IL DATORE DI LAVORO DOPO IL D.LGS. N. 81/2008

 

RASSEGNA GIURISPRUDENZALE

 

Indice

 

1. Premesse di ordine generale. Le posizioni di garanzia nel sistema della sicurezza del lavoro: breve excursus storico degli approdi giurisprudenziali e conferme nel d.lgs. n. 81/2008

2. Il datore di lavoro in senso prevenzionale

2.1. Definizione di datore di lavoro ai sensi del d.lgs. n. 81/2008

2.2 Autonomia della nozione di datore di lavoro prevenzionale rispetto a quella di datore di lavoro giuslavoristico

2.3 Datore di lavoro di diritto e di fatto e principio di effettività ex art. 299, d.lgs. n. 81/2008

2.4 Il datore di lavoro nella Pubblica Amministrazione

3. Posizione di garanzia del DL: inquadramento, compiti e obblighi

3.1 Compito del titolare della posizione di garanzia e conseguenze

3.2 Posizione di garanzia del DL in rapporto alla condotta anomala o imprudente del lavoratore infortunato e principio di affidamento

3.3 Posizione di garanzia del DL verso i lavoratori, i soggetti equiparati ai lavoratori, lavoratori autonomi, i terzi estranei e “luogo di lavoro”

3.4 Posizione di garanzia del DL e massima sicurezza tecnologica

3.5 Colpa di organizzazione e responsabilità amministrativa dell’impresa

4. Responsabilità del datore di lavoro in rapporto con gli altri soggetti titolari di posizioni di garanzia (dirigenti, preposti, lavoratori, committente, responsabile dei lavori, coordinatore per la sicurezza) e con il RSPP

5. Il datore di lavoro nelle organizzazioni complesse: delega di gestione e pluralità di datori di lavoro

6. Ipotesi di esonero della responsabilità del datore di lavoro

6.1 Segue: Interruzione del nesso causale

6.2 Segue: Delega di funzioni

 

1. Premesse di ordine generale. Le posizioni di garanzia nel sistema della sicurezza del lavoro: breve excursus storico degli approdi giurisprudenziali e conferme nel d.lgs. n. 81/2008.

La giurisprudenza, anche più recente, ha avuto modo di definire le direttrici che caratterizzano il sistema della sicurezza nei luoghi di lavoro e da esse appare doveroso partire, per verificare se e quale tipo di impatto ha prodotto il d.lgs. n. 81 del 2008 negli orientamenti giurisprudenziali consolidatisi prima della sua entrata in vigore (cfr. in particolare Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.05.2015, n. 22378; Cass. Pen., SS.UU., sent. 24.04.2014, n. 38343; Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.12.2012, n. 49821).

Il sistema prevenzionistico, come è noto, è tradizionalmente fondato su diverse figure di garanti che incarnano distinte funzioni e diversi livelli di responsabilità organizzativa e gestionale.

La prima e fondamentale figura è quella del datore di lavoro. Si tratta del soggetto che ha la responsabilità dell'organizzazione dell'azienda o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa. La definizione contenuta nel T.U. è simile a quella contenuta nella normativa degli anni '90 ed a quella fatta propria dalla giurisprudenza; e sottolinea il ruolo di dominus di fatto dell'organizzazione ed il concreto esercizio di poteri decisionali e di spesa. L'ampiezza e la natura dei poteri è ora anche indirettamente definita dall'art. 16 che, con riferimento alla delega di funzioni, si occupa del potere di organizzazione, gestione, controllo e spesa.

Il dirigente costituisce il livello di responsabilità intermedio: è colui che attua le direttive del datore di lavoro, organizzando l'attività lavorativa e vigilando su di essa, in virtù di competenze professionali e di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico conferitogli.

Infine, il preposto è colui che sovraintende alle attività, attua le direttive ricevute controllandone l'esecuzione, sulla base e nei limiti di poteri gerarchici e funzionali adeguati alla natura dell'incarico.

Per ambedue le ultime figure occorre tener conto, da un lato, dei poteri gerarchici e funzionali che costituiscono base e limite della responsabilità; e, dall'altro, del ruolo di vigilanza e controllo.

Si può dire, in breve, che si tratta di soggetti la cui sfera di responsabilità è conformata sui poteri di gestione e controllo di cui concretamente dispongono.

Queste generiche definizioni tratteggiano grandi contenitori concettuali che subiscono specificazioni in relazione a diversi fattori, quali il settore di attività, la conformazione giuridica dell'azienda, la sua concreta organizzazione, le sue dimensioni. L'individuazione della responsabilità penale, pertanto, passa attraverso un’accurata analisi delle diverse sfere di responsabilità gestionale ed organizzativa all'interno di ciascuna istituzione. Dunque, rilevano, da un lato, le categorie giuridiche, i modelli di agente e, dall'altro, i concreti ruoli esercitati da ciascuno. Si tratta, in sostanza, di una ricognizione essenziale per un'imputazione che voglia essere personalizzata, in conformità ai principi generali che governano l'ordinamento penale; per evitare l'indiscriminata, quasi automatica attribuzione dell'illecito a diversi soggetti.

L'analisi dei ruoli e delle responsabilità di cui si parla viene tematizzata tradizionalmente entro la categoria giuridica della posizione di garanzia. Con questa espressione si intende esprimere in modo condensato l'obbligo giuridico di impedire l'evento, che fonda la responsabilità in ordine ai reati commissivi mediante omissione, ai sensi dell'art. 40 cpv c.p. Questo classico inquadramento, tuttavia, deve essere arricchito con alcune considerazioni aggiuntive.

Anche se si è abituati a pensare ai reati colposi come ad illeciti omissivi, tale valutazione non sempre corrisponde pienamente alla realtà, infatti nel contesto della sicurezza i reati colposi non sono solo illeciti omissivi. Si pensi, ad esempio, al preposto che consegna una scala rotta al lavoratore che conseguentemente cade oppure al dirigente che invia un dipendente in un ambiente saturo di sostanze venefiche: in tali situazioni è difficile negare che si sia in presenza di condotte attive eziologicamente rilevanti; tuttavia, pure in tali contingenze, chiaramente riconducibili alla causalità commissiva (e quindi estranee alla disciplina di cui all'art. 40 cpv ed alla strumentale categoria giuridica del garante), si è soliti parlare ugualmente di garante, di posizione di garanzia.

Ne consegue, pertanto, che quando nell’ambito dei reati colposi commissivi si parla di "garante", si usa il termine in un significato affermatosi nella prassi, più ampio e diverso rispetto a quello originario.

Si tratta, allora, di comprendere tale significato, anzi di riconoscerlo alla luce anche delle interpretazioni rese dalla giurisprudenza.

A tale riguardo, occorre preliminarmente considerare che la causalità condizionalistica (o dell'equivalenza causale) è caratterizzata dalla costitutiva, ontologica indifferenza per il rilievo, per il ruolo qualitativo delle singole condizioni, che sono tutte, per definizione, equivalenti. Tuttavia, l'esigenza di limitare l'eccessiva ed indiscriminata ampiezza dell'imputazione oggettiva generata dal condizionalismo, da un lato, ha portato la dottrina penalistica ad elaborare una serie di teorie (della causalità adeguata, della causa efficiente, della causalità umana, della teoria del rischio) e, dall’altro, è alla base del controverso art. 41 cpv c.p. In entrambi i casi la finalità è sempre la medesima: tentare di limitare, separare le sfere di responsabilità, in modo che il diritto penale possa realizzare la sua vocazione ad esprimere un ben ponderato giudizio sulla paternità dell'evento illecito.

Il contesto della sicurezza del lavoro fa emergere con particolare chiarezza la centralità dell'idea di rischio: il rischio è categorialmente unico ma, naturalmente, si declina concretamente in modo diverso, in relazione alla differenti situazioni lavorative. Dunque, esistono diverse aree di rischio e, parallelamente, distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare: esse conformano e limitano l'imputazione penale dell'evento al soggetto che viene ritenuto "gestore" del rischio. La giurisprudenza, anche più recente, pertanto, ha confermato che, in materia di sicurezza del lavoro, garante è il soggetto che gestisce il rischio.

Questa esigenza di delimitazione delle sfere di responsabilità si è fatta strada nella giurisprudenza, attraverso lo strumento normativo costituito dall'art. 41 cpv c.p.: la diversità dei rischi, infatti, interrompe o, per meglio dire, separa le sfere di responsabilità. Tali considerazioni di principio si rinvengono ampiamente e con alta significatività nell’intera giurisprudenza di legittimità ante d.lgs. n. 81/2008 (cfr. Cass. Pen., sez. 4, sent. 25.09.2001, n. 44206; Cass. Pen., sez. 4, sent. 10.11.1999, n. 3510; Cass. Pen., sez. 4, sent. 14.06.1996, n. 8676; Cass. Pen., sez. 4, sent. 25.09.1995, n. 10733; Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.02.1991, n. 9563; Cass. Pen., sez. 4, sent. 08.11.1989, n. 1484; Cass. Pen., sez. 4, sent. 18.03.1986, n. 12381; Cass. Pen., sez. 4, sent. 07.05.1985, n. 11311; Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.11.1984, n. 2172) e trovano piena attuazione anche nelle più recenti pronunce della Cassazione (cfr. Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.05.2015, n. 22378; Cass. Pen., SS.UU., sent. 24.04.2014, n. 38343; Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.12.2012, n. 49821).

In particolare, la giurisprudenza ha ribadito il noto principio secondo cui le norme dettate in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro perseguono il fine di tutelare il lavoratore persino quando gli incidenti siano derivati da sua negligenza, imprudenza ed imperizia, sicché la condotta imprudente dell'infortunato non assurge a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l'evento quando sia comunque riconducibile all'area di rischio inerente all'attività svolta dal lavoratore ed all'omissione di doverose misure antinfortunistiche da parte del datore di lavoro; tuttavia, ha aggiunto anche che il datore di lavoro è esonerato da responsabilità, innanzitutto, quando il comportamento del dipendente presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive organizzative ricevute (dove l'eccezionalità della condizione sopravvenuta è costituita, pertanto, dalla condotta colposa incongrua del lavoratore che sia del tutto anomala ed esorbitante dal procedimento di lavoro cui egli è addetto oppure si concreti nell'inosservanza di precise norme antinfortunistiche), ma non solo.

Affianco alla tradizionale linea argomentativa afferente alla eccezionalità ed abnormità della condotta del lavoratore, la Suprema Corte ha, infatti, ritenuto che costituisca comportamento "interruttivo", non solo quello "eccezionale", ma anche quello eccentrico rispetto al rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare, laddove si dimostri che l’evento lesivo o la condotta che vi ha dato causa non siano riconducibili all'area di rischio propria della prestazione lavorativa.

In tali casi, pertanto, la condotta colposa del lavoratore esclude la responsabilità dell'imprenditore, dei dirigenti e dei preposti.

Già prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 81/2008, la giurisprudenza della Cassazione aveva riconosciuto l’interruzione del nesso di causalità, utilizzando la distinzione tra contesto di rischio lavorativo ed extralavorativo. Così, ad esempio, in caso di abusiva introduzione notturna da parte del lavoratore nel cantiere irregolare, chiarendosi che la situazione pericolosa nella quale si era verificato l’incidente non era riferibile al contesto della prestazione lavorativa, sicché non entravano in questione la violazione della normativa antinfortunistica e la responsabilità del gestore del cantiere, perché al momento dell’incidente non era in corso attività lavorativa, ancorché la vittima fosse un lavoratore, pertanto il caso andava esaminato dal differente punto di vista delle cautele che devono essere approntate dal responsabile di sito per inibire la penetrazione di estranei in un’area pericolosa quale è un cantiere edile (Cass. Pen., sez. IV, sent. 25.09.2001, n. 44206); ugualmente, in caso di infortunio mortale di un lavoratore che, terminato il proprio turno, per guadagnare tempo nel raggiungere la propria auto, invece di percorrere la strada normale, si era introdotto abusivamente in un’area di pertinenza di un attiguo albergo e sfidando ogni pericolo, peraltro ampiamente segnalato e comunque da lui conosciuto, precipitava in una vasca di fango termale, perdendovi la vita, rilevando, la Suprema Corte, che l’incidente si era svolto al di fuori del contesto lavorativo ed il proprietario dell’albergo, in quest’ottica, non era tenuto ad adottare misure ulteriori rispetto a quelle già adottate di protezione dell’area dall’accesso indiscriminato e dall’apposizione di cartelli di pericolo (Cass. Pen., sez. IV, sent. 07.05.1985, n. 11311). In altri casi, invece, è stata ravvisata la possibilità d’interruzione del nesso causale, in caso di infortunio occorso durante l’attività lavorativa a causa di una condotta imprudente del lavoratore, richiedendosi di accertare, ai fini della esclusione della responsabilità del datore di lavoro, che il comportamento del dipendente presentasse i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle direttive organizzative ricevute (Cass. Pen., sez. IV, sent. 25.09.1995, n. 10733) o che si concretasse nell’inosservanza di precise norme antinfortunistiche (Cass. Pen., sez. IV, sent. 08.11.1989, n. 1484) o che fosse incompatibile con il sistema di lavorazione (Cass. Pen., sez. IV, sent. 11.02.1991, n. 9563) o che fosse estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite (Cass. Pen., sez. IV, sent. 14.06.1996, n. 8676) o dal carattere del tutto anomale della condotta del lavoratore (Cass. Pen., sez. IV, sent. 13.11.1984, n. 2172).

Una volta riconosciuta la sfera di rischio come area che designa l'ambito in cui si esplica l'obbligo di governare le situazioni pericolose che conforma l'obbligo del garante, ne discende altresì la necessità di individuare concretamente la figura istituzionale che può essere razionalmente chiamata a governare il rischio medesimo e la persona fisica che incarna concretamente quel ruolo.

Questa enunciazione, tuttavia, come ammonito in giurisprudenza, richiede di essere chiarita: occorre guardarsi dall'idea ingenua, e foriera di fraintendimenti, che la sfera di responsabilità di ciascuno possa essere sempre definita e separata con una rigida linea di confine; e che questa stessa linea crei la sfera di competenza e responsabilità di alcuno escludendo automaticamente quella di altri. In realtà, le cose sono spesso assai più complesse. Basti considerare la transitività delle condizioni che si susseguono all'interno di una catena causale; l'intreccio di obblighi che spesso coinvolgono diverse figure e diversi soggetti nella gestione di un rischio; la complessa figura della cooperazione colposa. Questa serie di differenti intrecci, con il suo carico di complessità, rende chiaro quanto delicata sia l'individuazione di aree di competenza pienamente autonome che giustifichino la compartimentazione della responsabilità penale; tanto più in un contesto, come quello del diritto penale della sicurezza sul lavoro, imperniato sulla figura del datore di lavoro, che è gravato da una pervasiva "posizione di garanzia". Lo scopo del diritto penale, tuttavia, come ribadisce la Suprema Corte, è proprio quello di tentare di governare tali intricati scenari, nella già indicata prospettiva di ricercare responsabilità e non capri espiatori.

Le considerazioni sopra esposte, prosegue la Cassazione, trovano fondamento in alcune norme del T.U., che ripercorrono arresti della giurisprudenza ed aiutano a capire come nasce e si conforma la posizione di garanzia, id est la responsabilità gestoria che, in caso di condotte colpose, può fondare la responsabilità penale.

Di grande interesse è, a tale proposito, l'art. 299: l'acquisizione della veste di garante, infatti, può aver luogo non solo iure proprio o per effetto di una formale investitura, ma anche a seguito dell'esercizio in concreto di poteri giuridici riferiti alle principali figure destinatarie degli obblighi di sicurezza (datore di lavoro, dirigente, preposto).

Un'ulteriore indicazione normativa per individuare in concreto i diversi ruoli deriva dall'art. 28, relativo alla valutazione dei rischi ed al corrispondente documento di valutazione dei rischi, che costituisce una sorta di statuto della sicurezza aziendale. La valutazione, in particolare, osserva la Corte, riguarda solo "tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori", dunque non è possibile inferire dal sistema prevenzionistico delineato dal Testo unico indicazioni direttamente cogenti per ciò che attiene all'obbligo di governare altri rischi presenti nell'organizzazione. Il documento deve contenere la valutazione dei rischi per i lavoratori, l'individuazione di misure di prevenzione e protezione, l'individuazione delle procedure, nonché dei ruoli che vi devono provvedere, affidati a soggetti muniti di adeguate competenze e poteri. Si tratta quindi di una sorta di mappa dei poteri e delle responsabilità cui ognuno dovrebbe poter accedere per acquisire le informazioni pertinenti.

Mettendo insieme le indicazioni che pervengono dalle norme fin qui indicate, la Cassazione ne conclude che ruoli, competenze e poteri segnano le diverse sfere di responsabilità gestionale ed al contempo definiscono la concreta conformazione, la latitudine delle posizioni di garanzia, la sfera di rischio che deve essere governata.
La sfera di responsabilità organizzativa e giuridica così delineata è per così dire originaria. Essa è generata dall'investitura formale o dall'esercizio di fatto delle funzioni tipiche delle diverse figure di garanti. Nell'individuazione del garante, soprattutto nelle istituzioni complesse, occorre partire dalla identificazione del rischio che si è concretizzato, del settore, in orizzontale, e del livello, in verticale, in cui si colloca il soggetto che era deputato al governo del rischio stesso, in relazione al ruolo che questi rivestiva. Ad esempio, semplificando, potrà accadere che rientri nella sfera di responsabilità del preposto l'incidente occasionato dalla concreta esecuzione della prestazione lavorativa; in quella del dirigente il sinistro riconducibile al dettaglio dell'organizzazione dell'attività lavorativa; in quella del datore di lavoro, invece, l'incidente derivante da scelte gestionali di fondo.

Da ultimo, occorre ricordare che l’investitura del garante può essere non solo originaria, ma derivata, laddove il datore si avvalga dello strumento della delega, disciplinato dall’art. 16, del d.lgs. n. 81/2008.

 

Giurisprudenza di riferimento:

Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.05.2015, n. 22378; Cass. Pen., SS.UU., sent. 24.04.2014, n. 38343; Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.09.2013, n. 37738; Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.12.2012, n. 49821

 

2. Il datore di lavoro in senso prevenzionale

2.1. Definizione di datore di lavoro ai sensi del d.lgs. n. 81/2008

Il d.lgs. n. 81/2008, all’art. 2, c. 1, lett. b, definisce il datore di lavoro ai fini prevenzionali, identificandolo con “il soggetto titolare del rapporto di lavoro con il lavoratore o, comunque, il soggetto che, secondo il tipo e l'assetto dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività, ha la responsabilità dell'organizzazione stessa o dell'unità produttiva in quanto esercita i poteri decisionali e di spesa” e, nelle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, c. 2, d. lgs. n. 165/2001, con “il dirigente al quale spettano i poteri di gestione, ovvero il funzionario non avente qualifica dirigenziale, nei soli casi in cui quest'ultimo sia preposto ad un ufficio avente autonomia gestionale, individuato dall'organo di vertice delle singole amministrazioni tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l'attività, e dotato di autonomi poteri decisionali e di spesa”, con la precisazione che “in caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo”.

Elementi qualificanti la figura del datore di lavoro, sia nel settore privato che pubblico, sono, pertanto, l’autonomia gestionale, decisionali e di spesa, recependo in tal modo, nel dettato normativo, le elaborazioni giurisprudenziali.

In particolare, con riferimento alle pubbliche amministrazioni, si conferma la possibilità di identificazione con l’organo di vertice, in un’ottica sanzionatoria, in caso di omessa o non conforme individuazione del datore di lavoro, secondo i criteri dettati dall’art. 2.

 

2.2 Autonomia della nozione di datore di lavoro prevenzionale rispetto a quella di datore di lavoro giuslavoristico

La Cassazione, nel solco di una univoca giurisprudenza sul punto (cfr., tra le altre, Cass. Pen., sez. 4,  sent. 05.12.2003, n. 49819), conferma, da ultimo con Cass. Pen., sez. 4, sent. 03.02.2011, n. 4106, che la definizione normativa di datore di lavoro consente di distinguere un datore di lavoro in senso giuslavoristico, da uno o più datori di lavoro (sussistendo distinte unità produttive) in senso prevenzionale. È evidente, precisa la Suprema Corte, che la responsabilità del soggetto preposto alla direzione dell'unità produttiva è condizionata alla congruità dei suoi poteri decisionali e di spesa rispetto alle concrete esigenze prevenzionali; ne consegue, pertanto, che egli sarà qualificabile come datore di lavoro ai fin della sicurezza solo se gli saranno attribuiti poteri e disponibilità finanziarie adeguate per effettuare gli adempimenti prescritti dalla legge solo entro quei limiti mentre, per tutti gli altri adempimenti per i quali non dispone dei mezzi e dei poteri per realizzarli, le eventuali violazioni (e relative conseguenze) non saranno a lui ascrivibili.

 

Giurisprudenza di riferimento:

Cass. Pen., sez. 4, sent. 03.02.2011, n. 4106

 

2.3 Datore di lavoro di diritto e di fatto e principio di effettività ex art. 299, d.lgs. n. 81/2008

La giurisprudenza è univoca nel ritenere che la definizione di datore di lavoro adottata dal d.lgs. n. 81/2008, in linea di continuità rispetto al d.lgs. n. 626/1994, non solo confermi una nozione ampia di datore di lavoro “prevenzionale”, da intendersi sia in senso formale, che sostanziale; ma che, con l'avverbio "comunque", abbia inteso dare netta preminenza al criterio sostanziale, che deve essere, pertanto, in ogni caso rispettato e che prevale quando vi sia discordanza tra la situazione formale e quella reale. Specie nelle aziende di grandi dimensioni è frequente, infatti, il caso in cui il soggetto dotato della legale rappresentanza non coincida con quello in grado di esercitare l'effettivo potere di organizzazione dell'azienda e del lavoro dei dipendenti ed è a quest'ultimo che dovranno attribuirsi le connesse responsabilità prevenzionali.

Tale preminenza, del resto, è in linea con il principio di effettività affermato in giurisprudenza per scongiurare forme improprie d’imputazione di responsabilità in capo a chi datore di lavoro lo sia solo formalmente, in quanto parte contrattuale, ma non anche sostanzialmente, perché privo delle necessarie prerogative e che il d.lgs. n. 81/2008 ha codificato nell’art. 299. Nel contesto della salute e sicurezza, infatti, il principio di effettività risponde ad una esigenza di imporre che gli obblighi datoriali possano gravare, oltre che sul titolare formale, anche su chi abbia in concreto la responsabilità dell’organizzazione produttiva, senza che in capo a quest’ultimo risulti costituito ex lege alcun rapporto con i beneficiari della tutela. Pertanto, è "garante di fatto" colui che, senza alcuna preliminare investitura da parte del datore di lavoro, espleta concretamente poteri tipici, assumendo conseguentemente, in ragione del principio di effettività codificato dall'art. 299, d.lgs. n. 81/2008, la correlata posizione di garanzia (Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.07.2016, n. 27056).

In alcune sue recenti pronunce, la giurisprudenza ha, inoltre, precisato che, comunque, l'individuazione di un datore di lavoro "formale" non si pone in contrapposizione con l'eventuale esistenza anche di un datore di lavoro di fatto, atteso che, in materia prevenzionistica, il legislatore ha espressamente previsto che il datore di lavoro, titolare degli obblighi prevenzionistici, vada individuato sia in colui che risulta parte in senso formale del contratto di lavoro, sia nel soggetto che di fatto assume i poteri tipici della figura datoriale (v. artt. 2, lett. b) e 299, d.lgs. n. 81/2008), giungendo così a ritenere infondate le doglianze di chi affermava che la presenza di un datore di lavoro formale valesse ex se ad escludere la responsabilità in capo a chi tale ruolo lo avesse assunto in concreto (Cass. Pen., sez. 4, sent. 16.02.2015, n. 6723).

In un’altra occasione, la Cassazione (Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.11.2014, n. 46437), confermando la sentenza di condanna a carico di due coniugi (l’una, in qualità di rappresentante legale della ditta per conto della quale lavorava l'operario deceduto, e l’altro, nella qualità di datore di lavoro di fatto), per aver entrambi omesso di vigilare e di pretendere che il lavoratore utilizzasse i presidi antinfortunistici, ha ribadito che in tema di infortuni sul lavoro, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascun garante risulta per intero destinatario dell'obbligo di impedire l'evento, fino a che non si esaurisca il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia. Interessante osservare che, in questa occasione, è stata la difesa della legale rappresentante della ditta e datrice di lavoro, nell’impugnare la sentenza di condanna per carenza della motivazione con riferimento al giudizio di responsabilità, a richiamare a suo favore l’art. 299, d.lgs. n. 81/2008, sostenendo che, contravvenendo al principio di effettività, in base al quale occorre fare riferimento alle mansioni disimpegnate in concreto e non alla qualificazione astratta del rapporto, i giudici di merito non avevano tenuto conto del legittimo affidamento dell'imputata sulla condotta del coimputato, responsabile della sicurezza e gestore effettivo dell'impresa.

