nel procedere ad una rivisitazione integrale della sentenza di primo grado, non ha argomentato adeguatamente il proprio convincimento secondo il canone, pur non espressamente evocato, della cd. motivazione rafforzata.
3.4. Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, dal quale non vi è ragione di discostarsi, infatti, il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha l'obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; Sez. 3, n. 6880 del 26/10/2016, D., n. 269523; Sez. 6, n. 10130 del 20/01/2015, Marsili, Rv. 262907; Sez. 2, n. 50643 del 18/11/2014, Fu, Rv. 261327).
Il giudice di appello che riformi la decisione di condanna del giudice di primo grado, pervenendo a una sentenza di assoluzione, non può, pertanto, limitarsi ad inserire nella struttura argomentativa della decisione impugnata, genericamente richiamata, delle notazioni critiche di dissenso, essendo, invece, necessario che egli riesamini, sia pure in sintesi, il materiale probatorio vagliato dal primo giudice, considerando quello eventualmente sfuggito alla sua valutazione e quello ulteriormente acquisito per dare, riguardo alle parti della prima sentenza non condivise, una nuova e compiuta struttura motivazionale che dia ragione delle difformi conclusioni (Sez. 6, n. 1253 del 28/11/2013, Ricotta, Rv. 258005; Sez. 6, n. 46742 del 08/10/2013, Ha. Ri., Rv. 257332).
La Corte di appello di Milano, nella sentenza impugnata, si è, tuttavia, limitata ad evidenziare come il Tribunale di Monza abbia operato un paralogismo, non adeguatamente supportato da adeguati elementi dimostrativi, bensì esclusivamente da suggestioni, ma non si è conformata al canone della cd. motivazione rafforzata, limitandosi a contrapporre il proprio convincimento a quello della sentenza di primo grado.
Nel caso specifico il giudice di appello non ha, pertanto, confutato con rigorosa analisi critica gli argomenti posti a fondamento della decisione di primo grado, dimostrandone puntualmente l'incompletezza o l'incoerenza e, pertanto, l'insostenibilità sul piano logico e giuridico.
La motivazione della sentenza di appello, del resto, non si sovrappone integralmente a quella della decisione riformata e non dà ragione delle scelte operate e della maggiore considerazione accordata ad elementi di prova diversi o diversamente valutati, limitandosi ad argomentazioni generiche e lacunose, strutturalmente inidonee a confutare il complessivo discorso giustificativo della sentenza di primo grado.
3.5. La Corte di Appello di Milano ha, infatti, accolto una ipotesi ricostruttiva, astrattamente idonea a confutare l'ipotesi accusatoria (lo svolgimento da parte del Br. di mera attività consulenziale per le società del Vi., la irrilevanza del proprio apporto alla approvazione del Piano attuativo, stante il mero recepimento nello stesso delle previsioni del Piano di Governo del territorio, la congruità del corrispettivo di 20.000 Euro percepito dall'imputato per la prestazione esclusivamente consulenziale resa e, pertanto, la radicale assenza di pagamenti dalla natura corruttiva), ma non ha verificato dialetticamente la capacità dimostrativa della stessa alla stregua degli ulteriori elementi probatori disponibili e, segnatamente, la resistenza della ipotesi accolta alle contro-ipotesi esplicative dell'accadimento specificamente poste a fondamento della sentenza del Tribunale di Monza.
Alcune valutazioni, centrali nel discorso giustificativo della sentenza impugnata, evidenziano, inoltre, manifeste illogicità e, su elementi decisivi nel discorso giustificativo della prima decisione, emergono carenze di motivazione.
Nella valutazione della sentenza di secondo grado, infatti, si rivela che il Piano attuativo in questione faceva seguito all'approvazione in parte qua del Piano di governo del territorio "sul quale nemmeno è postulato che il Br. avesse interferito".
Nella sentenza del Tribunale di Monza, tuttavia, si evidenzia diffusamente, riportando anche ampi stralci del relativo verbale, come, nel corso della seduta del Consiglio comunale del 31 marzo 2009, il Br. sia intervenuto in favore della approvazione del Piano di Governo del Territorio, nonostante i rilievi critici formulati dalla Provincia di Milano, si sia espresso ed abbia votato in senso favorevole alla stessa, al pari di Ma. Al..
Il fondamento del diverso convincimento espresso della Corte di Appello sul punto appare, pertanto, assolutamente immotivato.
3.6. Analogamente si rivela irragionevole, in relazione alla compiuta e puntuale disamina operata nella sentenza di primo grado, la svalutazione della efficacia precettiva del Piano attuativo rispetto al Piano di Governo Territoriale operata dalla Corte di Appello di Milano.
Secondo la sentenza impugnata, infatti, "il piano attuativo che l'imputato si era assunto l'onere di allestire in collaborazione con l'Ad. - per quanto complesso e con risvolti di ordine giuridico - era del tutto conforme alle prescrizioni del PGT e non aveva necessità di essere promosso con mezzi particolari. L'approvazione del Piano attuativo era poi di competenza della Giunta - di cui il Br. non faceva parte- ed il suo passaggio in Consiglio Comunale, iniziativa non attribuibile al Br., era stato un "di più" certamente non ascrivibile all'imputato".
Tali espressioni si limitano, tuttavia, a sovrapporre apoditticamente un diverso convincimento alle valutazioni espresse nella sentenza di primo grado, senza, tuttavia, dare conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza delle sentenza riformata e, segnatamente, senza confutare il percorso logico del giudice di primo grado nella disamina di tali elementi probatori.
Il Tribunale di Monza ha, infatti, espresso il convincimento che il Piano attuativo nella specie non fosse stato meramente riproduttivo delle prescrizioni del Piano di Governo del Territorio, rilevando sul piano normativo, come nel modello di governo del territorio delineato dalla legge regionale n. 12 del 2005, al risultato definitivo della concreta edificabilità si pervenga solo attraverso un iter complesso, che prevede una negoziazione pubblico-privato mediante la convenzione del piano attuativo.
