Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 07 marzo 2018, n. 5385 - L’oggetto di rivalsa dell’INAIL va circoscritto al danno patrimoniale in senso stretto, restando esclusa la possibilità di considerare il danno biologico (o estetico) ex art. 2043 c.c.



Presidente D’Antonio – Relatore Calafiore

 

 

Fatto
 

 


La Corte d’Appello di Salerno con la sentenza n. 741/2011 ha respinto gli appelli, proposti separatamene e poi riuniti, di La Doria s.p.a. e di B.E. avverso la sentenza del Tribunale della stessa sede che aveva accolto la domanda di regresso dell’Inali, proposta dopo la declaratoria di prescrizione dei reati in sede penale, condannando gli appellanti in solido alla restituzione di Euro 319.598,48 pari a quanto sarebbe stato versato dall’Istituto al lavoratore M.A. in conseguenza di infortunio sul lavoro occorsogli il (omissis) .
A fondamento della decisione la Corte territoriale ha ritenuto provata la responsabilità della datrice di lavoro e del responsabile del reparto trasformazione per le lesioni occorse al lavoratore allorché lo stesso nel corso di un’operazione di lavaggio degli impianti aveva versato nel contenitore 23, mentre l’acqua del serbatoio si trovava ad una temperatura di oltre trenta gradi superiore a quella corretta di sessanta gradi, un notevole quantitativo di soda caustica in polvere. Inoltre, ad avviso della Corte territoriale, l’importo richiesto corrispondeva al danno patrimoniale oggetto del ristoro erogato all’infortunato e, quindi, legittimamente poteva formare oggetto di regresso.
Contro la sentenza, La Doria s.p.a., F.A. - amministratore delegato dell’epoca della società - ed B.E. hanno proposto ricorso per cassazione con tre motivi ai quali ha resistito l’INAIL con controricorso illustrato da memoria.
La Doria s.p.a ha depositato procura notarile di nomina di nuovo difensore in sostituzione dell’avvocato Omissis.

 



Diritto

 