A tale proposito, la Suprema Corte ha ribadito che l'asserita gestione di fatto della società da parte del coniuge della legale rappresentante non possa valere come esonero di responsabilità della medesima, sottolineando che la previsione di cui all’art. 299, d.lgs. n. 81/2008 ha natura meramente ricognitiva del principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite e consolidato, per il quale l'individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale. Ne deriva che la codificazione della c.d. "clausola di equivalenza" avvenuta con il predetto d.lgs. n. 81/2008 non ha introdotto alcuna modifica in ordine ai criteri di imputazione della responsabilità penale concernente il datore di lavoro di fatto, i quali sono, pertanto, applicabili ai fatti precedenti all'introduzione del citato articolo, senza che ciò comporti alcuna violazione del principio di irretroattività della norma penale.

Da ultimo si ricorda che, analogamente a quello privato, anche nel settore pubblico trova applicazione il principio di effettività: in tal caso, pertanto, dell’evento lesivo verranno chiamati a rispondere sia, ex art. 299, il datore di lavoro di fatto (ovvero il dirigente/funzionario che, seppur non espressamente individuato come tale o individuato contra legem, abbia comunque esercitato poteri connessi a tale qualifica), che l’organo di vertice (ex art. 2, c. 1, lett. b), secondo periodo).

 

Giurisprudenza di riferimento:

Cass. Pen., sez. 4, sent. 15.09.2017, n. 42295; Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.07.2017, n. 36064; Cass. Pen., sez. 4, sent. 10.04.2017, n. 18099; Cass. Pen., sez. 7, sent. 23.12.2016, n. 54829; Cass. Pen., sez. 7, sent. 01.08.2016, n. 33799; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.07.2016, n. 30561; Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.07.2016, n. 27056; Cass. Pen., sez. 4, sent. 23.06.2016, n. 26115; Cass. Pen. Sez. 4, sent. 30.06.2015, n. 27173; Cass. Pen. Sez. 4, sent. 16.02.2015, n. 6723; Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.11.2014, n. 46437; Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.09.2014, n. 36452; Cass. Civ., sez. Lav., sent. 07.05.2014, n. 9870; Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.09.2013, n. 37738; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.03.2012, n. 10704; Cass. Pen., sez. 6, sent. 10.05.2011, n. 18078; Cass. Pen., sez. 4, sent. 26.04.2011, n. 16311; Cass. Pen., sez. 4, sent. 03.02.2011, n. 4106; Cass. Pen., sez. 4, sent. 28.01.2011, n. 3095

 

2.4. Il datore di lavoro nella Pubblica Amministrazione

Particolarmente significativo, ai fini della identificazione della figura del datore di lavoro nella pubblica amministrazione, è il parere reso dalla Corte dei Conti, sezione Basilicata, del 29.07.2015, n. 50, su richiesta del Sindaco di un Comune, circa la possibilità di individuare nel segretario comunale il “datore di lavoro”, ai sensi dell’art. 2, d.lgs. n. 81/2008, nell’ambito della normativa sulla tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, soprattutto laddove, in luogo delle figure dirigenziali mancanti, le posizioni apicali siano state assegnate a responsabili di area e di posizione organizzativa. La Corte, a tale proposito, rileva che mentre in passato il d.lgs. n. 626/1994 nulla diceva circa l’individuazione del datore di lavoro e, successivamente, il d.lgs. n. 242/1996, con riferimento alle amministrazioni pubbliche, aveva onerato, sia gli organi di direzione politica, che gli organi comunque di vertice, di procedere a tale adempimento (art. 30);  attualmente, con l’art. 2, lett. b), d.lgs. n. 81/2008, è venuta meno la competenza dell’organo di direzione politica, mentre è rimasta quella dell’organo di vertice, onerato di individuare, conformemente ai criteri previsti, il “datore di lavoro”. Pur rilevando che non è compito della Sezione entrare nel dibattito dottrinario e giurisprudenziale, se il datore di lavoro, indipendentemente da un atto espresso dell’organo di vertice politico dell’ente, si identifichi ex se nel dirigente “al quale spettano i poteri di gestione”, lasciando all’organo di vertice l’onere di identificare il datore di lavoro nei soli casi in cui tale figura dirigenziale non sia presente, come nel caso degli EE.LL. di minori dimensioni ovvero, se tale designazione occorra che sia fatta in ogni caso, sicché, “in caso di omessa individuazione, o di individuazione non conforme ai criteri sopra indicati, il datore di lavoro coincide con l'organo di vertice medesimo”, osserva che “quel che sembra indiscutibile, sia che si acceda all’una o all’altra soluzione, è che il ‘datore di lavoro’ deve essere fornito di tutti quei poteri gestionali autonomi che lo contraddistinguono come tale e sui quali si radica la sua responsabilità. In questo senso la norma è chiara nel vincolare la idoneità e la ‘genuinità’ della nomina alla effettiva autonomia gestionale e di spesa in capo al prescelto. In altre parole, quale che sia la modalità e la fonte che lo individua, deve escludersi che il datore di lavoro possa essere solo il soggetto, dirigente o preposto, da responsabilizzare senza, nel contempo, dotarlo di tutti quei poteri gestionali e di spesa sui quali si fondano, nella evidente intenzione del legislatore, le responsabilità che è chiamato ad assumersi. Ancor più chiaramente, proprio il richiamato art. 299 del d.lgs. n. 81/2008, spiega che l’organo di vertice dell’amministrazione pubblica non si libera delle responsabilità conseguenti dall’essere, sia pure in via residuale, il datore di lavoro se si limita ad attribuire tale qualifica ad altro soggetto, rimanendo ad un tempo egli il dominus effettivo dell’organizzazione gestionale e di spesa. È, in altre parole, il criterio dell’effettività sostanziale che prevale rispetto all’individuazione per indici formali del datore di lavoro (vds., Cass. pen. n. 34804/2010).

Così strutturato il sistema della responsabilità è coerente con l’attribuzione di effettivi poteri gestori. Da un lato, responsabilizza solo coloro che hanno la concreta possibilità di valutare i rischi e di assumere le decisioni idonee a ridurlo. Dall’altro, rispetta l’ordinamento degli EE.LL. che, pur rinvenendo negli Statuti e nei Regolamenti la disciplina delle funzioni dei dirigenti, subordina tali atti normativi secondari al principio per cui la gestione amministrativa, finanziaria e tecnica è attribuita ai dirigenti mediante autonomi poteri di spesa, di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Sono questi, dunque, i medesimi poteri richiamati dalla disposizione del D.Lgs. n. 81/2008 che rendono effettiva, e non formale, la individuazione del datore di lavoro. Se poi, nella realtà del singolo Ente, i dirigenti, o quanti svolgono in loro mancanza le funzioni dirigenziali, sono privi del potere gestionale autonomo o di spesa, perché, ad esempio, non sono stati loro assegnati gli obiettivi e gli strumenti e le dotazioni per raggiungerli, è un problema che, prima di tutto, potrebbe mettere in discussione l’adeguatezza della individuazione del datore di lavoro rispetto al paradigma normativo e al criterio sostanzialistico sopra richiamato e, d’altro canto, potrebbe incidere, in concreto, sul riparto delle responsabilità connesse alla qualifica”.

Osserva, inoltre, la Corte, che la presenza del datore di lavoro non manleva di ogni responsabilità i soggetti obbligati, da altre fonti normative, a intervenire, così come previsto dall’art. 18, cc. 3 e 3bis.

Da quanto precede, ne deduce, pertanto, che “il datore di lavoro nelle pubbliche amministrazioni può essere un dirigente o un preposto ma, d’altro lato, non tutti i dirigenti e non tutti i preposti sono, per ciò stesso, datori di lavoro. Quest’ultima qualificazione, in definitiva, non accede necessariamente alla qualifica di ‘dirigente’ e a quella di ‘preposto’. Occorre che il ‘datore di lavoro’ sia specificamente individuato dall’organo di vertice delle singole amministrazioni tra quei dirigenti o quei preposti dotati di autonomi poteri decisionali e di spesa, tenendo conto dell’ubicazione e dell’ambito funzionale degli uffici nei quali viene svolta l’attività. Ciascuna di queste figure è, del resto, destinataria di specifiche funzioni e obblighi, con conseguenti responsabilità. Peraltro, a fronte della possibilità di delegare e sub-delegare alcune delle funzioni proprie del datore di lavoro (art. 16), nel rispetto di rigorosi presupposti e formalità, non è attività delegabile la valutazione di tutti i rischi con la conseguente elaborazione del documento previsto dall’articolo 28, nonché la designazione del responsabile del servizio di prevenzione e protezione dai rischi (cfr. Cass. Penale, Sez. 4, 27 maggio 2015, n. 22415)”.

Dalla considerazione che precede, la Corte, infine, ne argomenta ulteriormente che “se può essere designato ‘datore di lavoro’ solo chi è dirigente o funzionario fornito di tutti i poteri gestionali e di spesa autonomi, in tanto si può porre il problema se è designabile il segretario comunale in quanto si dia per verificato e accertato, nel concreto, che al segretario comunale siano stati conferiti, se sono conferibili, quei poteri autonomi di gestione e di spesa che sono propri del dirigente. In altre parole, la questione di fondo non è se il segretario comunale possa essere designato ‘datore di lavoro’ ma, prima ancora, se e in che misura il segretario comunale possa assumere le funzioni proprie e piene del dirigente così da poter attrarre in questo ambito funzionale anche le attribuzioni del datore di lavoro”.

La giurisprudenza anche più recente ha avuto modo di affrontare il tema dell’individuazione del datore di lavoro nell’ambito della pubblica amministrazione prevalentemente in due ambiti, quello della scuola e quello degli enti locali.

Con riferimento al primo dei due contesti, la normativa indentifica il datore di lavoro nel dirigente scolastico cui competono, pertanto, i corrispondenti obblighi in materia di tutela della sicurezza nei luoghi di lavoro.

Particolarmente significativa, a tale proposito, è la sentenza della Cassazione Penale, sez. 4, del 01 settembre 2014, n. 36476, con la quale la Suprema Corte ha riconosciuto la responsabilità, per imprudenza, negligenza ed imperizia e con violazione sulle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, della dirigente scolastica, in cooperazione colposa con altre figure, per l’incidente mortale in cui perdeva la vita una bambina, a seguito della caduta di un’anta del cancello, mentre si trovava a giocare con altri bambini nel cortile della scuola materna, durante la ricreazione, sotto la vigilanza di una maestra. All’esito delle indagini, infatti, si accertava inequivocabilmente che la morte della bambina era da ascriversi al trauma cranico determinato da schiacciamento e che l'evento tragico costituiva il risultato della condotta "omissiva" di più persone, ciascuna delle quali titolare di autonoma “posizione di garanzia”, tutte riferibili alla violazione del principio antinfortunistico, di natura "extrapenale", di cui all'art. 2087 cc. In particolare, la Suprema Corte ha ritenuto responsabili, in qualità di datore di lavoro, sia la dirigente scolastica, che il dirigente del Comune proprietario dell’istituto, nominato dal sindaco con apposita determina.

In un’altra occasione, la Cassazione ha avuto modo di confermare al responsabilità, per il delitto di lesioni colpose lievi in danno di uno studente e del genitore di un altro studente frequentante un istituto scolastico, procurate in conseguenza della improvvisa caduta di un’anta sinistra del cancello di pertinenza del plesso scolastico, oltre che del dirigente scolastico (in qualità di datore di lavoro), anche del consulente (nella sua qualità di responsabile del servizio di prevenzione e protezione d’istituto), il quale, nella redazione del documento di valutazione dei rischi aveva omesso di individuare il rischio connesso allo stato di ammaloramento del cancello i cui cardini erano visibilmente corrosi e di prevedere, tra gli interventi da effettuare, la manutenzione e messa in sicurezza dello stesso (Cass. Pen., sez. 4, 13 maggio 2016, n. 20051). A fondamento della responsabilità del RSPP, in cooperazione colposa con il dirigente scolastico, la Suprema Corte, richiama la nota sentenza delle Sezioni Unite, n. 38343/2014 secondo cui «in tema di infortuni sul lavoro, il responsabile del servizio di prevenzione e protezione, pur svolgendo all'interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza, ha l'obbligo giuridico di adempiere diligentemente l'incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, all'occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri».

Per quanto concerne l’ambito degli enti locali, per datore di lavoro deve intendersi, secondo giurisprudenza consolidata, il dirigente al quale spettano poteri di gestione, ivi compresa la titolarità di autonomi poteri decisori in materia di spesa. La condizione necessaria per riconoscere in capo al dirigente la qualità di datore di lavoro, pertanto, è che questi sia dotato di effettivi poteri gestionali, decisionali e di spesa (v. anche Cass. Pen., sez. 3, sent. 22.01.2014, n. 2862; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.09.2010, n. 34804).

La Cassazione, in una recente sentenza (Cass. Pen., sez. 3, sent. 05.07.2017, n. 32358), ha confermato la sentenza di condanna del Sindaco di un Comune che, in qualità di datore di lavoro, aveva omesso di attuare le misure necessarie al fine di verificare che i luoghi di lavoro (scuola materna comunale) venissero sottoposti alla regolare manutenzione tecnica e di eliminare quanto più rapidamente possibile i difetti rilevati, tali da pregiudicare la sicurezza e la salute dei lavoratori. Il ricorrente, infatti, aveva contestato la propria condanna sostenendo che la responsabilità penale avrebbe dovuto essere ritenuta sussistente solo in capo ad dirigente comunale (nominato responsabile del servizio scuole comunale), in ossequio al principio generale della distinzione dei ruoli e competenze tra degli organi politici ed organi amministrativi e di gestione (ex art. 107, d.lgs. n. 267/2000) nell'ambito dell'ente locale. La Suprema Corte, tuttavia, pur confermando la fondatezza di tale principio generale, ha osservato che, con specifico riferimento al settore della sicurezza sul lavoro, il d.lgs. n. 81/2008, all'art. 2, c. 1, lett. b), secondo periodo, prevede espressamente che «nelle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, per datore di lavoro si intende il dirigente al quale spettano i poteri di gestione del rapporto di lavoro» dovendosi considerare quali "poteri di gestione" quelli conferiti con deliberazione dell'amministrazione di appartenenza.

Nel caso di specie, pertanto, il dirigente (del settore manutenzione del patrimonio edilizio comunale), pur potendo assumere la qualità di datore di lavoro ex art. 2, lett. b), d.lgs. n. 81/2008, non è stato ritenuto responsabile delle violazioni che sanzionano la mancata esecuzione degli interventi di messa in sicurezza e ristrutturazione degli edifici scolastici, in quanto risultava in concreto privo di autonomi poteri gestionali, decisionali e di spesa (v. anche Cass. Pen., sez. 3, sent. 11.02.2014, n. 6370). Del resto, come ricordato dalla Suprema Corte, “qualora l'organo politico dell'ente locale sia imputato di una violazione in materia di sicurezza sul lavoro, incombe sullo stesso l'onere della prova dell'esistenza di un soggetto dirigente dotato di competenza nel settore, nonché dei mezzi per esercitare in concreto detta competenza”.

Peraltro, come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità (Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.02.2017, n. 8119), “con l'atto di individuazione, emanato ai sensi dell'art. 2, comma primo, lett. b) D.Lgs. 9 aprile 2008 n. 81, vengono trasferite al dirigente pubblico tutte le funzioni datoriali, ivi comprese quelle non delegabili, il che rende non assimilabile detto atto alla delega di funzioni disciplinata dall'art. 16 del medesimo decreto legislativo” (v. anche Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.05.2015, n. 22415). Ciò in quanto, con il suddetto atto d'individuazione, il soggetto depositario di poteri gestionali e di spesa assume ex lege la qualifica datoriale”. In tale veste, pertanto, conferma la Cassazione, incombe sul dirigente/datore di lavoro la compilazione del documento di valutazione dei rischi interferenziali, compito assegnato al datore di lavoro dall'art. 26, c. 3, d.lgs. n. 81/2008 e ricompreso fra gli obblighi datoriali connessi ai contratti d'appalto o d'opera o di somministrazione”.

Particolarmente indicativa anche una recente sentenza della Suprema Corte (Cassazione Penale, Sez. 4, 27 maggio 2015, n. 22415), in cui si sottolinea come, nell’art. 2, c. 1, lett. b), seconda parte, “sono confluite le soluzioni adottate da parte della giurisprudenza nella vigenza della precedente normativa, meno esaustiva di quella attuale, laddove si era specificata la necessità di un atto espresso di individuazione del dirigente o del funzionario quale datore di lavoro, altrimenti rimanendo quella posizione in capo al vertice politico dell'Ente pubblico. Si era, in altre parole, riconosciuto carattere costitutivo all'atto dell'organo di vertice dell'Ente che attribuisse ad altri la qualità di datore di lavoro, data la natura originaria della posizione datoriale del dirigente, individuato in quanto tale dalla legge”. Corollario di tali affermazioni di principio, oggi positivizzate nel testo normativo, è che “l'individuazione del dirigente (o del funzionario) cui attribuire la qualifica di datore di lavoro è demandata alla pubblica amministrazione, la quale vi provvede con l'attribuzione della qualità e il conferimento dei relativi poteri di autonomia gestionale, non potendo tale qualifica essere attribuita implicitamente ad un dirigente o funzionario solo perché preposti ad articolazioni della pubblica amministrazione che hanno competenze nel settore specifico. Nelle pubbliche amministrazioni, in altre parole, l'attribuzione della qualità di datore di lavoro a persona diversa dall'organo di vertice non può che essere espressa, anche perché comporta i poteri di gestione in tema di sicurezza. Sono gli organi di direzione politica che devono procedere all'individuazione, tenendo conto dell'ubicazione e dell'ambito funzionale degli uffici, non essendo per tale ragione possibile una scelta non espressa e non accompagnata dal conferimento di poteri di gestione alla persona fisica. La conseguenza della mancata indicazione è la conservazione in capo all'organo di direzione politica della qualità di datore di lavoro. Con la precisazione che agli organi di direzione politica del Comune (Sindaco e Giunta Comunale) sono attribuiti in via originaria anche i poteri di sovrintendere alle scelte di gestione e direzione amministrativa, con il conferimento di tutti i poteri conseguenti. Anche il potere di individuare il datore di lavoro conferma che all'organo di direzione politica compete un potere originario (in tal senso soprattutto, Sez. 4, n. 38840 del 22/06/2005, Ioriatti, Rv. 232418)”.

Ciò premesso, prosegue la Cassazione, avendo accertato, nel caso di specie, che l’evento lesivo è riconducibile all'inadeguata elaborazione del D.U.V.R.I. “occorre coordinare la disciplina sopra indicata con le regole inerenti ai compiti datoriali non delegabili, tra i quali rientra l'obbligo di stilare il documento di valutazione dei rischi a norma dell'art. 17 d.lgs. n.81/2008, la cui inadeguata elaborazione costituisce, appunto, il presupposto sul quale si è fondata l'affermazione di responsabilità del Sindaco. Diversi sono, infatti, gli effetti dell'individuazione del dirigente pubblico al quale viene conferita la qualifica di datore di lavoro rispetto alla delega di funzioni datoriali disciplinata dall'art. 16 D.Lgs. n.81/2008. L'atto di individuazione è correlato alla specialità della disciplina dettata per le pubbliche amministrazioni, alle quali non si applicano i criteri di imputazione della responsabilità per cosiddetta colpa di organizzazione individuati dal d.lgs. 8 giugno 2001, n.231 e dall'art. 30 d.lgs. n. 81/2008; tale specialità impone di chiarire che al soggetto così individuato competono tutte le funzioni datoriali, senza distinzione tra funzioni delegabili e non delegabili, in ragione della qualifica di datore di lavoro che tale soggetto viene ad assumere. In tema di norme per la prevenzione degli infortuni, la normativa vigente esclude, in altre parole, che si possa ascrivere al Sindaco, anche se di un Comune di modeste dimensioni, quale organo politico, ogni violazione di specifiche norme antinfortunistiche, quando risulti individuato il dirigente con qualifica di datore di lavoro in correlazione all'ubicazione ed all'ambito funzionale del singolo ufficio”.

Ne consegue, secondo il Collegio, che “sussisterà responsabilità per il Sindaco solo se risulti che questi, essendo a conoscenza della situazione antigiuridica inerente alla sicurezza dei locali e degli edifici in uso all'Ente territoriale, abbia omesso di intervenire, con i suoi autonomi poteri, per porvi rimedio; tanto si desume dalla regola dettata dall'art.18, comma 3, d.lgs. n.81/2008, in base alla quale «Gli obblighi relativi agli interventi strutturali e di manutenzione necessari per assicurare, ai sensi del presente decreto legislativo, la sicurezza dei locali e degli edifici assegnati in uso a pubbliche amministrazioni o a pubblici uffici, ivi comprese le istituzioni scolastiche ed educative, restano a carico dell'amministrazione tenuta, per effetto di norme o convenzioni, alla loro fornitura e manutenzione. In tale caso gli obblighi previsti dal presente decreto legislativo, relativamente ai predetti interventi, si intendono assolti, da parte dei dirigenti o funzionari preposti agli uffici interessati, con la richiesta del loro adempimento all'amministrazione competente o al soggetto che ne ha l'obbligo giuridico»”.

Pertanto, “nelle pubbliche amministrazioni, nel cui novero rientrano ovviamente gli enti locali, la qualifica di datore di lavoro - ai fini della normativa sulla sicurezza e salute nei luoghi di lavoro -, con tutte le conseguenze che tale qualifica comporta, è riconosciuta al dirigente dotato di poteri di gestione e titolare di autonomi poteri decisionali anche in materia di spesa, tenuto conto peraltro della ripartizione di funzioni indicata dall'Ordinamento degli enti locali (art. 107 d. lgs. 18 agosto 2000, n. 267), che conferisce ai dirigenti amministrativi autonomi poteri di organizzazione delle risorse”.

La Cassazione, preso atto che nel caso concreto gli organi di vertice dell'amministrazione comunale (Sindaco e Giunta Comunale) avessero individuato i dirigenti ai quali attribuire la qualifica di datore di lavoro, tuttavia contesta la motivazione addotta da entrambi i giudici di merito, secondo cui l'attività la cui omissione aveva nel caso concreto contribuito al verificarsi dell'infortunio (ossia l'omessa redazione di un adeguato e completo documento di valutazione dei rischi), non fosse delegabile e fosse, per tale motivo, conservata in capo all'organo di direzione politica la posizione di garanzia inerente a detta attività, in quanto “erronea in diritto, non potendo l'imputata considerarsi “datore di lavoro” ai sensi del decreto n. 81/2008 e non essendo applicabile alle pubbliche amministrazioni che abbiano proceduto all'individuazione del dirigente a norma dell'art.2, comma 1, lett. b) d.lgs. n.81/2008, secondo quanto si è detto, la regola che limita la delegabilità di taluni obblighi propri del datore di lavoro (art. 17 d.lgs. n.81/2008)”.

Tale errore di diritto, tuttavia, precisa la Suprema Corte, non inficia la correttezza della decisione, ed è quindi emendabile ai sensi dell'art. 619, c. 1, c.p.p., in quanto “dalla pronuncia impugnata emerge come pacifico il dato che il Sindaco avesse in prima persona provveduto all'adempimento dell'obbligo di redazione del D.U.V.R.I., incaricando una società di consulenza, da tale dato risultando evidente che non avesse inteso conferire ad altri la relativa posizione di garanzia”.

In un’altra occasione, in tema di appalto di opere pubbliche da eseguire nel Comune, la Cassazione ha confermato che “non v’è dubbio che il sindaco assuma la posizione di committente e che tre presupposti costituiscano la sua fonte di responsabilità collegata ad una posizione di garanzia, per così dire limitata dalla presenza dell’appaltatore, ma non certamente esclusa: tali fonti di responsabilità sono la conoscenza del pericolo, la evitabilità dell’evento lesivo e l’omesso intervento di eliminazione del pericolo, trattandosi di reati omissivi impropri. 

Ricorrendo tali presupposti, i pubblici amministratori non possono assumere una posizione di esonero da responsabilità addirittura superiore a quella del privato committente, essendo peraltro dotati di poteri autoritativi che consentono loro di supplire all’eventuale inerzia ovvero alla impossibilità concreta di agire sollecitamente da parte dell’appaltatore.

Premessa, pertanto, la conoscenza del pericolo, il pubblico amministratore non può assumere alcun atteggiamento omissivo, ma deve o intervenire direttamente, tramite personale da lui incaricato per eliminare la fonte del pericolo stesso, ovvero apprestare adeguate protezioni, ripari, cautele ed opportune segnalazioni, in modo da impedire l’uso dell’area da parte dei privati.

