La Corte di Appello di Roma respingeva l'impugnazione avanzata da M.N. avverso sentenza del Tribunale di Roma che, nell'accogliere la domanda relativa al riconoscimento dell'equo indennizzo, conseguente all'accertamento della dipendenza della patologia che aveva colpito il ricorrente da causa di servizio, aveva respinto il capo della domanda volto al risarcimento del danno biologico, ex art. 2087 c.c., non ravvisando alcuna colpa a carico del datore di lavoro - Ferrovie dello Stato - nell'affidamento delle mansioni da svolgere e nella causazione dell'infermità.
 
Proposto ricorso in Cassazione, la Corte dichiara infondate le censure e rigetta il ricorso.
"Ritiene il Collegio di riaffermare il principio, già enucleato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale l'art. 2087 c.c., il quale fa carico al datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità del dipendente, introduce un dovere che trova fonte immediata e diretta nel rapporto di lavoro e la cui inosservanza, ove sia stata causa di danno, può essere fatta valere con azione risarcitoria.
 
Tuttavia, è pur sempre necessario che siano ravvisabili, nella condotta del datore di lavoro, profili di colpa cui far risalire il danno all'integrità fisica patito dal dipendente.
Pertanto, quando l'espletamento delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e comporti l'aggravamento di una preesistente malattia, non può ritenersi responsabile il datore di lavoro per non aver adottato le misure idonee a tutelare l'integrità fisica del dipendente, ove non risulti che egli era a conoscenza dello stato di salute di quest'ultimo e dell'incompatibilità di tale stato con le mansioni affidategli."
"E', quindi, corretta in diritto la sentenza impugnata che ha appunto ritenuto, ai fini di cui trattasi, necessaria la consapevolezza in capo al datore di lavoro della d'incompatibilità tra stato di salute del lavoratore e mansioni affidate."

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. IANNIRUBERTO Giuseppe - Presidente -
Dott. VIDIRI Guido - Consigliere -
Dott. STILE Paolo - Consigliere -
Dott. NAPOLETANO Giuseppe - rel. Consigliere -
Dott. BALLETTI Bruno - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
 
sentenza
 
sul ricorso 28338/2005 proposto da:
M.N., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CASILINA 3/U, presso lo studio dell'avvocato TORRIERO CLAUDIO, che lo rappresenta e difende giusta delega a margine del ricorso;
- ricorrente -
contro RETE FERROVIARIA ITALIANA - Società per Azioni (già FERROVIE DELLO STATO S.p.A. Società di Trasporti e Servizi per Azioni), in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G. G. BELLI 122, presso lo studio dell'avvocato SINESIO ANTONIO, che la rappresenta e difende giusta delega a margine del controricorso;
- controricorrente -
avverso la sentenza n. 2113/2005 della CORTE D'APPELLO di ROMA, depositata il 11/05/2005 R.G.N. 4831/02;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/01/2009 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE NAPOLETANO;
udito l'Avvocato TORRIERO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. RIELLO Luigi, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

La Corte di Appello di Roma respingeva l'impugnazione avanzata da M.N. avverso sentenza del Tribunale di Roma che, nell'accogliere la domanda relativa al riconoscimento dell'equo indennizzo, conseguente all'accertamento della dipendenza della patologia che aveva colpito il ricorrente da causa di servizio, aveva respinto il capo della domanda volto al risarcimento del danno biologico, ex art. 2087 c.c., non ravvisando alcuna colpa a carico del datore di lavoro - Ferrovie dello Stato - nell'affidamento delle mansioni da svolgere e nella causazione dell'infermità.
I giudici di appello ponevano a fondamento della propria decisione il rilevo che sporadici episodi d'ipertensione, aventi normale decorso e manifestazione, non consentivano di ipotizzare la consapevolezza in capo al datore di lavoro del carattere morbigeno delle mansioni in relazione al particolare status e, quindi, la violazione dell'obbligo di adibire il dipendente a mansioni d'altro tipo.
E' necessario, sottolineavo i giudici di secondo grado, che "la situazione specifica evidenzi, per la gravità della malattia, l'entità dei sintomi, la reiterazione degli episodi, la concreta possibilità che lo stato patologico sia suscettibile di degenerazione.
Sotto tale profilo, un rilievo non secondario riveste lo stesso comportamento del lavoratore, che abbia reso edotto il datore di lavoro del proprio stato, come sopra caratterizzato, sollecitandolo motivatamente ad un provvedimento di variazione delle mansioni".
Avverso tale sentenza il M. ricorreva in cassazione sulla base di due censure cui resisteva la società intimata.
 
