Cassazione Penale, Sez. 3, 11 gennaio 2018, n. 810 - Responsabilità del legale rappresentante di un'attività di trattamento rifiuti. Azione delle polveri e omesso certificato di prevenzione incendi


 

 

Presidente: SAVANI PIERO Relatore: RENOLDI CARLO Data Udienza: 13/09/2017

 

Fatto

 


1. S.P. era stato regolarmente citato in giudizio, con decreto in data 11/01/2014, per rispondere dei reati, accertati in Misterbianco in data 2/10/2012 nel corso di un sopralluogo, asseritamente commessi in qualità di legale rappresentante del Consorzio CON.TE. A., previsti, rispettivamente: dall'art. 279, comma 2 del D.Lgs. n. 152/2006, per avere autorizzato alla gestione dei rifiuti ed in particolare alle operazioni di recupero "RS" (Recupero Riciclo di altre sostanze inorganiche) di rifiuti non pericolosi a mezzo di impianto di frantumazione e vagliatura dei rifiuti di inerti, omettendo di avviare il previsto sistema di irrigazione a pioggia con il quale impedire la volatilità e la dispersione, nell'area circostante, delle polveri originate dalla lavorazione dei rifiuti e dalla movimentazione dei mezzi all'interno dell'impianto, con violazione delle prescrizioni dettate dall'Assessorato Ambiente e delle prescrizioni imposte dall'allegato V, parte V del D.Lgs. n. 152/2006 (capo a); dall'art. 124, comma 1 e 125, comma 1 del D.Lgs. n. 152/2006, sanzionato dal successivo art. 137, comma 1, stesso decreto, per avere effettuato direttamente sul suolo, senza autorizzazione, lo scarico di reflui industriali originati dalla tramoggia di stoccaggio dei rifiuti in uso al consorzio stesso (capo b); dall'art. 46 del d.lgs. 9/04/2008, n. 81, in correlazione all'allegato IV, sanzionato dal successivo art. 55, stessa legge, per avere avviato un'attività "a rischio incendio medio" senza il prescritto certificato di prevenzione incendi a garanzia della sicurezza dei lavoratori sul luogo di lavoro, nonché per non aver prodotto al Comando provinciale dei VV.FF. di Catania la prescritta comunicazione certificata di inizio attività (capo c); dall'art. 163 del D.Lgs. 9/04/2008 n. 81, sanzionato dal successivo art. 165, per avere omesso di collocare la cartellonistica di sicurezza conformemente alle prescrizioni di cui agli allegati da XXIV a XXXII del citato decreto (Prescrizioni Generali per la Segnaletica di Sicurezza) (capo d); dagli artt. 15, 18, 28 e 46 comma 2, del D.Lgs. 9/04/2008 n. 81, per avere, in violazione alle misure di tutela e obblighi del datore di lavoro omesso di adottare, nei luoghi di lavoro, le misure idonee per prevenire gli incendi e per la tutela della salute dei lavoratori (capo e).
1.1. All'esito del relativo giudizio dibattimentale, con sentenza del Tribunale di Catania in data 6/03/2017, S.P. era stato condannato alla pena di 4.500 euro di ammenda in quanto riconosciuto colpevole dei reati contestati ai capi a), b), c) ed e). Con lo stesso provvedimento, il primo giudice aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti dell'imputato in ordine al reato di cui agli artt. 15, 18, 28 e 46 comma 2 d.lgs. 81/2008 (capo d) perché estinto per avvenuto adempimento delle prescrizioni imposte in sede ispettiva.
2. Avverso la menzionata sentenza ha proposto ricorso per cassazione lo stesso S.P., a mezzo dell'avv. OMISSIS, suo difensore di fiducia, deducendo due distinti motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen..
3.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, sotto un primo profilo, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. B) ed E), cod. proc. pen., l'inosservanza o erronea applicazione della legge penale e illogicità della motivazione in relazione agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen., nonché in relazione all'art. 279, comma 2 del d.lgs. n. 152/2006, agli artt. 124, comma 1 e 125, comma 1 del d.lgs. n. 152/2006, 46 d.lgs. n. 81/2008, 15, 18, 28 e 46, comma 2 d.lgs. 81/2008; ed ancora la violazione del principio in dubio prò reo e dell'obbligo di motivazione e giustificazione razionale della decisione ai sensi degli artt. Ili, comma 6 Cost., 192 comma 1 e 533 cod. proc. pen.. Il Tribunale si sarebbe sottratto al dovere di motivare puntualmente in ordine alla configurabilità dei reati ascritti all'imputato, limitandosi a richiamare la deposizione del teste d'accusa, il Maresciallo P., senza nulla riferire in merito alle dichiarazioni rese dai testi a difesa (in particolare i testi S. e I.). In relazione ai reati di cui ai capi b) ed e) nessuna motivazione sarebbe stata offerta circa il ragionamento seguito dal Tribunale per giungere ad una sentenza di condanna, non essendo rintracciabile nella sentenza impugnata alcun riferimento ai suddetti reati. Pertanto, la sentenza sarebbe nulla per mancanza assoluta di motivazione.