Ne consegue che il sindaco e l’assessore ai lavori pubblici del Comune assumono, nei reati colposi, una posizione di garanzia nel caso che non adottino alcun provvedimento urgente atto ad eliminare una situazione di pericolo di cui sono consapevoli. Essendo, infatti, dotati di poteri autoritativi, sia per allestire un intervento atto ad eliminare il pericolo, ovvero per disporre le cautele necessarie, non si ravvisa colpa omissiva impropria ex art. 40, c. 2, cp., solo nei casi in cui non si abbia conoscenza di tale situazione di pericolo, ovvero non si abbia possibilità concreta, anche con la normale diligenza, di porre in atto i rimedi utili per sanare la fonte del medesimo pericolo” (così Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.04.2006, n. 14180).

Conferma, altresì, in tale contesto la Cassazione, che “in tema di reati colposi, ai fini dell’attribuzione della ‘posizione di garanzia’, vale il principio della effettività delle mansioni ricoperte. Infatti, sarebbe illogico sancire un principio astratto di responsabilità, almeno esclusiva (ben può esserlo concorrente), in ogni settore del diritto penale, e anche nel campo dei reati colposi, qualora la individuazione del datore di lavoro, del direttore dei lavori, dell’appaltatore e del committente, oltre eventualmente alle persone, che in modo del tutto ‘formale’, ricoprono tali incarichi, non sia poi estesa a coloro che effettivamente esercitino i poteri inerenti a tali mansioni. La qualificazione e la responsabilità non competono soltanto ai soggetti forniti di formali investiture, ma a chiunque si trovi in una posizione tale da porlo in condizioni di dirigere la attività lavorativa, e di renderlo così destinatario sia delle specifiche norme di sicurezza del lavoro, sia dell’obbligo generico di adottare le cautele necessarie (prudenza, diligenza, perizia) per salvaguardare l’incolumità dei dipendenti e anche di terze persone estranee all’attività lavorativa”.

 

Giurisprudenza di riferimento:

Cass. Pen., sez. 3, sent. 05.07.2017, n. 32358; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.02.2017, n. 8119; Cass. Pen., sez. 3, sent. 24.08.2016, n. 35407; Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.05.2016, n. 20051; Corte dei Conti, Reg. Basilicata, sez. regionale di controllo, parere 29.07.2015, n. 50; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.05.2015, n. 22415; Cons. di Stato, sez. 2, sent. 09.10.2014, n. 3072; Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.09.2014, n. 36476; Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.02.2014, n. 6370; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.09.2010, n. 34804; Cass. Pen., sent. 20.09.2007, n. 35137; Cass. Pen., sent. 17.09.2007, n. 34912

 

3. Posizione di garanzia del DL: inquadramento, compiti e obblighi

 

3.1 Compito del titolare della posizione di garanzia

Compito del titolare della posizione di garanzia è, così come chiarito da giurisprudenza consolidata, evitare che si verifichino eventi lesivi dell'incolumità fisica intrinsecamente connaturati all'esercizio di talune attività lavorative, anche nell'ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori subordinati, la cui incolumità deve essere protetta con appropriate cautele (Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.07.2017, n. 33738).

Partendo dalla definizione di “lavoratore” di cui all'art. 2, c. 1, lett. a), d.lgs. n. 81/2008, la giurisprudenza anche più recente ha ribadito che le norme di prevenzione degli infortuni sul lavoro si applicano a favore di chiunque ponga in essere una prestazione lavorativa in senso lato, sicché la tutela, oltre a riguardare i lavoratori subordinati, si estende a tutte le persone che vengano a trovarsi in situazioni di pericolo connesse all'attività esercitata, a prescindere dall'eventuale mancato perfezionamento di un contratto e dall'episodicità della prestazione. Ne consegue, pertanto, che il datore di lavoro ha l'obbligo di garantire la sicurezza sul luogo di lavoro per tutti i soggetti che prestano la loro opera nell'impresa, senza distinguere tra lavoratori subordinati e persone estranee all'ambito imprenditoriale (così Cass. Pen., sez. 6, sent. 06.12.2016, n. 51947, v. anche Cass. Pen., sez. 7, sent. 18.03.2016, n. 11487).

La Suprema Corte, peraltro, ha avuto modo di precisare che titolare della posizione di garanzia può essere anche il lavoratore autonomo, al quale, sussistendone i presupposti, si estendono gli obblighi prevenzionali tipici del datore di lavoro. A tale proposito, in particolare, la Cassazione ha osservato che, seppure ai sensi dell'art. 3, c. 11, d.lgs. n. 81/2008 operino, nei confronti del lavoratore autonomo, le disposizioni contenute nei successivi artt. 21 e 26, tuttavia l’inapplicabilità della normativa prevenzionale vale limitatamente alla ipotesi in cui il predetto lavoratore presti la sua opera con la esclusiva applicazione delle proprie energie personali e non anche nel caso in cui il medesimo, sebbene non sia dotato di una articolata struttura imprenditoriale e l’impresa sia organizzata in forma di ditta individuale, adibisca alla prestazione lavorativa altri soggetti, a prescindere dal tipo di rapporto lavorativo in base al quale i medesimi siano stati investiti dei loro compiti. Ne consegue che, ricorrendo tale ipotesi, egli assume il ruolo di datore di lavoro responsabile della sicurezza della propria ditta individuale nei confronti di terzi e, in quanto tale, sia tenuto ad adottare tutte le misure necessarie ed opportune per la prevenzione degli infortuni causalmente connessi allo svolgimento della prestazione lavorativa, da parte del personale ivi operante (v. Cass. Pen., sez. 3, sent. 28.07.2016, n. 33038).

Con riferimento, al reato colposo omissivo improprio, la giurisprudenza dominante (cfr. Cass. Pen., sez. 3, sent. 27.01.2016, n. 3616), a partire dalla Cass. Pen., SS.UU., sent. 11.11.2001, n. 30328 (c.d. sentenza Franzese), ha affermato che il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.

Il principio è stato poi ribadito, compendiato e ulteriormente sviluppato nella sentenza sul caso Thyssenkrupp (Cass. Pen., SS.UU., sent. 24.04.2014, n. 38343), secondo cui nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica che, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto. Il giudizio controfattuale cui occorre fare riferimento, dunque, non può che essere un giudizio meramente ipotetico, al fine di accertare, dando per verificato il comportamento invece omesso, se quest'ultimo avrebbe, con un alto grado di probabilità logica, impedito o significativamente ritardato il verificarsi dell'evento o comunque ridotto l'intensità lesiva dello stesso.

Occorre, dunque, poter affermare, in termini di "certezza processuale", ossia di alta credibilità razionale o probabilità logica, che sia stata proprio quella condotta omissiva a determinare l'evento lesivo. E così, infatti, nella citata sentenza Thyssenkrup, delle Sezioni Unite n. 38343 del 2014, la Suprema Corte ha escluso il nesso causale tra la condotta omissiva consistita nella mancata realizzazione di un impianto antincendio automatico e l'aggravante di cui all'art. 437, c. 2, c. p., alla stregua del giudizio controfattuale per cui, valutate le circostanze concrete in ordine ai necessari tempi di realizzazione, l'impianto non sarebbe stato comunque ultimato in epoca antecedente alla verificazione del disastro; così come, con la c.d. sentenza Volcan (Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.05.2015, n. 22378), la Corte ha escluso il nesso causale tra la condotta omissiva consistita nella mancata adozione di misure idonee a garantire la sicurezza del luogo di lavoro e le lesioni gravi occorse al lavoratore caduto da un’impalcatura, ritenendo l’infortunio determinatosi a causa della maldestra riparazione provvisoria di un ponteggio, realizzata da soggetto rimasto ignoto ed in epoca sicuramente prossima al verificarsi dell'evento lesivo.

 

3.2 Posizione di garanzia del DL in rapporto alla condotta anomala o imprudente del lavoratore infortunato e principio di affidamento

Il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all'incolumità fisica dei lavoratori, come detto, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori il rispetto delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e, comunque, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile (cfr. Cass. Pen., sez. 3, sent. 27.01.2016, n. 3616, v. anche Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.01.2015, n. 3787 e Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.06.2012, n. 37986).

Il comportamento del lavoratore può definirsi anomalo, e pertanto tale da costituire causa sopravvenuta da sola sufficiente a cagionare l'evento e da escludere la responsabilità del datore di lavoro, laddove risulti assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite; viceversa, come più volte precisato e anche di recente ribadito dalla Corte di legittimità, costituisce comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all'evento, che invece non esclude la responsabilità del datore di lavoro, quello comunque riconducibile all'insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente (cfr., Cass. Pen., sez. 3, sent. 27.01.2016, n. 3616; Cass. Pen., sez. 4, sent. 14.01.2014, n. 7364).

La giurisprudenza è, infatti, univoca nel ritenere che il garante non può invocare, a propria scusa, il principio di affidamento, assumendo che il comportamento del lavoratore sia stato imprevedibile, poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia. Il garante, dunque, ove abbia negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l'errore sulla legittima aspettativa in ordine all'assenza di condotte imprudenti, negligenti o imperite da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore anche dai rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e negligenze o dai suoi stessi errori, purché connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa. Ne deriva che il titolare della posizione di garanzia è tenuto a valutare i rischi e a prevenirli e la sua condotta non è scriminata, in difetto della necessaria diligenza, prudenza e perizia, da eventuali responsabilità dei lavoratori (così Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.07.2017, n. 33738).

Sempre con riferimento alla rilevanza della eventuali condotte negligenti ovvero imprudenti riferibili al dipendente infortunato, la giurisprudenza ha affermato che, nell'ambito della sicurezza sul lavoro emerge la centralità del concetto di rischio, in un contesto preposto a governare ed evitare i pericoli connessi al fatto che l'uomo si inserisce in un apparato disseminato di insidie. Rispetto ad ogni area di rischio esistono distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare; il "garante è il soggetto che gestisce il rischio" e, quindi, colui al quale deve essere imputato, sul piano oggettivo, l'illecito, qualora l'evento si sia prodotto nell'ambito della sua sfera gestoria. Proprio nell'ambito in parola (quello della sicurezza sul lavoro) il d.lgs. n. 81/2008 (così come la precedente normativa in esso trasfusa) consente di individuare la genesi e la conformazione della posizione di garanzia, e, conseguentemente, la responsabilità gestoria che in ipotesi di condotte colpose, può fondare la responsabilità penale (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.07.2016, n. 27056).

Costituisce ius receptum, confermato anche dalla più recente giurisprudenza (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.05.2017, n. 24958), il principio secondo cui, in tema di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine alla incolumità fisica dei lavoratori, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici, vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori l’osservanza delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell’eccezionalità, dell’abnormità e, comunque, dell’esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile (così ex multis, Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.06.2012, n. 37986).

Inoltre, è altrettanto pacifico in giurisprudenza, che non vale a escludere la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre comunque all'insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente. Come confermato da consolidata giurisprudenza, infatti, non è configurabile la responsabilità ovvero la corresponsabilità del lavoratore per l'infortunio occorsogli allorquando il sistema della sicurezza approntato dal datore di lavoro presenti delle evidenti criticità, atteso che le disposizioni antinfortunistiche perseguono il fine di tutelare il lavoratore anche dagli infortuni derivanti da sua colpa, dovendo il datore di lavoro dominare ed evitare l'instaurarsi da parte degli stessi destinatari delle direttive di sicurezza di prassi di lavoro non corrette e, per tale ragione, foriere di pericoli (in tal senso, v. anche Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.04.2015, n. 22813).

Quanto alla rilevanza della eventuali condotte negligenti ovvero imprudenti riferibili al dipendente infortunato, occorre osservare che, nell'ambito della sicurezza sul lavoro, emerge la centralità del concetto di rischio, in un contesto preposto a governare ed evitare i pericoli connessi al fatto che l'uomo si inserisce in un apparato disseminato di insidie. Rispetto ad ogni area di rischio, infatti, esistono distinte sfere di responsabilità che quel rischio sono chiamate a governare; il "garante è il soggetto che gestisce il rischio" e, quindi, colui al quale deve essere imputato, sul piano oggettivo, l'illecito, qualora l'evento si sia prodotto nell'ambito della sua sfera gestoria. Proprio nell'ambito della sicurezza sul lavoro, il d.lgs. n. 81/2008 (così come la precedente normativa in esso trasfusa) consente di individuare la genesi e la conformazione della posizione di garanzia e, conseguentemente, la responsabilità gestoria che, in ipotesi di condotte colpose, può fondare la responsabilità penale (così, Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.07.2016, n. 27056).

È nota e pacifica la giurisprudenza (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.05.2012, n. 1688) secondo cui la eventuale imprudenza del lavoratore non elide il nesso dì causalità allorché l'incidente si verifichi a causa del lavoro svolto e per l'inadeguatezza delle misure dì prevenzione. È evidente, infatti, che la prospettazione di una causa di esenzione da colpa che si richiami alla condotta imprudente del lavoratore, non rileva allorché chi la invoca versa in re illicita, per non avere negligentemente impedito l'evento lesivo (nella specie, dall'avere la vittima operato in condizioni di rischio note all'azienda e non eliminate da chi rivestiva la posizione di garanzia). Chi è responsabile della sicurezza del lavoro, pertanto, deve avere una sensibilità tale da rendersi interprete, in via di prevedibilità, del comportamento altrui. In altri termini, l'errore sulla legittima aspettativa che non si verifichino condotte imprudenti da parte del lavoratori non è invocabile, non solo per la illiceità della propria condotta omissiva, ma anche per la mancata attività diretta ad evitare l'evento, imputabile a colpa altrui, quando si è nella possibilità di impedirlo. È il cosiddetto "doppio aspetto della colpa", secondo cui si risponde sia per colpa diretta sia per colpa indiretta, una volta che l'incidente dipende dal comportamento dell'agente, che invoca a sua discriminante la responsabilità altrui. È da osservare, peraltro, che la normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore non solo dai rischi derivanti da incidenti o fatalità, ma anche da quelli che possono scaturire dalle sue stesse disattenzioni, imprudenze o disubbidienze alle istruzioni o prassi raccomandate, purché connesse allo svolgimento dell'attività lavorativa. È stato, infatti, affermato in giurisprudenza che, in caso di infortunio sul lavoro originato dall'assenza o inidoneità delle misure di prevenzione, nessuna efficacia causale esclusiva può essere attribuita al comportamento del lavoratore infortunato, che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondursi anche alla mancanza o insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare il rischio di siffatto comportamento.

In un’altra occasione, la giurisprudenza ha inoltre ribadito che, allorquando l'imprenditore disponga di più sistemi di prevenzione di eventi dannosi, egli è tenuto ad adottare (salvo il caso di impossibilità) quello più idoneo a garantire un maggior livello di sicurezza ovvero quello sul cui utilizzo incida meno la scelta discrezionale del lavoratore, ciò al fine di garantire il maggior livello di sicurezza possibile: trattasi, invero, di principio cui non è possibile derogare soprattutto nei casi in cui i beni da tutelare siano costituiti dalla vita e dalla integrità fisica delle persone (v. anche Cass. Pen., sez. 4, sent. 02.02.2016, n. 4325).

In definitiva, va riaffermato il principio che in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il datore di lavoro, quale responsabile della sicurezza, è gravato, non solo, dell'obbligo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente la loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 c.c., egli è costituito garante dell'incolumità dei prestatori di lavoro (vedasi anche Cass. Pen., sez. 4, sent. 29.01.2015, n. 4361). E che, qualora sussista la possibilità di ricorrere a plurime misure di prevenzione di eventi dannosi, il datore di lavoro è tenuto ad adottare il sistema antinfortunistico sul cui utilizzo incida meno la scelta discrezionale del lavoratore, al fine di garantire il maggior livello di sicurezza possibile (cfr. Cass. Pen., sez. 4, sent. 02.02.2016, n. 4325).

 

3.3 Posizione di garanzia del DL verso i lavoratori, i soggetti equiparati ai lavoratori, i lavoratori autonomi, i terzi estranei e “luogo di lavoro”

È principio consolidato in giurisprudenza (v. di recente Cass. Pen., sez. 7, sent. 18.03.2016, n. 11487) quello secondo cui l'obbligo del datore di lavoro di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro si estende anche ai soggetti che nell'impresa hanno prestato la loro opera, quale che sia stata la forma utilizzata per lo svolgimento della prestazione. È di decisivo rilievo, in proposito, il disposto dell'art. 2087 c.c., in forza del quale, il datore di lavoro, anche al di là delle disposizioni specifiche, è comunque costituito garante dell'incolumità fisica e della salvaguardia della personalità morale di quanti prestano la loro opera nell'impresa, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi all'obbligo di tutela, nei casi di verificazione di un evento lesivo, questo gli verrà correttamente imputato in forza del meccanismo previsto dall'art. 40, cpv. c.p. E tale obbligo, come ha più volte affermato la Corte, è di così ampia portata che non può distinguersi, al riguardo, che si tratti di un lavoratore subordinato, di un soggetto a questi equiparato (cfr. art. 3, c. 2, d.P.R. 27.04.1955, n. 547) o, anche, di persona estranea all'ambito imprenditoriale, purché sia ravvisabile, in caso di infortunio (che le norme antinfortunistiche si apprestano perciò a prevenire), il nesso causale tra l'infortunio stesso e la violazione della disciplina sugli obblighi di sicurezza.

Infatti, le norme antinfortunistiche non sono dettate soltanto per la tutela dei lavoratori, ossia per eliminare il rischio che i lavoratori possano subire danni nell'esercizio della loro attività, ivi compresi coloro i quali abbiano prestato il loro lavoro in favore dell’impresa in via autonoma (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.12.2010, n. 44882), ma sono dettate finanche a tutela dei terzi, cioè di tutti coloro che, per una qualsiasi legittima ragione, accedono presso un "luogo di lavoro", che debba essere munito, anche in relazione alla specifica attività praticata in detto luogo, dei presidi antinfortunistici voluti dalla legge, in mancanza dei quali possono verificarsi eventi dannosi.

Ne consegue, pertanto, che vale il principio secondo il quale, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, il datore di lavoro ha l'obbligo di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro per tutti i soggetti che prestano la loro opera nell'impresa, senza distinguere tra lavoratori subordinati e persone estranee all'ambito imprenditoriale. È, del resto, parimenti pacifico che la normativa antinfortunistica si applica non solo ai lavoratori subordinati, ma anche ai soggetti ad essi normativamente equiparati, tra i quali rientrano i soci anche di fatto che prestino la loro attività per conto della società; e si applica altresì per garantire la sicurezza anche delle persone estranee che possano trovarsi occasionalmente nei luoghi di lavoro e, potenzialmente, nella situazione di pericolo (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.03.2016, n. 11388, che richiama precedenti Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.07.2009, n. 37840 e Cass. Pen., sez. 3, sent. 03.03.2009, n. 17218).

Proprio dal fatto che le disposizioni prevenzionali sono da considerare emanate nell'interesse di tutti, finanche degli estranei al rapporto di lavoro, occasionalmente presenti nel medesimo ambiente lavorativo, a prescindere, quindi, da un rapporto di dipendenza diretta con il titolare dell'impresa, consegue che, in caso di lesioni e di omicidio colposi, perché possa ravvisarsi l'ipotesi del fatto commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro, è necessario e sufficiente che sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale, il quale ricorre tutte le volte che il fatto sia ricollegabile alla inosservanza delle norme stesse secondo i principi dettati dagli artt. 40 e 41 c.p., come nel caso in cui l’infortunio sia riconducibile all’utilizzo di macchinari presenti nel luogo di lavoro e non muniti dei presidi antinfortunistici (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 31.03.2016, n. 12975 e, nello stesso senso, Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.01.2014, n. 2343, Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.04.2012, n. 23147). In tale evenienza, infatti, come chiarito in giurisprudenza, dovrà ravvisarsi l'aggravante di cui agli artt. 589, c. 2, e 590, c. 3, c.p., nonché il requisito della perseguibilità d'ufficio delle lesioni gravi e gravissime, ex art. 590, ult. c., c.p., anche nel caso di soggetto passivo estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell'infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante e purché, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi (cfr. anche Cass. Pen., sez. 4, sent. 06.11.2009, n. 43966).

A tale proposito, in punto di condotta colposa va ricordato che, in tema di violazione di normativa antinfortunistica, per "ambiente di lavoro" deve intendersi tutto il luogo o lo spazio in cui l'attività lavorativa si sviluppa ed in cui, indipendentemente dall'attualità dell'attività, coloro che siano autorizzati ad accedere nel cantiere e coloro che vi accedano per ragioni connesse all'attività lavorativa, possono recarsi o sostare anche in momenti di pausa, riposo o sospensione del lavoro (cfr. Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.03.2016, n. 11388; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.02.2015, n. 18073).

In un’altra occasione la Suprema Corte (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.10.2015, n. 40721) è stata chiamata a riflettere sulla corretta individuazione della posizione di garanzia del “datore di lavoro”, in relazione al “luogo di lavoro”. Nello specifico, il caso che ha dato luogo alla citata pronuncia della Cassazione riguardava l’infortunio occorso ad una lavoratrice alle dipendenze di una società proprietaria di un negozio sito all’interno di un centro commerciale che, nel transitare nell'ingresso dell'edificio, era scivolata sul pavimento parzialmente coperto da tappeti mobili e bagnato per l'acqua caduta dall'ombrello chiuso di una cliente che la precedeva.

Ad avviso dei giudici della Corte d’Appello, l'infortunio si era determinato a causa del mancato apprestamento di una adeguata copertura del pavimento dell'ingresso della galleria; questo era da reputarsi 'ambiente di lavoro' e, quindi, competeva all’amministratore delegato della società proprietaria dell'edificio (che non aveva mai delegato ad altri le funzioni in materia di antinfortunistica), di provvedere a porre in sicurezza il pavimento dell'ingresso.

La Cassazione, ritenendo fondato il ricorso presentato dall’amministratore della società proprietaria della galleria, ha affrontato, preliminarmente, il tema della riconoscibilità e della tipologia di una posizione di garanzia in capo all'imputato, dalla quale discenderebbe l'obbligo di apprestare idonee misure di sicurezza nell'area di ingresso del centro commerciale, teatro dell'infortunio sul lavoro.

Sul piano generale, la Corte ha ribadito che ogni posizione di garanzia é costituita in relazione alle necessità di governo del rischio, sicché le diverse coordinate (spaziali, temporali, funzionali e soggettive, ad esempio) che concorrono a definire l'area di esplicazione del rischio medesimo devono essere precisamente individuate perché possa tratteggiarsi la fisionomia del garante.

Con riguardo al datore di lavoro, la Corte ha sottolineato come già la nozione normativa di cui all’art. 2, c. 1, lett. b), d.lgs. n. 81/2008, incardinandosi sulla titolarità di poteri decisionali e di spesa e sulla connessa responsabilità dell'organizzazione nel cui ambito il lavoratore presta la propria attività (oltre che alla titolarità del rapporto di lavoro, evenienza che nel caso che occupa non rileva), evidenzia la necessità di limitare lo sguardo ricognitivo al perimetro di una determinata organizzazione imprenditoriale, della quale va ricostruita la catena gestionale. Detto altrimenti, nell'accertamento della esistenza di una concreta posizione di garanzia, premessa dell'attribuzione di uno specifico evento concreto, non interessa un qualsiasi soggetto datore di lavoro, ma colui che ne reca le attribuzioni in riferimento alla determinata organizzazione imprenditoriale nel cui ambito presta la propria attività il lavoratore infortunatosi.

Tenuto conto di quanto appena esposto, prosegue la Cassazione, si può venire a considerare che, a mente dell'art. 62, d.lgs. n. 81/2008, per 'luoghi di lavoro' si intendono “i luoghi destinati ad ospitare posti di lavoro, ubicati all'interno dell'azienda o dell'unità produttiva, nonché ogni altro luogo di pertinenza dell'azienda o dell'unità produttiva accessibile al lavoratore nell'ambito del proprio lavoro”.

Proprio il caso in esame rende opportuno rimarcare che, ai fini della individuazione dei soggetti gravati da obblighi prevenzionistici, la identificazione di uno spazio quale luogo di lavoro non può prescindere dalla identificazione del plesso organizzativo al quale lo spazio in questione accede. Lo si ricava dalla definizione testé riportata, laddove prevede un collegamento di ordine spaziale ("all'interno dell'azienda ...") o almeno pertinenziale tra l'azienda o l'unità produttiva e il luogo di lavoro. E lo implica la logica stessa della normativa prevenzionistica, che attribuisce obblighi securitari a colui che é titolare di poteri organizzativi e decisionali che trovano nei luoghi di lavoro l'ambito spaziale e funzionale di estrinsecazione. Lo stesso Titolo II elenca gli obblighi che il datore di lavoro deve osservare rispetto ai 'propri' luoghi di lavoro. La Cassazione, quindi, puntualizza che, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, proprio ogni tipologia di spazio può assumere la qualità di 'luogo di lavoro', a condizione che ivi sia ospitato almeno un posto di lavoro o esso sia accessibile al lavoratore nell'ambito del proprio lavoro (cfr. sul punto Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.01.2014, n. 2343; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.07.2011, n. 28780). In particolare, può trattarsi anche di un luogo nel quale i lavoratori si trovino esclusivamente a dover transitare, purché il transito sia necessario per provvedere alle incombenze loro affidate. In tal senso, si richiama il principio dettato da Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.07.2011 n. 28780, secondo cui nella nozione di "luogo di lavoro", rilevante ai fini della sussistenza dell’obbligo di attuare le misure antinfortunistiche, rientra non soltanto il cantiere, ma anche ogni altro luogo in cui i lavoratori siano necessariamente costretti a recarsi per provvedere ad incombenze inerenti all'attività che si svolge nel cantiere. Per contro, e qui la Corte rinviene una grave lacuna motivazionale nella sentenza impugnata, non può parlarsi di luogo di lavoro (da preferirsi in questo caso alla locuzione utilizzata dalla Corte di Appello di 'ambiente di lavoro') solo sul presupposto che un qualsiasi soggetto, che è anche prestatore d'opera in favore di taluno, vi si trovi a transitare, ribadendo la stretta correlazione che esiste tra la nozione di 'luogo di lavoro' e la specifica organizzazione imprenditoriale alla quale questo accede in funzione servente; correlazione che deriva dalla necessità che si tratti di ambito spazio-funzionale sul quale possano e debbano estendersi i poteri decisionali del vertice della compagine.

