Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 05 aprile 2018, n. 15186 - Il "principio di autoresponsabilità del lavoratore" non trova applicazione se manca il completo adempimento, da parte del DL, di ogni obbligo di sicurezza


 

Presidente: IZZO FAUSTO Relatore: B.N. MARIAROSARIA Data Udienza: 16/01/2018

 

Fatto

 

1. Con sentenza del 9/2/2016, la Corte di appello di Catania confermava la pronuncia emessa dal Tribunale di Catania, sezione distaccata di Belpasso, quanto alla declaratoria di penale responsabilità di DF.A., in ordine al reato di lesioni colpose gravi, derivate da violazione di norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, del dipendente B.N.. La Corte territoriale, riformava la sentenza di primo grado limitatamente al trattamento sanzionatorio, riducendo la pena inflitta all'imputato, in quella di mesi quattro di reclusione. Confermava la condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile costituita, da liquidarsi in separato giudizio, nonché, la condanna al pagamento di una provvisionale dell'importo di euro 25 mila, cui era subordinato il beneficio della sospensione condizionale della pena.
2. La vicenda attiene ad un infortunio avvenuto in Belpasso, in data 1/10/2008, in seguito al quale l'operaio B.N. riportava un trauma toracico e vertebra midollare, da cui derivava un pericolo di vita ed una incapacità di attendere alle normali occupazioni per oltre 40 giorni. L'operaio, che aveva la qualifica di autista e palista presso la cava da frantumazione "Dragolotti Icea", di cui il ricorrente era amministratore, mentre era intento a manovrare la pala meccanica, avendo scorto sul nastro trasportatore dell'impianto di frantumazione un oggetto in ferro, salito sulla piattaforma (tramite la scala a gradini) per rimuoverlo, al fine di non danneggiare il macchinario perdeva l’equilibrio e precipitava a terra dalla suddetta piattaforma posta ad un'altezza di circa un metro e mezzo, precipitando all'interno di un fossato profondo circa un metro.
Al titolare della ditta "Dragolotti Icea", datore di lavoro di B.N. , era contestato di avere cagionato le suddette lesioni al dipendente, per colpa specifica, consistita nella violazione degli arti. 36 co. 1 e 2 e 37 co 1, d.lgs. 81/2008, non provvedendo a fornire all'operaio un'adeguata informazione e formazione sui rischi per la salute e la sicurezza connessi all'attività d'impresa, ai rischi riferiti alle mansioni ed ai possibili danni caratteristici del settore o comparto di appartenenza dell'azienda, nonché, sulle conseguenti misure e procedure di prevenzione e protezione; degli artt.18, co. 1 lett. d) e 111 co. 2, d.lgs. 81/08, non provvedendo a fornire al B.N. i necessari ed idonei dispositivi di protezione individuali contro le cadute dall'alto, né a garantire il passaggio a piattaforme, impalcati e passerelle; dell'art. 18, co. 1 lett. c), che prevede l'affidamento dei compiti ai lavoratori in rapporto alla loro salute e sicurezza, tenuto conto delle capacità e delle condizioni personali del lavoratore.
3. Avverso la pronuncia di condanna proponeva ricorso per cassazione l'imputato, a mezzo del difensore, affidando le proprie deduzioni a due motivi di ricorso
Primo motivo: travisamento della prova; mancanza ed illogicità della motivazione; violazione di legge in relazione alla individuazione delle condotte e dei profili di colpa attribuiti all'imputato; inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità, in relazione agli artt. 521 e 522, cod. proc. pen.
