Cassazione Penale, Sez. 4, 05 aprile 2018, n. 15206 - Raddoppio dei termini di prescrizione per i reati in materia di infortuni sul lavoro. Manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale proposta dal CSE


 

 

 

Presidente: BLAIOTTA ROCCO MARCO Relatore: COSTANTINI FRANCESCA Data Udienza: 14/02/2018

 

 

 

... "Si deve allora ritenere manifestamente infondata l'eccezione di legittimità costituzionale dedotta dalla difesa, rispetto all'art. 157, comma 6, cod. pen., in riferimento all'art. 3 Cost., giacché la diversa individuazione dei termini di prescrizione, per l'omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro rispetto al reato di morte quale conseguenza di altro delitto di cui all'art. 586 cod. pen. non presenta affatto profili di irrazionalità in considerazione della evidente incomparabilità delle fattispecie poste a confronto. La ratio della previsione del raddoppio dei termini di prescrizione per i reati in materia di infortuni sul lavoro deve infatti individuarsi nell'esigenza sempre maggiore di contrastare eventi lesivi del tutto peculiari e di assoluta gravità per le modalità e per il contesto in cui si verificano, essendo un dato certamente acquisito che quello delle morti bianche rappresenta ormai un fenomeno in costante aumento che nel corso degli anni ha raggiunto una gravità ed una intensità tali da suscitare un notevole allarme sociale e da giustificare plurimi interventi normativi volti a contenerlo. Tale eterogeneità non consente pertanto di sindacare la legittima scelta del legislatore di prevedere un termine di prescrizione più lungo per tali figure criminose. Ne consegue la manifesta infondatezza della denunciata questione di legittimità costituzionale che si traduce di fatto nella richiesta di un inammissibile sindacato sulle scelte del legislatore."


 

 

 

Fatto

 

1. Con sentenza del 29 dicembre 2016, la Corte di appello di Reggio Calabria in parziale riforma della sentenza emessa dal Tribunale della stessa città, previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, rideterminava in mesi otto di reclusione la pena inflitta a P.S., DP.G. e B.W. per il reato di omicidio colposo commesso ai danni di P.A., in violazione delle norme poste a tutela della sicurezza sul lavoro.
2. Veniva contestato agli imputati, nelle rispettive qualità di coordinatore per l'esecuzione dei lavori, responsabile, e componente del servizio di prevenzione e protezione, di avere cagionato per colpa, omettendo di predisporre tutte le misure precauzionali necessarie, la morte del lavoratore P.A., deceduto per asfissia meccanica a seguito del crollo di un muro in pietrame e malta nell'esecuzione di lavori di realizzazione di una condotta necessaria allo scolo di acque piovane. In particolare, il P.S. era ritenuto responsabile per non avere predisposto l’adeguamento del piano operativo di sicurezza a seguito della variante progettuale che prevedeva la realizzazione dello scavo in prossimità del muro e che avrebbe imposto di realizzare adeguate opere di protezione; il DP.G. ed il B.W. per non aver in alcun modo segnalato la presenza del rischio di crollo determinata dalla citata variante.
3. Avverso tale pronuncia propongono ricorso gli imputati a mezzo dei difensori di fiducia.

 