La rilevanza non già di un solo atto, bensì di una pluralità di atti, inseriti in distinti strumenti urbanistici, giustificava anche perché nella specie fossero intervenute una pluralità di dazioni corruttive, nel corso del progressivo iter amministrativo, al fine di ottenere il risultato provvedimentale perseguito e, segnatamente, la concreta edificabilità dei fondi ceduti, ove doveva sorgere l'esercizio commerciale della parte acquirente Bricoman.
Il preliminare di vendita tre le società Loviro S.r.l. ed Edil Vlb S.r.l. e la Bricoman S.r.l., del resto, era sottoposto alla condizione sospensiva (art. 3 del contratto) dell'approvazione del Piano attuativo, predisposto dall'architetto Ad., comprensivo del rilascio dei permessi edilizi ed urbanistici richiesti per la realizzazione dell'immobile commerciale, che costituiva oggetto e scopo dell'iniziativa commerciale perseguita da Bricoman (punto d) del contratto)
Il Tribunale di Monza, ha, inoltre, rilevato, all'esito di una accurata disamina delle successive fasi dell'/ter di approvazione del Piano attuativo, come lo stesso avesse subito progressive modifiche, anche nell'ampliamento della superficie edificabile rispetto alle previsioni del Piano di Governo Territoriale, al fine di esaudire i desiderata della parte acquirente Bricoman.
La escussione di Tullio Strata, direttore sviluppo immobiliare della Bricoman Italia s.r.l., e la disamina delle e-mail acquisite agli atti avevano, infatti, dimostrato non solo il sistematico recepimento delle istanze della Bricoman, ma anche la solerzia della amministrazione comunale nella adozione in data 13 giugno 2011 (pag. 31 della sentenza di primo grado) e nella successiva approvazione di tale piano in data 28 luglio 2011; tale aspetto era, peraltro, emerso già precedentemente, nel caso della convocazione "dal pomeriggio alla sera" di un consiglio comunale ad hoc in data 22 novembre 2010, che aveva espresso un parere di massima positivo in via ufficiosa (pag. 30 della sentenza di primo grado).
Estremamente significativa si rivelava, inoltre, nella valutazione della sentenza di primo grado la mail invitata dall'avv. Ma., che assisteva la promittente venditrice Edil Vlb, all'avv. Corrias, che operava per conto della promissaria acquirente Bricoman, in cui il primo aveva allegato un nuovo progetto, definendolo "frutto di ripensamenti successivi derivanti dal cavalcare la concretezza dimostrata dall'arch. Ad., dal suo staff, e da qualche santo in paradiso!!".
3.7. Nella valutazione conclusiva della Corte di Appello in relazione al delitto contestato al capo a), inoltre, "gli elementi di sospetto valutati dal Tribunale (l'essere stato l'imputato contattato dall'Ad. - protagonista di altre iniziative corruttive nell'ambito di quel Piano - e l'ammontare "anomalo" della sua parcella per la consulenza) non possono, pertanto, assurgere - in mancanza di ogni altro dato processuale- a dimostrazione plausibile dell'ipotesi accusatoria. Anche la somma di 20.000 Euro (riconosciuta dal Br. come incassati per la sua opera di consulenza) non può considerarsi "sospetta", considerato il valore ordinario di prestazioni professionali in casi simili e, pertanto, sotto tale aspetto non ricorrono elementi concreti per ritenere che il compenso professionale in questione possa mascherare una dazione corruttiva".
Anche tale valutazione risulta, tuttavia, apodittica e si rivela strutturalmente inidonea a confutare, nel suo complessivo sviluppo, il solido impianto argomentativo elaborato dal Tribunale di Monza.
Nella sentenza del Tribunale di Monza si rivela, infatti, come il Br. non si sia limitato a prestare attività di consulenza nella redazione della convenzione, ma abbia anche svolto attività di mediazione con l'architetto Parma del Comune di Carate Brianza, come dimostrato dalla e-mail del 19 maggio 2011 con la quale Gi. Ad. aveva chiesto al Br. di parlare con il Parma in ordine ad alcune modifiche da apportare alla Convenzione, in favore dei lottizzanti.
L'imputato, pertanto, aveva operato quale consulente per Ad., in relazioni ai fondi ceduti dal Vi. a Bricoman, partecipando alla redazione della Convenzione del Piano Attuativo dell'Ambito A6 stipulata dal Comune; attraverso l'interlocuzione con l'ufficio tecnico e con gli altri consiglieri comunali aveva, inoltre, consentito l'adozione del progetto e, da ultimo, quando la Giunta Comunale, ovvero l'organo competente all'approvazione delle convenzioni, aveva ritenuto di sottoporre la deliberazione al Consiglio Comunale, aveva concorso, con il proprio voto di consigliere comunale, all'approvazione del Piano Attuativo e della Convenzione in questione.
Nella sentenza di primo grado si evidenzia, inoltre, che le parcelle redatte dall'imputato (la n.45/2011 in data 20 luglio 2011 per 10.000,00 Euro oltre ad oneri ed IVA, relativa alla redazione della convenzione del piano attuativo e la precedente, n. 40/2010 in data 30 novembre 2010 per 10.000,00 Euro oltre oneri e IVA per consulenze-pareri con riferimento all'articolo 12, comma 4, Legge Regionale 12 del 2005) esponessero "una cifra assolutamente risibile per la consulenza di un professionista della caratura del Br., se si pensa, poi, che l'arch. Ad. ha ricevuto dalla Bricoman, solo per la parte legale, un compenso di 50.000 Euro" e, comunque, non fossero gli unici compensi ricevuti dall'imputato per il proprio articolato intervento nella vicenda.
Dalla disamina del prospetto dalle uscite dalle casse delle società del Vi. (Loviro s.r.l. e Edil Vlb S.r.l.) erano, infatti, emersi versamenti in contanti per l'ammontare di complessivo 150.000 Euro nel periodo tra luglio e ottobre 2011 in favore dell'Ad., che fungeva da "collettore e distributore delle tangenti per i pubblici amministratori del Comune di Carate Brianza" per conto del Vi., ed una parte di questa somma doveva essere stata versata al Br., essendo stato "fondamentale" il suo operato "nell'ultima fase" per la realizzazione del risultato programmato.