1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia l’omessa motivazione su un punto decisivo della controversia e la violazione degli artt. 10 e 11 del d.p.r. n. 1124/ 65, degli artt. 1223, 1227, 2043 cod. civ. in relazione all’articolo 360 n. 3 cod. proc. civ. atteso che, essendo l’infortunio avvenuto il (omissis) , andava applicata la disciplina di cui al d.p.r. n. 1124/1965 e non quella introdotta dal d.lgs. 38/2000 in base alla quale l’INAIL indennizza il danno biologico e non più l’attitudine al lavoro. Inoltre, l’Inail non aveva prodotto alcuna altra prova in ordine alla presunta perdita di capacità lavorativa specifica da parte del lavoratore infortunato.
1.1. Il primo motivo di ricorso risulta solo in parte fondato nei termini che seguono. L’infortunio di cui si discute non è ratione temporis disciplinato dal d.lgs. 38/2000; per espressa previsione dell’art. 13, comma 2, d.lgs. 38/2000 le disposizioni sul nuovo sistema di liquidazione, che ha introdotto l’indennizzo del danno biologico riguardano, " i danni conseguenti ad infortuni sul lavoro e a malattie professionali verificatisi o denunciati a decorrere dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui al comma 3 "; decreto che è stato emanato il 12 luglio 2000 e pubblicato nella G.U. del 25 luglio 2000. Per gli eventi dannosi antecedenti come quello oggetto di causa, avvenuto il (omissis) , si applica (legittimamente, secondo la Corte Cost. n.426/2006) la disciplina precedentemente in vigore, nella quale invece non era previsto un sistema specifico di indennizzo del danno biologico essendo erogabile, ai sensi dell’art. 74 del DPR cit. (anche per le malattie professionali, dopo la sentenza della Corte Cost. 93/1977), soltanto una rendita per inabilità permanente commisurata all’attitudine al lavoro e solo in caso di raggiungimento della soglia minima dell’11% di menomazione.
1.2. L’esatta individuazione della normativa applicabile alla fattispecie assume dunque rilievo essenziale giacché, relativamente al sistema regolato dal t.u. n. 1124 del 1965, l’oggetto dell’azione di rivalsa ex art. 11 va identificato, alla luce dei complessi esiti della giurisprudenza costituzionale e di legittimità formatasi in tale contesto in tema di danno biologico e danno morale (Corte Cost. n. 485 del 1991 e n. 37 del 1994 nonché Cass. n. 10405 del 1998), nel cd. danno patrimoniale in senso stretto, ed il relativo giudizio comporta la necessità di accertare (Cass. n. 4412 del 1994; n. 8341 del 1991; n, 12911 del 1992) che la percentuale d’inabilità permanente parziale, che rileva ai fini del riconoscimento della relativa rendita al lavoratore infortunato, sia determinata con riguardo al grado di riduzione dell’attitudine al lavoro (generico), secondo i criteri di cui all’art. 78 del d. P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 ed alla tabella ivi richiamata, restando esclusa la possibilità di tener conto, ai fini anzidetti, del cosiddetto danno biologico o di quello estetico, stante la configurabilità dell’assicurazione contro gl’infortuni sul lavoro come assicurazione finalizzata al risarcimento della perdita o della riduzione della capacità lavorativa degli assicurati e non al risarcimento del danno secondo la nozione più ampia (e perciò comprensiva del danno biologico ed estetico) di cui agli artt. 2043 e segg. cod. civ..
1.3. Dunque, secondo la giurisprudenza di questa Corte di legittimità (Cass. 10289 del 2001; 1230 del 2006) solo se la capacità lavorativa specifica si traduce in una riduzione della capacità di guadagno, questa diminuzione della produzione di reddito integra un danno patrimoniale e come tale va liquidato a norma dell’art. 2043 cc.(danno patrimoniale e, quindi, conseguenza). L’invalidità permanente (sia totale che parziale), mentre di per sé concorre a costituire il danno biologico, non comporta necessariamente anche un danno patrimoniale. A questo fine il giudice, oltre ad accertare in quale misura la menomazione fisica abbia inciso sulla capacità di svolgimento dell’attività lavorativa specifica e questa a sua volta sulla capacità di guadagno (e, quindi, di produrre ricchezza), deve anche accertare se ed in quale misura in tale soggetto persista o residui, dopo e nonostante l’infortunio subito una capacità ad attendere ad altri lavori, confacente alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, ed altrimenti idonei alla produzione di altre fonti di reddito, in luogo di quelle perse o ridotte (Cass. 30.12.1993, n. 13013). Solo se dall’esame di questi elementi risulterà una riduzione della capacità di guadagno e del reddito effettivamente percepito, questo (e non la causa di questo, cioè la riduzione della capacità di lavoro, specifica) sarà risarcibile sotto il profilo del lucro cessante.