3.1.1. Quanto alla configurabilità delle singole fattispecie, muovendo dalla contestazione di cui al capo A), S.P. censura, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'erronea applicazione della legge penale in relazione alla contravvenzione di cui all'art. 279 del d.lgs. n. 152 del 2006, nonché l'omessa ed illogica motivazione in ordine alla effettiva esistenza delle emissioni ed alla concreta offensività della condotta.
In particolare, la sentenza, oltre ad essersi appiattita sulle dichiarazioni del teste P., omettendo di valutare quanto riferito dai testi a difesa, non avrebbe motivato in relazione alla effettiva sussistenza delle emissioni e alla concreta offensività della condotta, essendo tale fattispecie funzionale sia ad assicurare il rispetto dei valori limite di emissione e di qualità dell'aria, sia a consentire un controllo adeguato alle autorità preposte, attraverso il rilascio del titolo abilitativo e l'imposizione di specifiche prescrizioni e di obblighi di comunicazione. In altri termini, nel caso in esame il tribunale non avrebbe accertato il superamento di valori limite di emissione e di qualità dell'aria, né se il mero spegnimento dell'impianto, per pochi minuti, potesse impedire un controllo adeguato finalizzato ad una efficace tutela dell'ambiente e della salute.
3.1.2. Quanto poi alla fattispecie contestata al capo b), il ricorrente lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) e d), cod. proc. pen., l'erronea applicazione della legge penale in relazione alla contravvenzione di cui agli arti. 124 e 125 del d.lgs. n. 152 del 2006, nonché l'omessa ed illogica motivazione in ordine alla concreta offensività della condotta di scarichi di acque. Dalle testimonianze raccolte, e in particolare da quella del maresciallo P., sarebbe emersa la non compiuta determinazione della natura dello scarico, non essendo stata eseguita alcuna analisi dei reflui e non potendosene, dunque, affermare la natura di scarichi industriali e, anzi, avendo il teste ammesso che i liquidi potessero essere ricondotti all'effetto di agenti atmosferici.
3.1.3. Con riferimento alla contravvenzione contestata al capo c), la difesa di S.P. denuncia, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) e d), cod. proc. pen., l'erronea applicazione della legge penale in relazione alla contravvenzione di cui all'art. 46 del d.lgs. n. 81 del 2008, nonché l'omessa ed illogica motivazione in ordine alla concreta offensività della condotta stante il dubbio circa l'effettiva necessità della sussistenza del certificato antincendio. Ciò in quanto il teste I. avrebbe specificato che l'attività del consorzio non sarebbe stata soggetta agli obblighi di prevenzione antincendio, dal momento che gli stessi sorgerebbe soltanto allorché la quantità del rifiuti combustibili stoccati all'interno della struttura superi i limiti previsti dal decreto. Né il tribunale avrebbe preso in considerazione le dichiarazioni del teste T., il quale avrebbe riferito di essersi occupato della realizzazione dell'impianto antincendio.
3.1.4. Quanto, infine, alla contravvenzione di cui al capo e), il ricorrente deduce, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza della motivazione in relazione alla contravvenzione di cui agli artt. 15, 18, 28 e 46, comma 2 del d.lgs. n. 81 del 2008. Nessuna motivazione sarebbe stata offerta sul punto.
3.2. Con il secondo motivo, S.P. censura, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen., l'inosservanza della legge penale e l'illogicità della motivazione in relazione all'art. 311 D.Lgs. n. 152/2006, per difetto di legittimazione della Provincia Regionale di Catania a costituirsi parte civile, atteso che portatore dell'interesse tutelato e titolare del potere di agire sarebbe esclusivamente lo Stato e, per esso, il Ministero dell'Ambiente, spettando agli enti locali, ai sensi del successivo art. 313 comma 7, la sola facoltà di sollecitare l'intervento statale (art. 309) e di ricorrere in caso di inerzie od omissioni (art. 310). E sotto altro profilo si lamenta che l'Ente territoriale non avrebbe dimostrato la sussistenza di tali danni diversi da quello ambientale; e che la liquidazione della somma di 3.000,00 euro da parte del Tribunale, pur avvenuta nell'ambito di un giudizio equitativo, sarebbe avvenuta senza esplicitare i criteri che avrebbero ispirato tale valutazione, la quale sarebbe stata, dunque, affidata alla imponderabile intuizione soggettiva del giudice.
 