3.1 P.S. eccepisce, in primo luogo, violazione di legge in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 6 cod. pen. e carenza assoluta di motivazione sul punto nonostante il danno sia stato integralmente risarcito dall'istituto assicurativo e non vi sia stata alcuna manifestazione da parte dell'imputato della volontà di opporsi alla riparazione. Si rileva, inoltre, vizio di motivazione circa il giudizio di bilanciamento delle circostanze operato nella impugnata sentenza in quanto effettuato senza tenere conto della richiamata attenuante. La Corte, ancora, sarebbe caduta in contraddizione avendo da un lato, riconosciuto all'imputato le circostanze attenuanti generiche "in ragione (anche) delle concrete modalità della condotta", tanto da attestarsi, quanto alla dosimetria sanzionatoria, in prossimità del minimo
della pena; dall'altro lato, negato validità a tale assunto rigettando la richiesta difensiva del riconoscimento della prevalenza delle attenuanti generiche sull'aggravante, "in considerazione della grave negligenza di cui si sono resi responsabili tutti gli imputati".
Con memoria, depositata ai sensi dell'art. 585, comma 4, cod. proc. pen., in data 29.01.2018, il difensore dell'imputato ha presentato motivi aggiunti, proponendo questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, sesto comma, cod. pen., come riformato con legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede che i termini di cui ai precedenti commi del medesimo articolo sono raddoppiati per il delitto di omicidio colposo, previsto dall'art. 589, comma 2 cod. pen., in riferimento all'art. 586, cod. pen., avuto riguardo al parametro costituzionale di cui all'art. 3 Cost. , per violazione del principio di ragionevolezza-eguaglianza. Il ricorrente richiama in proposito la sentenza della Corte Costituzionale n. 143 del 2014, osservando che la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disciplina in materia di prescrizione, ai sensi dell'art. 157, comma 6, cod. pen. rispetto al reato di incendio colposo, può essere estesa in via interpretativa anche al reato di cui all'art. 586 cod. pen. Tale reato infatti, anteriormente alle modifiche apportate con la richiamata legge, era sottoposto al medesimo termine di prescrizione previsto per il delitto di omicidio colposo. Attualmente, invece, per effetto della previsione di cui all'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, il termine di prescrizione del reato di omicidio colposo (nella versione vigente ratione temporis) risulta pari ad anni dodici e dunque largamente superiore a quello previsto per il reato di morte quale conseguenza di altro delitto. Ad avviso della difesa, un simile assetto normativo viola l’art. 3 Cost. in quanto in entrambe le ipotesi delittuose ci si trova di fronte a fattispecie nelle quali l’evento morte è conseguenza (non voluta) della violazione di una regola; con la differenza che, nell'art. 586, cod. pen., la violazione della "regola" si identifica con un (qualsiasi) delitto doloso, mentre nell'art. 589 cod. pen. la violazione si identifica con l'inosservanza colposa di regole cautelari poste a tutela della sicurezza sui luoghi di lavoro. L'elemento soggettivo del dolo, che deve (necessariamente) assistere la violazione della regola per la configurazione dell'art. 586 cod. pen., imprimerebbe dunque alla fattispecie de qua connotati di maggiore gravità rispetto alla corrispondente ipotesi colposa, di cui all'art. 589, cod. pen. In tale ottica, la previsione di un termine prescrizionale più lungo per l’ipotesi colposa (quanto meno nella disciplina vigente ratione temporis) risulterebbe palesemente irragionevole in quanto al reato sicuramente meno grave corrisponderebbe un trattamento sanzionatorio più severo, e viceversa, con conseguente violazione del principio di eguaglianza. 

 


3.2 DP.G. e B.W. deducono vizio di motivazione in quanto la sentenza impugnata avrebbe accomunato le tre posizioni processuali non fornendo adeguata motivazione in ordine al perché, dal punto di vista sanzionatorio, dovessero trovare identica risposta. Il DP.G. era infatti il responsabile del servizio di protezione e sicurezza mentre il B.W. era solo componente del medesimo servizio e gerarchicamente subordinato al primo mentre a nulla potrebbe valere il riferimento alla sua presenza sul luogo al momento del sinistro posto che nessun segno lasciava presagire il pericolo, poi, effettivamente, concretizzatosi. Si censura, infine, l'omessa formulazione di un giudizio di prevalenza delle circostanze attenuanti generiche nonostante l'intervenuto risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili. La corte territoriale, ad avviso del ricorrente, avrebbe dovuto spiegare perché, pur in presenza dell'avvenuto risarcimento del danno e dell'innegabile differenza esistente fra le tre residuali posizioni processuali, vi possa o meno essere spazio per la concessione della prevalenza delle circostanze attenuanti.
 

 

Diritto

 