1.4. Corollario di tali principi è, dunque, che nel giudizio di rivalsa l’INAIL possa pretendere che il datore di lavoro ed il suo preposto alla sicurezza siano condannati a versare quanto erogato all’infortunato esclusivamente a titolo di danno patrimoniale, con la conseguenza che la sentenza, soprattutto laddove la questione sia stata espressamente devoluta, deve dimostrare di aver valutato specificamente le singole poste considerate al momento del calcolo delle prestazioni assicurative.
1.5. La Corte d’Appello, dopo una generale ricostruzione delle regole codicistiche relative alla responsabilità civile del datore di lavoro ed una ricognizione dei fatti riferiti nel verbale ispettivo, ha tautologicamente affermato che tutti gli importi richiesti dovevano intendersi relativi a danno patrimoniale senza fornire alcun concreto dato a conforto dell’affermazione medesima pur in presenza della espressa contestazione delle parti, come i ricorrenti hanno dimostrato attraverso la riproduzione della doglianza al punto B3) della pagina 9 del ricorso per cassazione. Si era, infatti, posta la questione della mancanza di specificazione da parte dell’Istituto delle voci che avevano condotto alla quantificazione dell’importo preteso e, soprattutto, delle componenti del danno in concreto valutato, in considerazione del fatto che nella determinazione del danno civilistico aggredibile in sede di regresso il giudice deve tener conto del solo danno patrimoniale in senso stretto.
1.6. Non è, invece, fondato il diverso profilo del motivo in esame che ha per oggetto il vizio di motivazione sul punto della concreta incidenza della inabilità scaturita dall’infortunio sul lavoro specifico svolto dal M. e sulla determinazione del grado di menomazione accertato dall’Inali in sede di riconoscimento della rendita; questa Corte di legittimità (Cass. n. 17960 del 2006) ha chiarito che in tema di azione di regresso, il datore di lavoro è estraneo al rapporto tra l’infortunato e l’istituto assicuratore pubblico e non può contestarne il fondamento anche se, nei confronti dell’INAIL, è obbligato nei limiti dei principi che informano la responsabilità civile per il danno civilistico subito dal lavoratore. Conseguentemente, il giudice del merito deve calcolare il danno civilistico (artt. 1221, 2056 cod. civ.) in relazione alla percentuale riconosciuta dal consulente tecnico d’ufficio, che costituisce il limite massimo del diritto di regresso dell’INAIL, senza entrare nel merito della valutazione effettuata dall’istituto a mezzo dei suoi sanitari ai fini del danno infortunistico, stabilendo, quindi, se l’importo richiesto dall’istituto rientra o meno nel predetto limite.
2. Col secondo motivo si denuncia la insufficiente e/o omessa motivazione in ordine alla mancata ammissione della prova orale, decisiva per la determinazione della percentuale di responsabilità del datore di lavoro, nonché l’ulteriore vizio di motivazione derivante dalla mancata valutazione delle circostanze in fatto risultanti dal verbale redatto dagli ispettori dell’INAIL e dalla errata valutazione delle risultanze istruttorie in relazione all’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., posto che la Corte d’appello, pur a fronte della specifica richiesta di ammissione della prova testimoniale, ritualmente trascritta in ricorso e tesa a provare che la datrice di lavoro aveva osservato l’obbligo di elevata e specifica formazione professionale di conduttore d’impianti e di costante vigilanza e controllo sul lavoratore infortunato affinché lo stesso utilizzasse guanti, occhiali e grembiule protettivo che gli erano stati forniti, aveva accolto la domanda di regresso ritenendo che la prova di tali circostanze non facesse venir meno la responsabilità dei convenuti. Non aveva dunque considerato che, nel determinare il danno patrimoniale civilistico, si sarebbe dovuto tener conto del concorso di colpa del danneggiato ex art. 1227 cod. civ. che, naturalmente, è cosa ben diversa dall’accertamento di una causa autonoma, quale la condotta abnorme del lavoratore, che escluda del tutto la responsabilità del datore di lavoro o dei suoi delegati.