 

Diritto

 


1. Il ricorso è infondato.
2. Muovendo dall'analisi del profilo di doglianza relativo alla configurabilità della contravvenzione disciplinata dall'art. 279, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006, contestata al capo a) dell'imputazione, va preliminarmente ricordato che "chi, nell'esercizio di uno stabilimento, viola i valori limite di emissione o le prescrizioni stabiliti dall'autorizzazione, dagli Allegati I, II, III o V alla parte quinta del presente decreto, dai piani e dai programmi o dalla normativa di cui all'articolo 271 o le prescrizioni altrimenti imposte dall'autorità competente ai sensi del presente titolo è punito con l'arresto fino ad un anno o con l'ammenda fino a 1.032 euro. Se i valori limite o le prescrizioni violati sono contenuti nell'autorizzazione integrata ambientale si applicano le sanzioni previste dalla normativa che disciplina tale autorizzazione".
La fattispecie in esame, secondo quanto può ricavarsi dal piano tenore letterale del relativo enunciato normativo, compendia differenti tipologie di condotte illecite, configurate in maniera all'evidenza autonoma, riconducibili alla violazione dei valori limite di emissione, ovvero alla inosservanza di altre prescrizioni, contenute nel provvedimento autorizzativo, in disposizioni speciali o in altre determinazioni della competente autorità volte a definire le concrete misure atte a impedire il verificarsi di una situazione di pericolo per l'ambiente e la salute collettiva.
Pertanto, sotto un primo profilo non può sostenersi che, ai fini della integrazione delle fattispecie in esame, debba ricorrere, come in qualche passaggio sembra opinare il ricorrente, la duplice condizione di una violazione del regime prescrittivo e, al contempo, del superamento dei limiti di emissione, essendo sufficiente, nel caso di inosservanza delle prescrizioni, la mera violazione del relativo regime regolamentare.
Sotto altro aspetto, la previsione incriminatrice in esame, in specie per quanto concerne l'ipotesi, qui in rilievo, della violazione delle prescrizioni dell'autorizzazione, si configura come reato "formale", volto a garantire la possibilità di un efficace controllo preventivo da parte delle autorità preposte (cfr. Sez. 3, n. 24334 del 13/05/2014, dep. 10/06/2014, Boni e altro, Rv. 259670). In questa prospettiva, il profilo di illiceità che viene in rilievo non attiene agli effetti sostanziali che possano essere scaturiti dalla violazione delle prescrizioni contenute nel provvedimento autorizzativo (come ad esempio l'effettivo vulnus ai valori ambientali o alla salute di un numero indeterminato di soggetti), quanto piuttosto alla violazione della stessa funzione di controllo estrinsecatasi attraverso l'atto contenente le prescrizioni rimaste inosservate (cfr. Sez. 3, n. 28764 del 9/06/2015, dep. 7/07/2015, P.M. in proc. Amoruso e altri, Rv. 264881, che peraltro configura la fattispecie come reato di pericolo).
Nel caso che occupa, il giudice di prime cure ha ritenuto provato il fatto che l'impianto di irrigazione, la cui attivazione era prevista nel provvedimento autorizzativo al fine di abbattere l'azione delle polveri prodotte dall'attività di trattamento dei rifiuti, pacificamente non funzionante al momento del sopralluogo, non venisse comunemente azionato; ed ha spiegato le ragioni per le quali non sia stata ritenuta credibile la versione difensiva circa l'occasionale e contingente non funzionamento del medesimo.
A fronte di tale accertamento in fatto, pacificamente non sindacabile in sede di legittimità, il tribunale ha poi correttamente rilevato come la violazione della prescrizione de qua comportasse l'integrazione della fattispecie contestata, senza che in alcun modo possa rilevare, per le ragioni già illustrate, la mancata verifica circa gli effetti inquinanti di tale, asseritamente contingente, omissione.
Pertanto, il primo motivo di doglianza deve essere rigettato.
3. Venendo, quindi, al secondo profilo di censura, concernente la contravvenzione di cui agli artt. 124 e 125 del d.lgs. n. 152 del 2006, si opina, da parte del ricorrente, che non sia stato dimostrato il carattere industriale dei reflui. Tale assunto, oltre a non confrontarsi con il passaggio della sentenza secondo cui i reflui venivano prodotti dalla tramoggia di carico dei rifiuti, in prossimità della quale si trovava il tubo che scaricava al di là del muro di contenimento, viene dalla difesa articolato alla stregua di alcuni stralci della testimonianza del maresciallo P.. Ciò che, pertanto, rende chiaramente non scrutinabile la relativa doglianza, corrispondendo ad un pacifico approdo interpretativo che non possa devolversi al giudice di legittimità la censura fondata sull'interpretazione di una prova dichiarativa estrapolandosi il contenuto di più ampie dichiarazioni, non avendo questa Corte la possibilità di accedere all'intero materiale istruttorio del giudizio di merito e potendo, dunque, averne cognizione soltanto in presenza di una diligente e puntuale allegazione, ad opera delle parti, degli atti eventualmente richiamati e a condizione che il vizio dedotto non concerna una differente interpretazione del contenuto dichiarativo.