4. Fondato è anche il motivo di ricorso formulato dal Procuratore Generale della Corte di Appello di Milano in relazione alla violazione di legge relativamente alla assoluzione della Loviro s.r.l. unipersonale, dall'illecito amministrativo dipendente da reato contestato al capo i).
4.1. Secondo il ricorrente, errata era, infatti, la assoluzione della Loviro s.r.l. come conseguenza dell'assoluzione dell'imputato Br.; già nella contestazione si rappresentava che l'illecito amministrativo era stato posto in essere da Pa. Vi., amministratore di fatto, medio tempore deceduto, e da Ca. Licata Caruso, amministratore di diritto della società, condannato per il delitto di cui al capo a) con sentenza della Corte di Appello di Milano del 12 dicembre 2013, divenuta irrevocabile in data 1 luglio 2014.
Nella sentenza di primo grado era, inoltre, stato diffusamente evidenziato come dalle movimentazioni bancarie della società emergesse la prova dei pagamenti corruttivi nell'interesse ed a vantaggio dell'ente, che aveva, di seguito, beneficiato del plusvalore che i fondi avevano acquisito, divenendo da agricoli ad edificabili.
4.2. Tali rilievi si rivelano fondati.
4.3. Con riferimento all'illecito amministrativo dipendente da reato contestato alla Loviro, la Corte di Appello di Milano ha rapsodicamente rilevato a pagina 11 della sentenza impugnata che "la raggiunta decisione di inconsistenza della ricostruzione fattuale approvata del Tribunale in relazione ai capi a) e b) ha necessarie conseguenze (assorbenti anche le diverse prospettazioni difensive) sulle posizioni dei coimputati Lo. Wa. e Gi. Gi., oltre che Br. An.... Anche gli imputati Lo. e Gi. devono essere mandati assolti al pari del Br., e così pure le società Loviro s.r.l. e Bre s.r.l. debbono essere mandate esenti da conseguenze".
L'accoglimento dell'appello del Br. ha, pertanto, determinato, come si rileva a pag. 7 della sentenza impugnata, "per riflesso" la riforma della sentenza di primo grado anche in favore di Loviro s.r.l.
4.4. L'automatismo stabilito tra la assoluzione della persona fisica imputata del reato presupposto per la ritenuta insussistenza di quest'ultimo e la esclusione della responsabilità dell'ente per la sua commissione, tuttavia, si rivela illegittimo, oltre che manifestamente illogico, nel caso in esame.
A tacere dei vizi che affliggono le statuizioni dedicate dalla Corte di Appello al Br. in relazione al capo a), l'assoluzione di uno solo dei pubblici ufficiali indicati nella imputazione quali corrotti, nella specie il Br., non può, invero, far discendere la assoluzione della società Loviro.
La contestazione dell'illecito amministrativo formulata nei confronti dell'ente non aveva, del resto, ad oggetto esclusivamente le condotte corruttive poste in essere dal Br..
Secondo la imputazione delineata al capo a), infatti, le condotte corruttive erano intervenute dall'inizio dell'/ter amministrativo, che aveva condotto all'approvazione del nuovo Piano di Governo Territoriale, e sino all'approvazione della convenzione del piano attuativo; i pubblici ufficiali corrotti erano stati non solo il Br., ma anche Ma. Al., consigliere comunale e membro della Commissione Urbanistica del Comune di Carate Brianza, unitamente ad "altri pubblici funzionari in via di identificazione".
Come rilevato dal Procuratore Generale ricorrente, inoltre, per il reato presupposto di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio contestato al capo a) l'amministratore della società, Ca. Licata Caruso, aveva riportato condanna definitiva in sede di giudizio abbreviato ed avevano richiesto la applicazione della pena ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen. gli originari coimputati Felice Tagliabue, Gi. Ad. e Ma. Al..
4.5. Su un piano più generale, deve, peraltro, rilevarsi che il D.Lgs. n. 231 del 2001, consapevolmente rifiutando un criterio imputativo fondato sulla responsabilità "di rimbalzo" dell'ente rispetto a quella della persona fisica, ha previsto che l'illecito amministrativo ascrivibile all'ente non coincida con il reato, ma costituisca "qualcosa di diverso, che addirittura lo ricomprende" (Sez. 6, n. 2251 del 05/10/2010 (dep. 22/01/2011), Fenu; Sez. 6, n. 28299 del 10/11/2015 (dep. 07/07/2016), Bonomelli, non massimate sul punto).
In tale prospettiva interpretativa, accolta anche dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 218 dell'8 luglio 2014, il reato che viene realizzato dai soggetti apicali dell'ente, ovvero dai suoi dipendenti, è solo uno degli elementi che formano l'illecito da cui deriva la responsabilità dell'ente, che costituisce una fattispecie complessa, in cui il reato rappresenta il presupposto fondamentale, accanto alla qualifica soggettiva della persona fisica e alla sussistenza dell'interesse o del vantaggio che l'ente deve aver conseguito dalla condotta delittuosa posta in essere dal soggetto apicale o subordinato.
In ragione del carattere articolato e composito di tale fattispecie ascrittiva, nel processo nei confronti dell'ente la commissione del delitto presupposto dovrà essere verificata dal giudice di merito alla stregua della integrale contestazione dell'illecito dipendente da reato formulata nei confronti dell'ente e, pertanto, indipendentemente dalle legittime scelte processuali degli imputati che possano aver precluso la celebrazione del simultaneus processus nei confronti dei responsabili del reato e dell'ente per l'illecito ad esso collegato.
La separazione delle posizioni di alcuni degli imputati originari per effetto della scelta di riti alternativi non incide, infatti, in alcun modo sulla originaria contestazione formulata nei confronti dell'ente, né tanto meno riduce l'ambito della cognizione giudiziale.
La Corte di Appello di Milano, pertanto, pur prescindendo dal tenore della motivazione posta a fondamento della assoluzione del Br., non avrebbe dovuto arrestarsi a tale statuizione e farne conseguire, quale esito indefettibile, la assoluzione della Loviro s.r.l. per insussistenza del fatto, bensì avrebbe dovuto scrutinare, nella integralità, la fondatezza della contestazione elevata nei confronti dell'ente e, segnatamente, verificare se fossero intervenute le ulteriori condotte corruttive, poste in essere nell'interesse o a vantaggio dell'ente stesso, in favore dell'Al. o di ulteriori funzionari pubblici, ancorché non ancora identificati.