2.1. Il motivo è fondato. Premesso che il controllo di legittimità sulla motivazione, ai sensi dell’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ. nella formulazione anteriore al d. I. n. 83 del 2012 applicabile ratione temporis, non può avere ad oggetto le scelte operate dal giudice del merito sulla utilità di un mezzo di prova rispetto ad un altro, ma solo la coerenza logica della decisione relativa alle istanze delle parti in ragione dei relativi oneri probatori e dell’oggetto del giudizio, va osservato che il ricorso ha riprodotto i contenuti dell’espressa richiesta di prova su circostanze tese a provare l’esercizio effettivo del potere di controllo sul lavoratore circa l’utilizzo dei mezzi di protezione, nonché sulla specifica formazione impartita. Si tratta di sufficienti elementi di specificazione che soddisfano il principio secondo cui in caso di denuncia della mancata ammissione di mezzi istruttori e di vizio della sentenza derivante dal rifiuto del giudice di merito di dare ingresso a mezzi istruttori ritualmente richiesti, il ricorrente ha l’onere di indicare specificamente i mezzi istruttori, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto di prova, nonché di dimostrare sia l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (Cass. 4/10/2017 n. 23194; n. 4778 del 2007).
2.2. Deve, infatti, affermarsi che in tema di infortuni sul lavoro, ove il datore di lavoro non abbia rispettato specifiche norme di sicurezza, la sua responsabilità, in ordine all’infortunio subito dal dipendente, non può essere senz’altro ammessa se sia emersa una coeva o successiva condotta colpevole dell’infortunato o di altri, né esclusa soltanto per tale fatto, dovendosene accertare la reale autonomia causale rispetto alla causa posta in essere dal datore di lavoro ovvero la concorrenza (Cass. n. 6341 del 1987). Questa Corte di cassazione (Cass. n. 21112 del 2008) ha pure affermato che l’art. 2087 cod. civ. impone all’imprenditore l’obbligo di adottare le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro per cui il fatto che dallo svolgimento delle mansioni sia derivato un danno patrimoniale o non patrimoniale al prestatore di lavoro corrisponde ad inadempimento del detto obbligo di tutela ed impone all’imprenditore l’onere di provare, ai sensi dell’art. 1218 c.c., l’impossibilità di adempiere, per causa a lui non imputabile. L’art. 2087 c.c., cit., suole essere definito come norma di chiusura del sistema antinfortunistico nel senso che, anche ove difetti una specifica norma preventiva, la disposizione prescrive al datore di lavoro di adottare comunque le misure generiche di prudenza, diligenza ed osservanza delle norme tecniche e di esperienza (Cass. 2 giugno 1998 n. 5409, 19 luglio 2003 n. 12138, 20 luglio 2003 n. 12253). Ciò comporta che il sistema legale non configura una responsabilità oggettiva del datore per infortunio subito dal prestatore di lavoro, ma richiede che l’evento dannoso sia pur sempre riferibile a colpa del primo (Cass. 20 maggio 1998 n. 5035, 12 febbraio 2000 n. 1579, 10 maggio 2000 n. 6018, 1 giugno 2004 n. 10510).
2.3. Ulteriore conseguenza è che l’art. 2087 c.c. richiede una collaborazione tra le due parti del contratto di lavoro, onde il lavoratore è obbligato a rispettare sia la normativa antinfortunistica sia le regole di prudenza e il datore di lavoro può, nel fornire la prova liberatoria ex art. 1218 cit., dimostrare la concorrente colpa del prestatore al fine di diminuire il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 1227 c.c., comma 1, (Cass. 30 maggio 2001 n. 5367, 8 aprile 2002 n. 5024).
L’accertamento dell’apporto causale dell’infortunato nella determinazione del quantum di risarcimento dovuto dal datore di lavoro, sempre che la colpa del medesimo danneggiato non sia tale da interrompere il nesso causale tra l’inadempimento datoriale e l’evento infortunistico, è rilevante anche se non esclude la responsabilità per mancata attuazione delle misure in quanto è valutabile in sede di concorso (Cass. pen. 13 novembre 1985, Accettatura). Dunque la colpa del danneggiato può influire sulla misura del risarcimento allo stesso spettante ai sensi dell’art. 1227 cod. civ. ed in tal modo essere rilevante anche al fine di limitare l’entità del regresso dell’INAIL (Cass. n. 4171 del 1986) nel senso che, pur non essendo il credito dell’Istituto assicuratore soggetto, in caso di concorso di colpa dell’infortunato, a riduzione proporzionale al grado del concorso stesso, esso trova come unico limite quantitativo il complessivo ammontare del risarcimento che sarebbe dovuto dal responsabile all’infortunato secondo le norme generali sui danni da fatto illecito" (Cass. n. 4842 del 7.3.2005; Cass. 20 agosto 1996, n. 7669).
