Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 09 febbraio 2018, n. 6506 - Infortunio mortale di un guardiano notturno precipitato dall'altezza di tre metri a causa della mancanza di protezioni e ringhiere della scala. Nessun comportamento abnorme


Presidente: FUMU GIACOMO Relatore: MONTAGNI ANDREA Data Udienza: 11/01/2018

 

Fatto

 

1. La Corte di Appello di Bari, con la sentenza indicata in epigrafe, in parziale riforma della sentenza di condanna del Tribunale di Trani resa in data 21.10.2013, nei confronti di S.G., in relazione al reato di omicidio colposo indicato in rubrica, previo riconoscimento delle attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, rideterminava la pena originariamente inflitta. La Corte territoriale condannava il prevenuto al risarcimento del danno anche in favore della parte civile E.C., da liquidarsi in separato giudizio.
S.G., nella sua qualità di datore di lavoro di Z.N., dipendente della S.G. Costruzioni srl, è stato ritenuto responsabile della morte del predetto dipendente, il quale era adibito a mansioni di guardiano notturno. Ciò in quanto nel capannone teatro del sinistro non erano state predisposte le protezioni e le ringhiere delle scale e dei pianerottoli, di talché lo Z.N. precipitava dall'altezza di tre metri.
La Corte di merito confermava l'affermazione di responsabilità penale osservando che era risultata accertata una prassi aziendale in base alla quale lo Z.N. faceva abitualmente ingresso nel capannone, ove non erano state apposte le protezioni temporanee anticaduta, sino all'installazione delle ringhiere fisse. Il Collegio escludeva, inoltre, che la condotta del lavoratore potesse essere qualificata come abnorme.
La Corte di Appello riformava la sentenza del Tribunale in riferimento al mancato riconoscimento del diritto al risarcimento del danno in favore della moglie del dipendente infortunato, se pure i coniugi fossero di fatto separati da numerosi anni.
2. Avverso la predetta sentenza della Corte di Appello di Bari ha proposto ricorso per cassazione S.G., a mezzo del difensore.
Con il primo motivo l'esponente denuncia la violazione di legge e l'interpretazione analogica in malam partem.
Il deducente osserva che i giudici di merito hanno ritenuto che fosse stata violata la disposizione di cui all'art. 69, d.P.R. n. 164/1956, disciplina che riguarda le rampe ed i pianerottoli in costruzione, e non quelli già ultimati, come nel caso. Sottolinea che il capannone era già ultimato e che gli infissi e le ringhiere vengono concordati con l'acquirente finale e installati solo dopo la scelta effettuata dal compratore. Considera che l'operazione ermeneutica in base alla quale il richiamato precetto sarebbe applicabile anche ad un'opera ove i pianerottoli e le rampe sono ultimati, integra un'ipotesi di analogia in malam partem.
Con il secondo motivo il ricorrente deduce il vizio motivazionale. Evidenzia che l'attività demandata allo Z.N. riguardava esclusivamente la vigilanza delle aree esterne al capannone, come emerge dal verbale di riunione versato in atti ed allegato al ricorso. Osserva che la condotta dello Z.N. ha il carattere della imprevedibilità ed abnormità, a fronte del formale divieto di accesso al capannone imposto al predetto dipendente.
Sotto altro aspetto, il ricorrente considera che la colpa dell'Imputato deve essere esclusa in base al principio di affidamento secondo cui ogni consociato può confidare nel rispetto delle regole precauzionali da parte dei terzi.
Con il terzo motivo il deducete eccepisce l'illegittimità costituzionale dell'art. 157, comma 6, cod. pen., nella parte in cui prevede il raddoppio dei termini di prescrizione, nell'ipotesi di cui all'art. 589, comma 2 cod. pen.
La parte richiama la sentenza della Corte Costituzionale n. 143 del 2014; e considera irragionevole la disciplina normativa che raddoppia i termini di prescrizione solo per le ipotesi di omicidio colposo realizzato con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro o sulla circolazione stradale e non per i casi di responsabilità in ambito sanitario.
Osserva che il raddoppio dei termini prescrizionali è previsto anche per il caso di concorso colposo del lavoratore deceduto.
Con l'ultimo motivo la parte si duole del mancato riconoscimento dei benefici di legge. Ritiene che, sul punto, in sentenza siano state adottate mere formule di stile, da ritenersi inappropriate in riferimento al reato colposo per cui si procede.
2.1. Il ricorrente ha depositato un motivo aggiunto.
La parte si duole della condanna al risarcimento dei danni in favore della parte civile E.C.. Osserva che la giurisprudenza ha chiarito che la separazione tra i coniugi non è di per sé di ostacolo al riconoscimento del danno non patrimoniale, qualora permanga un vincolo affettivo particolarmente intenso. Rileva che, nel caso di specie, del tutto legittimamente il primo giudice aveva rigettato la domanda risarcitoria della E.C., coniuge in regime di separazione; e considera che, sul punto, la Corte di Appello ha ribaltato la decisione con motivazione apodittica e contraddittoria.
 