Secondo un principio costantemente ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, del resto, ai fini dell'integrazione del delitto di corruzione non ha rilevanza il fatto che il funzionario corrotto resti ignoto, quando non sussistono dubbi in ordine all'effettivo concorso di un pubblico ufficiale o di un incaricato di pubblico servizio nella realizzazione del fatto, non occorrendo che il medesimo sia o meno conosciuto o nominativamente identificato (ex plurimis: Sez. 6, n. 1 del 2/12/2014, Pedrotti, Rv. 262919; Sez. 6, n. 3523 del 07/11/2011, Papa, Rv. 251651; Sez. 6, n. 7481 del 08/11/2007 (dep. 19/02/2008), Minella, Rv. 238925).
4.6. Nessun rilievo, da ultimo, ai fini di escludere la applicazione della responsabilità da reato dell'ente posso rivestire le circostanze evocate dalla difesa della Loviro S.r.l. in sede di discussione e, segnatamente, che la stessa sia una società unipersonale e che medio tempore sia stata dichiarata fallita.
La disciplina del D.Lgs. n. 231 del 2001 è, infatti, riferita agli enti, sintagma che evoca l'intero spettro dei soggetti di diritto non riconducibili alla persona fisica (Sez. 6, n. 30085 del 16/05/2012, Vinci, 252995; Sez. 6, n. 18941 del 03/03/2004, Soc. Ribera, Rv. 228833), indipendentemente dal conseguimento o meno della personalità giuridica e dallo scopo lucrativo o meno perseguito dagli stessi, come evidenzia in modo inequivoco il riferimento agli "enti forniti di personalità giuridica e... associazioni anche prive di personalità giuridica" operato dall'art. 1, comma secondo, di tale testo normativo.
Se, pertanto, il presupposto indefettibile per l'applicazione del diritto sanzionatorio degli enti è l'esistenza di un "soggetto di diritto metaindividuale" (Sez. 6, n. 18941 del 03/03/2004, Soc. Ribera, Rv. 228833), quale autonomo centro di interessi e di rapporti giuridici, è certamente ascrivibile al novero dei destinatari del D.Lgs. n. 231 del 2001 anche la società unipersonale, in quanto soggetto di diritto distinto dalla persona fisica che ne detiene le quote.
Come è stato, peraltro, già rilevato nella sentenza di primo grado, inoltre, secondo un ormai consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, il fallimento della società non determina l'estinzione dell'illecito previsto dal D.Lgs. n. 231 del 2001 o delle sanzioni irrogate a seguito del suo accertamento (Sez. U, n. 11170 del 25/09/2014 (dep. 17/03/2015), Uniland, Rv. 263682; Sez. 5, n. 4335 del 16/11/2012 (dep. 29/01/2013), Fr., Rv. 254326; Sez. 5, n. 44824 del 26/09/2012, Ma., Rv. 253482).
4.7. Alla stregua di tali rilievi la sentenza impugnata deve essere annullata limitatamente al capo a) per An. En. Br. e al capo i) per la Loviro s.r.l. società unipersonale e deve essere disposto il rinvio ad altra sezione della Corte di Appello di Milano perché venga celebrato un nuovo giudizio che proceda a colmare, nella piena autonomia dei relativi apprezzamenti di merito, le indicate lacune della motivazione impugnata.
Il ricorso del Procuratore Generale della Corte di Appello di Milano, nel resto, deve essere dichiarato inammissibile per le ragioni sopra esposte.
5. Inammissibile in quanto manifestamente infondato deve, inoltre, essere dichiarato anche il ricorso presentato dall'avv. Vi. Ni. D’As. e dall'avv. En. Ma. Gi. nell'interesse di Ca. Mi..
5.1. Con il primo motivo il ricorrente deduce il vizio di motivazione e la erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 192, commi 1, 2 e 3, 197 bis, 125, comma 3, 546, comma 1, lett. e), anche in riferimento all'art. 530, comma 2, cod. proc. pen.
La Corte di Appello non aveva, infatti, motivato in ordine alle censure formulate nell'atto di appello relativamente ai criteri utilizzati nel valutare le dichiarazioni del Pi. e dell'Al.; il Tribunale, infatti, aveva ritenuto credibili le dichiarazioni accusatorie dell'Al., rinvenendo quale riscontro alle stesse una annotazione contenuta nel memoriale del Pi., ancorché questa non contenesse riferimento alcuno ad una dazione certamente effettuata anche da Ca. Mi..
Il Pi., inoltre, in dibattimento, aveva dichiarato di non conoscere i germani Mi. e di ignorare chi fossero i soci della Quadratea S.r.l.; non si era, pertanto, in presenza di una vera e propria chiamata in correità del Pi..
Deduceva, inoltre, che il fratello del Mi. era stato assolto, al pari dell'assessore Sisler, ulteriore destinatario di altre somme da parte dei corruttori.
Incongrua era, inoltre, la valutazione del Tribunale di un prezzo di acquisto del terreno troppo alto per un fondo a destinazione agricola e la assenza di stipulazione di un preliminare.
Nella sentenza impugnata, pertanto, la responsabilità del Mi. era stata affermata sulla base di un ragionamento meramente induttivo svolto esclusivamente sulla base di un frammento di una più complessa deposizione del teste assistito Al., superando le parti della stessa che conducevano ad escludere ogni coinvolgimento del ricorrente nella vicenda corruttiva.
La sentenza impugnata, pertanto, risultava distonica rispetto ai principi che governano la valutazione della prova, in quanto mancava nelle dichiarazioni dell'Al., utilizzate ai fini della condanna del Mi., una attribuzione accusatoria ed, inoltre, la Corte di appello non aveva motivato in ordine alla attendibilità di una intera parte delle dichiarazioni rese dall'Al..