La Suprema Corte, pertanto, formula il seguente principio di diritto: "in materia di responsabilità per violazioni delle norme antinfortunistiche, il datore di lavoro obbligato al rispetto delle prescrizioni dettate dal Titolo II del d.lgs. n. 81/2008 per la sicurezza dei luoghi di lavoro va identificato in colui che riveste tale ruolo nell'organizzazione imprenditoriale alla quale accede il luogo di lavoro medesimo".
Alla luce di tale puntualizzazione risulta chiaro che, con riferimento al caso di specie, l'attribuzione all'imputato della posizione di garanzia di datore di lavoro, avrebbe richiesto la preliminare qualificazione dell'area di ingresso del centro commerciale come luogo di lavoro dell'impresa della quale egli era amministratore delegato; qualificazione possibile solo a condizione di effettuare il preliminare accertamento che anch'esso costituisse luogo di lavoro nell'ambito dell'organizzazione aziendale dell’impresa datrice di lavoro dell’infortunata; diversamente, prosegue la Corte, eventuali obblighi di assicurazione della non pericolosità dell'area potrebbero farsi discendere unicamente dalla proprietà degli spazi; con esclusione, quindi, della violazione di obblighi datoriali e procedibilità a querela del reato. Poiché tale accertamento non era emerso dalla motivazione della sentenza impugnata, che anzi menziona - manifestando un evidente fraintendimento - la titolarità del diritto di proprietà sull'immobile quale fondamento della posizione di debitore di sicurezza del ricorrente rispetto al preteso 'ambiente di lavoro', la Corte annullava la sentenza impugnata, con rinvio, per nuovo esame, ad altra sezione della Corte di Appello, la quale è stata chiamata ad accertare se l'ingresso dell'edificio ove avvenne l’infortunio sul lavoro sia stato, al tempo, luogo destinato ad ospitare posti di lavoro ovvero luogo accessibile nell'ambito del loro lavoro ai lavoratori dipendenti della società proprietaria dell’edificio; e, ove l'accertamento risulti positivo, dovrà verificare se sussistessero le condizioni perché la tutela, che l'imputato avrebbe dovuto apprestare a vantaggio dei propri dipendenti, fosse estesa anche alla persona infortunatasi, alla luce dei principi già delineati dalla medesima Cassazione.

La sopraccitata sentenza si segnala, peraltro, anche per un’ulteriore importante puntualizzazione in merito alla possibilità che, anche una persona estranea all'organigramma dell'impresa – quale era la persona infortunatasi rispetto alla società proprietaria dell’edificio –, possa beneficiare della tutela apprestata dalla normativa prevenzionistica.

Quando si interroga in merito alla cerchia dei destinatari della tutela prevenzionistica che il datore di lavoro deve apprestare, la giurisprudenza tende a includere in essa anche i soggetti estranei alla categoria dei lavoratori. Si afferma, così, che il datore di lavoro ha l’obbligo di garantire la sicurezza nel luogo di lavoro per tutti i soggetti che prestano la loro opera nell'impresa, senza distinguere tra lavoratori subordinati e persone estranee all'ambito imprenditoriale (Cass. Pen., sez. 4, sent. 25.09.2009, n. 37840); che in tema di omicidio colposo, ricorre l'aggravante della violazione di norme antinfortunistiche anche quando la vittima è persona estranea all'impresa, in quanto l'imprenditore assume una posizione di garanzia in ordine alla sicurezza degli impianti non solo nei confronti dei lavoratori subordinati o dei soggetti a questi equiparati, ma anche nei confronti di tutti coloro che possono comunque venire a contatto o trovarsi ad operare nell'ambito della sua organizzazione (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.03.2008, n. 10842 e, in precedenza, Cass. Pen., sez. 4, sent. 15.02.2007, n. 6348).

Tuttavia la giurisprudenza, fatta eccezione per un filone interpretativo che identifica i destinatari della tutela senza limitazione alcuna, ha avvertito la necessità di rinvenire un criterio di delimitazione della responsabilità del datore di lavoro, richiedendosi, in tal senso, l'esistenza di una particolare relazione tra l'estraneo e l'organizzazione di impresa (si tratta di soggetti ora svolgenti comunque prestazioni lavorative, ora a vario titolo funzionalmente collegati a quell'organizzazione, quali fornitori, clienti ecc.).

Il legislatore, infatti, in materia di prevenzione infortuni, all'art. 1 d.P.R. n. 547/1955, espressamente richiamato dal capo 1, d.P.R. n. 164/1956 (ed ora trasfuso nell'art. 2, c. 4, d.lgs. n. 81/2008), allorquando parla di "lavoratori subordinati e ad essi equiparati" non intende individuare in costoro i soli beneficiari della normativa antinfortunistica, ma ha la finalità di definire l'ambito di applicazione di detta normativa, ossia di stabilire in via generale quali siano le attività assoggettate all'osservanza di essa, salvo, poi, nel successivo art. 2, escluderne talune in ragione del loro oggetto, perché disciplinate da appositi provvedimenti. Pertanto, qualora sia accertato che, ad una determinata attività, siano addetti lavoratori subordinati o soggetti a questi equiparati, ex art. 3, c. 2, d.P.R. n. 547/1955, non occorre altro per ritenere obbligato chi esercita, dirige o sovrintende all'attività medesima ad attuare le misure di sicurezza previste dai citati d.P.R. n 547/1955 e n. 164/1956; obbligo che prescinde completamente dalla individuazione di coloro nei cui confronti si rivolge la tutela approntata dal legislatore.

Ne consegue che, ove un infortunio si verifichi per inosservanza degli obblighi di sicurezza normativamente imposti, tale inosservanza non potrà non far carico, a titolo di colpa specifica, ex art. 43 c.p. e, quindi, di circostanza aggravante ex art. 589, c. 2, e 590, c. 3, c.p., su chi detti obblighi avrebbe dovuto rispettare, poco importando che ad infortunarsi sia stato un lavoratore subordinato, un soggetto a questi equiparato o, addirittura, una persona estranea all'ambito imprenditoriale, purché, sia ravvisabile il nesso causale con l'accertata violazione (v. di recente anche Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.11.2010, n. 38991, che puntualizza la natura di posizione di 'controllo' del datore di lavoro, ovvero di soggetto tenuto a dominare una fonte di pericolo per la tutela di beni da questa pregiudicabili, quali che siano i titolari).

In questa prospettiva il limite della responsabilità datoriale viene individuato nell'ambito della causalità, sostenendosi che il fatto è commesso con violazione delle norme dirette a prevenire gli infortuni sul lavoro solo che sussista tra siffatta violazione e l'evento dannoso un legame causale, il quale non può ritenersi escluso solo perché il soggetto colpito da tale evento non sia un lavoratore dipendente (o soggetto equiparato) dell'impresa obbligata al rispetto di dette norme, ma un estraneo all'attività ed all'ambiente di lavoro, purché la presenza di tale soggetto nel luogo e nel momento dell'infortunio non abbia tali caratteri di anormalità, atipicità ed eccezionalità da far ritenere interrotto il nesso eziologico tra l'evento e la condotta inosservante e purché, ovviamente, la norma violata miri a prevenire incidenti come quello in effetti verificatosi (v. in precedenza, Cass. Pen., sez. 4, sent. 31.03.2006, n. 11360).

La Cassazione recente, pertanto, condivide la tesi della riconducibilità degli estranei alla compagine aziendale, al novero dei soggetti destinatari della tutela apprestata dalla normativa prevenzionistica, anche alla luce di un puntuale esame delle norme prevenzionistiche, le quali possono essere classificate in almeno due tipologie: talune impongono misure di carattere oggettivo, ovvero misure i cui contenuti risultano definiti a prescindere da qualsivoglia riferimento ad un particolare destinatario, e dove la condotta doverosa non è descritta in modo da implicare una delimitazione alle offese ai soli lavoratori (così, ad esempio, i requisiti previsti dall'allegato V al d.lgs. n. 81/2008 per le attrezzature di lavoro devono essere osservati solo che si tratti di  strumenti dell'attività lavorativa e l'eventuale messa in esercizio di macchinari non conformi non esonera da responsabilità il datore di lavoro solo perché l'infortunato non è un lavoratore; pertanto. Al datore di lavoro si chiede un adempimento che ha valore per chiunque venga a contatto con la macchina in questione, lavoratori e/o persone estranee all'apparato organizzativo che per ragioni varie vengono a trovarsi nello spazio di azione degli organi della macchina); mentre vi sono altre misure prevenzionali che hanno, invece, carattere per così dire soggettivo, ovvero si indirizzano ad una specifica tipologia di soggetti (così, ad esempio, l'obbligo di sorveglianza sanitaria, di cui agli artt. 41 e ss. d.lgs. n. 81/2008 è esplicitamente posto a beneficio del lavoratore).

Ne consegue, quindi, che talune regole prevenzionistiche sono dettate a tutela di qualsiasi soggetto che venga a contatto con la fonte di pericolo sulla quale il datore di lavoro ha poteri di gestione; altre sono poste a beneficio precipuo del lavoratore, inteso in senso formale e sostanziale. Nel primo caso, le ragioni per le quali si determina il contatto tra la fonte di pericolo e l'estraneo è del tutto irrilevante, proprio perché la sfera di competenza del titolare dell'obbligo è definita su base eminentemente oggettiva, ovvero in relazione alla fonte di pericolo; pertanto, ricorrendo tale ipotesi la qualità di extraneus non è di per sé incompatibile con l'esistenza di un protettivo dovere di sicurezza datoriale.

Nello stesso senso anche un’altra pronuncia della Cassazione (Cass. Pen., sez. 4, sent. 07.05.2014, n. 9870), la quale, riconoscendo che l’apparato normativo relativo alla tutela dei lavoratori e alla sicurezza degli ambienti di lavoro si estende anche alle persone estranee che occasionalmente si trovino sui luoghi di lavoro, afferma che il titolare di un'impresa in luogo aperto al pubblico, quale è una sala videogiochi e bar, risponde degli obblighi di prevenzione e sicurezza anche nei confronti dei terzi che, utilizzando le strutture ed i macchinari, si trovino esposti ai rischi di quello specifico ambiente.


3.4 Posizione di garanzia del datore di lavoro e massima sicurezza tecnologica

Altra rilevante questione, che la giurisprudenza ha preso in considerazione, ai fini del riconoscimento della responsabilità prevenzionale in capo al datore di lavoro, è se debba essere preteso dal datore di lavoro che si doti di più nuovi accorgimenti idonei a garantire la sicurezza dell'impianto, pur in possesso di tutte le prescritte autorizzazioni, e in assenza di norme tecniche che impongano espressamente l'uso di determinati presidi.

A tale proposito costituisce jus receptum il principio secondo cui, allorquando l'imprenditore disponga di più sistemi di prevenzione di eventi dannosi, egli sia tenuto ad adottare (salvo il caso di impossibilità) quello più idoneo a garantire un maggior livello di sicurezza, principio cui non è possibile derogare soprattutto nei casi in cui i beni da tutelare siano costituiti dalla vita e dalla integrità fisica delle persone, laddove, viceversa, una valutazione comparativa tra costi e benefici sarebbe ammissibile solo nel caso in cui i beni da tutelare fossero esclusivamente di natura materiale (v. di recente Cass. Pen., sez. 3, sent. 27.01.2016, n. 3616).

Così, anche già in passato, il datore di lavoro è stato ritenuto responsabile della violazione dell'art. 374 d.P.R. n. 547/1955, in base al quale le macchine e le attrezzature devono possedere tutti i possibili requisiti di sicurezza per evitare infortuni, per avere omesso di munire l’attrezzatura di lavoro, di un determinato dispositivo di sicurezza presente sul mercato (v. già Cass. Pen., sez. 4, sent. 26.09.2005, n. 43095).

Con riferimento alla "massima sicurezza tecnologica" esigibile dal datore di lavoro, tuttavia, la Cassazione ha ritenuto che, se è vero che in materia di infortuni sul lavoro è onere dell'imprenditore adottare nell'impresa tutti i più moderni strumenti che offre la tecnologia per garantire la sicurezza dei lavoratori, il principio vada letto alla luce di quello già meglio precisato, in passato, nella c.d. sentenza Laguzzi (Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.10.2006, n. 41944), secondo cui, qualora la ricerca e lo sviluppo delle conoscenze portino alla individuazione di tecnologie più idonee a garantire la sicurezza, non è possibile pretendere che l'imprenditore proceda ad un'immediata sostituzione delle tecniche precedentemente adottate con quelle più recenti e innovative, dovendosi pur sempre procedere ad una complessiva valutazione sui tempi, modalità e costi dell'innovazione, purché, ovviamente, i sistemi già adottati siano comunque idonei a garantire un livello elevato di sicurezza.

 

Giurisprudenza di riferimento (3.1, 3.2, 3.3, 3.4):

Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.07.2017, n. 33738; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.05.2017, n. 24958; Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.05.2017, n. 23102; Cass. Pen., sez. 6, sent. 06.12.2016, n. 51947; Cass. Pen., sez. 3, sent. 28.07.2016, n. 33038; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.07.2016, n. 31215; Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.07.2016, n. 27056; Cass. Pen., sez. 4, sent. 14.06.2016, n. 24708; Cass. Pen., sez. 4, sent. 31.03.2016, n. 12975; Cass. Pen., sez. 7, sent. 18.03.2016, n. 11487; Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.03.2016, n. 11388; Cass. Pen., sez. 4, sent. 02.02.2016, n. 4325; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.01.2016, n. 3616; Cass. Pen., sez. 4, sent. 23.10.2015, n. 42368; Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.10.2015, n. 40721; Cass. Pen., sez. 4, sent. 30.06.2015, n. 27173; Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.04.2015, n. 22813; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.05.2015, n. 22378; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.02.2015, n. 18073; Cass. Pen., sez. 4, sent. 29.01.2015, n. 4361; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.01.2015, n. 3787; Cass. Pen., sez. 4, sent. 07.05.2014, n. 9870; Cass. Pen., SS.UU., sent. 24.04.2014, n. 38343; Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.02.2014, n. 6370; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.01.2014, n. 2343; Cass. Pen., sez. 4, sent. 14.01.2014, n. 7364; Cass. Pen., sez. 3, sent. 18.12.2013, n. 50966; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.06.2012, n. 37986; Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.05.2012, n. 1688; Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.04.2012, n. 23147; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.07.2011, n. 28780; Cass. Pen., sez. 4, sent. 26.01.2011, n. 2567; Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.12.2010, n. 44882; Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.11.2010, n. 38991; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.10.2010, n. 38118; Cass. Pen., sez. 4, sent. 06.11.2009, n. 43966; Cass. Pen., sez. 4, sent. 25.09.2009, n. 37840; Cass. Pen., sez. 3, sent. 03.03.2009, n. 17218; Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.03.2008, n. 10842

 

3.5 Colpa di organizzazione e responsabilità amministrativa dell’impresa

Il d.lgs. n. 81/2008 si caratterizza, rispetto al precedente impianto normativo, per una decisa valorizzazione dell’aspetto organizzativo che rileva, sia sotto un profilo più formale, richiedendo al datore di lavoro di dotarsi di adeguati organigrammi dirigenziali ed esecutivi, in grado di assicurare con maggiore chiarezza la distribuzione di poteri ed obblighi in materia di sicurezza ed un più puntuale accertamento delle responsabilità del vertice aziendale (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.09.2014, n. 38100; cfr. anche Cass. Pen., sez 4, sent. 29.01.2014, n. 4084, secondo cui “nelle imprese di grandi dimensioni non è possibile attribuire tout court all'organo di vertice la responsabilità per l’inosservanza della normativa di sicurezza, occorrendo sempre esaminare l'apparato organizzativo che si è costituito”); che sotto un profilo sostanziale, con riguardo all’effettiva organizzazione produttiva, di cui il datore di lavoro si dota e di cui risponde; senza tralasciare la sua matrice funzionale, quale minimo comun denominatore delle definizioni di datore di lavoro e di lavoratore in materia di sicurezza, sostanzialmente riconducibili, rispettivamente, alla responsabilità dell’organizzazione produttiva ed all’inserimento funzionale della prestazione lavorativa all'interno dell'organizzazione del datore di lavoro.

L’aspetto organizzativo rileva, inoltre, anche ai fini della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche dipendenti da reato, introdotta nel nostro ordinamento, con il d.lgs. 08.06.2001, n. 231, in esecuzione della Convenzione OCSE del 17.12.1997, sulla lotta alla corruzione dei pubblici ufficiali stranieri e del secondo protocollo del 19.6.1997, sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità Europee: entrambi atti che prevedono, appunto, la responsabilità della persona giuridica, in linea con quanto già stabilito in molti Stati e nell'elaborazione di reati in sede internazionale (Unione Europea, Consiglio d'Europa, Nazioni Unite).

In tema di responsabilità da reato degli enti, infatti, la Cassazione ha osservato che la colpa di organizzazione, da intendersi in senso normativo, è fondata sul rimprovero derivante dall’inottemperanza, da parte dell’ente, dell’obbligo di adottare le cautele, organizzative e gestionali, necessarie a prevenire la commissione dei reati previsti tra quelli idonei a fondare la responsabilità del soggettivo collettivo, dovendo tali accorgimenti essere consacrati in un documento che individua i rischi e delinea le misure atte a contrastarli (Cass. Pen., SS.UU., sent. 18.09.2014, n. n. 38343).

Il d.lgs. n. 231/2001 rappresenta, infatti, secondo la giurisprudenza, “l’epilogo di un lungo cammino volto a contrastare il fenomeno della criminalità d'impresa, attraverso il superamento del principio, insito nella tradizione giuridica nazionale, societas delinquere non potest”. Tale normativa, “per quanto farraginosa e - sotto alcuni aspetti - problematica, evidenzia una fisionomia ben definita, con l’introduzione nel nostro ordinamento di uno specifico ed innovativo sistema punitivo per gli enti collettivi, dotato di apposite regole quanto alla struttura dell’illecito, all’apparato sanzionatorio, alla responsabilità patrimoniale, alle vicende modificative dell’ente, al procedimento di cognizione e a quello di esecuzione, il tutto finalizzato ad integrare un efficace strumento di controllo sociale" (v. Trib. Trani, sez. dist. Molfetta, sent. 11.01.2010).

Originariamente previsto per una ristretta categoria di reati, il d.lgs. n. 231/2001 ha visto successivamente e gradualmente ampliato il numero e la tipologia di reati presupposti dai quali deriva la responsabilità della persona giuridica, fino ad arrivare, con la l. n. 123/2007 (art. 9), all’introduzione dell’omicidio colposo e delle lesioni colpose gravi o gravissime commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela dell'igiene e della salute sul lavoro, mediante inserimento dell’art. 25-septies, poi riformulato dall’art. 300 del d.lgs. n. 81/2008.

Come ricordato in giurisprudenza, le ragioni dell’estensione devono essere individuate nella crescente capacità di aggressione della salute e della vita dei lavoratori dettata dalle risorse tecnologiche, di fronte alle quali lo strumento della responsabilità penale delle persone fisiche si rivela inadeguato anche per la scarsa elasticità nell'adattamento alle nuove forme di criminalità germinanti nella realtà d'impresa.

Così, partendo dalla constatazione che i reati di cui si discute rappresentano spesso l’espressione di scelte non individuali ed autonome ma strumentali rispetto agli obiettivi societari, sì è cercato di aggredire le cause strutturali degli infortuni sul lavoro ed è stata perciò avvertita la necessità di introdurre temperamenti volti a riaffermare un bilanciamento degli interessi contrapposti presenti nelle strutture complesse ed a proporre modelli di recupero della legalità attraverso il contenimento del rischio di lesione dei beni giuridici oggetto di tutela.

Ai sensi dell’art. 5, d.lgs. n. 231/2001, l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da persone: a) che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a); viceversa, l’ente non ne risponde se le suddette persone hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.

Seppure la responsabilità creata dalla norma debba considerarsi come un "tertium genus" nascente dall’ibridazione della responsabilità amministrativa con principi e concetti propri della sfera penale, la sanzione a carico della persona giuridica postula, innanzitutto, il presupposto oggettivo che il reato sia commesso, nell'interesse dell'ente, da persone che agiscono al suo interno, con esclusione, quindi, dei fatti illeciti posti in essere nel loro interesse esclusivo, per un fine personalissimo o di terzi.

In pratica, come precisato in giurisprudenza, per escludere la responsabilità dell’ente deve trattarsi di “condotte estranee alla politica di impresa”. Al riguardo, osserva la Cassazione, echeggiando la Relazione alla legge, “l’interesse, quanto meno concorrente, della società va valutato ex ante; mentre il vantaggio richiede una verifica ex post”, scartando così “la definizione di endiadi attribuita da parte della dottrina alla locuzione” e chiarendo che “non può sfuggire che i due vocaboli esprimono concetti giuridicamente diversi: potendosi distinguere un interesse "a monte" della società ad una locupletazione - prefigurata, pur se di fatto, eventualmente, non più realizzata - in conseguenza dell'illecito, rispetto ad un vantaggio obbiettivamente conseguito all’esito del reato, perfino se non espressamente divisato ex ante dall’agente”. Che i sostantivi siano individuati in via alternativa, rileva la giurisprudenza, lo si ricava anche dal successivo art. 12 che, nell’enucleare i casi di riduzione della sanzione pecuniaria, tratteggia quale ipotesi attenuata quella del fatto commesso dall’autore nel prevalente interesse proprio o di terzi se l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo.

Ne consegue, pertanto, che ben ci può essere responsabilità in presenza di un interesse, anche senza vantaggio; tuttavia, pur in presenza di un vantaggio, l’ente non è chiamato a risponderne in assenza di un reato commesso anche nel suo interesse, così come previsto dal c. 2, dell’art. 5.

A tale proposito, precisa la giurisprudenza, l’interesse ed il vantaggio possono anche essere non patrimoniali, purché siano concretamente ed obiettivamente individuabili. L’osservazione trae sostegno dalla constatazione che, allorquando il legislatore ha voluto valorizzare il profilo economico, lo ha fatto espressamente con l’utilizzo del termine "profitto", come si apprezza a proposito delle sanzioni interdittive nell’art. 13 e con riguardo alla confisca nell’art. 15 e nell’art. 19. La condotta, dunque, può integrare il reato anche laddove consenta alla persona giuridica di conseguire una utilità, ancorché da essa non ne conseguano benefici strettamente economici o patrimoniali.

Come chiarito in giurisprudenza, “l’autonoma responsabilità amministrativa dell’ente si basa su fatto proprio di quest’ultimo imputabile non a titolo oggettivo, sebbene per colpa di organizzazione, dovuta alla omessa predisposizione di un insieme di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione del reato presupposto: è il riscontro di tale deficit organizzativo che consente l’imputazione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo” (v. Trib. Novara, sent. 26.10.2010, secondo cui, infatti, “in forza del rapporto d’immedesimazione organica con il suo dirigente apicale, l’ente risponde per fatto proprio, senza involgere minimamente il divieto di responsabilità penale per fatto altrui posto dall'art. 27 Cost.”).

Pertanto, la sussistenza dell’interesse (considerato dal punto di vista soggettivo) o del vantaggio (considerato dal punto di vista oggettivo) è sufficiente ad integrare la responsabilità della persona giuridica fino a quando sussiste l’immedesimazione organica tra dirigente apicale ed ente; viceversa, laddove il reato presupposto sia stato commesso dal singolo nell’interesse esclusivo proprio o di terzi, non riconducibile neppure parzialmente all’interesse dell’ente, tale rapporto di immedesimazione viene meno e nessuna responsabilità può essere imputata all’ente.

Al di fuori di tale ipotesi, il d.lgs. n. 231/2001 prevede che l’ente, per non rispondere a titolo di responsabilità amministrativa, debba provare di avere adottato le misure necessarie ad impedire al proprio rappresentante la commissione di reati del tipo di quello realizzato; ne consegue l’inversione dell’onere della prova e la necessità che l’ente fornisca, innanzitutto, la dimostrazione che l’organo dirigente ha adottato ed efficacemente attuato, prima della commissione del fatto, modelli di organizzazione e dì gestione idonei a tal fine (v. art. 6, lett. a), d.lgs. n. 231/2001).