1. I ricorsi non meritano accoglimento in quanto fondati su motivi non consentiti dalla legge e comunque infondati.
2. I motivi di ricorso, ad eccezione della questione di legittimità costituzionale, in quanto tutti afferenti a profili inerenti al trattamento sanzionatorio, possono essere trattati congiuntamente.
3. Occorre in primo luogo rilevare che con gli appelli non è stato devoluto al giudice del gravame il tema relativo al trattamento sanzionatorio applicato agli imputati né avuto riguardo alla richiamata distinzione tra le posizioni degli stessi né, tanto meno, avuto riguardo all'applicazione della circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 6 cod. pen. Si tratta dunque di questioni proposte per la prima volta con il ricorso in cassazione e di conseguenza inammissibili.
4. Rileva pertanto il collegio che, pur avendo la corte di appello la facoltà di riconoscere di ufficio eventuali circostanze attenuanti, il ricorrente non è legittimato a dolersi del mancato esercizio di essa in quanto il potere del giudice d'appello di applicare, anche ex officio, le predette misure di favore si pone come eccezionale rispetto al principio generale, dettato dal primo comma dell'art. 597 cod. proc. pen., secondo il quale l’appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione del procedimento limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti. Conseguentemente, il mancato esercizio di tale potere non è censurabile in cassazione, né è configurabile in proposito un obbligo di motivazione, in assenza di una specifica richiesta, oltre che nei motivi di appello, nel corso del giudizio di secondo grado (cfr. ex multis, Sez. 5, n. 37569 del 08/07/2015, Tota, Rv. 264552; Sez. 7, n. 16746 del 13/01/2015 Ciaccia, Rv. 263361; Sez. 6, n. 13911 del 6/02/2004, Addala, Rv. 229214; Sez. 1, 02/05/1997, Chiavaroli, Rv. 208572).
5. In ogni caso, si deve altresì rilevare la manifesta infondatezza del motivo di ricorso anche in quanto, come più volte ribadito dalla giurisprudenza di legittimità, ai fini del riconoscimento dell'attenuante della integrale riparazione del danno, prevista dall'art. 62, n. 6, cod. pen., il risarcimento deve intervenire prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, evenienza non concretizzatasi nel caso di specie (Sez. 3, n. 18937 del 19/01/2016, S., Rv. 26657; Sez. 3, n. 17864 del 23/01/2014, Rv. 261498; Sez. 4, n. 30802 del 28/03/2008, Bovati, Rv. 241892). Da quanto esposto discende necessariamente l'infondatezza dell'ulteriore doglianza relativa al dedotto vizio di motivazione circa il giudizio di bilanciamento delle circostanze operato nella impugnata sentenza che si assume viziato in quanto effettuato senza tenere conto della richiamata attenuante.
6. Per altro verso, invece, la motivazione offerta dal giudice in ordine al quantum di pena stabilita ed alla determinazione della sanzione inflitta, appare immune da censure, avendo la corte territoriale riconosciuto le circostanze attenuanti generiche escluse dal primo giudice, illustrando le ragioni per le quali queste si dovessero ritenere equivalenti alle contestate aggravanti procedendo ad una valutazione complessiva della vicenda che ha condotto peraltro al contenimento della pena nel minimo edittale, e tenendo conto in particolare da un lato della assenza di precedenti penali a carico degli imputati e dall'altro della natura e dell'entità dei fatti; non mancando di indicare, nel corpo della motivazione, tutti gli aspetti ritenuti più significativi con riguardo a detti profili. Anche sotto tale aspetto, pertanto, la doglianza si presenta manifestamente infondata dovendosi ribadire che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra circostanze aggravanti ed attenuanti sono censurabili in cassazione soltanto nelle ipotesi in cui siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico, essendo sufficiente a giustificare la soluzione della equivalenza aver ritenuto detta soluzione la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931, e più di recente, Sez. 2, n. 31543 del 08/06/2017, Pennelli, Rv. 270450). 
7. Occorre da ultimo prendere in esame l'eccezione di legittimità costituzionale dell'art. 157 comma 6 cod. proc. pen. affidata ai motivi aggiunti al ricorso proposto da P.S..
8. La questione è manifestamente infondata.
9. La legge 4 dicembre 2005, n. 251, ha profondamente modificato la disciplina della prescrizione stabilendo che questa estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e comunque sia, un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e a quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria. Il legislatore ha ritenuto, tuttavia, di dover introdurre un correttivo agli effetti prodotti dalla modifica, che aveva determinato una notevole riduzione dei termini di prescrizione, statuendo al comma 6 dell'art. 157 cod. proc. pen. che, per alcuni reati ritenuti di particolare allarme sociale e tali da richiedere complesse indagini probatorie, il termine di prescrizione dovesse essere raddoppiato. Diverse novelle legislative hanno successivamente ampliato l'iniziale elenco delle figure delittuose coinvolte nel regime del raddoppio tra le quali rientra il reato di cui all'art. 589, secondo comma cod. pen.
10. Come noto, su tale disposizione ha già avuto modo di pronunciarsi la Corte costituzionale a seguito di questioni di legittimità costituzionale sollevate con riguardo al profilo della ragionevolezza della norma e del suo contrasto con l'art. 3 Cost. in relazione ad altre figure criminose non interessate dalla nuova disciplina.