5.2. Tale motivo di ricorso si rivela inammissibile.
Quanto al vizio di motivazione dedotto in tale motivo di ricorso, deve rilevarsi, come, secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, dalla quale non vi è ragione per discostarsi, è ben possibile che nella valutazione sulla "tenuta" del ragionamento probatorio, la struttura motivazionale della sentenza di appello si saldi con quella precedente per formare un unico corpo argomentativo, atteso che le due decisioni di merito possono concordare nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, (cfr., in tal senso, tra le altre, Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 2574595; Sez. 2, n. 5606 dell'8/2/2007, Conversa, Rv. 236181; Sez. 1, n. 8868 dell'8/8/2000, Sangiorgi, Rv. 216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145).
Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica allorché i giudici di secondo grado, come nel caso in esame, esaminino le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con riferimenti alle determinazioni ed ai passaggi logico-giuridici della decisione di primo grado ed, a maggior ragione, ciò è legittimo quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione del primo giudice (cfr. la parte motiva della sentenza Sez. 3, n. 10163 del 12/3/2002, Lo., Rv. 221116).
Declinando tali consolidati principi nel caso di specie deve rilevarsi come, secondo l'assunto accusatorio, Ma. Al., all'epoca dei fatti consigliere comunale presso il Comune di Carate Brianza, nonché membro della Commissione Urbanistica di tale comune, aveva ottenuto la somma di 30.000,00 Euro da Ma. Pi., Ca. ed Angelo Mi. per favorire la modifica della destinazione di uso di un fondo intestato ad una società dei medesimi e sito in Via (omissis...).
Nella sentenza del Tribunale di Monza, richiamata sul punto dalla sentenza impugnata, la responsabilità penale del Mi. è affermata, tutt'altro che illogicamente, sulla base delle dichiarazioni dell'Al., che in dibattimento aveva affermato di aver ricevuto dal Pi. la somma di 30.000 Euro per modificare la destinazione urbanistica del terreno di Via (omissis...) di proprietà della Quadratea s.r.l., delle dichiarazioni del Pi., che aveva riferito di aver remunerato l'Al. e dalla annotazione autografa del Pi. sul proprio "memoriale".
Il prospetto (schede di cantiere) riportava, inoltre, come ha rilevato la sentenza di primo grado, nella colonna "uscite B", riservata alle uscite irregolari, il pagamento della somma di 30.000 Euro in data 30 aprile 2009, ovvero qualche giorno dopo l'approvazione del Piano di Governo del Territorio, quali oneri per il cambio di destinazione.
In dibattimento il Pi. aveva, tuttavia, escluso un coinvolgimento del Mi. nella dazione corruttiva, asserendo che il "memoriale" era solo un promemoria di costi e ricavi, stilato per i figli in caso di prematuro decesso.
I costi indicati, inoltre, dovevano essere divisi per tre (stante la presenza di altri due soci della Quadratea s.r.l.) e, con riferimento al terreno di Via (omissis...), non sapeva se gli altri due soci avessero versato le somme di propria spettanza all'Al..
Nella sentenza impugnata, tuttavia, non certo illogicamente, si confuta la tesi di una intenzionale annotazione da pare del Pi. sul memoriale di un dato errato, in quanto una registrazione con una tale finalità non poteva certo essere falsa.
Il memoriale riguardava, infatti, spese ed investimenti, personali ed effettivamente sostenuti, di cui il Pi. aveva deciso di lasciare memoria ai propri congiunti, in caso di sua prematura scomparsa.
Nella sentenza di primo grado, peraltro, congruamente si valorizza in tal senso proprio il tenore delle espressioni con le quali esordiva il file, denominato "istruzioni", redatto dal Pi., destinato a costituire un dettagliato resoconto, destinato ai figli, di tutte le proprie attività ("Ho preparato il presente promemoria nella speranza che non sia mai usato, ma nel caso in cui dovesse succedermi qualcosa, per lasciare ai miei eredi la conoscenza di tutti quelli che sono i miei averi, investimenti, depositi, società, ecc.").
Non potevano, inoltre, secondo la Corte di Appello di Milano, essere estese nei confronti del Mi. le argomentazioni dell'archiviazione disposta nei confronti dell'assessore Sisler, in quanto erano state dettate esclusivamente dal mancato reperimento di riscontri alla chiamata in correità dell'Al..
Ritiene, pertanto, il Collegio che la sentenza impugnata, al pari della sentenza di primo grado, abbia fatto corretto governo dei principi della logica e dei canoni legali del corretto ragionamento probatorio, atteso che le valutazioni sopra riportate non rivelano contraddittorietà o manifeste illogicità e, pertanto, si sottraggono al sindacato di questa Corte.
Le doglianze articolate dal ricorrente, del resto, più che a dimostrare i vizi logici della valutazione operata dalla Corte di appello, paiono, invero, intese ad addivenire ad una diversa lettura del medesimo compendio probatorio.
Secondo una consolidata interpretazione della giurisprudenza di legittimità, dalla quale non vi è ragione per discostarsi, è, peraltro, preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (ex multis: Sez. 6, n. 47204, del 7/10/2015, Mu., Rv. 265482).
5.3. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia il vizio di motivazione e la violazione di legge in relazione agli artt. 43, 319 e 321 cod. pen., con riferimento agli artt. 125, comma 3, e 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.
Nell'atto di appello, infatti, la difesa aveva censurato la sussistenza dell'elemento psicologico del reato in capo all'imputato, affermata dal Tribunale di Monza sulla base di un percorso argomentativo di chiara marca presuntiva, in quanto fondato esclusivamente sulla conoscenza da parte del Mi., imprenditore edile ed immobiliarista ed in passato consigliere comunale a Desio ed assessore, dell'esistenza di prassi corruttive.
La sentenza della Corte di Appello, tuttavia, non aveva offerto alcuna risposta ai rilievi difensivi svolti, essendo priva di ogni riferimento, neppure di carattere adesivo alla sentenza di primo grado, all'elemento psicologico del reato e, pertanto, era viziata da carenza di motivazione sul punto.
5.4. Anche tale motivo si rivela inammissibile.
Nell'atto di appello la contestazione della ritenuta sussistenza del dolo del Mi. è affidata a poche, rapsodiche, righe, nelle quali l'imputato si era limitato a censurare il ricorso da parte del Tribunale di Monza ad una inaccettabile presunzione di consapevolezza di prassi corruttive.
