Cassazione Civile, Sez. Lav., 04 gennaio 2018, n. 101 - Dies a quo della domanda di infermità del lavoratore: conoscibilità e nesso causale



 

 

Presidente Napoletano – Relatore Blasutto
 

 

Fatto

 



1. La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 6562/2011, ha riformato la sentenza del Tribunale di Velletri che, in accoglimento della domanda proposta da T.A. , dipendente del Ministero della Giustizia, aveva dichiarato che l’infermità da cui è affetto il ricorrente, consistente nell’artrosi del rachide cervicale con discopatie multiple a discreto impegno funzionale, è ascrivibile a causa di servizio e riconducibile all’VIII categoria della Tabella A.
2. La Corte territoriale, in accoglimento del motivo di gravame formulato dall’Amministrazione appellante e vertente sull’eccezione di decadenza dall’azione, ha osservato che il T. aveva proposto la domanda amministrativa per l’accertamento della causa di servizio oltre il termine di sei mesi di cui all’art. 2, comma 1, d.P.R. n. 461/2001, in quanto:
- la norma, nel suo tenore letterale, si riferisce alla conoscenza della malattia e non alla conoscenza della sua riferibilità alla origine lavorativa;
- il rapporto causale con l’attività di lavoro va dedotto dal dipendente allorché, avuta consapevolezza della malattia da cui è affetto o del suo aggravamento, ritenga ascrivibile tale evento alla prestazione lavorativa; difatti, l’origine lavorativa non è legata ad un evento particolare del quale il dipendente possa venire a conoscenza nel tempo, ma dipende dalla conoscenza delle modalità di svolgimento della prestazione, dell’ambiente di lavoro occupato e/o dei materiali utilizzati;
- siffatte consapevolezze, o anche solo il dubbio che tali circostanze possano avere determinato la malattia, vanno dedotte contestualmente alla consapevolezza della malattia, come ragione fondativa del diritto alla prestazione richiesta;
- ove poi vi fossero fatti sconosciuti al lavoratore, che solo successivamente alla conoscenza la malattia rendano evidente il legame tra la stessa e l’attività di lavoro, questi devono essere specificamente rappresentati e indicati dal lavoratore;
- nella fattispecie, non erano stati dedotti elementi atti ad accreditare quest’ultima ipotesi.
3. Per la cassazione di tale sentenza T.A. ha proposto ricorso affidato a due motivi. Resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.
4. Il ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

 

 

Diritto

 