La giurisprudenza ha così spiegato che la mancata adozione di tali modelli, “in presenza dei mentovati presupposti oggettivi e soggettivi, è sufficiente a costituire quella "rimproverabilità" posta a fondamento della fattispecie sanzionatoria, costituita dall’omissione delle previste doverose cautele organizzative e gestionali idonee a prevenire talune tipologie criminose” (di cui alla Relazione ministeriale al decreto legislativo), precisando che “in tale concetto di "rimproverabilità" è implicata una nuova forma normativa di colpevolezza per omissione organizzativa e gestionale, avendo il legislatore ragionevolmente tratto dalle concrete vicende occorse in questi decenni, in ambito economico e imprenditoriale, la legittima e fondata convinzione della necessità che qualsiasi complesso organizzativo costituente un ente adotti modelli organizzativi e gestionali idonei a prevenire la commissione di determinati reati, che l’esperienza ha dimostrato funzionali ad interessi strutturati e consistenti, giacché le ‘principali e più pericolose manifestazioni di reato sono poste in essere da soggetti a struttura organizzativa complessa’ (v. Trib. Novara, 26.10.2010; Cass. Pen., sez. 6, sent. 17.09.2009, n. 36083).

Si tratta, in definitiva, di una colpa organizzativa e gestionale presunta, stante l’inversione dell’onere della prova, che l’ente può vincere adottando ed efficacemente attuando modelli organizzativi idonei a prevenire i reati della specie di quello verificatosi; o meglio, la loro adozione ed attuazione, se preventiva, costituisce “causa esimente” dalla responsabilità dell’ente mentre, se post factum ma prima dell’apertura del dibattimento di primo grado, può garantire all’ente sia una riduzione della sanzione pecuniaria, sia, a determinate condizioni, l’inoperatività delle sanzioni interdittive. In tal modo l’ente non rimane più insensibile al rispetto delle norme di prevenzione; il contrario avveniva in passato allorquando le ricadute erano unicamente sul singolo anche se l’attività illecita era stata realizzata per procurare giovamento all’ente.

Nonostante la rilevanza attribuita ai modelli organizzativi, il legislatore, tuttavia, non ne ha imposto ex lege ladozione, così come confermato dalla Cassazione che, chiamata a pronunciarsi su di una decisione relativa ad una fattispecie nella quale il giudice di merito aveva imposto all’impresa di dotarsi del modello organizzativo, ha affermato che un siffatto provvedimento non è giustificato dal d.lgs. n. 231/2001, il quale non “prevede alcuna forma di imposizione coattiva dei modelli organizzativi, la cui adozione, invece, è sempre spontanea in quanto è proprio la scelta di dotarsi di uno strumento organizzativo in grado di eliminare o ridurre il rischio di commissione di illeciti da parte della società a determinare in alcuni casi la esclusione della responsabilità, in altri un sollievo sanzionatorio e che, nella fase cautelare, può portare alla sospensione o alla non applicazione delle misure interdittive” (v. Cass. Pen., sent. n. 32627/2006). Tuttavia, come affermato in una recente circolare della Guardia di Finanza n. 83607/2012, “non può non rilevarsi come l’adozione dei modelli in rassegna possa essere considerata come una misura ormai praticamente necessaria, e dunque, obbligatoria nei fatti, se non altro per beneficiare del c.d. ‘scudo protettivo’, dal momento che se l’ente nell'esercizio della sua libera discrezionalità decide di non dotarsi di un modello di organizzazione, esso non potrà avvalersi della c.d. ‘esimente’ dalla responsabilità derivante dall’adozione di un valido modello organizzativo”.

A tale proposito si osserva come la mera facoltà, per l’ente, di adozione del modello di organizzazione, gestione e controllo, si trasformi in “sostanziale ed irrinunciabile” obbligo, da parte dell’organo dirigente dell’ente, così come emerge da un’interessante sentenza di un giudice di merito, il quale ha riconosciuto la responsabilità civile di un amministratore executive nei confronti della società ex art. 2392 c.c. per non aver assolto lonere (dovere) di attivare il Consiglio di Amministrazione a valutare l’adozione di un adeguato modello di prevenzione del rischio commissione dei reati, in presenza di reati che l’adozione del modello avrebbe potuto impedire (v. Trib. Milano, sent. n. 1774/2008).

Di recente, peraltro, la giurisprudenza ha riconosciuto che, “in materia di responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, l’adozione, da parte dell’ente, di un modello organizzativo idoneo a prevenire il reato non costituisce il contenuto di un obbligo, in ipotesi sanzionato con la responsabilità amministrativa. Al contrario, l'adozione e la efficace attuazione del modello integrano una condotta esimente dalla responsabilità amministrativa per il caso in cui, nonostante il compimento di tale condotta da parte dell'ente, si verifichi il reato. Ne consegue che l'omessa adozione del modello non può di per sé essere addebitata all'ente per costituire la ragione unica della sua responsabilità” (Trib. Tolmezzo, GUP Massarelli, 03.02.2012).

La giurisprudenza, inoltre, si è preoccupata di distinguere il modello organizzativo, dal documento di valutazione dei rischi, chiarendo che il sistema introdotto dal d.lgs. n. 231/2001 impone alle imprese di adottare un modello organizzativo diverso e ulteriore rispetto a quello previsto dalla normativa antinfortunistica, onde evitare in tal modo la responsabilità amministrativa (v. in particolare Trib. Trani – sez. Molfetta - giudice Gadaleta, sent. 11.01.2010).

Non a caso, precisa la giurisprudenza, mentre il documento di valutazione dei rischi è redatto a mente degli artt. 26 e 28 del d.lgs. n. 81/2008, il modello di organizzazione e gestione del d.lgs. n. 231/2001 è contemplato dall’art. 30 del d.lgs. n. 81/2008, segnando così una distinzione non solo nominale ma anche funzionale. Si osserva, peraltro, che l’articolo da ultimo citato riprende l’articolazione offerta dal d.lgs. n. 231/2001, ponendo in evidenza anche i seguenti aspetti cruciali, che differenziano il modello da un mero documento di valutazione di rischi: l) la necessaria vigilanza sull’adempimento degli obblighi, delle procedure e delle istruzioni di lavoro in sicurezza; 2) le periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure adottate; 3) la necessità di un idoneo sistema di controllo sull’attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo della condizioni di idoneità delle misure adottate; 4) l’individuazione di un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello.

Il modello immaginato dal legislatore in questa materia, pertanto, è un modello ispirato a distinte finalità che debbono essere perseguite congiuntamente: quella organizzativa, orientata alla mappatura ed alla gestione del rischio specifico nella prevenzione degli infortuni; quella di controllo sul sistema operativo, onde garantirne la continua verifica e l’effettività.

Non è possibile che una semplice analisi dei rischi valga anche per gli obiettivi del d.lgs. n. 231/2001: anche se sono possibili parziali sovrapposizioni, è chiaro che il modello teso ad escludere la responsabilità societaria è caratterizzato anche dal sistema di vigilanza che, pure attraverso obblighi diretti ad incanalare le informazioni verso la struttura deputata al controllo sul funzionamento e sull’osservanza, culmina nella previsione di sanzioni per le inottemperanze e nell’affidamento di poteri disciplinari al medesimo organismo dotato di piena autonomia. Queste sono caratteristiche imprescindibili del modello organizzativo, cui vanno aggiunte anche le previsioni, altrettanto obbligatorie nel modello gestionale del d.lgs. n. 231/2001, ma non presenti nel documento di valutazione dei rischi, inerenti alle modalità di gestione delle risorse finanziarie idonee ad impedire la commissione dei reati.

Peraltro, mentre il documento di valutazione di un rischio è rivolto anche ai lavoratori per informarli dei pericoli incombenti in determinate situazioni all’interno del processo produttivo e quindi è strutturato in modo da garantire a tali destinatari una rete di protezione individuale e collettiva perché addetti concretamente a determinate mansioni, il modello del d.lgs. n. 231/2001 deve rivolgersi non tanto a tali soggetti che sono esposti al pericolo di infortunio, bensì principalmente a coloro che, in seno all’intera compagine aziendale, sono esposti al rischio di commettere reati colposi e di provocare, quindi, in tale contesto, le lesioni o la morte mediante la violazione della disciplina antinfortunistica, sollecitandoli ad adottare standard operativi e decisionali predeterminati, in grado di scongiurare una responsabilità dell’ente.

Così, dall’analisi dei rischi del ciclo produttivo l’attenzione viene spostata anche ai rischi del processo decisionale finalizzato alla prevenzione; dalla focalizzazione delle procedure corrette del ciclo produttivo, per la parte riferibile alla sfera esecutiva dei lavoratori, si passa anche alla cruciale individuazione dei responsabili dell’attuazione dei protocolli decisionali, finanziari e gestionali occorrenti per scongiurare quei rischi. Ciò al fine di evitare la commissione di reati in materia di infortuni sul lavoro, da parte dei garanti dell’incolumità fisica dei lavoratori.

Compito precipuo del giudice, pertanto, non è solo quello di prendere atto dell’esistenza di un modello o della sua rispondenza ai codici di comportamento, redatti dalle associazioni rappresentative degli enti ed esaminati dalle autorità pubbliche; bensì quello di valutarne, in primo luogo, l’idoneità, accertando se l’analisi dei rischi sia stata integrale, se le procedure tracciate spieghino la loro utilità sul piano preventivo e se il sistema sia caratterizzato dai meccanismi correttivi, affidati ad un organismo di controllo munito anche di poteri disciplinari efficaci, senza che con ciò si possa così giungere a denunciare una intrusione nelle dinamiche interne della società.

Il reale pericolo, manifestato chiaramente nella relazione al d.lgs. n. 231/2001 ed anche da autorevole dottrina, è infatti che il modello organizzativo e gestionale divenga una "operazione di mera facciata", priva di reale efficacia preventiva, evitando che il chiaro proposito del legislatore (di ottenere una reale vocazione preventiva dei modelli per minimizzare il rischio di reato nelle organizzazioni societarie), sia vanificato perché in sostanza interpretato come un rituale di portata meramente burocratica. Una volta stabilito che il modello adottato sia effettivamente idoneo, la valutazione deve essere spostata sulla fase della implementazione, ossia della attuazione e della verifica della sua concreta efficacia.

Il d.lg. n. 231/2001, peraltro, fonda il rimprovero nei confronti della persona giuridica ad un deficit dell’organizzazione o dell’attività rispetto ad un modello di diligenza esigibile dalla persona giuridica nel suo insieme. La responsabilità da reato degli enti diviene, pertanto, il punto elettivo di emersione di un criterio soggettivo di imputazione, distinto ed autonomo dalla colpevolezza dell’autore del reato che, facendo obbligatoriamente riferimento all’intera compagine aziendale e non più ai datori di lavoro uti singuli, si struttura come “colpa di organizzazione”.

Come già detto, la colpa di organizzazione non si risolve, tuttavia, in una colpevolezza in re ipsa in quanto l’ente può essere esonerato dalla responsabilità qualora sia in grado di provare l’adozione e l’efficace attuazione di misure di organizzazione, gestione e controllo idonee a prevenire la commissione di illeciti della medesima specie di quello verificatosi. Se, pertanto, l’impianto tradizionale del diritto penale del lavoro si fonda su una fitta trama di norme cautelari che devono essere osservate dal datore di lavoro, dai suoi delegati, dai dirigenti e dai preposti (oltre che dal lavoratore), nel diritto punivo degli enti assume rilievo decisivo l’attività di prevenzione posta in essere dalla persona giuridica nel suo complesso.

L’adozione del modello organizzativo consente, pertanto, all’ente di vincere la presunzione di responsabilità posta dall’art 6, dimostrando di non aver in alcun modo agevolato la consumazione del reato.

Il modello organizzativo delineato dal d.lg. n. 231, pertanto, è aggiuntivo e non sostitutivo del sistema di cautele vigente nel diritto penale del lavoro. La normativa lavoristica disciplina, infatti, varie e complesse procedure intese a conseguire l’obiettivo di garantire il maggior livello di sicurezza nei luoghi di lavoro e ciascuno dei passaggi intermedi di tali procedimenti costituisce oggetto di un obbligo distintamente sanzionato. Così, il documento di valutazione dei rischi e le figure analoghe di protocolli di prevenzione presenti nella legislazione penale antinfortunistica sono intesi a garantire la salute dei lavoratori e la sicurezza dei luoghi di lavoro mediante la valutazione e la neutralizzazione dei rischi derivanti dai processi produttivi adottati all’interno dell’impresa; mentre compliance programs, oltre a costituire per l’ente solo un onere e non già un obbligo, non intendono evitare la verificazione di infortuni sul lavoro mediante la neutralizzazione delle fonti di rischio nel processo produttivo, bensì mediante l’enucleazione di un sistema di regole di diligenza, esigibile dalla persona giuridica nel suo insieme, che eviti condotte attive od omissive da cui possano derivare infortuni sul lavoro.

Nel sistema del diritto punitivo degli enti, infatti, il reato non rileva in sé (se non quale presupposto della responsabilità dell’ente), ma è considerato sintomo di una disorganizzata e lacunosa gestione aziendale e la colpevolezza viene integrata dalla mancata adozione di misure di prevenzione dei reati oppure dall’avere apprestato misure inadeguate.

La valutazione del rischio secondo il paradigma del d.lgs. n. 81/2008 e l’osservanza delle regole di prevenzione degli infortuni sul lavoro dettate nel diritto penale delle persone fisiche è, pertanto, certamente funzionale all’effettiva esecuzione di un adeguato modello organizzativo, ma non esaurisce le ulteriori condizioni perché sia adottato un adeguato compliance program ai sensi del d.lgs. n. 231/2001.

Invero, il dovere di organizzazione dell’ente si distingue dalla regola cautelare in quanto non è funzionale alla prevenzione di uno specifico evento, ma è finalizzato a regolare le posizioni individuali nel contesto dell’impresa e a progettare le modalità di gestione del rischio e di assunzione delle determinazioni e dei presidi atti a contenere il rischio-reato. Il dovere di organizzazione rappresenta dunque, nel contesto della sicurezza sul lavoro, uno dei presupposti dell’esistenza e della creazione delle regole cautelari dirette alle persone fisiche.

La normativa prevenzionale e la normativa concernente la responsabilità dell’ente devono quindi saldarsi in una reciproca interazione, pur restando inalterate le peculiarità di ognuna di esse: la colpa (della persona fisica) per l’evento non si confonde con il rimprovero (all’ente) per il mancato controllo dell’agente, poiché quest’ultimo è un rimprovero per la carenza nel sistema di vigilanza, funzionale ad assicurare il rispetto della normativa prevenzionale; un rimprovero correttamente riferito all’ente in quanto tale.

Da evitare, quindi, è il rischio di equiparazione della realizzazione del reato alla prova dell’inidoneità del modello organizzativo adottato, muovendo dal presupposto che proprio la commissione del reato dimostra l’inidoneità del Modello.

 

Giurisprudenza di riferimento:

Cass. Pen., sez. 4, sent. 07.09.2017, n. 40712; Cass. Pen., sez. 4, sent. 18.01.2017, n. 2438; Cass. Pen., sez. 4, sent. 12.12.2016, n. 52511; Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.10.2016, n. 43271; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.09.2016, n. 40033; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.09.2016, n. 39024; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.09.2016, n. 39023; Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.08.2016, n. 33629; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.07.2016, n. 31210; Cass. Pen., sez. 4, sent. 08.07.2016, n. 28557; Cass. Pen., sez. 6, sent. 07.07.2016, n. 28299; Cass. Pen., sez. 4, sent. 14.06.2016, n. 24708; Cass. Pen., sez. 4, sent. 14.06.2016, n. 24697; Trib. Catania, sez. 4, sent. 14.04.2016, n. 2133; Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.01.2016, n. 2544; Cass. Pen., sez. 2, sent. 22.12.2015, n. 50185; Cass. Pen., sez. 5, sent. 21.12.2015, n. 50102; Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.12.2015, n. 48269; Corte d’App. Milano, sez. 5 pen., sent. 26.11.2015, n. 8128; Cass. Pen., sez. 1, sent. 29.10.2015, n. 43689; Trib. Milano, sent. 28.10.2015; Cass. Pen., sez. 4, sent. 16.07.2015, n. 31003; Cass. Pen., sez. 7, sent. 10.07.2015, n. 29333; Cass. Pen., sez. 6, sent. 30.04.2015, n. 18257; Cass. Pen. sez. 4, sent. 28.04.2015, n. 18073; Trib. Trento, sent. 18.03.2015; Cass. Pen. sez. 4, sent. 25.02.2015, n. 8531; Trib. Milano, 6 sez. pen., sent. 24.09.2014, n. 7017; Cass. Pen., SS.UU., sent. 18.09.2014, n. 38343; Corte cost., sent. 18.07.2014, n. 218; Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.09.2014, n. 38100; Cass. Pen., sez. 5, sent. 04.03.2014, n. 10265; Cass. Pen., sez. 5, sent. 30.01.2014, n. 4677; Cass. Pen., sez. 4, sent. 29.01.2014, n. 4084; Cass. Pen., sez. 6, sent. 24.01.2014, n. 3635; Cons. di Stato, sez. 5, sent. 12.11.2013, n. 5375; Cass. Pen., sez. 4, sent. 16.10.2013, n. 42503; Corte d’App. Palermo, sez. 3 pen., sent. 26.09.2013; Trib. di Gorizia, GIP, ord. 22.07.2013; Trib. Trapani, sez. lav., sent. 26.06.2013, n. 2892; Cass. Pen., sez. 6, sent. 05.06.2013, n. 24559; Trib. Torino, Prima Corte d’Assise d’App., sent. 27.05.2013, n. 6; Cass. Pen., sez. 5, sent. 09.05.2013, n. 20060; Cass. Pen., sent. 24.04.2013, n. 18603; Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.03.2013, n. 11442; Trib. Milano, sez. 4 pen., sent. 04.02.2013, n. 13976; Trib. Venezia, sez. Portogruaro, sent. 01.02.2013; Cass. Pen., sez. 5, sent. 29.01.2013, n. 4324; Trib. Torino, sez. I pen., sent. 10.01.2013; Cass. pen., sez. 4, sent. 21.12.2012, n. 49821; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.10.2012, n. 41063; Cass. Pen., sez. 5, sent. 15.10.2012, n. 40380; Cass. Pen., sez. 6, sent. 26.09.2012, n. 37119; Cass. Pen., sez. 2, sent. 20.09.2012, n. 35999; Cass. Pen., sez. 2, sent. 10.09.2012, n. 34505; Trib. Monza, sez. pen., sent. 03.09.2012; Cass. Pen., sez. 2, sent. 19.07.2012, n. 29397; Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sez. II, sent. 12.07.2012, Giovanardi, C-79/11; Corte d’App. Milano, sez. 2 pen., sent. 18.06.2012 n. 1824; Cass. Pen., sez. 3, sent. 30.05.2012, n. 25359; Trib. Brescia, sez. 2 pen., sent. 23.05.2012, n. 1526; Corte di Giustizia dell’Unione Europea, sez. 2, C-79/11, Giovanardi, conclusioni avvocato generale Sharpston, 15.05.2012; Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.05.2012, n. 16892; Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.05.2012, n. 16888; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.03.2012, n. 10702; Trib. Milano, GIP Salemme, ord. 08.03.2012; Trib. Tolmezzo, GUP Massarelli, sent. 03.02.2012, n. 18; Corte d’App. Brescia, sez. 2 pen., sent. 21.12.2011; Trib. Torino, Seconda Corte d’Assise d’App., sent. 14.11.2011, n. 31095; Trib. Cagliari, GUP Altieri, sent. 13.07.2011, n. 1188; Cass. Pen., sez. 4, sent. 06.06.2011 n. 22334; Cass. Pen., sez. 5, sent. 20.06.2011, n. 24583; Cass. Pen., sez. 4, sent. 26.04.2011, n. 16311; Cass. Pen., sez. 4, sent. 10.02.2011, n. 5040; Trib. Firenze, GIP Monti, ord. 09.02.2011; Tar Sicilia, sez. 3, sent. 04.02.2011, n. 227; Trib. Milano, GUP D’Arcangelo, sent. 03.01.2011; Trib. Novara, GUP Pezone, sent. 26.10.2010; Trib. Pinerolo, sent. 23.09.2010; Cass. Pen., sez. feriale pen., sent. 26.08.2010, n. 32357; Cass. Pen., sez. 6, sent. 16.07.2010, n. 27735; Trib. Trani, sez. dist. Molfetta, sent. 11.01.2010; Trib. Milano, GIP Manzi, sent. 17.11.2009; Cass. Pen., sez. 6, sent. 17.09.2009, n. 36083; Trib. Lucera, sent. 21.07.2009; Trib. Milano, GIP Vanore, ord. 23.04.2009; Cass. Pen., sez. 2, sent. 10.04.2009, n. 15641; Cass. Pen., sez. 5, sent. 20.02.2009, n. 7718; Trib. Milano, sez. 8 civ., sent. 13.02.2008, n. 1774

 

4. Responsabilità del datore di lavoro in rapporto con gli altri soggetti titolari di posizioni di garanzia (dirigenti, preposti, lavoratori, committente, responsabile dei lavori, coordinatore per la sicurezza) e con il RSPP

Come noto, in giurisprudenza è consolidato il principio secondo cui, qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è per intero destinatario dell'obbligo di tutela impostogli dalla legge fin quando si esaurisce il rapporto che ha legittimato la costituzione della singola posizione di garanzia, per cui l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile ad ognuno dei titolari di tale posizione (così anche Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.02.2012, n. 18826, in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto la responsabilità del datore di lavoro per il reato di lesioni colpose nonostante fosse stata dedotta l'esistenza di un preposto di fatto).

Giova, infatti, ribadire che in tema di omicidio colposo, allorquando l'obbligo di impedire l'evento ricada su più persone che debbano intervenire o intervengano anche in tempi diversi, il nesso di causalità tra la condotta omissiva (o commissiva) del titolare di una posizione di garanzia non viene meno per effetto del mancato intervento da parte di un altro soggetto, parimenti destinatario dell'obbligo di impedire l'evento, configurandosi, in tale ipotesi, un concorso di cause ai sensi dell'art. 41, c. 1, c.p., di talché allorquando il decesso della vittima sia determinato dalla sommatoria delle condotte omissive ascrivibili a diversi garanti è configurabile il nesso causale tra l'evento letale e ciascuna delle riscontrate omissioni, essendo ognuna di esse essenziale alla sua produzione (Cass. Pen., sez. 4, sent. 15.12.2015, n. 49349 e, in tal senso, anche Cass. Pen., sez. 4, sent. 08.06.2015, n. 24455; Cass. Pen., sez. 4, sent. 14.01.2014, n. 1194; Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.10.2012, n. 37992).

E ancora, che a carico del datore di lavoro, ai sensi della normativa di cui al d.P.R. n. 547/1955 (artt. 391 e 392) e di quella generale in materia di sicurezza aziendale (d.lgs. n. 626/1994, art. 4) ed anche in riferimento alla norma c.d. "di chiusura del sistema" di cui all’art. 2087 c.c., sussiste un obbligo di controllo dell'osservanza da parte dei singoli lavoratori delle norme vigenti e delle disposizioni e procedure aziendali di sicurezza. In altre parole, il datore di lavoro è costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro, con l'ovvia conseguenza che, ove egli non ottemperi agli obblighi di tutela, l'evento lesivo correttamente gli viene imputato in forza del meccanismo reattivo previsto dall'art. 40 c.p., c. 2 (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.09.2014, n. 36452). La fonte dell'obbligo giuridico di impedire l'evento, menzionato nel capoverso dell'art. 40 c.p., può consistere anche nella "posizione di garanzia" assunta di fatto nei confronti di altra persona, che implica l'obbligo giuridico di comportarsi allo stesso modo di come sarebbe stato obbligato a comportarsi il soggetto tenuto dall'ordinamento, a tali funzioni di garanzia.

Per quanto riguarda la posizione di responsabilità delle figure intermedie esistenti in azienda la Suprema Corte ha preso spunto, in occasione della sentenza della Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.10.2010, n. 38111, per precisare che, quando le disposizioni di legge in materia di salute e sicurezza sul lavoro hanno individuato le responsabilità delle varie figure di sicurezza nell’ambito delle proprie competenze, con l'espressione "competenze" hanno inteso riferirsi alle posizioni occupate da questi soggetti nell'ambito dell'impresa stessa in base all'effettiva ripartizione di incarichi tra i datori di lavoro (sui quali precipuamente grava l'onere dell'apprestamento e dell'attuazione di tutti i necessari accorgimenti antinfortunistici), i dirigenti, cui spettano poteri di coordinamento e di organizzazione in uno specifico settore operativo o in tutte le branche dell'attività aziendale, ed i preposti, cui competono poteri di controllo e di vigilanza.