Nella sentenza del Tribunale di Monza, peraltro, il dolo del Mi. è precipuamente dimostrato dalla consapevole partecipazione dell'imputato alla dazione corruttiva al fine di ottenere il mutamento di destinazione, da agricola ad edilizia, del fondo intestato alla società cui partecipava.
A tale rilievo il Tribunale ha aggiunto che Ca. Mi. "è imprenditore edile ed immobiliarista, ha varie società e partecipazioni in varie società, è stato consigliere comunale a Desio (assessore prima alla sicurezza e dal 2008 ai lavori pubblici) in quota Pdl ed è sicuramente a conoscenza delle procedure amministrative e delle prassi necessarie per arrivare ad un determinato risultato".
La contestazione di tale asserto nell'atto di appello della difesa del Mi. risulta, tuttavia, strutturalmente generica, in quanto, stigmatizzando a pag. 14, in poche righe, esclusivamente il ricorso da parte della Corte di Appello ad "una inaccettabile presunzione di prassi corruttive praticate da altri", non attinge l'intero corpo del discorso giustificativo della sentenza di primo grado.
In altri termini l'atto di appello non ha aggredito la reale ratio decidendi, relativa alla consapevolezza e volontarietà della condotta del Mi., che permane autonoma ed autosufficiente.
Il motivo di appello si rileva, pertanto, sul punto palesemente deficitario, in quanto del tutto privo sia di riferimenti ad elementi oggettivi di valutazione, che dimostrino l'assenza del dolo del Mi., sia di una compiuta critica dialettica rispetto al complesso delle argomentazioni svolte dal Tribunale per dimostrare la sussistenza di tale elemento di fattispecie.
Secondo le Sezioni Unite di questa Corte, del resto, l'appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati ed argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell'impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato (Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, Gattelli, Rv. 268822).
Il motivo di ricorso si rivela, pertanto, inammissibile, in quanto il motivo di appello da cui trae origine era, a sua volta, inammissibile per difetto di specificità.
Non costituisce, del resto, causa di annullamento della sentenza impugnata il mancato esame di un motivo di appello che per la sua assoluta indeterminatezza e genericità doveva essere dichiarato inammissibile (Sez. 4, n. 1982 del 15/12/1998 (dep. 16/02/1999), Iannotta, Rv. 213230) o manifestamente infondato (ex plurimis: Sez. 6, n. 47983 del 27/11/2012, D'Alessandro, Rv. 254280).
5.5. Con il terzo motivo il ricorrente deduce il vizio di motivazione e la erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 318 e 319 cod. pen., con riferimento agli artt. 125, comma 3, e 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.
La difesa aveva preliminarmente eccepito nei giudizi di merito la indeterminatezza del capo di imputazione c), in quanto lo stesso non indicava quale fosse l'atto contrario ai doveri di ufficio oggetto dell'accordo corruttivo ed, inoltre, aveva dedotto come la condotta dell'Al., in assenza di tale atto, dovesse più propriamente essere qualificata non già quale corruzione propria, bensì quale corruzione impropria susseguente ex art. 318, comma secondo, cod. pen.
Il pagamento del pubblico ufficiale era, infatti, intervenuto in data 30 aprile 2009 e, dunque, successivamente alla definitiva approvazione del PGT di Carate Brianza, avvenuta in data 31 marzo 2009.
La condotta dell'Al. doveva essere, del resto, ascritta al paradigma della corruzione impropria susseguente, in quanto si era risolta in una mera votazione in Consiglio Comunale di scelte discrezionali prese in altra sede.
L'atto amministrativo, adottato anche tramite il voto dell'Al., era, inoltre, risultato identico a quello che sarebbe stato, comunque, adottato a tutela del pubblico interesse.
L'atto amministrativo votato dall'Al. era, pertanto, privo di discrezionalità, già previamente esercitata ed il pagamento corruttivo era stato ininfluente sulla conformità dell'atto al paradigma di legge.
La modificazione della destinazione d'uso del terreno di Via (omissis...) era, pertanto, stata decisa attraverso un corretto esercizio della discrezionalità amministrativa da parte della Giunta Comunale, nel rispetto del dovere di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione.
Il pagamento corruttivo era, pertanto, stato ininfluente sulla conformità dell'atto ai doveri di ufficio, consentendo di ricondurlo all'ambito applicativo della fattispecie della corruzione propria.
Non si era, pertanto, in presenza di una "vendita della discrezionalità", quanto di una "retribuzione dell'atto dell'ufficio".
Tale delitto, tuttavia, non era punibile, in quanto, nella versione della fattispecie incriminatrice antecedente alla legge 190 del 2012, non essendo il secondo comma dell'art. 318 richiamato dall'art. 321 cod. pen., era punito solo il pubblico ufficiale e non anche il privato nei casi in cui la illecita retribuzione per un atto di ufficio fosse susseguente al compimento dell'atto stesso.
La sentenza impugnata, tuttavia, aveva superato tali doglianze ricorrendo all'assunto, peraltro rimasto indimostrato e fuorviante, del "permanente asservimento agli interessi personali di terzi" dell'Al., ma l'episodio contestato al Mi. era, peraltro, unico e, pertanto, non vi era alcun asservimento stabile.
5.6. Manifestamente infondato è anche tale motivo di ricorso.
La censura svolta dal ricorrente è, infatti, fondata esclusivamente sulla strutturale inadeguatezza del riferimento al permanente asservimento dell'Al. agli interessi personali dei terzi a giustificare la qualificazione adottata nella sentenza impugnata, ma, a ben vedere, la stessa trae fondamento da un ampio novero di argomentazioni.
La sentenza impugnata, confermando la statuizioni della sentenza di primo grado, correttamente ha escluso che nella specie si sia in presenza di una ipotesi di corruzione impropria susseguente.
Entrambe le sentenze di merito evidenziano, infatti, come, alla stregua delle risultanze dell'intero procedimento penale, l'Al., che per le vicende contestate nel presente procedimento aveva patteggiato la pena, fosse risultato a disposizione dei privati per piegare la discrezionalità amministrativa ai loro interessi e come l'accordo corruttivo si fosse perfezionato anteriormente alla dazione dell'indebito compenso.