Secondo la prospettazione difensiva, la Corte di appello ed il Tribunale non avrebbero adeguatamente considerato tutto il materiale probatorio acquisito in atti. Pertanto, non sarebbero pervenuti ad una corretta e completa valutazione del caso in esame. Non avrebbero valutato la sussistenza della violazione delle norme contestate e del nesso causale tra queste e l'infortunio occorso al lavoratore. L’affermazione della responsabilità dell'imputato in ordine alle violazioni contestate, muoverebbe da un errato presupposto di fatto, dando per certo che il lavoratore fosse salito sul nastro trasportatore del frantoio mobile, per rimuovere un pezzo di metallo che impediva il corretto funzionamento del macchinario, in base ad una "prassi consolidata" di lavoro. I giudici di merito avrebbero ritenuto provato che tutti i dipendenti erano, all'occorrenza, impiegati anche in lavori di manutenzione degli impianti, indipendentemente dalla loro formazione. In base a tale assunto la Corte di appello avrebbe individuato la responsabilità del datore di lavoro, nella mancata formazione ed informazione del lavoratore sulle procedure da attuarsi in tali casi e nella mancata dotazione degli strumenti di protezione in relazione a tali incombenze.
Secondo l'assunto difensivo, tali presupposti di fatto erano censurabili, emergendo dalle risultanze probatorie circostanze diverse da quelle ritenute dai giudici di merito.
Il datore di lavoro aveva dato precise disposizioni aziendali, note a tutti i lavoratori, che in caso di guasto del macchinario l’operatore avrebbe dovuto spegnere il macchinario, avvertire il capocantiere e chiamare il manutentore. Aveva pure stabilito che mai il lavoratore avrebbe dovuto "arrampicarsi" sul rullo del frantoio mobile, come invece è avvenuto. In ordine a questo aspetto, sul macchinario era esplicitamente indicato in forma scritta di non salire su quell’area del mezzo, scavalcando le paratie di protezione. Infine, l’obbligo di formazione e informazione era stato correttamente assolto attraverso l’organizzazione periodica di corsi specifici. Tali elementi erano emersi dalle dichiarazioni dei testi L.S., M.F. e R.F., tutti sentiti all'udienza 1.12.2011 (come da allegato). Il primo, capo cantiere della ICEA dal 1999, ha dichiarato di avere sempre dato disposizioni, anche allo stesso B.N., di essere immediatamente avvertito in casi del genere, affinchè si procedesse a chiamare l'addetto alla manutenzione (M.F.). Il teste ha anche riferito che era assolutamente vietato salire sul nastro trasportatore del frantoio mobile, come invece aveva fatto l'operaio e che, a tal fine, vi erano alcuni adesivi di avvertimento apposti in modo ben visibile sul macchinario, fra cui quello di non salire sul braccio mobile e che non era possibile accedere sul nastro trasportatore per la presenza di "ostacoli" da "saltare". Il teste M.F. ha confermato di essere l’addetto alla manutenzione dei mezzi della ditta ICEA e che, in caso di guasto o blocco del mezzo, la prassi era quella di avvisarlo per l’intervento sul luogo. Il teste R.F., consulente della ICEA in materia di sicurezza e prevenzione sul posto di lavoro, ha riferito di avere organizzato, nel corso degli anni, numerosi incontri per la formazione dei dipendenti e di avere sempre raccomandato ai lavoratori di attenersi alle proprie mansioni. Egli ha poi confermato che, in caso di guasto, la direttiva impartita dall'azienda era quella di chiamare il manutentore.