Tra i destinatari di una posizione di garanzia, già il d.lgs n. 626/1994 includeva anche il lavoratore. La fonte di tale assunzione, nel campo specifico della sicurezza sul lavoro, si rinviene nella disposizione di cui al d.lgs. n. 626/1994, art. 5, cc. 1 e 2, lett. b), che ha introdotto un nuovo principio: la trasformazione del lavoratore da semplice creditore di sicurezza nei confronti del datore di lavoro a suo compartecipe nell'applicazione del dovere di fare sicurezza, nel senso che il lavoratore diventa garante, oltre che della propria sicurezza, anche di quella dei propri compagni di lavoro o di altre persone presenti, quando si trovi nella condizione, in ragione di una posizione di maggiore esperienza lavorativa, di intervenire onde rimuovere le possibili cause di infortuni sul lavoro (cfr. Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.09.2014, n. 36452).

Titolare di posizione di garanzia, secondo giurisprudenza costante, è anche il capo cantiere, il quale, anche in presenza di una pluralità di posizioni di garanzia è destinatario diretto dell'obbligo di verificare che le concrete modalità di esecuzione delle prestazioni lavorative all'interno del cantiere rispettino le normative antinfortunistiche (così Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.01.2014, n. 974, che ha censurato la decisione con cui il giudice di appello, in riforma della decisione di primo grado, aveva escluso la responsabilità - in ordine al reato di omicidio colposo – di un capo cantiere, rilevando che, in presenza di più posizioni di garanzia, non poteva pretendersi da un sottoposto, quale il capo cantiere, l'esercizio di compiti di controllo spettanti a più qualificati professionisti e omettendo di verificare se, in concreto, fosse esigibile da parte del predetto capo cantiere, il controllo sulla adeguatezza del piano di sicurezza, rispetto alle opere da realizzare).

Analogamente, anche il capo-reparto è, in via di principio generale, persona adatta ad individuare la corretta applicazione delle norme antinfortunistiche, o quanto meno di quelle di comune prudenza, per la prevenzione di incidenti in cui possono essere coinvolti i dipendenti (ovvero terze persone estranee ai lavori). E' sufficiente al riguardo richiamare il consolidato indirizzo interpretativo in giurisprudenza secondo cui "in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro chiunque, in qualsiasi modo, abbia assunto posizione di preminenza rispetto ad altri lavoratori, cosi da poter loro impartire ordini, istruzioni o direttive sul lavoro da eseguire, deve essere considerato automaticamente tenuto, ai sensi dell'art. 4 d.P.R. n. 547 del 1955, ad attuare le prescritte misure di sicurezza e a disporre e ad esigere che esse siano rispettate, a nulla rilevando che vi siano altri soggetti contemporaneamente gravati dallo stesso obbligo per un diverso e autonomo titolo". In tal senso Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.05.2012, n. 16888, la quale ha, altresì, rimarcato che la  presenza un ulteriore garante (quale un capo-cantiere o un capo-reparto), non ha alcun rilievo ai fini dell’accertamento della responsabilità in capo al datore di lavoro, il cui compito è molteplice e articolato, e va dalla istruzione dei lavoratori sui rischi di determinati lavori, e dalla necessità di adottare certe misure di sicurezza, alla predisposizione di queste misure: di tal che, ove dette misure consistano in particolari cose o strumenti, è necessario che questi strumenti siano messi a portata di mano del lavoratore. Si chiede, pertanto, al datore di lavoro di avere la cultura e la forma mentis del garante del bene costituzionalmente rilevante costituito dall’integrità del lavoratore; egli, perciò, non deve limitarsi ad informare i lavoratori sulle norme antinfortunistiche previste, ma deve attivarsi e controllare sino alla pedanteria, che tali norme siano assimilate dai lavoratori nella ordinaria prassi di lavoro. Sul punto, si richiama il principio consolidato in giurisprudenza, secondo cui "al fine di escludere la responsabilità per reati colposi dei soggetti obbligati ex art. 4 del d.P.R. 27 aprile 1955, n. 547 a garantire la sicurezza dello svolgimento del lavoro, non è sufficiente che tali soggetti impartiscano le direttive da seguire a tale scopo, ma è necessario che ne controllino con prudente e continua diligenza la puntuale osservanza".

Nel quadro delle molteplici posizioni di garanzia previste dalla normativa di settore al fine del rafforzamento del sistema della prevenzione e sicurezza del lavoratore, attraverso la sinergia di interventi di figure professionali che affiancano il datore di lavoro, assume rilievo, in particolare, la figura del coordinatore in materia di sicurezza e salute durante la realizzazione di un’opera, denominato anche coordinatore per l’esecuzione dei lavori, prevista dagli artt. 2 e 5 del d.lgs. n. 494/1996.

La previsione di tale figura, come osservato anche di recente in giurisprudenza (v. Cass. Pen., sez. 6, sent. 13.05.2016, n. 20068), si ricollega al riconoscimento, operato dal citato d.lvo, di specifici compiti nel settore della prevenzione degli infortuni sul lavoro in capo al committente, figura anch’essa prevista dal medesimo decreto come destinataria degli obblighi di protezione, che va ad affiancarsi a quella del datore di lavoro.

Normalmente è il datore di lavoro che riveste una posizione di vertice nel sistema della sicurezza, in quanto titolare del rapporto di lavoro e al contempo titolare dell’impresa esecutrice dei lavori, con compiti, quindi, organizzativi ed economici inerenti l’attività dell’impresa che lo vedono direttamente coinvolto anche nella predisposizione ed osservanza delle misure antinfortunistiche.

Nell’ottica di una pluralità di soggetti che concorrono alla sicurezza del lavoro, il d.lgs. n. 494/1996 introduce, affiancandola al datore di lavoro con i suoi collaboratori, la figura del committente. È ragionevole difatti che anche il committente, che assume l’iniziativa della realizzazione dell’opera, provvedendo a programmarla e a finanziarla anche se l’esecuzione venga affidata a terzi, assuma una quota di responsabilità in materia di prevenzione antinfortunistica collocandosi accanto al datore di lavoro nella titolarità degli obblighi di protezione, con la possibilità di demandarli ad altra figura, questa ausiliaria, del responsabile dei lavori, anziché occuparsene direttamente. Per gli aspetti tecnici delle competenze facenti capo al committente in materia antinfortunistica, lo stesso, o per lui il responsabile dei lavori, si avvale di figure specializzate distinte per la fase della progettazione e della realizzazione, che sono appunto il coordinatore per la salute e sicurezza in fase di progettazione e il coordinatore per la salute e sicurezza in fase di realizzazione.

Tali figure professionali devono essere dotate di particolari requisiti ed assolvono compiti delicati, quali, per il coordinatore in fase di progettazione, redigere il piano di sicurezza e di coordinamento e predisporre il fascicolo contenente le informazioni utili per la prevenzione e la protezione dai rischi (art. 4); per il coordinatore per la sicurezza in fase di esecuzione: 1) controllare l’applicazione, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni loro pertinenti contenute nel piano di sicurezza e coordinamento e la corretta applicazione delle relative procedure di lavoro; 2) verificare l’idoneità del piano operativo di sicurezza redatto dal datore di lavoro dell’impresa esecutrice come piano di dettaglio, ed assicurarne la coerenza col PCS; 3) adeguare il piano di coordinamento e sicurezza e il fascicolo di valutazione dei rischi in relazione all’evoluzione dei lavori e all’eventuali modifiche intervenute; 4) organizzare tra i datori di lavoro operanti nello stesso cantiere la cooperazione ed il coordinamento delle attività all’interno del cantiere; 5) infine segnalare al committente o al responsabile dei lavori le inosservanze delle disposizioni di legge riferite ai datori di lavoro o ai lavoratori autonomi, previa contestazione scritta alle imprese ed ai lavoratori autonomi interessati (art. 5, d.lgs. n. 494/1996).

Trattasi di figure, quelle dei coordinatori per la sicurezza, le cui posizioni di garanzia non si sovrappongono a quelle degli altri soggetti responsabili nel campo della sicurezza sul lavoro, ma ad esse si affiancano per realizzare, attraverso la valorizzazione di una figura unitaria con compiti di coordinamento e controllo, la massima garanzia dell’incolumità dei lavoratori. (v. anche Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.01.2013, n. 7443; Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.03.2008, n. 18472).

Senza dubbio, il ruolo centrale per ciò che attiene alla sicurezza del cantiere è affidato al datore di lavoro che organizza e gestisce la realizzazione dell’opera. Egli è gravato da plurimi, tipici obblighi che la legge specifica adeguatamente.
Per quanto riguarda il coordinatore per l’esecuzione, in quanto diretta promanazione del committente (anch’egli titolare di una posizione di garanzia ma non così pregnante e diretta come quella del datore di lavoro-appaltatore), la funzione costantemente riconosciutagli nelle pronunce della Suprema Corte, anche sulla base del contenuto dei compiti assegnatigli dalla normativa di settore (art. 5, d.lvo n. 494/1996), viene qualificata come funzione di "alta vigilanza", nettamente distinta da quella operativa riconosciuta invece al datore di lavoro e ai suoi collaboratori, ovvero il dirigente e il preposto (Cass. Pen., sez. 4, sent. 12.11.2015, n. 46991; Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.04.2010, n. 18149). Dalle attribuzioni contenute nella citata norma si evince difatti che al coordinatore non è demandata un’attività di controllo diretto e continuo del cantiere circa l’adozione ed osservanza delle misure di prevenzione previste nel PCS. La sua funzione è quella di correlarsi con i datori di lavoro delle imprese esecutrici e di vigilare sulla attuazione da parte di costoro delle misure e prescrizioni antinfortunistiche previste nel PCS e nel documento di valutazione dei rischi e sulle prescrizioni del piano di sicurezza (POS) di competenza del datore di lavoro.

In definitiva la sua opera di alta vigilanza è diretta non ai lavoratori, del cui operato se ne occupa direttamente il datore di lavoro (e i suoi ausiliari) vigilando sull’osservanza da parte di costoro delle misure di sicurezza, bensì è diretta ai datori di lavoro delle imprese esecutrici dei lavori fra i quali organizza anche il necessario coordinamento sempre in tema di sicurezza quando vi siano più imprese contemporaneamente operanti nel cantiere.

Non va dimenticato che la precipua preoccupazione del legislatore in materia di prevenzione degli infortuni è rivolta a quelle situazioni, spesso ricorrenti, nelle quali nel medesimo cantiere si trovino ad operare più imprese. Proprio a tal fine è prevista, la presenza, già nella fase progettuale, della figura del coordinatore per la progettazione. Analogamente, sempre nel caso di compresenza di più imprese, nella fase esecutiva è prevista la figura del coordinatore per l’esecuzione dei lavori.

Il legislatore ha mostrato, quindi, particolare consapevolezza dei rischi derivanti dall’azione congiunta di diverse imprese, e ne ha disciplinato la prevenzione, imponendo un penetrante reciproco obbligo di tutti i soggetti coinvolti di coordinarsi e di interagire con gli altri in modo attento e consapevole, affinché risulti sempre garantita la sicurezza delle lavorazioni. Come più volte affermato dalla Suprema Corte, infatti, la funzione di alta vigilanza del coordinatore per la sicurezza, nei termini sopra illustrati, riguarda la generale configurazione delle lavorazioni, e non anche il puntuale controllo, momento per momento, delle singole attività lavorative, che è demandato ad altre figure operative (datore di lavoro, dirigente, preposto); di conseguenza essa ha ad oggetto quegli eventi riconducibili alla configurazione complessiva, di base, della lavorazione e non anche gli eventi contingenti, scaturiti estemporaneamente dallo sviluppo dei lavori medesimi e, come tali, affidati al controllo del datore di lavoro e del suo preposto (Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.04.2010, n. 18149).

Sul punto v. anche Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.07.2015, n. 31223 secondo cui, mentre al responsabile dei lavori compete di svolgere tutti i compiti propri del datore di lavoro in materia di sicurezza, incluso quello di verificare l'adempimento, da parte del coordinatore per l'esecuzione dei lavori, degli obblighi di cui al d.lgs. n. 494/1996, art. 5, c. 1, lett. a), cui consegue l'obbligo di cooperare all'attuazione delle misure di prevenzione e protezione adottate in favore dei lavoratori, nei confronti di quali assume una posizione di garanzia in relazione ai rischi specifici connessi all'ambiente di lavoro nel quale essi sono chiamati ad operare; al coordinatore per l'esecuzione dei lavori, l’art. 5, d.lgs. n. 494/1996, attribuisce compiti specifici e precisi obblighi, che lo individuano quale titolare di un'autonoma posizione di garanzia, che si affianca a quelle degli altri soggetti destinatari della normativa antinfortunistica, tra cui il compito di vigilare sulla corretta osservanza, da parte delle imprese, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento e la scrupolosa applicazione delle procedure di lavoro, a garanzia dell'incolumità dei lavoratori; nonché di verificare l'idoneità del piano operativo di sicurezza e di assicurarne la coerenza rispetto al piano di sicurezza e coordinamento, di adeguare i piani in relazione all'evoluzione dei lavori ed alle eventuali modifiche intervenute, verificando che le imprese esecutrici adeguino i rispettivi POS.

Come noto, la designazione del coordinatore per la sicurezza non esonera, tuttavia, il committente o il responsabile dei lavori dalle responsabilità connesse alla verifica dell'adempimento degli obblighi di cui all'art. 4, c. 1, e art. 5, c. 1, lett. a). Come ribadito dalla citata Cassazione, con tali precisi riferimenti, il legislatore ha, non solo delineato in termini specifici gli obblighi dei committenti e dei responsabili dei lavori, ma ne ha anche ampliato i contenuti, disponendo che essi sono chiamati a svolgere una funzione di super-controllo, di verifica che i coordinatori adempiano agli obblighi su loro incombenti, quale quello consistente, non solo nell'assicurare, ma anche nel verificare il rispetto, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento di cui all'art. 12, nonché la corretta applicazione delle procedure di lavoro. Le modifiche apportate all'originario testo legislativo hanno, quindi, rafforzato la tutela dei lavoratori rispetto ai rischi connessi con l'esecuzione dei lavori, avendo delineato per i committenti e per i responsabili dei lavori posizioni di garanzia specifiche e notevolmente ampie, dovendo essi, sia pure in termini diversi da quelli previsti per i datori di lavoro e per i dirigenti e preposti, prendersi cura della salute e dell'integrità fisica dei lavoratori, accertarsi del costante e completo rispetto, da parte di costoro, dei presidi antinfortunistici e garantire, in caso di inadempienze, l'osservanza delle norme di sicurezza previste dalla legge. In proposito, è stato anche affermato in giurisprudenza che "... il committente ed il responsabile dei lavori devono verificare l'adempimento da parte dei coordinatori degli obblighi di assicurare e di verificare il rispetto, da parte delle imprese esecutrici e dei lavoratori autonomi, delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento, nonché la corretta applicazione delle procedure di lavoro. Ne consegue che al committente ed al responsabile dei lavori non è attribuito dalla legge il compito di verifiche meramente formali, ma una posizione di garanzia particolarmente ampia, comprendente l'esecuzione di controlli sostanziali ed incisivi su tutto quel che concerne i temi della prevenzione, della sicurezza del luogo di lavoro e della tutela della salute del lavoratore, accertando, inoltre, che i coordinatori adempiano agli obblighi sugli stessi incombenti in detta materia" (così Cass. Pen., sez. 4, sent. 16.04.2012, n. 14407).

In definitiva il datore di lavoro, nella materia infortunistica, deve allestire le misure di sicurezza, deve informare e formare il lavoratore in relazione alla normativa antinfortunistica, ma deve anche controllare l'osservanza da parte del lavoratore della normativa antinfortunistica. Ciò dovendolo desumere, in precedenza, dall'art. 4, d.lgs. n. 626/1994 e, ora, dall'art. 18, d.lgs. n. 81/2008, laddove si pone a carico del datore di lavoro non solo l’obbligo di allestire le misure di sicurezza, ma anche una serie di controlli, diretti o per interposta persona, atti a garantirne l'applicazione; ma dovendolo desumere soprattutto dalla norma generale di cui all'art. 2087 c.c., la quale dispone che l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro.

In questa prospettiva, quindi, il datore di lavoro, per escludere la propria responsabilità, non può far genericamente valere la presenza di altri titolari della posizione di garanzia, vuoi perché la compresenza di più titolari della posizione di garanzia non è evenienza che esclude, per ciascuno, il contributo causale nella condotta incriminata, vuoi perché, comunque, vale, per il datore di lavoro il disposto dell'art. 18, c. 3 bis, d.lgs. n. 81/2008 (che però già in precedenza trovava il suo fondamento nel generale disposto del richiamato art. 2087 c.c.), con il conseguente, inderogabile obbligo di vigilanza sul comportamento dei propri collaboratori, anche contitolari della posizione di garanzia (cfr. Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.12.2014, n. 52442).

Un discorso parte merita la casistica giurisprudenziale che si occupa del “rapporto” tra datore di lavoro e responsabile del servizio di prevenzione e protezione (RSPP), il quale, pur collaborando con il datore di lavoro nella gestione della sicurezza nei luoghi di lavoro, non è in alcun modo destinatario di una posizione di garanzia (v. Cass. Pen., SS.UU., sent. 18.09.2014, n. 38343; Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.12.2012, n. 49821; Cass. Pen., sez. 4, sent. 15.01.2010, n. 1841).

Sul punto la giurisprudenza (tra le più recenti, Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.07.2017, n. 33758 cui si rinvia anche per i precedenti ivi richiamati) è costante nel ritenere che, in materia di infortuni sul lavoro, il datore di lavoro non può andare esente da responsabilità, sostenendo esservi stata una delega di funzioni, per il solo fatto che abbia provveduto a designare il RSPP, trattandosi di figura, questa, non solo obbligatoriamente prescritta dal d.lgs. n. 81/2008, e ancor prima dall'art. 8, d.lgs. n. 626/1994, ma non confondibile con quella, del tutto facoltativa ed eventuale, del dirigente delegato all'osservanza delle norme antinfortunistiche ed alla sicurezza dei lavoratori. E ancora, che la figura del RSPP non corrisponde a quella meramente eventuale di delegato per la sicurezza, poiché quest'ultimo, destinatario di poteri e responsabilità originariamente ed istituzionalmente gravanti sul datore di lavoro, deve essere formalmente individuato ed investito del suo ruolo con modalità rigorose; che gli obblighi di vigilanza e di controllo gravanti sul datore di lavoro non vengono meno con la nomina del RSPP, il quale ha una funzione di ausilio diretta a supportare e non a sostituire il datore di lavoro nell'individuazione dei fattori di rischio nella lavorazione, nella scelta delle procedure di sicurezza e nelle pratiche di informazione e di formazione dei dipendenti; che la responsabilità penale del datore di lavoro non è esclusa per il solo fatto che sia stato designato il RSPP, trattandosi di soggetto che non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all'osservanza della normativa antinfortunistica e che agisce, piuttosto, come semplice ausiliario del datore di lavoro, il quale rimane direttamente obbligato ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio; che, in ogni caso, la mera designazione del RSPP non costituisce una delega di funzioni e non è dunque sufficiente a sollevare il datore di lavoro e i dirigenti dalle rispettive responsabilità in tema di violazione degli obblighi dettati per la prevenzione degli infortuni sul lavoro.

In conclusione, come ribadito in un’altra recente pronuncia della Suprema Corte (Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.05.2017, n. 24958), il RSPP è un soggetto che non è titolare di alcuna posizione di garanzia rispetto all'osservanza della normativa antinfortunistica e che opera, piuttosto, quale "consulente" in tale materia del datore di lavoro, essendo e rimanendo quest'ultimo direttamente tenuto ad assumere le necessarie iniziative idonee a neutralizzare le situazioni di rischio. Del resto, osserva la Cassazione, è lo stesso legislatore che, all’art. 31, cc. 2 e 5, d.lgs. n. 81/2008, qualifica i componenti del servizio di prevenzione e protezione come dei semplici "ausiliari" del datore di lavoro, privi di un effettivo potere decisionale: essi sono soltanto dei "consulenti" e i risultati dei loro studi e delle loro elaborazioni, come in qualsiasi altro settore dell'amministrazione dell'azienda (ad esempio, in campo fiscale, tributario, giuslavoristico), vengono fatti propri dal vertice che li ha scelti sulla base di un rapporto di affidamento liberamente instaurato e che della loro opera si avvale per meglio ottemperare agli obblighi di cui è esclusivo destinatario.

In questa prospettiva, appare evidente, come già evidenziato in precedenza, che la designazione del RSPP, che il datore di lavoro è tenuto a fare, non equivalga alla delega di funzioni, utile ai fini dell'esenzione del datore di lavoro da responsabilità per la violazione della normativa antinfortunistica e, quindi, non gli consenta di trasferire al RSPP la posizione di garanzia che egli ordinariamente assume ex lege.

Del resto, già l'art. 4, c. 4, lett. a), d.lgs. n. 626/1994, prevedeva che il datore di lavoro designasse il RSPP, i cui compiti erano dettagliatamente elencati nel successivo art. 9; tra essi, rientrava l’obbligo dell'individuazione dei fattori di rischio e delle misure di prevenzione da adottare. Nel fare ciò, il RSPP operava per conto del datore di lavoro, il quale rimaneva colui che giuridicamente si trovava nella posizione di garanzia, poiché l'obbligo di effettuare la valutazione e di elaborare il documento contenente le misure di prevenzione e protezione, in collaborazione con il responsabile del servizio, rimaneva in capo a lui; tanto è vero che la medesima normativa del 1994 non prevedeva nessuna sanzione penale a carico del responsabile del servizio, mentre, all'art. 89 puniva il datore di lavoro che non avesse valutato correttamente i rischi.

Lo schema originario del 1994 ha subito nel tempo una evoluzione, che ha indotto il legislatore ad introdurre, con l'art. 8 bis del d.lgs. n. 195/2003, una norma che ha previsto la necessità in capo alla figura del RSPP di una qualifica specifica e, successivamente, con l'art. 31 del vigente d.lgs. n. 81/2008 una articolata organizzazione del servizio di prevenzione e protezione.

Le suddette modifiche normative, tuttavia, hanno comportato, in via interpretativa, una revisione della figura del RSPP, il quale, pur privo dei poteri decisionali e di spesa, può, comunque, essere ritenuto corresponsabile, insieme al datore di lavoro, in relazione al verificarsi di un infortunio per la mancata segnalazione di situazioni pericolose e/o per avere fornito suggerimenti sbagliati (nello stesso senso cfr.; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.06.2008, n. 25288; in precedenza v. Cass. Pen., sez. 4., sent. 17.04.2007, n. 15226).

In particolare, la giurisprudenza ha ritenuto il RSPP corresponsabile del verificarsi di un infortunio, ogni qual volta questo sia oggettivamente riconducibile ad una situazione pericolosa che egli avrebbe avuto l'obbligo di conoscere e segnalare, dovendosi presumere, nel sistema elaborato dal legislatore, che alla segnalazione avrebbe fatto seguito l'adozione, da parte del datore di lavoro, delle necessarie iniziative idonee a neutralizzare detta situazione (Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.08.2010, n. 32195).

In altra pronuncia, di qualche mese successiva, si è parimenti affermato che il RSPP risponde a titolo di colpa professionale, unitamente al datore di lavoro, degli eventi dannosi derivati dai suoi suggerimenti sbagliati o dalla mancata segnalazione di situazioni di rischio, dovuti ad imperizia, negligenza, inosservanza di leggi o discipline, che abbiano indotto il secondo ad omettere l'adozione di misure prevenzionali doverose (Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.01.2011, n. 2814).

Successivamente, la Cassazione, a sezioni unite, è intervenuta sull’argomento, puntualizzando che, in tema di infortuni sul lavoro, il RSPP, pur svolgendo all'interno della struttura aziendale un ruolo non gestionale ma di consulenza, ha l'obbligo giuridico di adempiere diligentemente l'incarico affidatogli e di collaborare con il datore di lavoro, individuando i rischi connessi all'attività lavorativa e fornendo le opportune indicazioni tecniche per risolverli, all'occorrenza disincentivando eventuali soluzioni economicamente più convenienti ma rischiose per la sicurezza dei lavoratori, con la conseguenza che, in relazione a tale suo compito, può essere chiamato a rispondere, quale garante, degli eventi che si verifichino per effetto della violazione dei suoi doveri (v. Cass. Pen., SS.UU., sent. 18.09.2014, n. 38343, che ha ritenuto penalmente rilevante la condotta del RSPP che aveva redatto il documento di valutazione dei rischi con indicazione di misure organizzative inappropriate, sottovalutando il pericolo di incendio e omettendo di indicare ai lavoratori le opportune istruzioni per salvaguardare la propria incolumità).