Nella sentenza di primo grado, tuttavia, si rileva non illogicamente che Pi. lavorava da lungo tempo a questa trasformazione, infatti aveva acquistato con i Mi. già nel 2003 il terreno ed aveva contattato Al. già prima dell'adozione del Piano di Governo del Territorio.
Estremamente significativi nella valutazione dei giudici di merito si rilevano, inoltre, le condizioni dell'acquisto del fondo che avrebbe dovuto cambiare destinazione edilizia e la tempistica di tale atto rispetto all'adozione degli strumenti urbanistici.
La Quadratea s.r.l. aveva, infatti, acquistato il fondo di Via (omissis...) ad un prezzo (205 Euro al metro quadro) estremamente elevato per un terreno agricolo e congruo, invece, per un terreno edificabile ancor prima che lo fosse; tale acquisto era, peraltro, intervenuto pochi giorni prima che il nuovo Piano di Governo del Territorio lo rendesse edificabile.
Il prezzo elevato di cessione del fondo era, pertanto, giustificato dalla "certezza" in ordine al prossimo mutamento di destinazione urbanistica, confermato anche dalla premura di stipulare il contratto definitivo di vendita in assenza della preventiva stipula di un contratto "preliminare cautelativo".
Tali elementi indiziari dimostravano che vi era stata la certezza, e non già mera "lungimiranza", in ordine all'imminente cambio di destinazione urbanistica del fondo e della conseguente possibilità di edificazione.
Il ricorrente ha stigmatizzato come illogiche la valutazioni espresse in relazione alla assenza di garanzie contrattuali ed al prezzo di acquisto del fondo di Via (omissis...) dalla Quadratea S.r.l., in quanto la stessa era partecipata da società (la Fan S.r.l. e la Prima S.r.l.) controllate dai precedenti proprietari dello stesso e, segnatamente, da Ma. Pi. (per il 50%) ed dai germani Angelo e Ca. Mi. (ciascuno per la quota del 25%).
Tale censura non vale, tuttavia, ad infirmare quanto ritenuto non illogicamente nella sentenza di primo e secondo grado relativamente alla consapevolezza di Pi. e dei Mi. in ordine all'imminente cambio di destinazione del fondo.
Come, inoltre, ha rilevato congruamente la sentenza del Tribunale di Monza, i proprietari dell'area non avevano inteso speculare sul prezzo del fondo, bensì sulla successiva edificazione.
La Quadratea S.r.l. aveva, infatti, acquistato il fondo ad un prezzo congruo per un terreno edificabile, ancorché tale esito non fosse stato raggiunto, per non essere penalizzata in futuro dal punto di vista fiscale nell'evenienza di una successiva rivendita dello stesso.
Nella valutazione concorde e, certamente non manifestamente illogica, dei giudizi di merito, le predette circostanze, pertanto, dimostravano che l'accordo corruttivo era stato perfezionato prima dell'approvazione del Piano di Governo del Territorio, come, peraltro, aveva confermato anche il pubblico ufficiale corrotto Al., indipendentemente dalla circostanza che il pagamento corruttivo fosse intervenuto prima o dopo l'approvazione dell'atto amministrativo.
5.6. A fronte di un accordo corruttivo accertato in tali termini, corretta si rivela la qualificazione operata dalla sentenza impugnata.
Nessun rilievo può, inoltre, assumere la circostanza che la dazione corruttiva sia intervenuta successivamente alla adozione dell'atto oggetto di mercimonio.
Secondo un consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, dal quale non vi è ragione per discostarsi, in caso di accertato accordo corruttivo antecedente o coevo all'atto amministrativo si versa in ipotesi di corruzione propria antecedente e non già in quella di corruzione propria susseguente, a nulla rilevando che il compenso sia stato corrisposto in epoca successiva, procrastinando in tal modo l'esecuzione e non già la consumazione del reato perfetto in ogni suo elemento sin dal raggiungimento dell'accordo (ex plurimis: Sez. 6, n. 7505 del 25/03/1994, Caputo, Rv. 199017).
Parimenti corretta si rileva la qualificazione ai sensi dell'art. 319 cod. pen. della condotta del pubblico ufficiale che abbia accettato, dietro compenso, di non esercitare la discrezionalità che gli è stata attribuita dall'ordinamento o di usarla in modo distorto, alterandone consapevolmente i canoni di esercizio e ponendo pertanto in essere una attività contraria ai suoi doveri di ufficio.
Integra, infatti, il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali rinunciando ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, ex post, con l'interesse pubblico, e salvo il caso di atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni, in quanto, ai fini della sussistenza del reato in questione e non di quello di corruzione impropria, l'elemento decisivo è costituito dalla "vendita" della discrezionalità accordata dalla legge (Sez. 6, n. 4459 del 24/11/2016, Balsamo, Rv. 269613; Sez. 6, n. 6677 del 03/02/2016, Ma., Rv. 267187; Sez. 6, n. 23354 del 04/02/2014, Conte, Rv. 260533; Sez. 6, n. 36083 del 09/07/2009, Mu., Rv. 244258).
Inammissibile si rivela, inoltre, la contestazione secondo la quale nella specie non vi sia stata alcuna alterazione della corretta estrinsecazione della discrezionalità amministrativa, in quanto il contenuto provvedimentale concretamente adottato rispondeva in concreto alla migliore cura degli interessi in comparazione.
La sentenza di primo grado, cui la sentenza impugnata, si richiama, ha, peraltro, argomentato diffusamente sulla rinuncia preventiva dell'Al., in ragione della illecita remunerazione percepita, a comparare gli interessi in gioco secondo i parametri di legge.
Il Tribunale di Monza ha, inoltre, rilevato, alla stregua degli esiti delle escussioni del teste Bo. e del consulente tecnico del Pubblico Ministero Bellini, le vicende e le criticità che avevano connotato il fondo di cui si controverte come lo stesso, ancorché fosse qualificato come "area di completamento", perché situato tra terreni edificati, destinata originariamente a verde ed parcheggi pubblici, sia divenuto edificabile e come tale scelta fosse, tutt'altro che necessitata o immune da rilievi critici.