La Corte d’appello di Catania, travisando il risultato della prova, aveva ritenuto di desumere l’esistenza di una prassi consolidata dei lavoratori, di intervenire nella manutenzione dei macchinari, perchè un altro teste, tale C,, aveva dichiarato che al momento dell'infortunio, stava cambiando delle ganasce in un frantoio poco distante. Tale dato, non approfondito nel corso del dibattimento, secondo il giudice, avrebbe reso irrilevante quanto dichiarato dagli altri testi in ordine alle direttive aziendali. Da tale testimonianza, la Corte d'appello, desumenva che la condotta del B.N. non costituisse affatto un comportamento "esorbitante", essendo consuetudine, tra gli operai, provvedere alla manutenzione dei macchinari con la tolleranza dei soggetti preposti alla vigilanza. Orbene, affermava la difesa, se tali comportamenti vietati erano compiuti con la la tolleranza dei preposti alla vigilanza, la violazione della regola cautelare che ha determinato l’evento, riguarderebbe non già la formazione e l’informazione dei lavoratori o l’esistenza degli strumenti di protezione, quanto, piuttosto, l’obbligo di vigilanza in concreto, che gravava sul capo-cantiere il quale, essendo costantemente sul posto, aveva l’obbligo di vigilare sul corretto operato dei lavoratori.
Secondo motivo: erronea applicazione di legge con riferimento alla sussistenza del nesso causale tra le condotte contestate e l'evento.
La Corte territoriale avrebbe ritenuto erroneamente integrate le violazioni di legge contestate nel capo d'imputazione. Invero, la condotta serbata dal ricorrente avrebbe fatto venire meno il necessario nesso eziologico tra le violazioni contestate e l'evento. Il dipendente avrebbe scavalcato la ringhiera di protezione per potersi arrampicare sul braccio del macchinario. Dunque, avrebbe posto in essere una condotta non solo del tutto esorbitante dalle proprie mansioni di autista e palista, ma anche assolutamente abnorme ed imprevedibile. La ringhiera infatti era stata prevista dal costruttore del mezzo, proprio per evitare che si potesse inavvertitamente e agevolmente raggiungere il nastro trasportatore. Ricordava in proposito come, secondo i più recenti orientamenti della giurisprudenza di legittimità, il datore di lavoro non avrebbe più un obbligo di vigilanza assoluta rispetto al lavoratore come in passato: una volta che egli abbia fornito al lavoratore tutti i mezzi idonei alla prevenzione ed abbia adempiuto alle obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, non risponderà dell'evento derivante da una condotta imprevedibilmente colposa del lavoratore (Sez. 4, n. 8883 del 10/2/2016, Rv. 266073). Si è invero affermato, come il sistema della normativa antinfortunistica si sia ormai trasformato, da modello iperprotettivo, interamente incentrato sulla figura del datore di lavoro, investito di un obbligo di vigilanza assoluta sui lavoratori, ad un modello collaborativo, in cui gli obblighi sono ripartiti tra più soggetti, compresi gli stessi lavoratori.
La Corte territoriale, quindi, avrebbe fatto erronea applicazione dell'art. 41, commi 2 e 3, cod.pen. disattendendo i principi affermati dalla più recente giurisprudenza di legittimità.
 