Di recente, la giurisprudenza ha mutuato tali argomentazioni anche nel diverso contesto della pubblica amministrazione, riconoscendo responsabile per cooperazione colposa il RSPP, con la dirigente scolastica, per le lesione occorse ad un alunno e ad un genitore a seguito dell'improvviso distacco di un'anta del cancello di pertinenza dell'istituto scolastico, per aver omesso di individuare il rischio connesso allo stato di ammaloramento di tale cancello e di prevedere, tra gli interventi da effettuare, la manutenzione dello stesso e, in particolare, la sostituzione dei cardini, visibilmente corrosi (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 13 maggio 2016, n. 20051). La Suprema Corte, infatti, richiamandosi alla sentenza a sezioni unite n. 38343 del 2014, ha riconosciuto in capo al RSPP la posizione di garanzia, in considerazione dell'importanza che il suo ruolo riveste, in quanto soggetto dotato di specifiche competenza tecniche che non rientravano nel profilo professionale della preside e su cui l'istituzione scolastica aveva il diritto di fare pieno affidamento nella individuazione di possibili fonti di pericolo per la popolazione scolastica.

Invero, il datore di lavoro (sia esso pubblico che privato), normalmente a digiuno di conoscenze tecniche, è proprio concretamente avvalendosi della consulenza del RSPP che ottempera all'obbligo giuridico di analizzare e di individuare, secondo l'esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno del luogo di lavoro.

La riconosciuta possibilità che il RSPP concorra nel reato con il datore di lavoro, tuttavia, non ne ha mutato la natura di mero consulente di quest'ultimo, la cui designazione non è dunque sufficiente a sollevare il datore di lavoro e i dirigenti dalle rispettive responsabilità in tema di violazione degli obblighi dettati per la prevenzione degli infortuni sul lavoro (così Cass. Pen., sez. 4, sent. 08.02.2008, n. 6277; conf. successivamente anche da Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.07.2008, n. 27420).

Lo conferma, peraltro, il dato normativo, laddove, al c. 5, il citato art. 31 del d.lgs. n. 81/2008, si preoccupa di chiarire che anche ove il datore di lavoro ricorra a persone o servizi esterni non è per questo esonerato dalla propria responsabilità in materia.

Peraltro, la giurisprudenza della Corte di legittimità è da tempo consolidata, oltre che nel ribadire che il RSPP ha una funzione di ausilio diretta a supportare e non a sostituire il datore di lavoro nell'individuazione dei fattori di rischio nella lavorazione, nella scelta delle procedure di sicurezza e nelle pratiche di informazione e di formazione dei dipendenti, nel senso di ritenere il datore di lavoro responsabile anche delle eventuali negligenze del RSPP (cfr. Cass. Pen., sez. 4, sent. 16.12.2013, n. 50605; Cass. Pen., sez. Fer., sent. 26.08.2010, n. 32357).

 

Giurisprudenza di riferimento:

Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.07.2017, n. 33758; Cass. Pen., sez. 3, sent. 15.06.2017, n. 30115; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.05.2017, n. 24958; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.04.2017, n. 19043; Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.08.2016, n. 33630; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.07.2016, n. 31215; Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.07.2016, n. 27056; Cass. Pen., sez. 6, sent. 13.05.2016, n. 20068; Cass. Pen., sez. 4, sent. 13 maggio 2016, n. 20051; Cass. Pen., sez. 4, sent. 15.12.2015, n. 49349; Cass. Pen., sez. 4, sent. 12.11.2015, n. 46991; Cass. Pen., sez. 4, sent. 25.08.2015, n. 35519; Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.07.2015, n. 31223; Cass. Pen., sez. 4, sent. 08.06.2015, n. 24455; Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.12.2014, n. 52442; Cass. Pen., SS.UU., sent. 18.09.2014, n. 38343; Cass. Pen., sez. Fer, sent. 01.09.2014, n. 36510; Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.09.2014, n. 36452; Cass. Pen., sez. 4, sent. 14.01.2014, n. 1194; Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.01.2014, n. 974; Cass. Pen., sez. 4, sent. 16.12.2013, n. 50605; Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.01.2013, n. 7443; Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.12.2012, n. 49821; Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.12.2014, n. 52442; Cass. Pen., sez. 4, sent. 16.11.2012, n. 44928; Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.10.2012, n. 37992; Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.05.2012, n. 16888; Cass. Pen., sez. 4, sent. 16.04.2012, n. 14407; Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.02.2012, n. 18826; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.01.2011, n. 2814; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.10.2010, n. 38111; Cass. Pen., sez. Fer., sent. 26.08.2010, n. 32357; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.08.2010, n. 32195; Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.04.2010, n. 18149; Cass. Pen., sez. 4, sent. 15.01.2010, n. 1841; Cass. Pen., sez. 4, sent. 14.01.2010, n. 1490; Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.07.2008, n. 27420; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.06.2008, n. 25288; Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.03.2008, n. 18472; Cass. Pen., sez. 4, sent. 08.02.2008, n. 6277

 

5. Il datore di lavoro nelle organizzazioni complesse: delega di gestione e pluralità di datori di lavoro

Mentre nelle società di persone, l’obbligo di adottare le misure di prevenzione grava su ciascun socio, sempre che non sia stata conferita apposita delega a persona qualificata; nelle società di capitali, l’individuazione della posizione di garanzia datoriale risulta particolarmente problematica, tant’è vero che in giurisprudenza si registrano due orientamenti, l’uno, che riconosce tale posizione in capo al legale rappresentante dell’ente (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 12.11.2012, n. 43814) e, l’altro, che lo identifica con i soggetti effettivamente titolari dei poteri decisionali e di spesa all’interno dell'azienda e, quindi, con i vertici dell'azienda stessa ovvero nel presidente del CdA o amministratore delegato o componente del CdA cui siano state attribuite le relative funzioni (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.12.2013, n. 49402).

In tale seconda ipotesi, in particolare, consegue, come osservato dalla giurisprudenza di riferimento, che, all’interno della medesima impresa, possano coesistere più figure aventi tutte la qualifica di datore di lavoro, a ciascuna delle quali incombe l'onere di valutare i rischi per la sicurezza, individuare le necessarie misure di prevenzione e controllare l'esatto adempimento degli obblighi di sicurezza.

Il principio del cumulo delle responsabilità in capo ai rappresentanti della componente datoriale, tuttavia, necessita di alcune precisazioni in caso di conferimento, da parte del CdA, di una delega ex art. 2381 c.c., in materia di sicurezza, ad uno o più consiglieri.

A tale proposito occorre, innanzitutto, precisare che, ancorché sul punto permanga in giurisprudenza ancora una certa confusione (cfr. Cass. Pen., sez. 4, sent. 31.01.2014, n. 4968; Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.11.2010, n. 38991), la delega “codicistica” di cui all’art. 2381 c.c. è una delega di gestione, che non va confusa con la delega di funzioni di cui all’art. 16, d.lgs. n. 81/2008. Sebbene, infatti, entrambe le deleghe siano conferite in materia di sicurezza, diversi sono gli effetti che le stesse producono: mentre la seconda presuppone un trasferimento di poteri e correlati obblighi, dal datore di lavoro, verso altri soggetti che, pertanto, risultano destinatari di posizioni di garanzia a titolo derivato; la prima, al contrario, consente di distribuire, nel modo ritenuto più efficace, i poteri decisionali e di spesa connessi alla funzione datoriale riconosciuta in via originaria a tutti i componenti del CdA (in tal senso v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 31.01.2014, n. 4968; Cass. Pen., sent. 29.01.2014, n. 4084), mediante la scelta di concentrarli in uno o più membri del CdA.

Ne consegue, pertanto, che il dovere di controllo, che la giurisprudenza impone ai membri del CdA non destinatari della delega di gestione (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 31.01.2014, n. 4968; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.05.2013, n. 21628; v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.11.2010, n. 38991; Cass. Pen., sez. 4, sent. 08.02.2008, n. 6280; e, in precedenza, Cass. Pen., sez. 4, sent. 06.02.2004, n. 4981), non può identificarsi con l’attività di vigilanza richiesta dall’art. 16, c. 3, d.lgs. n. 81/2008, dovendo, piuttosto, essere ricondotto agli obblighi civilistici di cui agli artt. 2381, n. 3 e 2392, c. 2, c.c. (sulle caratteristiche del dovere di vigilanza alta, v. Cass. Pen., sent. 29.01.2014, n. 4084).

Una prima conferma, in tal senso, si ha dalla lettura del dettato normativo che, agli artt. 16 e 17, d.lgs. n. 81/2008, disciplina l’istituto della delega di funzioni, da cui emerge chiaramente che sono escluse dalle attività delegabili quelle che hanno ad oggetto le decisioni di carattere generale connesse alla politica aziendale che, pertanto, restano di competenza esclusiva del datore di lavoro (tali sono la valutazione di rischi, la redazione del relativo documento e la nomina del RSPP).

A riprova, la giurisprudenza è univoca nel ritenere che, in presenza di strutture aziendali complesse, la delega di funzioni esclude la riferibilità di eventi lesivi ai deleganti se sono il frutto di occasionali disfunzioni; quando, invece, sono determinate da difetti strutturali aziendali e del processo produttivo, permane la responsabilità dei vertici aziendali e, quindi, di tutti i componenti del CdA (così Cass. Pen., sez. 4, sent. 31.01.2014, n. 4968; Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.12.2013, n. 49402), in quanto attingono direttamente alla sfera di responsabilità del datore di lavoro (v. anche Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.09.2014, n. 38100; Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.10.2011, n. 36605; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.07.2011, n. 28780; Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.11.2010, n. 38991; Cass. Pen., sez. 4, sent. 15.09.2010, n. 33661; Cass. Pen., sez. 4, sent. 28.01.2009, n. 4123).

Coerentemente, l'art. 2381 c.c. consente una diversa ripartizione degli obblighi datoriali che altrimenti, in assenza di delega di gestione, graverebbero in ugual misura su tutti i componenti del CdA, i quali, in ogni caso, sono tutti solidalmente responsabili se, essendo a conoscenza di fatti pregiudizievoli, non hanno fatto nulla per impedirne il verificarsi o eliminarne o quanto meno attenuarne gli effetti dannosi.

Il CdA, infatti, in quanto organo collegiale capace di determinare le strategie generali di una società, non può ritenersi estraneo all'organizzazione della sicurezza, nonostante l'eventuale presenza di uno o più amministratori delegati, quali datori di lavoro ai sensi del d.lgs. n. 81/2008.

Tuttavia, come il noto “caso Thyssenkrupp” insegna, laddove solo alcuni consiglieri delegati siano dotati dei tipici poteri di gestione e di spesa propri del ruolo di garante, la qualifica di datore di lavoro ben potrà essere riconosciuta in capo solo ad essi e non all'intero CdA. La giurisprudenza, infatti, in tutti e tre i gradi di giudizio “Thyssenkrupp” ha riconosciuto la qualifica di “datore di lavoro” all’amministratore delegato ed a due consiglieri delegati, peraltro, rispetto a questi ultimi, valutando che, benché ad essi fosse stato attribuito uno specifico settore di pertinenza e solo all’amministratore delegato la responsabilità della sicurezza del lavoro, insieme avevano comunque concorso alla gestione collettiva dell’impresa, costituendo “un board decisionale che di tutti i settori (compreso quello della sicurezza sul lavoro) si era occupato e che aveva effettivamente operato” (v. Corte d’Assise, sez. 2, Torino, sent. 14.11.2011, n. 31095; conf. successivamente da Corte d’Assise d’Appello, Torino, sent. 27.05.2013, n. 6 e da Cass. Pen., SS.UU., sent. 18.09.2014, n. 38343).

A tale proposito, peraltro, autorevole dottrina ha osservato che tale contesto, che vede la presenza di una pluralità di datori di lavoro “preminenti” (individuati dal CdA), che operano all'interno di una medesima struttura organizzativa, si caratterizza per una datorialità prevenzionistica a dimensione plurisoggettiva e diffusa, che non va confusa con la diversa situazione in cui la pluralità di datori di lavoro dipenda dalla presenza di più unità produttive in cui si articola l'impresa che, pertanto, caratterizzandosi per la settorializzazione delle funzioni datoriali, può più opportunamente definirsi “pluridatorialità” o “multidatorialità”.

La Cassazione, anche di recente, ha avuto modo di precisare ruolo e obblighi del Presidente del CdA, affermando che tale veste “lo rende agli effetti degli obblighi di sicurezza datore di lavoro titolare di una posizione di garanzia oggettiva ed ineludibile in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro”, a nulla rilevando, a detta della Corte, la circostanza contestata dalla difesa dell’imputato, che questi rivestisse la carica di rappresentante legale di una società italiana controllata da una multinazionale americana e che, quindi, non prendesse le decisioni relative alla struttura produttiva, né avesse i relativi poteri di spesa o di assunzione/nomina dei vari organi dirigenti responsabili, scelte queste ultime tutte riservate ad organi societari sovranazionali (cfr. Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.05.2017, n. 22592; v. anche Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.01.2017, n. 3313).

In ogni caso … Se il datore di lavoro è una persona giuridica, destinatario dell’obbligo prevenzionale, per quanto concerne l’adozione degli apparati strumentali necessari a preservare l’incolumità dei lavoratori, è il suo legale rappresentante, quale persona fisica attraverso la quale la persona giuridica agisce nel campo delle relazioni interpersonali (v. Cass. Pen., sez. 3, sent. 17.03.2008, n. 11749).

 

Giurisprudenza di riferimento:

Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.05.2017, n. 22606; Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.05.2017, n. 22592; Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.01.2017, n. 3313; Cass. Pen., sez. Fer., sent. 10.08.2016, n. 34782; Cass. Pen., sez. 4, sent. 23.06.2016, n. 26182; Cass. Pen., sez. 4, sent. 14.06.2016, n. 24697; Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.05.2016, n. 20067; Cass. Pen., sez. 3, sent. 28.04.2016, n. 17426; Cass. Pen., sez. 4, sent. 29.03.2016, n. 12689; Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.11.2015, n. 45438; Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.10.2015, n. 40721; Cass. Pen., sez. 4, sent. 30.06.2015, n. 27173; Cass. Pen., sez. 4, sent. 22.06.2015, n. 26294; Cass. Pen., sez. 4, sent. 28.09.2014, n. 49732; Cass. Pen., SS.UU., sent. 18.09.2014, n. 38343; Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.09.2014, n. 38100; Cass. Pen., sez. 4, sent. 29.05.2014, n. 22249; Cass. Pen., sez. 4, sent. 26.05.2014, n. 21241; Cass. Civ., sez. Lav, sent. 07.05.2014, n. 9870; Cass. Pen., sez. 4, sent. 31.01.2014, n. 4968; Cass. Pen., sent. 29.01.2014, n. 4084; Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.12.2013, n. 49402; Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.09.2013, n. 37761; Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.09.2013, n. 37738; Corte d’Assise d’Appello, Torino, sent. 27.05.2013, n. 6; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.05.2013, n. 21628; Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.03.2013, n. 11442; Cass. Pen., sez. 4, sent. 29.01.2013, n. 4514; Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.01.2013, n. 3117; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.12.2012, n. 35921; Cass. Pen., sez. 4, sent. 12.11.2012, n. 43814; Cass. Pen., sez. 4, sent. 25.10.2012, n. 41981; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.10.2012, n. 41063; Cass. Pen., sez. 4, sent. 16.02.2012, n. 6400; Corte d’Assise, sez. 2, Torino, sent. 14.11.2011, n. 31095; Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.10.2011, n. 36605; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.07.2011, n. 28780; Cass. Pen., sez. 4, sent. 10.02.2011, n. 5013; Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.11.2010, n. 38991; Cass. Pen., sez. 4, sent. 15.09.2010, n. 33661; Cass. Pen., sez. 4, sent. 30.10.2009, n. 41855; Cass. Pen., sez. 4, sent. 28.01.2009, n. 4123; Cass. Pen., sez. 3, sent. 17.03.2008, n. 11749; Cass. Pen., sez. 4, sent. 08.02.2008, n. 33661; Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.12.2007, n. 6280

 

6. Ipotesi di esonero della responsabilità del datore di lavoro

Come noto, la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell’evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l’evento dannoso (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 31.05.2016, n. 22837; ex multis Cass. Pen., sez. 4, sent. 08.06.2015, n. 24462).

Così, la Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza con cui la Corte di merito aveva affermato la penale responsabilità del datore di lavoro sulla base della sola posizione di garanzia dallo stesso ricoperta e cioè sulla base del solo fatto che lo stesso, quale datore di lavoro, gestiva il rischio connesso alla lavorazione, senza aver indicato (in presenza di un macchinario dotato di dispositivo di sicurezza ed in assenza di prova della di lui consapevolezza di qualsivoglia situazione di rischio) quale fosse la condotta colposa in concreto allo stesso addebitabile (Cass. Pen., sez. 4, sent. 18.04.2017, n. 18779).

La giurisprudenza, anche più recente, ha inoltre ribadito che, quanto all’assolvimento dell’onere probatorio, il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito a seguito di infortunio sul lavoro ha l’onere di provare il fatto costituente l’inadempimento e il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento e il danno; non anche la colpa del datore, nei cui confronti opera la presunzione posta dall’art. 1218 c.c., il cui superamento comporta la prova dell’adozione di tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, in relazione alle specificità del caso, ossia al tipo di operazione effettuata ed ai suoi rischi intrinseci, potendo al riguardo non risultare sufficiente la mera osservanza delle misure di protezione individuale imposte dalla legge (così Cass. Civ., sez. Lav., sent. 11.04.2013, n. 8855; Cass. Civ., sez. Lav., sent. 19.07.2007, n. 16003).

Gli oneri a carico di ciascuna delle parti devono essere diversamente modulati, a seconda che le misure di sicurezza omesse siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici, oppure debbano essere ricavate dallo stesso art. 2087 c.c., che impone l’osservanza del generico obbligo di sicurezza: nel primo caso, riferibile alle misure di sicurezza cosiddette "nominate", la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell'insussistenza dell'inadempimento e del nesso eziologico tra quest’ultimo e il danno; nel secondo caso, relativo a misure di sicurezza cosiddette "innominate", la prova liberatoria a carico del datore di lavoro è invece generalmente correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi di norma al datore di lavoro l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standards di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (v. anche Cass. Civ., sez. Lav., sent. 02.07.2014, n. 15082).

In particolare, gravano sul datore di lavoro puntuali obblighi di informazione del lavoratore, al fine di evitare il rischio specifico della lavorazione, insuscettibili di essere assolti mediante indicazioni generiche, in quanto in tal modo la misura precauzionale non risulterebbe adottata dal datore di lavoro, ma l’individuazione dei suoi contenuti sarebbe inammissibilmente demandata al lavoratore (Cass. Civ., sez. Lav., sent. 06.10.2016, n. 20051). Il datore di lavoro è anzi sempre responsabile dell’infortunio occorso al lavoratore, anche qualora sia ascrivibile non soltanto ad una sua disattenzione, ma anche ad imperizia, negligenza e imprudenza (Cass. Civ., sez. Lav., sent. 10.09.2009, n. 19494); egli è totalmente esonerato da ogni responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore assuma caratteri di abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo "tipico" ed alle direttive ricevute, in modo da porsi quale causa esclusiva dell'evento (Cass. Civ., sez. Lav., sent. 17.02.2009, n. 3786), cosi integrando il cd. "rischio elettivo", ossia una condotta personalissima del lavoratore, avulsa dall’esercizio della prestazione lavorativa o anche ad essa riconducibile, ma esercitata e intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali, al di fuori dell'attività lavorativa e prescindendo da essa, come tale idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata (Cass. Civ., sez. Lav., sent. 05.09.2014, n. 18786).

Sulla base di tali argomentazioni, la Suprema Corte, rilevato che la Corte territoriale non aveva applicato correttamente gli enunciati principi di diritto (pur avendo escluso la ricorrenza di un rischio elettivo, i giudici d’appello avevano, infatti,  invertito l'onere probatorio, attribuendo al lavoratore, che pure aveva assolto il proprio alla stregua dell’art. 1218 c.c., la mancata specificazione delle misure di sicurezza adottabili e, pertanto, di quelle cautele obliteranti la colpa della società datrice, del cui onere essa è onerata) ha cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello, cui competerà valutare se il datore di lavoro abbia adottato o meno tutte le misure di protezione esigibili, così da escludere il caso fortuito (Cass. Civ., sez. Lav., sent. 26.04.2017, n. 10319).

Come noto, ai sensi dell’art. 2087 c.c., il datore di lavoro è obbligato a garantire ai lavoratori la sicurezza e la tutela delle condizioni di lavoro, adottando nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori (Cass. Civ., sez. Lav., sent. 19.01.2016, n. 836). Colui il quale vanti un danno alla violazione dell'obbligo generale di sicurezza declinato dall'art. 2087 cc non deve dimostrare la colpa dell’altra parte dato che, ai sensi dell'art. 1218 cc, il debitore/datore di lavoro deve farsi carico di fornire la prova che l’impossibilità della prestazione o la non esatta esecuzione della stessa, ovvero il pregiudizio che ha colpito la controparte, derivano da causa a lui non imputabile (Cass. Civ., sez. Lav., sent. 11.04.2013 n. 8855).

Non può essere ragione di esonero totale da responsabilità l’eventuale concorso di colpa di altri dipendenti, se non quando la loro condotta rappresenti la causa esclusiva dell’evento (Cass. Civ., sez. Lav., sent. 04.02.2016, n. 2209).

 

Giurisprudenza di riferimento:

Cass. Civ., sez. Lav., sent. 11.07.2017, n. 17088; Cass. Civ., sez. Lav., sent. 26.04.2017, n. 10319; Cass. Civ., sez. Lav., sent. 19.04.2017, n. 9870; Cass. Pen., sez. 4, sent. 18.04.2017, n. 18779; Cass. Pen., sez. 4, sent. 23.01.2017, n. 3309; Cass. Pen., sez. 4, sent. 31.05.2016, n. 22837; Cass. Pen., sez. 4, sent. 03.03.2016, n. 8883; Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.07.2015, n. 31223; Cass. Pen., sez. 4, sent. 22.06.2015, n. 26279; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.05.2015, n. 22378; Cass. Pen., sez. 4, sent. 26.05.2015, n. 22038; Cass. Pen., sez. 4, sent. 14.05.2015, n. 20045; Cass. Pen., sez. 4, sent. 16.01.2015, n. 2176; Cass. Pen., sez. 4, sent. 29.07.2014, n. 33417; Trib. Pisa, sez. Pen., sent. 22.04.2014, n. 776; Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.09.2013, n. 38129; Cass. Civ., sez. Lav, sent. 28.11.2012, n. 21135; Cass. Civ., sez. Lav., sent. 22.11.2012, n. 20597; Trib. Parma, GUP Conti, sent. 02.08.2012, n. 258; Cass. Pen., sez. 4, sent. 28.05.2012, n. 20613; Cass. Pen., sez. 4, sent. 08.05.2012, n. 17074; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.03.2012, n. 10712; Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.12.2011, n. 44650; Cass. Pen., sez. 4, sent. 03.10.2011, n. 35828; Cass. Pen., sez. 4, sent. 03.10.2011, n. 35822; Cass. Pen., sez. 4, sent. 03.02.2011, n. 4106; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.02.2008, n. 7709


 

6.1 Segue: Interruzione del nesso causale

In giurisprudenza, una delle principali ipotesi di esonero della responsabilità del datore di lavoro in caso di infortunio sul lavoro è quella che, facendo leva sull’art. 41 c.p.v. c.p., riconosce, ricorrendone i presupposti, l’interruzione del nesso di causalità (v. anche ante 1).

Peraltro, la Cassazione ha avuto modo, anche di recente, di precisare che le norme sulla tutela della salute e sicurezza del lavoro, hanno una applicazione generalizzata, estesa a tutti i settori di attività, pubblici e privati e a tutte le tipologia di rischio, nonché a tutti i lavoratori, subordinati ed autonomi ed ai soggetti che si trovino nell'ambiente di lavoro indipendentemente dall'esistenza di un rapporto con il titolare dell'impresa, a meno che tale presenza non rivesta carattere di anormalità ed eccezionalità. La corretta applicazione di tale principio non può però prescindere dall’attento esame della situazione concreta, pertanto laddove ciò manchi, come nel caso in cui il giudice di secondo grado attribuisca al datore di lavoro un onere di controllo assoluto, senza affrontare compiutamente la questione analiticamente trattata dal primo giudice afferente, in sostanza, l'imprevedibilità della condotta del lavoratore, la sentenza non può che essere cassata (Cass. Pen., sez. 4, sent. 23.01.2017, n. 3309)

È vero, infatti, che, in tema di infortuni sul lavoro, il principio in forza del quale l'addebito di responsabilità formulabile a carico del datore di lavoro non è escluso dai comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del lavoratore, salvo che ci si trovi in presenza di comportamenti abnormi, come tali eccezionali ed imprevedibili (cfr. art. 41, c. 2, c.p.), deve comunque tenere conto dell'altro principio secondo cui, per poter formalizzare il giudizio di responsabilità, occorre in ogni caso accertare la "colpa" del datore di lavoro, la quale è pur sempre il presupposto dell'addebito.