Diritto

Con il primo motivo il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 2043, 1375 e 1228 c.c., e art. 32 Cost..
Assume al riguardo che la Corte del merito nel fare riferimento a "sporadici episodi d'ipertensione, aventi normale decorso e manifestazione" non solo non ha "letto" gli atti (ricorso iniziale, di appello e CTU), ma si è riferita a stati ipertensivi di normale decorso che nel campo medico sono inesistenti e non ha giustificato "nè la portata, nè la consistenza nè il substrato scientifico dei concetti di sporadicità e normalità dell'ipertensione".
"La motivazione", conclude il ricorrente, " è affetta da insufficienza e contraddittorietà e la decisione va cassata".
Con la seconda censura il M. denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 2043 e 1375 c.c., e art. 32 Cost..
Allega al riguardo, dopo aver richiamato i principi che presiedono all'applicazione dell'art. 2087 c.c., che non è condivisibile il giudizio della Corte di Appello "allorquando parla di non consapevolezza del carattere morbigeno delle mansioni" quando, poi, l'Ufficio sanitario della stessa società aveva emanato un circolare "in cui si riconosceva che le mansioni di Dirigente di movimento", quale era esso ricorrente, "comportavano servizi particolarmente gravosi per maggiore impegno fisico e per esposizione a maggiore pericoli, tanto da prevedere l'avvio della pratica per il riconoscimento d'ufficio della dipendenza da causa di servizio".
Richiama, inoltre, la CTU dove è chiarito che "le modalità con le quali nel tempo si è svolta l'attività lavorativa hanno influito determinando conseguenze di ordine patologico, più gravi di quelle che il fatto di servizio sarebbe stato in grado di produrre da solo".
Critica l'affermazione della Corte del merito secondo la quale "in mancanza di qualsiasi sollecitazione da parte del dipendente, di mutamento di mansioni, non è possibile ravvisare un comportamento colposo della società".

Le censure, che in quanto strettamente connesse vanno trattate congiuntamente, sono infondate con la precisazione che la prima ancorchè rubricata come violazione di legge in realtà si sostanzia nella denuncia di un vizio di motivazione come confermato anche dalla specifica richiesta di cassazione della sentenza per insufficienza e contraddittorietà della motivazione.
Tanto premesso, ritiene il Collegio di riaffermare il principio, già enucleato dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale l'art. 2087 c.c., il quale fa carico al datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità del dipendente, introduce un dovere che trova fonte immediata e diretta nel rapporto di lavoro e la cui inosservanza, ove sia stata causa di danno, può essere fatta valere con azione risarcitoria.
Tuttavia, è pur sempre necessario che siano ravvisabili, nella condotta del datore di lavoro, profili di colpa cui far risalire il danno all'integrità fisica patito dal dipendente.
Pertanto, quando l'espletamento delle mansioni proprie della qualifica di appartenenza sia incompatibile con lo stato di salute del lavoratore e comporti l'aggravamento di una preesistente malattia, non può ritenersi responsabile il datore di lavoro per non aver adottato le misure idonee a tutelare l'integrità fisica del dipendente, ove non risulti che egli era a conoscenza dello stato di salute di quest'ultimo e dell'incompatibilità di tale stato con le mansioni affidategli (Cass. 23162/07 e 3455/97).
E', quindi, corretta in diritto la sentenza impugnata che ha appunto ritenuto, ai fini di cui trattasi, necessaria la consapevolezza in capo al datore di lavoro della d'incompatibilità tra stato di salute del lavoratore e mansioni affidate.
Circa poi, l'accertamento di siffatta inconsapevolezza si tratta di apprezzamento devoluto al giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge) e tale apprezzamento è sottratto al sindacato di legittimità se congruamente motivato (V. per tutte Cass. 7972/07).
Sul punto la motivazione della sentenza impugnata è sorretta da argomentazione adeguata e priva di contraddizioni essendo la "inconsapevolezza" coerentemente relazionata alla specifica evoluzione nel tempo dello stato di salute del M. tale da non evidenziare "la concreta possibilità che lo stato patologico fosse suscettibile di degenerazione in una più grave patologia" incompatibile con le mansioni eserciate.
Sulla base delle esposte considerazioni il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

P.Q.M.
 
La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 15,00, oltre Euro 1.500,00 per onorario, spese, IVA e CPA.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 27 gennaio 2009.
Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2009