 

Diritto

 


1. Deve in primo luogo rilevarsi, come il reato ascritto all'imputato sia estinto per intervenuta prescrizione.
In ordine al tempo necessario a prescrivere, la disciplina attualmente vigente, applicabile al caso in esame, in quanto trattasi di fatto occorso in data 1/10/2008, successivamente alla entrata in vigore della legge 5 dicembre 2005, n.251, prevede un termine massimo di prescrizione di anni sette e mesi sei. Calcolando i periodi di sospensione della prescrizione intervenuti nei gradi di merito, pari a complessivi gg. 120, tale termine risulta interamente decorso alla data del 1/8/2016.
La causa di estinzione del reato per intervenuta prescrizione può essere rilevata anche d'ufficio in sede di legittimità, in assenza di condizioni idonee a determinare la manifesta infondatezza del ricorso.
Quanto alle più favorevoli forme di proscioglimento, di cui alla previsione dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., esse vengono in rilievo soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale, emergano dagli atti in modo assolutamente evidente e non contestabile, essendo la valutazione da compiersi in tali casi, più vicina al concetto di "constatazione", che di "apprezzamento". Essa, invero, è incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274).
Tuttavia, nel giudizio di impugnazione, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni pronunciata dal primo giudice o dalla Corte d'appello, in seguito a costituzione di parte civile nel processo, è preciso obbligo del giudice, anche di legittimità, secondo il disposto dell'art. 578 cod. proc. pen., esaminare il fondamento dell'azione civile e verificare, senza alcun limite, l'esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale al fine di confermare o meno la condanna alle restituzioni ed al risarcimento pronunciate nei precedenti gradi.
2. Venendo quindi alle doglianze difensive, occorre rilevare come il ricorrente, non senza evocare in larga misura talune censure in fatto, abbia sostanzialmente ripercorso le medesime argomentazioni che aveva dedotto innanzi al giudice di appello.
In proposito si ritiene, diversamente da quanto si sostiene nel ricorso, che il giudice della sentenza impugnata abbia risposto adeguatamente a tutte le questioni sollevate dalla difesa in sede di appello, oggi riproposte innanzi alla Corte, principalmente incentrate sulla critica alla mancata formazione del lavoratore e sul comportamento imprudente e negligente della vittima dell'infortunio che, in ragione della sua condotta, avrebbe per ciò solo determinato l'infortunio occorso, con esclusione di ogni forma di responsabilità da parte della ricorrente.
Le conclusioni prospettate dalla difesa, frutto di un ragionamento che si discosta dalla corretta ricostruzione giuridica offerta dalla Corte di appello, non sono condivisibili.
3. Prendendo le mosse dalle censure riguardanti il comportamento asseritamente abnorme ed esorbitante del dipendente (sviluppate nell'ultimo paragrafo del motivo di ricorso), occorre rilevare come la Corte territoriale abbia correttamente escluso che la condotta del lavoratore potesse essere da sola idonea ad interrompere il nesso causale con l'evento verificatosi.
Il giudice della sentenza impugnata ha ritenuto che fosse stato rispettato il necessario rapporto di causalità tra la condotta omissiva del garante della normativa antinfortunistica e l'evento lesivo, rapporto che deve ritenersi interrotto, ai sensi dell'art. 41, comma secondo, cod. pen., solo nel caso in cui sia dimostrata l'abnormità del comportamento del lavoratore. Ha poi correttamente affermato che la condotta del lavoratore non poteva ritenersi connotata dall'abnormità, per stranezza ed imprevedibilità delle sue caratteristiche.
L'assunto del giudice d'appello è corretto e conforme ai principi più volte affermati dalla Corte di legittimità in proposito, adeguatamente richiamati nella sentenza impugnata. E' orientamento costante, in materia di infortuni sul lavoro, quello in base al quale la condotta colposa del lavoratore infortunato non possa assurgere a causa sopravvenuta, da sola sufficiente a produrre l’evento, quando sia comunque riconducibile all’area di rischio propria della lavorazione svolta: in tal senso il datore di lavoro è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore presenti i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo e alle direttive di organizzazione ricevute (così ex multis, Sez. 4, n. 21587 del 23/03/2007, Rv. 236721).