2.4. La mancata ammissione della prova testimoniale può essere denunciata in sede di legittimità per vizio di motivazione in ordine all’attitudine dimostrativa di circostanze rilevanti ai fini del decidere (Cass. n. 66 del 2015) e tali sono anche i fatti dimostrativi dell’effettiva negligenza o imprudenza del lavoratore per cui la motivazione della sentenza su tale questione deve giustificare il diniego di ammissione di prova in modo adeguato, non essendo pertinente il mero richiamo alla mancata allegazione di condotta abnorme del lavoratore che avrebbe il diverso scopo di escludere totalmente la responsabilità datoriale ma non di impedire la limitazione del quantum di danno civile risarcibile, né la indicata necessità che la prova di tali circostanze debba necessariamente essere documentale.
3. Il terzo motivo denuncia l’omessa valutazione della domanda di accertamento di responsabilità dei convenuti in regresso in ordine al solo danno civilistico e non anche di quello previdenziale con ulteriore omessa motivazione del diniego di espletamento di c.t.u..
3.1. Il motivo è fondato. In ragione della natura originaria ed autonoma dell’azione di rivalsa riconosciuta all’INAIL dall’art. 11 del t.u. n. 1124 del 1965, oggetto dell’azione stessa è quanto erogato al lavoratore a titolo di indennità e spese accessorie nonché del valore capitale dell’ulteriore rendita devolutagli. Limite invalicabile rispetto all’ammontare di tale pretesa è, secondo la giurisprudenza di questa Corte di cassazione (Cass. n. 255 del 2008) quanto dovuto al danneggiato dall’autore del danno secondo le norme generali che disciplinano la responsabilità per fatto illecito. La Corte d’appello non ha correttamente motivato sui fatti decisivi e controversi sopra rappresentati allorché non ha ritenuto di giustificare la mancata considerazione delle eccezioni difensive proposte in ordine alla limitazione del diritto di regresso alla somma corrispondente al danno civilistico. In tal senso infatti era stata formulata esplicita eccezione dagli appellanti, i quali avevano anche invocato la c.t.u. per l’accertamento medico legale indispensabile per rilevare l’esistenza e la misura del danno civilistico costituente il limite massimo del diritto di regresso dell’Inail. La stessa eccezione di parte era dunque idonea ad attribuire al giudice la potestà di giudicare sulla questione atteso che la legge commisura la responsabilità del datore ed il diritto dell’INAIL in sede di regresso al danno civilistico e non all’ammontare dell’indennizzo previdenziale.
3.2. Va infatti considerato che anche rispetto alla originaria disciplina del calcolo della rendita prevista dal t. u. n. 1124 del 1965, modificata dall’art. 13 d.lgs. 38 del 2000 applicabile alla fattispecie in esame, tra il danno civilistico e quello previdenziale si apprezzano sensibili differenze derivanti dalla natura contrattuale della responsabilità del datore di lavoro che, per tale ragione, ha l’onere di provare l’imputabilità del danno, anche in concorso, allo stesso infortunato (Cass. n. 21112 del 2008 già cit.) ed altre ragioni limitative del proprio obbligo risarcitorio.
4. In conclusione, alla luce delle premesse, il primo per quanto di ragione, il secondo ed il terzo motivo di ricorso devono essere accolti, la sentenza impugnata va dunque cassata in relazione ai motivi accolti e la causa rinviata ad un nuovo giudice, che si indica nella Corte d’appello di Salerno in diversa composizione, il quale nella decisione della causa si atterrà ai principi richiamati ai punti sopra elencati. In particolare, individuate in concreto le poste considerate quali oggetto dell’azione di regresso posta in essere dall’INAIL (ferma restando la congruità delle indennità corrisposte al lavoratore) e verificate le eventuali ragioni di concorso dell’infortunato nella determinazione dell’infortunio dallo stesso subito, calcoli (anche a mezzo c. t. u.) il danno civilistico ai sensi degli artt. 1221 e ss. 2056 cod. civ. in relazione alla percentuale riconosciuta a tale specifico scopo e stabilisca se l’importo richiesto dall’INAIL a titolo di regresso per il danno patrimoniale subito dal M. rientri oppure no in tale limite.
Il giudice di rinvio provvederà altresì alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

 

 

P.Q.M.

 



La Corte accoglie il ricorso per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Salerno che, in diversa composizione, provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.