1. Con il primo motivo si denuncia violazione dell’art. 2, comma 1, d.P.R. n. 461 del 2001 e dell’art. 2935 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.. Si assume che momento determinante, ai fini della decorrenza del termine di decadenza, è quello in cui l’interessato abbia consapevolezza dell’esistenza della malattia, della sua origine professionale e del suo grado invalidante; inoltre, tenuto conto che l’art. 2935 c.c. trova applicazione anche in tema di decadenza, non è sufficiente ai fini della decorrenza del termine la sola conoscenza della malattia, occorrendo anche la consapevolezza del nesso di causalità tra questa e lo svolgimento di attività lavorativa.
2. Con il secondo motivo, in subordine, si denuncia omessa o insufficiente motivazione su un punto controverso e decisivo nella parte in cui il CTU nominato in primo grado aveva affermato che il ricorrente era certamente informato della severità della patologia di cui era portatore più di due anni prima dell’istanza. Si oppone che nel maggio 1996 si era verificato solo un episodio di carattere acuto, ben diverso dall’affezione permanente che dà diritto all’equo indennizzo. Si sostiene che solo il certificato medico dell’11 settembre 1998 aveva fatto emergere, oltre alla reale consistenza della malattia, la sua riconducibilità all’attività lavorativa (il certificato attestava che la patologia descritta "è sicuramente connessa al tipo di lavoro che il paziente svolge").
3. Il ricorso è infondato.
4. Esso verte sul dies a quo del termine di decadenza semestrale di cui all’art. 2 d.P.R. n. 461 del 2001, il quale prevede che la domanda deve essere presentata dal dipendente entro sei mesi dalla data in cui si è verificato l’evento dannoso o da quello in cui il dipendente ha avuto conoscenza dell’infermità o della lesione o dell’aggravamento.
5. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il termine semestrale di decadenza per la proposizione della domanda non inizia a decorrere dal momento in cui il danno, conseguente alla lesione dell’integrità fisica o psichica, si è avverato ma da quello in cui lo stesso è divenuto, in base ad indici oggettivi, conoscibile dall’interessato alla luce delle nozioni comuni dell’uomo medio, eventualmente integrate da diagnosi mediche, dovendosi escludere che tale condizione equivalga alla conoscenza dell’esatta situazione clinica (Cass. n. 14584 del 2009). È stato altresì precisato che il lavoratore deve essere in possesso di elementi diagnostici da cui possa desumere, secondo criteri di normalità, la natura e la gravità della malattia (Cass. n. 8667 del 2003). Deve tuttavia escludersi che tale condizione equivalga alla conoscenza dell’esatta situazione clinica, idonea, in quanto tale, a protrarre a tempo indeterminato (ed anche a vanificare) il termine decadenziale, con conseguente menomazione del diritto di difesa, anche in giudizio, del titolare del debito indennitario (cfr. Cass. n. 14584 del 2009 cit.).
5.1. L’esatta individuazione del dies a quo di decorrenza del predetto termine semestrale, se può essere di agevole determinazione quando l’infermità è conseguenza di un evento dannoso istantaneo, in quanto tale oggettivamente collocabile nel tempo, non lo è quando, invece, la infermità deriva da cause che incidono progressivamente sulla integrità psico-fisica del dipendente. Al riguardo soccorrono i principi elaborati in materia dalla giurisprudenza amministrativa (Cons. Stato, Sez. 5, 04/03/2008, n. 898; Cons. Stato, Sez. 6, 20/04/2006, n. 2184), la quale ha precisato, proprio con riguardo alla norma in esame, che, in mancanza di criteri normativamente precostituiti, occorre far riferimento al principio di ragionevolezza, secondo il quale la tempestività della domanda va valutata in relazione al momento dell’esatta percezione della natura e della gravità dell’infermità e del suo nesso causale con un fatto di servizio; in particolare, la decorrenza del termine va individuata tenendo presente il momento in cui l’interessato abbia acquisito, secondo un criterio di normalità, conoscenza dell’effettiva consistenza e gravità dell’affezione e delle relative conseguenze invalidanti (in tal senso, Cass. n. 4669 del 2015).
6. Il criterio fa leva sul concetto di conoscibilità, che attiene alla percezione della malattia secondo indici oggettivi, relativi alla possibilità che l’interessato abbia di conoscere la natura e l’entità della malattia, alla luce delle nozioni comuni dell’uomo medio. Diverso è il nesso causale tra la malattia così conosciuta e la prestazione lavorativa. Il rapporto causale va dedotto dal lavoratore allorché, avuta consapevolezza della malattia, ritenga la stessa dipendente dalla causa di servizio. Di regola, tuttavia, nel momento in cui il lavoratore ha consapevolezza della malattia è altresì in grado di porla in relazione causale con la prestazione, in quanto sono a lui già note le modalità di svolgimento del proprio lavoro e le caratteristiche dell’ambiente in cui la prestazione viene resa e dei materiali e strumenti utilizzati, salva l’ipotesi in cui tale correlazione non possa avvenire contestualmente perché dipendente da fatti ancora sconosciuti al lavoratore in tale momento.
7. Nel caso di specie, è stato ritenuto che la consapevolezza del nesso causale tra malattia e attività lavorativa non potesse collocarsi in un momento diverso e posteriore rispetto a quello della conoscenza dell’insorgenza della malattia stessa, poiché la certificazione medica intervenuta posteriormente non poteva integrare i presupposti del fatto diverso. Tale valutazione è coerente con la giurisprudenza di questa Corte sopra indicata.
8. Né vi erano impedimenti giuridicamente rilevanti anteriori al 1998, quando il ricorrente propose la domanda amministrativa. Come affermato da Cass. n. 15991 del 2009, l’impossibilità di far valere il diritto, alla quale l’art. 2935 cod. civ. attribuisce rilevanza di fatto impeditivo della decorrenza della prescrizione (o della decadenza), è solo quella che deriva da cause giuridiche che ne ostacolino l’esercizio e non comprende anche gli impedimenti soggettivi o gli ostacoli di mero fatto, per i quali il successivo art. 2941 prevede solo specifiche e tassative ipotesi di sospensione tra le quali, salvo l’ipotesi di dolo prevista dal n. 8 del citato articolo, non rientra l’ignoranza, da parte del titolare, del fatto generatore del suo diritto, né il dubbio soggettivo sulla esistenza di tale diritto ed il ritardo indotto dalla necessità del suo accertamento.
9. La contestazione svolta in via subordinata con il secondo motivo attiene alle valutazioni espresse dal C.t.u. circa il momento in cui la malattia era riconoscibile secondo indici oggettivi.
9.1. Il motivo è inammissibile. Il difetto di motivazione, denunciabile in cassazione, della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio è ravvisabile in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nella omissione degli accertamenti strumentali dai quali secondo le predette nozioni non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura anzidetta costituisce mero dissenso diagnostico non attinente a vizi del processo logico formale traducendosi, quindi, in un’inammissibile critica del convincimento del giudice (cfr. ex plurimis, Cass. n. 9988 del 2009, n. 22707 del 2010, n. 569 del 2011, n.1652 del 2012).
9.2. Nel caso di specie, parte ricorrente, nel riportare le doglianze mosse alla c.t.u. espletata in primo grado, non denuncia deficienze diagnostiche o affermazioni illogiche o scientificamente errate, ma si duole del giudizio valutativo. La censura finisce così per risolversi in una inammissibile critica delle conclusioni medico-legali e nella altrettanto inammissibile proposta di una soluzione diversa.
10. Il ricorso va dunque respinto. L’onere delle spese del giudizio di legittimità resta a carico di parte ricorrente, in applicazione della regola generale della soccombenza.

 

 

P.Q.M.

 



La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.