Pertanto, può definirsi abnorme soltanto la condotta del lavoratore che si ponga al di fuori di ogni possibilità di controllo da parte dei soggetti preposti all'applicazione della misure di prevenzione contro gli infortuni sul lavoro e sia assolutamente estranea al processo produttivo o alle mansioni che gli siano state affidate (così, Sez. 4, n. 38850 del 23/06/2005, Rv. 232420).
A ciò deve aggiungersi che la condotta imprudente o negligente del lavoratore, in presenza di evidenti criticità del sistema di sicurezza approntato dal datore di lavoro, non potrà mai spiegare alcuna efficacia esimente in favore dei soggetti destinatari degli obblighi di sicurezza. Ciò in quanto, tali disposizioni, secondo orientamento conforme della giurisprudenza di questa Corte, sono dirette a tutelare il lavoratore anche in ordine ad incidenti che possano derivare da sua colpa, dovendo, il datore di lavoro, prevedere ed evitare prassi di lavoro non corrette e foriere di eventuali pericoli, (così, ex multis Sez. 4, n. 10265 del 17/01/2017, Rv. 269255; Sez. 4 n. 22813 del 21/4/2015 Rv. 263497; Sez. 4, n. 38877 del 29/09/2005, Rv. 232421 ).
Orbene, risulta evidente, dai principi richiamati, come non sia possibile inquadrare nell'ambito delle condotte connotate da abnormità ed esorbitanza, il comportamento tenuto dal lavoratore infortunato, non essendosi realizzato, tale comportamento, in un ambito avulso dal procedimento lavorativo a cui era stato addetto il lavoratore e non potendosi sostenere che si trattasse di una condotta assolutamente eccentrica ed imprevedibile, come evidenziato in maniera appropriata dalla Corte territoriale.
4. In ordine alla prevedibilità delle circostanze che hanno determinato l'evento lesivo del lavoratore, i giudici di merito, affermando la non abnormità e la non esorbitanza del comportamento del lavoratore, hanno evidenziato come l'operazione intrapresa dall'infortunato fosse ricorrente nei comportamenti dei dipendenti della ditta che, talvolta, effettuavano interventi di manutenzione sui macchinari quando si presentava la necessità. Tale argomento, criticato dalla difesa, viene desunto dalla testimonianza della persona offesa e di uno dei dipendenti (Campo) il quale riferiva in dibattimento che, all'atto dell'Infortunio, era intento ad effettuare, a sua volta, una riparazione ad un macchinario in una zona prossima all'accaduto.
La considerazione di tale circostanza, ha indotto la Corte territoriale a ritenere, secondo un ragionamento che appare immune da vizi, che il rischio a cui era esposto l'operaio, fosse prevedibile ad opera del datore di lavoro in quanto era frutto di una prassi invalsa dei lavoratori, all'interno dell'azienda, quella di provvedere talvolta alla manutenzione dei macchinari.
La esistenza di testimonianze comprovanti la formazione dei dipendenti e la imposizione di rigide regole atte ed evitare che i lavoratori effettuassero interventi di manutenzione che non gli competevano sui macchinari, è questione che risulta affrontata alle pagine 10 ed 11 della motivazione della sentenza impugnata. Ivi la Corte territoriale afferma che tali testimonianze, come aveva già ritenuto il giudice di prime cure, non erano utili e conducenti ai fini della esclusione della responsabilità dell'imputato, non essendovi prova in atti dei tempi e dei modi attraverso cui era stata compiuta la suddetta attività di formazione ed in presenza di una situazione aziendale caratterizzata da gravi carenze sotto il profilo prevenzionale. Si richiamava, in proposito, l'aspetto riguardante la totale mancanza di conoscenza, da parte degli organi ispettivi locali, della esistenza stessa di impianti per la frantumazione all'interno dell'azienda.
Pertanto, in relazione alla prima doglianza, la Corte territoriale ha correttamente sostenuto che non vi è prova, agli atti, dell'avvenuta formazione del lavoratore, individuando nella violazione di tale regola cautelare una delle cause che, innestatasi sul rapporto causale, ha determinato l'infortunio.
5. L'aspetto della mancata formazione ed anche della mancata vigilanza sui lavoratori, evidenziati in sentenza dalla Corte d'appello all'esito di una attenta disamina delle prove acquisite, sono stati considerati determinanti per il verificarsi dell'evento.
E' indiscutibile, come rilevato dai giudici di merito, che fosse preciso compito del datore di lavoro, provvedere all'adeguata formazione del lavoratore, all'adeguata predisposizione di protezioni, alla vigilanza assidua sull'operato dei dipendenti.