4. Quanto, poi, ai vizi lamentati con riferimento alla contravvenzione contestata al capo c), concernente l'assenza della certificazione antincendio e del certificato di inizio attività, è appena il caso di rilevare l'assoluta aspecificità della prospettazione difensiva, che, da un lato, ha fatto genericamente richiamo a una presunta non obbligatorietà degli adempimenti in questione, nonostante la classificazione dell'azienda come "a rischio incendio medio"; e, dall'altro lato, ha fondato le proprie argomentazioni sulle dichiarazioni di un teste, Giovanni T., che si sarebbe limitato ad affermare, secondo quanto riportato dalla stessa difesa, di essersi occupato dell'impianto antincendi. In proposito, nondimeno, è appena il caso di osservare come la contestazione non riguardasse l'assenza dell'impianto, quanto piuttosto la mancata attivazione delle prescritte operazioni di controllo su di esso da parte delle autorità a ciò preposte.
Con riferimento, poi, alla fattispecie di cui al capo e) dell'imputazione, la sentenza impugnata, diversamente da quanto sostenuto in ricorso, ha dato atto del fatto che i dipendenti dell'azienda "svolgevano le loro mansioni in ambienti sporchi di rifiuti" e che gli stessi "erano privi degli opportuni dispositivi di protezione individuale"; situazione di fatto che certamente è suscettibile di integrare, come del resto ritenuto dal giudice di primo grado, le fattispecie contestate.
5. Venendo, infine, al secondo motivo di impugnazione, relativo all'assenza di legittimazione, in capo alla provincia di Catania, a costituirsi parte civile, la difesa deduce che in materia ambientale, se per un verso gli enti pubblici territoriali (Regione, Provincia e Comune) possono agire in sede penale, in forza della disposizione generale di cui all'art. 2043 cod. civ., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale e/o morale che ad essi sia derivato in conseguenza della commissione di tali reati, per altro verso la legittimazione alla costituzione di parte civile rispetto al danno ambientale strictu sensu inteso spetterebbe soltanto allo Stato, in persona del Ministro dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, secondo quanto affermato anche dalla sentenza n. 41015 del 2010. E tuttavia, nel caso di specie, il tribunale etneo avrebbe riconosciuto il diritto al risarcimento del danno della Provincia Regionale di Catania, senza che l'ente territoriale avesse esplicitato la lesione di interessi locali specifici e diversi rispetto all'interesse statale alla tutela dell'ambiente.
Sul punto, osserva il Collegio che, pur condividendosi le premesse sistematiche della presente censura, nondimeno, nel caso di specie il Tribunale ha correttamente rilevato come "nell'atto di costituzione siano state diffusamente esposte le ragioni che giustificano la domanda di intervento dei suddetti enti in qualità di danneggiati dai reati in contestazione". Si è, infatti, in presenza di una chiara motivazione per relationem, la cui congruità può essere stimata, sul piano logico-motivazionale, attraverso lo scrutinio dell'atto processuale richiamato. E dal momento che la dichiarazione di costituzione di parte civile, agli atti del procedimento, faceva riferimento all'incidenza delle polveri sull'ambiente circostante e, dunque, sullo specifico contesto locale riferibile all'ente che si è costituito, deve ritenersi che la valutazione del tribunale sia stata pienamente coerente con la richiamata cornice di principio in materia di legittimazione alla costituzione di parte civile degli enti territoriali.
5.1. Quanto, poi, al profilo del quantum del danno da risarcire, trattandosi, in considerazione della peculiare natura dei reati e del carattere formale delle violazioni, di semplice danno morale riferibile alla Provincia di Catania, deve riconoscersi la legittimità del ricorso al criterio dell'equità, da parte del primo giudice, quale criterio generale di determinazione dell'ammontare della lesione risarcibile. Anche sotto tale profilo, quindi, le censure difensive si rivelano infondate.
6. Alla luce delle considerazioni che precedono, il ricorso deve essere rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 13/09/2017