 

Diritto

 


1. Il ricorso impone i seguenti rilievi.
2. Il primo motivo di ricorso non ha pregio.
La Corte di Appello ha affermato, in piena consonanza con il diritto vivente, che la disciplina di cui all'art. 69, d.P.R. n. 164/1956, recepita in termini di continuità normativa all'art. 147, d.lgs. n. 81 del 2008, trova applicazione «fino alla posa in opera delle ringhiere»; il che significa che la norma richiamata impone l'installazione di protezioni e parapetti, fino a che dette opere provvisionali non risultino inutili, per la presenza di ringhiere installate definitivamente. La Corte regolatrice, invero, ha da tempo chiarito che la norma, di cui all'art. 69 d.P.R. 7 gennaio 1956 n. 164, impone la installazione dei prescritti ripari della scala fino a che essi non divengano inutili perché sostituiti dalla ringhiera installata definitivamente. Con la precisazione che nessun caso il lavoro può svolgersi senza le cautele prescritte ed il fatto che la norma citata si riferisca alle scale in costruzione implica che essa non può dirsi conclusa finché non è stabilmente e definitivamente apposta la ringhiera di protezione (Sez. 4, n. 8625 del 07/05/1981 - dep. 09/10/1981, Innocenti, Rv. 15035901).
Nel caso di specie, secondo la non sindacabile ricostruzione fattuale operata in sede di merito - pure condivisa dal ricorrente - nel capannone non erano ancora state installate le ringhiere; conseguentemente, del tutto legittimamente, i giudici di merito hanno rilevato che sussisteva la violazione del disposto di cui all'art. 69, d.P.R. n. 164/1956, stante la mancata predisposizione dei parapetti o di altre protezioni, lungo le rampe ed i pianerottoli delle scale.
3. Il secondo motivo di ricorso si pone ai limiti della inammissibilità.
Giova ricordare che questa Suprema Corte ha chiarito che il vizio logico della motivazione deducibile in sede di legittimità deve risultare dal testo della decisione impugnata e deve essere riscontrato tra le varie proposizioni inserite nella motivazione, senza alcuna possibilità di ricorrere al controllo delle risultanze processuali; con la conseguenza che il sindacato di legittimità "deve essere limitato soltanto a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza spingersi a verificare l'adeguatezza delle argomentazioni, utilizzate dal giudice del merito per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali" (tra le altre Sez. 3, n. 4115 del 27.11.1995, dep. 10.01.1996, Rv. 203272).
Tale principio, più volte ribadito dalle varie sezioni di questa Corte, è stato altresì avallato dalle stesse Sezioni Unite le quali hanno precisato che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per i ricorrenti più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, Sentenza n. 6402 del 30/04/1997, dep. 02/07/1997, Rv. 207945). E la Corte regolatrice ha rilevato che anche dopo la modifica dell'art. 606 lett. e) cod. proc. pen., per effetto della legge 20 febbraio 2006 n. 46, resta immutata la natura del sindacato che la Corte di Cassazione può esercitare sui vizi della motivazione, essendo rimasto preclusa, per il giudice di legittimità, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione o valutazione dei fatti (Sez. 5, Sentenza n. 17905 del 23.03.2006, Rv. 234109). Pertanto, in sede di legittimità, non sono consentite le censure che si risolvono nella prospettazione di una diversa valutazione delle circostanze esaminate dal giudice di merito (ex multis Sez. 1, Sentenza n. 1769 del 23/03/1995, Rv. 201177; Sez. 6, Sentenza n. 22445 in data 8.05.2009, Rv. 244181).