Ciò significa che, una volta compiuta l'indagine causale, il giudice di merito deve procedere, in maniera distinta ma ugualmente imprescindibile, all'accertamento in concreto della colpa del datore di lavoro, anche nell'ipotesi in cui la condotta imprudente del lavoratore non soddisfi i caratteri dell'esorbitanza o dell'abnormità.
In altre parole, è necessario accertare che a seguito di tale indagine sia comunque formulabile un rimprovero a carico del datore di lavoro, ovvero stabilire con giudizio ex ante se il datore di lavoro avrebbe potuto, nel caso concreto, prevedere l'evento lesivo verificatosi con quelle specifiche modalità, o se invece si sia concretizzato un rischio diverso da quello che il datore di lavoro, con tutta la diligenza, prudenza e perizia richiesta, avrebbe dovuto e potuto evitare.

Il problema del nesso causale nei reati omissivi impropri, già affrontato dalle Sezioni Unite con la sentenza Franzese (Cass. Pen., SS.UU., sent. 11.09.2002, n. 30328), è stato successivamente ripreso e rielaborato dalla giurisprudenza apicale di legittimità con la nota sentenza relativa alla vicenda Thyssenkrupp, (Cass. Pen., SS.UU., sent. 18.09.2004, n. 38343) nella quale si è affermato che il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica che, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto.

Quanto alla “definizione” di comportamento "abnorme" del lavoratore, tale da esimere da responsabilità il titolare della posizione di garanzia a fini prevenzionistici, non può non ricordarsi che la giurisprudenza della Corte regolatrice ha avuto modo, in alcune pronunzie, di precisare che tale debba intendersi quello che sia "anomalo" ed "imprevedibile" e, come tale, "inevitabile"; cioè un comportamento che ragionevolmente non può farsi rientrare nell’obbligo di garanzia posto a carico del datore di lavoro.

In tal senso vedasi Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.03.2012, n. 10712, riferita a una dimenticanza del lavoratore - pur debitamente formato e fornito dello strumentario di sicurezza - che non aveva provveduto ad allacciare in modo adeguato il cordino di sicurezza; ed anche Cass. Pen., sez. 3, sent. 24.10.2011, n. 38209, in cui si è affermato che il datore di lavoro non risponde per la mancata adozione di misure atte a prevenire il rischio di infortuni ove la condotta non sia esigibile per l’imprevedibilità della situazione di pericolo da evitare (con riferimento a una fattispecie nella quale l’operaio deceduto aveva agito in palese violazione delle specifiche prescrizioni impostegli dal suo datore di lavoro), atteso che, in tal caso, la condotta colposa del lavoratore assurgeva a causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento.

Quanto alla nozione di "eccentricità" del comportamento "interruttivo” del nesso causale da parte del lavoratore, nella già citata sentenza della Cass. Pen., SS.UU., sent. 18.09.2004, n. 38343, si precisa che il comportamento del lavoratore assume rilevanza interruttiva del nesso di causalità fra la condotta del garante e l'evento lesivo o mortale «non perché "eccezionale" ma perché eccentrico rispetto ai rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare». Di eccentricità, perciò, deve al riguardo parlarsi non già con riferimento alle mansioni assegnate al lavoratore, ma rispetto alla sfera di rischio gestita dal garante.

In ogni caso la Cassazione è chiara nel ribadire che la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante, imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso (v. Cass. Pen., sez. 4, sent. 31.05.2016, n. 22837 e, ex multis, Cass. Pen., sez. 4, sent. 08.06.2015, n. 24462).

In un’altra occasione la Suprema Corte (Cass. Pen., sez. 4, sent. 03.03.2016, n. 8883) ha avuto modo di ribadire che, seppure il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all'evento non valga ad escludere la responsabilità del datore di lavoro quando questo sia da ricondurre comunque all'insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente (cfr. ex multis Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.02.2014, n. 7364), diversa è la conclusione nel caso in cui tutte le cautele possibili siano state ex ante assunte dal datore di lavoro.

Osserva, a tale proposito, la Corte di legittimità come il sistema della normativa antinfortunistica si sia lentamente trasformato da un modello "iperprotettivo", interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro che, in quanto soggetto garante era investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori (non soltanto fornendo i dispositivi di sicurezza idonei, ma anche controllando che di questi i lavoratori facessero un corretto uso, anche imponendosi contro la loro volontà), ad un modello "collaborativo" in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi i lavoratori (cfr. anche Cass. Pen., sez. 4, sent. 15.10.2015, n. 41486). Tale principio, normativamente affermato dal d.lgs. n. 81/2008, naturalmente non ha escluso, per la giurisprudenza di legittimità, che permanga la responsabilità del datore di lavoro, laddove la carenza dei dispositivi di sicurezza, o anche la mancata adozione degli stessi da parte del lavoratore, non può certo essere sostituita dall'affidamento sul comportamento prudente e diligente di quest'ultimo: così Cass. Pen., sez. 4, sent. 15.10.2015, n. 41486, secondo cui, dal principio "dell'ontologica irrilevanza della condotta colposa del lavoratore" (che si rifà spesso all'art. 2087 c.c.), si è passati - a seguito dell'introduzione del d.lgs. n. 626/1994, prima, e del d.lgs. n. 81/2008, poi - al concetto di "area di rischio" che il datore di lavoro è chiamato a valutare in via preventiva.

Strettamente connessa all'area di rischio che l'imprenditore è tenuto a dichiarare nel DVR, si sono, perciò, andati ad individuare i criteri che consentissero di stabilire se la condotta del lavoratore dovesse risultare appartenente o estranea al processo produttivo o alle mansioni di sua specifica competenza.
Si è dunque affermato il concetto di comportamento "esorbitante", diverso da quello "abnorme" del lavoratore: il primo, riguarda quelle condotte che fuoriescono dall'ambito delle mansioni, ordini, disposizioni impartiti dal datore di lavoro o di chi ne fa le veci, nell'ambito del contesto lavorativo; il secondo, quello abnorme, già costantemente delineato dalla giurisprudenza della Corte di legittimità, si riferisce a quelle condotte poste in essere in maniera imprevedibile dal prestatore di lavoro al di fuori del contesto lavorativo, cioè, che nulla hanno a che vedere con l'attività svolta.

La recente normativa di cui al d.lgs. n. 81/2008 impone anche ai lavoratori di attenersi alle specifiche disposizioni cautelari e comunque di agire con diligenza, prudenza e perizia.

Le tendenze giurisprudenziali si dirigono anch'esse verso una maggiore considerazione della responsabilità dei lavoratori (c.d. "principio di autoresponsabilità del lavoratore). In buona sostanza, si abbandona il criterio esterno delle mansioni e "si sostituisce con il parametro della prevedibilità intesa come dominabilità umana del fattore causale" (Cass. Pen., sez. 4, sent. 15.10.2015, n. 41486): il datore di lavoro non ha più, dunque, un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore, come in passato, ma una volta che ha fornito tutti i mezzi idonei alla prevenzione ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, egli non risponderà dell'evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore.

Anche in un’altra occasione la Suprema Corte ha espressamente confermato la tendenza a considerare interruttiva del nesso di condizionamento la condotta abnorme del lavoratore non solo quando essa si collochi in qualche modo al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso ma anche quando, pur collocandosi nell'area di rischio, sia esorbitante dalle precise direttive ricevute ed, in sostanza, consapevolmente idonea a neutralizzare i presidi antinfortunistici posti in essere dal datore di lavoro; cionondimeno, quest'ultimo, dal canto suo, deve aver previsto il rischio ed adottato le misure prevenzionistiche esigibili in relazione alle particolarità del lavoro (Cass. Pen., sez. 4, sent. 26.05.2015, n. 22038). Dai principi così richiamati la Cassazione ha sviluppato il seguente corollario: “si deve ritenere abnorme o, comunque, eccezionale ed, in quanto tale, idoneo ad interrompere il nesso di causa tra la condotta datoriale e l'evento il comportamento del lavoratore esorbitante dalle precise direttive impartitegli, ovvero tendente a superare le barriere poste a presidio della sua sicurezza, a condizione che il datore di lavoro abbia adottato le misure prevenzionistiche esigibili in relazione alle particolarità del lavoro”.

 

Giurisprudenza di riferimento:

Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.09.2017, n. 43499; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.09.2017, n. 44614; Cass. Pen., sez. 4, sent. 07.09.2017, n. 40743; Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.07.2017, n. 33758; Cass. Pen., sez. 7, sent. 12.05.2017, n. 23690; Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.05.2017, n. 23090; Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.05.2017, n. 22616; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.04.2017, n. 18153; Cass. Pen., sez. 4, sent. 05.04.2017, n. 17179; Cass. Pen., sez. 4, sent. 05.04.2017, n. 17163; Cass. Pen., sez. 4, sent. 30.03.2017, n. 16123; Cass. Pen., sez. 4, sent. 14.03.2017, n. 12178; Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.11.2016, n. 47017; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.10.2016, n. 44327; Cass. Pen., sez. 4, sent. 06.10.2016, n. 42092; Cass. Pen., sez. 4, sent. 05.08.2016, n. 34516; Cass. Pen., sez. 4, sent. 05.08.2016, n. 34461; Cass. Pen., sez. 4, sent. 08.07.2016, n. 28567; Cass. Pen., sez. 4, sent. 07.06.2016, n. 28250; Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.07.2016, n. 27060; Cass. Pen., sez. 4, sent. 10.06.2016, n. 24139; Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.05.2016, n. 19145; Cass. Pen., sez. 4, sent. 26.02.2016, n. 7897; Cass. Civ., sez. Lav. sent. 05.02.2014, n. 2626; Cass. Pen., sez. 4, sent. 03.02.2016, n. 4495; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.01.2016, n. 3616; Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.12.2015, n. 50070; Cass. Civ., sez. Lav., sent. 17.12.2015, n. 25395; Cass. Pen., sez. 4, sent. 26.11.2015, n. 46979; Cass. Civ., sez. Lav., sent. 03.11.2015, n. 22413; Cass. Civ., sez. Lav., sent. 13.10.2015, n. 20533; Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.08.2015, n. 34820; Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.08.2015, n. 34085; Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.07.2015, n. 31236; Cass. Pen., sez. 4, sent. 10.07.2015, n. 29777; Cass. Pen., sez. 4, sent. 10.07.2015, n. 29764; Cass. Pen., sez. 4, sent. 30.06.2015, n. 27183; Cass. Pen., sez. 4, sent. 26.05.2015, n. 22038; Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.04.2015, n. 15172; Cass. Pen., sez. 4, sent. 08.04.2015, n. 14165; Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.04.2015 n. 13864; Cass. Civ., sez. Lav., sent. 11.03.2015, n. 4879; Cass. Pen., sez. 4, sent. 23.01.2015, n. 3291; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.12.2014, n. 53035; Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.12.2014, n. 52442; Cass. Pen., sez. 4, sent. 10.11.2014, n. 46327; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.10.2014, n. 44794; Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.10.2014, n. 43846; Cass. Civ., sez. Lav., sent. 14.10.2014, n. 21647; Cass. Civ., sez. Lav., sent. 05.09.2014, n. 18786; Cass. Pen., sez. 4, sent. 28.08.2014, n. 36348; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.08.2014, n. 36227; Cass. Civ., sez. Lav., sent. 20.12.2013, n. 28564; Cass. Pen., sez. 4, sent. 29.01.2013, n. 4514; Cass. Pen., sez. 4, sent. 18.05.2012, n. 19167; Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.05.2012, n. 17221; Cass. Pen., sez. 4, sent. 21.03.2012, n. 11112; Cass. Pen., sez. 4, sent. 22.12.2011, n. 47820; Cass. Pen., sez. 4, sent. 09.03.2011, n. 9381; Cass. Pen., sez. 4, sent. 26.01.2011, n. 2606; Cass. Pen., sez. 4, sent. 26.01.2011, n. 2565; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.12.2010, n. 45369; Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.10.2010, n. 38111; Cass. Pen., sez. 4, sent. 25.09.2009, n. 3761; Cass. Civ., sez. Lav., sent. 23.04.2009, n. 9689


 

6.2 Segue: Delega di funzioni

Tra le causali più ricorrenti, in giurisprudenza, di esonero della responsabilità del datore di lavoro, figura la delega di funzioni. Come più volte precisato dalla Cassazione “in materia di infortuni sul lavoro, gli obblighi di prevenzione, assicurazione e sorveglianza gravanti sul datore di lavoro, possono essere trasferiti con conseguente subentro del delegato nella posizione di garanzia che fa capo al delegante, a condizione che il relativo atto di delega riguardi un ambito ben definito e non l'intera gestione aziendale, sia espresso ed effettivo, non equivoco ed investa un soggetto qualificato per professionalità ed esperienza che sia dotato dei relativi poteri di organizzazione, gestione, controllo e spesa” (così Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.07.2015, n. 31223, che richiama, sul punto, Cass. Pen., SS.UU., sent. 18.09.2014, n. 38343).

La delega, pertanto, ha un’efficacia propriamente generatrice o ‘costitutiva’ di un nuovo centro di imputazione penale, giacché al “delegato” vengono conferite, unitamente a specifiche funzioni, anche le corrispondenti responsabilità, originariamente di pertinenza del “delegante”. Ne consegue che qualora, nel definire l’organigramma aziendale, si ricorresse a conferimenti formalmente etichettati come “delega di funzioni” anche per attribuire a dirigenti o preposti doveri che già gli spetterebbero ope legis, in realtà la valenza giuridica di tali atti sarebbe meramente ‘descrittiva’, volta cioè a esplicitare, con maggiore puntualità, competenze prevenzionistiche già attribuite a tali soggetti a titolo originario (o iure proprio) dall’ordinamento giuridico.

L’istituto della delega di funzioni (di matrice essenzialmente giurisprudenziale), che nel previgente d.lgs. n. 626/1994 poteva solo implicitamente dedursi a contrariis dal dettato dell’art. 1, c. 4-ter (cfr. ora l’art. 17, d.lgs. n. 81/2008), ha trovato espresso riconoscimento normativo nel vigente art. 16, d.lgs. 81/2008, il quale, al c. 3-bis (introdotto dal d.lgs. n. 106/2009), disciplina anche la subdelega (o delega di secondo grado), consentendo in tal modo al delegato di trasferire, a sua volta, a soggetti terzi, con il consenso del datore di lavoro (garante originario), specifiche funzioni.

Ne consegue, pertanto, che laddove, pertanto, le attività siano state delegate nel rispetto dei limiti di cui agli artt. 16 e 17 e vi sia stata verifica della correttezza della complessiva gestione del rischio da parte del delegato, il titolare della posizione datoriale di garanzia non potrà essere chiamato a rispondere in sede penale per il mancato assolvimento da parte del delegato dell’obbligo di vigilanza sulla concreta e contingente esecuzione delle misure di sicurezza a lui affidate.

Sebbene manchi un’esplicita definizione, la delega di funzioni è pacificamente riconosciuta come l’atto organizzativo di natura negoziale che opera la traslazione di specifici obblighi in materia di tutela della salute e sicurezza e conseguenti responsabilità, dal titolare ex lege (garante ‘originario’), a un altro soggetto, che assume così la veste di garante ‘derivato’; viceversa, espressa e puntuale è la codificazione della struttura, dei requisiti essenziali e degli effetti giuridici da essa derivanti.

In particolare, con riferimento ai requisiti formali che la delega deve rispettare, è richiesta la forma scritta ad substantiam e la data certa. Come ribadito anche di recente in giurisprudenza, pertanto, è da escludersi la possibilità, non solo, di conferimenti orali, ma anche che la forma scritta sia richiesta ad probationem. In tal senso, fra le altre Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.04.2014, n. 15028, secondo cui “L’atto di delega, come poi espressamente sancito dall’art. 16 del D.lgs. 81/2008 (che ha recepito buona parte degli orientamenti giurisprudenziali di questa Corte di legittimità), deve risultare da atto scritto avente data certa onde poter verificare l’effettività della nomina e dello svolgimento delle funzioni conferite anteriormente al verificarsi dell’infortunio”; e ancora Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.02.2014, n. 7071, in base alla quale, “Gli obblighi di cui è titolare il datore di lavoro possono essere trasferiti ad altri sulla base di una delega che deve però essere espressa, inequivoca e certa, non potendo la stessa essere invece implicitamente presunta nella ripartizione interna all’azienda dei compiti assegnati ai dipendenti o dalle dimensioni dell’impresa”.

Con riferimento ai requisiti sostanziali, si richiede che il delegato sia in possesso di idonea professionalità ed esperienza, pacificamente intesa, non quale generica propensione organizzativa o di affidabilità del delegato, bensì come competenza tecnica e professionale parametrata e correlata all’attività da svolgere. In tal senso, infatti, la Suprema Corte si è espressa, richiamando espressioni quali: “necessarie conoscenze tecnico-scientifiche in materia di sicurezza del lavoro”, “particolare esperienza nell’organizzazione dei presidi antinfortunistici nei luoghi di lavoro, anche in relazione alla specifica attività produttiva esercitata dall’impresa” (Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.04.2014, n. 15028), “soggetto di particolare competenza nel settore della sicurezza individuato e rivestito del suo ruolo con modalità rigorose” (Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.09.2013, n. 37563), “persona tecnicamente capace, dotata delle necessarie cognizioni tecniche e dei relativi poteri decisionali e di intervento” (Cass. Pen., sez. 4, sent. 23.01.2012, n. 2694), “persona esperta e competente” (Cass. Pen., sez. 4, sent. 25.2.2010, n. 7691).

Ai fini della piena operatività della delega, è altresì necessario che al delegato vengano attribuititutti i poteri di organizzazione, gestione e controllo” adeguati alla natura delle attività richieste e che sia dotato “dell’autonomia di spesa necessaria allo svolgimento delle funzioni delegate”, in tal modo assicurandogli quella autonomia gestionale che completa la posizione di garanzia derivata, garantendone l’effettiva esplicazione.

Il requisito dell’accettazione per iscritto da parte del delegato conferma la natura di negozio bilaterale della delega di funzioni, da non confondere, pertanto, con l’attribuzione di un incarico, che si caratterizza come mero atto unilaterale recettizio.

Si richiede, infine, che alla delega venga data tempestiva e adeguata pubblicità, benché in relazione alle modalità di attuazione di tale obbligo, non vi sia ancora uniformità.

Da ultimo, si ricorda che la giurisprudenza, in aggiunta, richiede che la delega individui i compiti di natura prevenzionistica oggetto del trasferimento. In tal senso, infatti, la Suprema Corte ha precisato che: “La delega alla sicurezza sul lavoro richiede l'individuazione, da parte del delegante datore di lavoro, dei compiti di natura specificamente prevenzionistica che vengono trasferiti in forza della stessa. In tal modo, può considerarsi come delegato alla sicurezza il direttore di stabilimento cui è imposta la predisposizione di misure antinfortunistiche in relazione a tutti i macchinari presenti in azienda, e non anche il direttore nominato responsabile di un determinato servizio (nella specie, direttore del servizio di ingegneria industriale e progettazione), al quale la delega è stata attribuita in senso "atecnico", come può essere attraverso un atto che concretizza l'articolazione organizzativa aziendale” (Cass. Pen., sez. 4, sent. 23.11.2012, n. 11442).

Una volta perfezionata la delega, con conseguente traslazione dei correlati obblighi di sicurezza al soggetto delegato, residua in capo al garante originario l’obbligo di vigilanza. Così come chiarito dalla giurisprudenza, il controllo richiesto al delegante non può essere analitico “cioè essere così penetrante e costante al punto da sostanziarsi nell’adempimento dell’obbligo stesso di cui il delegante è originario destinatario. Infatti, se così fosse, la dimensione di tale obbligo di controllo renderebbe sostanzialmente inutile il ricorso alla delega”(Cass. pen., sez. 4, 08.05.2012, n. 17074; Cass. pen., sez. 4, 19.03.2012, n. 10702; e, in precedenza, anche Cass. pen., sez. 5, 22.11.2006, n. 38425).

La Cassazione, in particolare, nel confermare l’impugnata sentenza assolutoria ha precisato che la stessa “non pone in discussione il principio secondo il quale esiste una responsabilità residuale del datore di lavoro che ha l’obbligo di vigilanza ex art. 16, comma 3, d.lgs 81/ 2008 ma, anzi, si è soffermata sul concetto di "vigilanza alta", che ha per oggetto il corretto svolgimento delle proprie funzioni da parte del soggetto delegato, con l'obbligo del datore di lavoro di vigilare e di controllare che il delegato usi correttamente la delega, secondo quanto la legge prescrive. Il ruolo di vigilanza di cui al comma 3, del citato art. 16, d.lgs 81/2008, tuttavia, come ben chiarito dalla Corte di merito, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte (v. la richiamata sentenza Sezione IV, 1 febbraio 2012, n. 10702, Mangone, che si è soffermata proprio su questo aspetto) non può avere per oggetto la concreta, minuta conformazione delle singole lavorazioni - che la legge affida al garante - concernendo, invece, la correttezza della complessiva gestione del rischio da parte del delegato. Ne consegue che l'obbligo di vigilanza del delegante è distinto da quello del delegato - al quale vengono trasferite le competenze afferenti alla gestione del rischio lavorativo - e non impone il controllo, momento per momento, delle modalità di svolgimento delle singole lavorazioni” (Cass. Pen., sez. 4, sent. 22.06.2015, n. 26279).

Da ultimo, giova ricordare che, così come recita il secondo periodo del c. 3, dell’art. 16, l’obbligo di vigilanza del delegante si intende assolto in caso di adozione ed efficace attuazione del modello di verifica e controllo di cui al successivo art. 30, c. 4, ossia del modello di organizzazione e gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche ai sensi del d.lgs. n. 231/2001. Tale previsione, unitamente alla disciplina della delega di funzioni, ha determinato l’apertura, da parte della Commissione europea, di una procedura di infrazione (la n. 2010/4227) contro l’Italia (poi archiviata il 26 marzo 2015), per il non corretto recepimento della direttiva 89/391/CEE, relativa all’attuazione di misure volte a promuovere il miglioramento della sicurezza e della salute dei lavoratori durante il lavoro. Ad avviso della Commissione, infatti, la disciplina interna, che fa residuare a carico del delegante solo un dovere di vigilanza, incerto nei contenuti, non direttamente sanzionato e “assolto” con la semplice adozione ed efficace attuazione dei modelli organizzativi, determinerebbe un’inammissibile “deresponsabilizzazione” del datore di lavoro nei confronti degli obblighi relativi alla salvaguardia della salute e sicurezza sul lavoro, e quindi una violazione dell’art. 5 della citata direttiva. Analogo rilievo è stato formulato anche rispetto all’art. 16, c. 3-bis, d.lgs. n. 81/2008, in quanto esso limiterebbe l’obbligo di vigilanza al sub-delegante.

 

Giurisprudenza di riferimento:

Cass. Pen., sez. 4, sent. 27.09.2017, n. 44612; Cass. Pen., sez. 3, sent. 15.06.2017, n. 30115; Cass. Pen., sez. 4, sent. 10.04.2017, n. 18101; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.02.2017, n. 8070; Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.08.2016, n. 33630; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.07.2016, n. 31215; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.07.2016, n. 30547; Cass. Pen., sez. 4, sent. 01.07.2016, n. 27056; Cass. Pen., sez. 3, sent. 28.04. 2016, n. 17426; Cass. Pen., sez. 4, sent. 02.02.2016, n. 4347; Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.01.2016, n. 1021; Cass. Pen., sez. 4, sent. 05.10.2015, n. 40043; Cass. Pen., sez. 3, sent. 23.09.2015, n. 38551; Cass. Pen., sez. 4, sent. 11.08.2015, n. 34818; Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.07.2015, n. 31235; Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.07.2015, n. 31223; Cass. Pen., sez. 4, sent. 25.06.2015, n. 26999; Cass. Pen., sez. 4, sent. 22.06.2015, n. 26279; Cass. Pen., sez. 4, sent. 29.04.2015, n. 18083; Cass. Pen., sez. 4, sent. 17.09.2014, n. 38100; Cass. Pen., sez. 4, sent. 16.12.2013, n. 50605; Cass. Pen., sez. 4, sent. 20.05.2013, n. 21628; Cass. Pen., sez. 4, sent. 29.01.2013, n. 4514; Cass. Pen., sez. 4, sent. 13.12.2012, n. 48219; Cass. Pen., sez. 4, sent. 19.10.2012, n. 41063; Cass. Pen., sez. 4, sent. 18.10.2012, n. 40894; Cass. Pen., sez. 4, sent. 28.06.2012, n. 25535; Cass. Pen., sez. 3, sent. 18.12.2013, n. 50966; Cass. Pen., sez. 4, sent. 26.04.2011, n. 16311; Cass. Pen., sez. 4, sent. 25.03.2011, n. 12027; Cass. Pen., sez. 3, sent. 21.01.2011, n. 1855; Cass. Pen., sez. 4, sent. 04.01.2011, n. 116; Cass. Pen., sez. 4, sent. 22.04.2008, n. 16465; Cass. Pen., sez. 4, sent. 29.01.2008, n. 8604