Il consulente del Pubblico Ministero aveva, inoltre, evidenziato come, in seguito alla adozione del Piano di Governo del Territorio, era stata approvata una osservazione dei proprietari dell'area che aveva comportato l'aumento dell'altezza, dei piani e del volume edificabile.
La sentenza di primo grado, confermata dalla sentenza impugnata sul punto, ha, pertanto, escluso, con motivazione certamente non manifestamente illogica, che nella specie di versasse nel caso di atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni da parte del pubblico ufficiale.
Le deduzioni della difesa intese a dimostrare come l'atto adottato sia stato sicuramente conforme a quello che sarebbe stato comunque emesso in caso di corretto adempimento delle funzioni, esprimendo il migliore assetto degli interessi in comparazione si rivela, del resto, inammissibile nella presente sede.
Tale censura postula, invero, una diversa lettura delle emergenze probatorie in atti ed una incursione della Corte di legittimità nel merito e, pertanto, deve essere dichiarata inammissibile.
La doglianza articolata dal ricorrente, infatti, lungi dall'esaurirsi in una questione di stretta interpretazione del dato normativo, postula una ricostruzione della fattispecie concreta che implica preliminari accertamenti di fatto incompatibili con la natura e la funzione del sindacato di legittimità.
Nel giudizio di cassazione sono, del resto, precluse al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482).
5.6. Con il quarto ed ultimo motivo, il ricorrente deduce il vizio di motivazione e la violazione di legge in relazione agli artt. 133, 319 e 321 cod. pen., con riferimento agli artt. 125, comma 3, e 546, comma 1, lett. e), cod. proc. pen.
Si duole il ricorrente che la sentenza impugnata aveva motivato il mancato contenimento della pena irrogata nei limiti edittali mediante una motivazione del tutto apparente e, segnatamente, affermando che non vi era ragione di ridurre ulteriormente la pena, nel senso indicato dall'atto di appello, in quanto la vicenda era "non clamorosa, ma nemmeno del tutto irrilevante".
Per costante giurisprudenza di legittimità, tuttavia, quanto più il giudice intenda allontanarsi dal minimo edittale, più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente quale tra i criteri, oggettivi e soggettivi, enunciati dall'art. 133 cod. pen. siano ritenuti rilevanti ai fini di questo giudizio.
Il parametro del "non tutto irrilevante" evocato dalla sentenza impugnata si rivelava, del resto, non conducente rispetto al fine di denotare la misura della gravità del fatto giudicato, in quanto la rilevanza penale del fatto è postulata dalla affermazione di penale responsabilità cui era pervenuta la Corte di Appello nei confronti del Mi..
5.7. Anche tale motivo di ricorso si rivela manifestamente infondato.
La motivazione della Corte di Appello risulta, invero, più articolata di quanto riportato nel motivo di ricorso.
La Corte di Appello ha, infatti, rilevato, quanto alle domande subordinate, come non vi fosse "ragione di ulteriormente diminuire la pena (già ispirata ad assoluta moderazione) per condurla ai minimi assoluti, rispetto ad una vicenda non clamorosa, ma nemmeno del tutto irrilevante".
La sintesi verbale cui ha fatto ricorso la Corte di Appello, ad onta delle censure rivolte dal ricorrente, si rivela, pertanto, perspicua nel far riferimento della gravità dei fatti giudicati che, nella tassonomia delle possibili modalità di manifestazione della fenomenologia corruttiva, si pongono a livello non significativamente elevato, ma neppure minimale.
In questa prospettiva ermeneutica la Corte di Appello di Milano ha confermato sul punto la sentenza di primo grado, che nel determinare la pena nei confronti del Mi. in due anni e sei mesi di reclusione, ridotta, per effetto della concessione delle circostanze attenuanti generiche alla pena di un anno ed otto mesi, si era attestata in misura superiore, ma pur sempre prossima al minimo edittale (due anni di reclusione).
Al di là delle censure di ordine meramente lessicale formulate dal ricorrente, deve, pertanto, ritenersi adeguatamente assolto l'onere di motivazione in punto di trattamento sanzionatorio, avendo la Corte di Appello specificamente indicato il criterio, nella specie oggettivo, ritenuto rilevante nella dosimetria della pena ai sensi dell'art. 133 cod. pen.
5.8. Nell'esordio del ricorso i difensori del Mi. hanno invitato la Corte a verificare se fosse o meno intervenuta la prescrizione del delitto contestato al capo c), pur senza formulare espresse doglianze sul punto.
Deve, peraltro, rilevarsi che, secondo quanto accertato dalla sentenza impugnata la dazione corruttiva è intervenuta in data 30 aprile 2009; pertanto, stante la applicabilità nella specie, in quanto lex mitior, ai sensi dell'art. 2, comma quarto, cod. pen. della cornice edittale anteriore alla legge n. 190 del 2012, il delitto per cui si procede, per effetto delle interruzioni medio tempore intervenute, si è prescritto in data 30 ottobre 2016 e, quindi, dopo la pronuncia della sentenza impugnata, intervenuta in data 5 ottobre 2016.
L'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente, tuttavia, il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen. (ex plurimis: Sez. U, n. 32 del 22/11/2000, D.L., Rv. 217266, nella specie la prescrizione del reato era maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso; Sez. 2, n. 28848 del 08/05/2013, Ci., Rv. 256463, con rifermento alla prescrizione intervenuta nelle more del procedimento di legittimità; Sez. 4, n. 18641 del 20/01/2004, Tr., Rv. 228349).
6. Alla stregua di tali rilievi, pertanto, il ricorso formulato da Ca. Mi. deve essere dichiarato inammissibile e, conseguentemente, il ricorrente deve essere condannato, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento.
In ragione delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", il ricorrente deve, inoltre, essere condannato a versare la somma, determinata in via equitativa, di Euro 1.500,00 in favore della cassa delle ammende.

 

 

P.Q.M.

 



Annulla la sentenza impugnata limitatamente al capo a) per An. En. Br. e al capo i) per la Loviro s.r.l. società unipersonale e rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Milano per nuovo giudizio. Dichiara per il resto inammissibile il ricorso del Procuratore Generale. Dichiara inammissibile il ricorso di Ca. Mi. e lo condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2000 alla cassa delle ammende.