Deve poi considerarsi che la Corte regolatrice ha da tempo chiarito che non è consentito alle parti dedurre censure che riguardano la selezione delle prove effettuata da parte del giudice di merito. A tale approdo, si perviene considerando che, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, dovendo limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento", secondo una formula giurisprudenziale ricorrente (Sez. 5, Sentenza n. 1004 del 30/11/1999, dep. 2000, Rv. 215745; Sez. 2, Sentenza n. 2436 del 21/12/1993, dep. 1994, Rv. 196955). Come già sopra si è considerato, secondo la comune interpretazione giurisprudenziale, l'art. 606 cod. proc. pen. non consente alla Corte di Cassazione una diversa "lettura" dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perché è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali. E questa interpretazione non risulta superata in ragione delle modifiche apportate all'art. 606, comma primo lett. e) cod. proc. pen. ad opera della Legge n. 46 del 2006; ciò in quanto la selezione delle prove resta attribuita in via esclusiva al giudice del merito e permane il divieto di accesso agli atti istruttori, quale conseguenza dei limiti posti all'ambito di cognizione della Corte di Cassazione. Ebbene, si deve in questa sede ribadire l'insegnamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, per condivise ragioni, in base al quale si è rilevato che nessuna prova, in realtà, ha un significato isolato, slegato dal contesto in cui è inserita; che occorre necessariamente procedere ad una valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio disponibile; che il significato delle prove lo deve stabilire il giudice del merito e che il giudice di legittimità non può ad esso sostituirsi sulla base della lettura necessariamente parziale suggeritagli dal ricorso per cassazione (Sez. 5, Sentenza n. 16959 del 12/04/2006, Rv. 233464).
3.1 Delineato nei superiori termini l'orizzonte del presente scrutinio di legittimità, si osserva che il ricorrente invoca, in realtà, una inammissibile riconsiderazione alternativa del compendio probatorio, con riguardo alla ricostruzione della dinamica del fatto ed alla affermazione di penale responsabilità. Tanto si osserva, con specifico riferimento al tema relativo alla prassi aziendale, come accertata in giudizio, in base alla quale era del tutto prevedibile che il guardiano, nonostante il formale divieto, accedesse all'interno del capannone, nell'esercizio delle proprie mansioni. Sul punto, la Corte territoriale ha sviluppato un percorso motivazionale immune da aporie di ordine logico e saldamente ancorato all'acquisito compendio probatorio, evidenziando che la porta di accesso al capannone non era chiusa a chiave e che l'ubicazione del gabbiotto adibito al vigilante non consentiva un'agevole espletamento delle mansioni di guardiania.
Muovendo da tali rilievi, la Corte territoriale ha quindi escluso il carattere abnorme della condotta, certamente imprudente, posta in essere dal lavoratore. Preme allora evidenziare che il richiamato percorso argomentativo si colloca nell'alveo dell'insegnamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità. Invero, la Corte di cassazione ha ripetutamente affermato che le norme antinfortunistiche sono destinate a garantire la sicurezza delle condizioni di lavoro, anche in considerazione della disattenzione con la quale gli stessi lavoratori effettuano le prestazioni. Segnatamente, si è chiarito che, nel campo della sicurezza del lavoro, gli obblighi di vigilanza che gravano sul datore di lavoro risultano funzionali anche rispetto alla possibilità che il lavoratore si dimostri imprudente o negligente verso la propria incolumità; che può escludersi l'esistenza del rapporto di causalità unicamente nei casi in cui sia provata l'abnormità del comportamento del lavoratore infortunato e sia provato che proprio questa abnormità abbia dato causa all'evento; che, nella materia che occupa, deve considerarsi abnorme il comportamento che, per la sua stranezza e imprevedibilità, si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte delle persone preposte all'applicazione delle misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro; e che l'eventuale colpa concorrente del lavoratore non può spiegare alcuna efficacia esimente per i soggetti aventi l'obbligo di sicurezza che si siano comunque resi responsabili - come avvenuto nel caso di specie - della violazione di prescrizioni in materia antinfortunistica (cfr. Sez. 4, sentenza n. 3580 del 14.12.1999, dep. 2000, Rv. 215686). E la Suprema Corte ha chiarito che non può affermarsi che abbia queste caratteristiche il comportamento del lavoratore che abbia compiuto un'operazione rientrante pienamente, oltre che nelle sue attribuzioni, nel segmento di lavoro attribuitogli (Sez. 4, Sentenza n. 10121 del 23.01.2007, Rv. 236109).