In ordine all'aspetto della vigilanza la difesa ha messo in evidenza che tale compito doveva spettare al capo cantiere. Tale argomentazione è infondata. Invero, il datore di lavoro non dismette, pure in presenza di altro soggetto deputato alla vigilanza, il compito di verificare l'effettiva osservanza delle norme antinfortunistiche. In proposito, la giurisprudenza di questa Corte ha evidenziato che se più sono i titolari della posizione di garanzia (nella specie, relativamente al rispetto della normativa antinfortunistica sui luoghi di lavoro), ciascuno è, per intero, destinatario dell’obbligo giuridico di impedire l'evento, con la conseguenza che, se è possibile che determinati interventi siano eseguiti da uno dei garanti, è doveroso, per l'altro o per gli altri garanti, dai quali ci si aspetta la stessa condotta, accertarsi che il primo sia effettivamente intervenuto. Ciò deve ritenersi sia quando le posizioni di garanzia siano sullo stesso piano, sia, a maggior ragione, allorché esse non siano di pari grado, giacché, in tale ultima evenienza, il titolare della posizione di garanzia, il quale vanti un potere gerarchico nei confronti dell'altro titolare della posizione di garanzia, investito a livello diverso, deve scrupolosamente accertarsi che il subordinato abbia effettivamente posto in essere la condotta di protezione a lui richiesta (così Sez. 4, n. 38810 del 19/04/2005, Rv. 232415).
6. Occorre osservare come il ricorrente, deducendo nel primo motivo del ricorso un vizio logico della motivazione, abbia svolto una serie di considerazioni in fatto, che hanno lo scopo di prospettare una diversa ricostruzione del merito della vicenda e di evidenziare una maggiore validità delle tesi difensive. Si tratta di aspetti che non possono formare oggetto di valutazione in sede di legittimità, essendo chiaramente attinenti alla ricostruzione della vicenda. Tale principio, più volte affermato da varie sezioni di questa Corte, è stato ribadito dalle Sezioni Unite della Corte, le quali hanno precisato che esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto, posti a sostegno della decisione, il cui apprezzamento è riservato in via esclusiva al giudice di merito, senza che possa integrare vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per i ricorrenti più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Rv. 207945).
A ciò deve aggiungersi che il travisamento della prova, nel caso di cd. "doppia conforme", non è deducibile in relazione a quelle parti della sentenza che abbiano esaminato e valutato in modo conforme elementi istruttori, suscettibili di autonoma considerazione, comuni al primo ed al secondo grado di giudizio (così Sez. 5, n. 18975 del 13/02/2017, Rv. 269906). Ciò è avvenuto proprio nel caso in esame, avendo le sentenze dei giudici di merito valutato in modo conforme le prove assunte.
7. Da ultimo, si osserva, il richiamo alla giurisprudenza citata dal ricorrente è inconferente e non si attaglia al caso in esame. Questa sezione, nella sentenza sopra citata (Sez. 4, n. 8883 del 10/02/2016 Rv. 266073), ha stabilito il principio così massimato: «In tema di Infortuni sul lavoro, il datore di lavoro che, dopo avere effettuato una valutazione preventiva del rischio connesso allo svolgimento di una determinata attività, ha fornito al lavoratore i relativi dispositivi di sicurezza ed ha adempiuto a tutte le obbligazioni proprie della sua posizione di garanzia, non risponde delle lesioni personali derivate da una condotta esorbitante ed imprevedibilmente colposa del lavoratore».
Ebbene, risulta evidente come tale principio, il quale recepisce le più recenti tendenze giurisprudenziali che si dirigono verso una maggiore considerazione della responsabilità dei lavoratori (c.d. "principio di autoresponsabilità del lavoratore), non possa trovare applicazione nel caso in esame, difettando il necessario presupposto del completo adempimento, da parte del datore di lavoro, di ogni suo obbligo nascente dalla posizione di garanzia nei confronti del lavoratore.
8. Deve pertanto annullarsi la sentenza impugnata agli effetti penali per estinzione del reato per prescrizione. Deve rigettarsi il ricorso agli effetti civili e e condannarsi il ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile per il giudizio di legittimità, che si liquidano come da dispositivo.
 

 

P.Q.M.

 


Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perché il reato è estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile che liquida in complessivi euro 2.500,00, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma il 16 gennaio 2018