11. In particolare, la sentenza n. 143 del 2014, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 157, sesto comma, cod. pen., nella parte in cui prevede che i termini di cui ai precedenti commi del medesimo articolo siano raddoppiati, rispetto al reato di incendio colposo, ai sensi dell'art. 449, in riferimento all'art. 423 cod. pen. La Corte Costituzionale, a fondamento dell'assunto, ha posto in evidenzia che la disciplina di cui all'art. 157, cod. pen., comma sesto, determina una anomalia di ordine sistematico, laddove il termine prescrizionale per i delitti realizzati in forma colposa - nella specie l'incendio - risulta addirittura superiore rispetto alla corrispondente ipotesi dolosa, se pure identica sul piano oggettivo. Il Giudice delle leggi, muovendo dalla considerazione per cui la regola generale di computo della prescrizione non può certo ritenersi inderogabile da parte del legislatore, ha evidenziato che soluzioni ampliative dei termini di prescrizione ordinari possono essere giustificate, come emergente dai lavori parlamentari relativi alla legge in esame, sia dal particolare allarme sociale generato da alcuni tipi di reato, il quale comporti una "resistenza all'oblio" nella coscienza comune più che proporzionale all'energia della risposta sanzionatoria; sia dalla speciale complessità delle indagini richieste per il loro accertamento e dalla laboriosità della verifica dell'ipotesi accusatoria in sede processuale, cui corrisponde un fisiologico allungamento dei tempi necessari per pervenire alla sentenza definitiva. La discrezionalità legislativa in materia deve essere esercitata, tuttavia, nel rispetto del principio di ragionevolezza e in modo tale da non determinare ingiustificabili sperequazioni di trattamento tra fattispecie omogenee, come invece era avvenuto nel caso esaminato.
12. Con la recente sentenza n. 265 del 2017 la Corte Costituzionale ha, invece, dichiarato l'infondatezza di analoga questione posta in relazione al reato di disastro colposo, risultante dal combinato disposto degli artt. 449 e 434 cod. pen., il cui termine prescrizionale, in base alla regola del raddoppio, risulterebbe uguale a quello previsto per il disastro doloso, disciplinato dall'art. 434 comma 2 cod. pen. La Corte costituzionale, ha in tal caso, escluso la possibilità di estendere in via interpretativa il portato demolitorio della precedente sentenza n. 143 del 2014, posto che tale pronuncia si basava specificamente sull'analisi comparativa dei reati di incendio colposo e doloso per i quali la regola del raddoppio rendeva il termine di prescrizione non uguale ma nettamente più lungo per il primo rispetto al secondo. La Corte ha invero precisato che con la precedente pronuncia non si era affatto inteso affermare che vi sia una inderogabile esigenza costituzionale di stabilire, senza possibilità di eccezioni, per l'ipotesi colposa un termine di prescrizione diverso e più breve di quello valevole per la versione dolosa del medesimo reato, registrandosi nel nostro sistema un ragguardevole numero di casi di equiparazione. Ha altresì, e in termini più generali, considerato che al legislatore non è precluso di ritenere, nella sua discrezionalità, che in rapporto a determinati delitti colposi la "resistenza all'oblio" nella coscienza sociale e la complessità dell'accertamento dei fatti siano omologabili a quelle della corrispondente ipotesi dolosa, giustificando, con ciò, la sottoposizione di entrambi ad un identico termine prescrizionale. Ciò che dunque fonda e giustifica tali situazioni derogatorie sono ad avviso della giudice delle leggi proprio gli elementi sopra richiamati del livello di allarme sociale e laboriosità delle attività accertative dell'illecito.
13. Proprio muovendo dal percorso argomentativo sviluppato nelle illustrate pronunce della Corte costituzionale, questa Sezione ha inoltre di recente dichiarato manifestamente infondata analoga questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, comma 6, cod. pen., in riferimento all'art. 3 Cost., per la diversa individuazione dei termini di prescrizione per l'omicidio colposo in ambito antinfortunistico rispetto all’omicidio colposo realizzato nell'esercizio delle professioni sanitarie, proprio in considerazione della difformità dei termini sostanziali delle fattispecie di riferimento.
14. Alla luce delle esposte argomentazioni e degli insegnamenti offerti dalle richiamate pronunce costituzionali si deve allora ritenere manifestamente infondata l'eccezione di legittimità costituzionale dedotta dalla difesa, rispetto all'art. 157, comma 6, cod. pen., in riferimento all'art. 3 Cost., giacché la diversa individuazione dei termini di prescrizione, per l'omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro rispetto al reato di morte quale conseguenza di altro delitto di cui all'art. 586 cod. pen. non presenta affatto profili di irrazionalità in considerazione della evidente incomparabilità delle fattispecie poste a confronto. La ratio della previsione del raddoppio dei termini di prescrizione per i reati in materia di infortuni sul lavoro deve infatti individuarsi nell'esigenza sempre maggiore di contrastare eventi lesivi del tutto peculiari e di assoluta gravità per le modalità e per il contesto in cui si verificano, essendo un dato certamente acquisito che quello delle morti bianche rappresenta ormai un fenomeno in costante aumento che nel corso degli anni ha raggiunto una gravità ed una intensità tali da suscitare un notevole allarme sociale e da giustificare plurimi interventi normativi volti a contenerlo. Tale eterogeneità non consente pertanto di sindacare la legittima scelta del legislatore di prevedere un termine di prescrizione più lungo per tali figure criminose. Ne consegue la manifesta infondatezza della denunciata questione di legittimità costituzionale che si traduce di fatto nella richiesta di un inammissibile sindacato sulle scelte del legislatore.
15. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Dichiara manifestamente infondata la dedotta questione di incostituzionalità.