A margine di tali rilievi, è poi appena il caso di considerare che, rispetto ai richiamati principi elaborati dalla giurisprudenza specificamente nell'ambito antinfortunistico, sfugge la conducenza del generico riferimento al principio di affidamento, assertivamente effettuato dal ricorrente.
4. L'eccezione di legittimità costituzionale affidata al terzo motivo di ricorso è manifestamente infondata.
Come noto, la legge 4 dicembre 2005, n. 251, così detta ex Cirielli, ha profondamente modificato la disciplina della prescrizione stabilendo che questa, in via generale, estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque in un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria. E che la ex Cirielli ha previsto delle deroghe alla disciplina introdotta; tra tali deroghe, v'è quella, dettata dall'art. 157, comma 6, cod. pen., secondo cui sono raddoppiati i termini di prescrizione, per quanto rileva in questa sede, per i reati di cui all'art. 589, secondo e terzo comma cod. pen. Sul punto, preme sottolineare che la richiamata previsione relativa al raddoppio dei termini prescrizionali non è stata inserita dal d.l. 23.05.2008 n. 92, convertito con modificazioni nella legge n. 125/2008, novella che ha inasprito le pene per gli omicidi aggravati ai sensi del comma 2, dell'art. 589 cod. pen. e che aveva introdotto l'ulteriore comma terzo, relativo a specifiche ipotesi di omicidio colposo commesso in violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale, comma di poi abrogato dalla legge n. 41/2016, contestualmente all'introduzione dell'art. 589-bis, cod. pen., rubricato Omicidio stradale.
Non sfugge che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 143 del 2014, ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 157, sesto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede che i termini di cui ai precedenti commi del medesimo articolo siano raddoppiati, rispetto al reato di incendio colposo, ai sensi dell'art. 449, in riferimento all'art. 423 cod. pen. La Corte Costituzionale, a fondamento dell'assunto, ha posto in evidenzia che la disciplina di cui all'art. 157, cod. pen., comma sesto, determina una anomalia di ordine sistematico, laddove il termine prescrizionale per i delitti realizzati in forma colposa - nella specie: l'incendio - risulta addirittura superiore rispetto alla corrispondente ipotesi dolosa, se pure identica sul piano oggettivo. La Corte Costituzionale, muovendo dal rilievo che la prescrizione costituisce nell'attuale configurazione un istituto di natura sostanziale, ha considerato che la discrezionalità legislativa, in materia, deve essere pur sempre esercitata nel rispetto del principio di ragionevolezza e in modo tale da non determinare ingiustificabili sperequazioni di trattamento, tra fattispecie omogenee.
Proprio il percorso argomentativo ora richiamato, in via di estrema sintesi, induce a ritenere manifestamente infondata l'eccezione di legittimità costituzionale dedotta dalla difesa, rispetto all'art. 157, comma 6, cod. pen., in riferimento all'art. 3 Cost., giacché la diversa individuazione dei termini di prescrizione, per l'omicidio colposo in ambito antinfortunistico, che qui occupa, rispetto all'omicidio colposo realizzato nell'esercizio delle professioni sanitarie, non appare affatto collidente con il delineato principio di ragionevolezza. Ciò per la difformità dei termini sostanziali delle fattispecie di riferimento. Rafforza il convincimento rilevare che il legislatore, proprio in ragione della peculiarità delle ipotesi di responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario, individuate dal ricorrente come tertium comparationis, è ripetutamente intervenuto con disposizioni volte ad escludere la rilevanza penale delle condotte qualificate da colpa lieve (cfr. art. 3, comma 1, d.l. 13 settembre 2012, n. 158, convertito, con modificazioni dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, disposizione oggi abrogata) ovvero finalizzate ad escludere la punibilità dall'agente, qualora l'evento lesivo si sia verificato a causa di imperizia (art. 590-sexies, comma 2, cod. pen.).
5. Il quarto motivo di ricorso non ha pregio.
Come noto, in tema di valutazione dei vari elementi per la concessione delle attenuanti generiche, ovvero in ordine al giudizio di comparazione e per quanto riguarda la dosimetria della pena ed i limiti del sindacato di legittimità su detti punti, la giurisprudenza di questa Suprema Corte non solo ammette la c.d. motivazione implicita (Sez. 6, 22 settembre 2003, n. 36382 Rv. 227142) o con formule sintetiche (tipo "si ritiene congrua", Sez. 4, 4 agosto 1998 n. 9120, Rv. 211583), ma afferma anche che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti, effettuato in riferimento ai criteri di cui all'art. 133 cod. pen., sono censurabili in cassazione solo quando siano frutto di mero arbitrio o ragionamento illogico (Sez. 3, 16 giugno 2004 n. 26908, Rv. 229298).
Si tratta di evenienza che non sussiste nel caso di specie. La Corte di Appello, infatti, ha chiarito: che l'imputato ne aveva già beneficiato in passato; e che, successivamente ai fatti di causa, si è reso responsabile di altra violazione delle norme antinfortunistiche. Sulla scorta di tali rilievi, il Collegio ha legittimamente osservato che non vi erano ragioni per ritenere sussistente un ravvedimento, tale da giustificare l'eliminazione degli effetti negativi del reato mediante la pubblicità dell'iscrizione, ovvero per ritenere che in futuro S.G. si asterrà dalla commissione di altri reati. Trattasi di valutazioni prognostiche immuni da aporie logiche e del tutto conferenti, anche in riferimento alla natura colposa dell'illecito per il quale oggi si procede.
6. Si viene ora ad esaminare l'ulteriore motivo afferente alla condanna al risarcimento del danno anche nei confronti della parte civile E.C..
Trattasi di motivo nuovo, presentato dalla parte successivamente al deposito del ricorso originario.
Le Sezioni Unite della Corte regolatrice hanno chiarito che i "motivi nuovi" a sostegno dell'impugnazione originaria, previsti tanto nella disposizione di ordine generale contenuta nell'art. 585, quarto comma, cod. proc. pen., quanto nelle norme concernenti il ricorso per cassazione in materia cautelare (art. 311, comma 4, cod. proc. pen.) ed il procedimento in camera di consiglio nel giudizio di legittimità (art. 611, comma 1, cod. proc. pen.), devono avere ad oggetto i capi o i punti della decisione impugnata che sono già stati oggetto dell'originario atto di impugnazione, ai sensi dell'art. 581, lett. a), cod. proc. pen. (Sez. U, n. 4683 del 25/02/1998, Rv. 210259). Nell'alveo di tale insegnamento, le sezioni semplici hanno quindi ripetutamente affermato: che i motivi nuovi proposti a sostegno dell'impugnazione devono avere ad oggetto, a pena di inammissibilità, i capi o i punti della decisione impugnata che sono stati già enunciati nell'originario atto di impugnazione a norma dell'art. 581, comma primo, lett. a), cod. proc. pen.; e che, in materia, opera il principio generale in base al quale deve necessariamente sussistere una connessione tra i motivi originariamente proposti con il ricorso per cassazione ed i motivi nuovi (Sez. 6, n. 73 del 21/09/2011, dep. 04/01/2012, Rv. 251780; Sez. 4, n. 12995 del 05/02/2016, Rv. 266295).
E bene, deve allora osservarsi, con rilievo di ordine dirimente, che il motivo in esame risulta inammissibile, posto che involge un capo della decisione impugnata che non è stato oggetto dell'originario atto di impugnazione.
7. Al rigetto del ricorso, che si impone, segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre alla rifusione delle spese sostenute dalle costituite parti civili E.C. e Z.N. Francesco, liquidate come a dispositivo.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalle parti civili E.C. e Z.F.  che liquida in complessivi euro tremila/00, oltre spese forfetarie nella misura del 15%, CPA e IVA.
Così deciso l'11 gennaio 2018.