Cassazione Civile, Sez. Lav., 18 giugno 2018, n. 16047 - Caduta di un pilone di ferro sul lavoratore. Nessun concorso di colpa


Presidente: NOBILE VITTORIO Relatore: PATTI ADRIANO PIERGIOVANNI Data pubblicazione: 18/06/2018

 

Fatto

 


Con sentenza in data 27 maggio 2013, la Corte d'appello di Bologna rideterminava, escluso il concorso di colpa del lavoratore, il risarcimento del danno differenziale non patrimoniale di B.F. nella somma di € 21.764,13: così parzialmente riformando la sentenza di primo grado, che aveva invece condannato la datrice Edil De. Ma. s.n.c. e in solido i soci illimitatamente responsabili V.DR. e L.LP. al pagamento, in favore del lavoratore al medesimo titolo, della somma di € 10.152,57, sull'accertato presupposto del concorso di colpa anche di quest'ultimo nella causazione dell'Infortunio occorsogli sul lavoro.
A motivo della decisione, la Corte territoriale escludeva il concorso per la ravvisata responsabilità esclusiva della società datrice nella caduta del pilone di ferro, poggiato su una parete sovrastante, sulla schiena del dipendente intento a lavorare alla realizzazione di una scala lungo lo scavo eseguito, non essendo stata provata la consapevolezza del medesimo di un tale pericolo così prossimo, né tanto meno la responsabilità del posizionamento precario del pilone.
Essa negava pure la correttezza del criterio di detrazione dell'Indennizzo Inail dal danno biologico (da Inabilità temporanea e permanente) e da quello patrimoniale in via cumulativa, anziché per poste omogenee: così pervenendo alla liquidazione suindicata, sulla base anche di una condivisa utilizzazione delle tabelle elaborate dal Tribunale di Milano, quale parametro equitativo per la determinazione del danno morale.
Avverso tale sentenza Edll De. Ma. s.n.c. di V.DR. e L.LP. e questi quali all'epoca soci illimitatamente responsabili (ora invece V.DR. e G.A.), con atto notificato il 25 novembre 2013, ricorrevano per cassazione con due motivi, cui resisteva il lavoratore con controricorso e memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.
 

 

Diritto

 


1. Con il primo motivo, i ricorrenti deducono insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, ai fini dell'esclusione del concorso di colpa del lavoratore nella causazione dell'infortunio sul lavoro subito, quali l'archiviazione del procedimento penale a carico dei titolari della società datrice, la mancanza di imputazioni, in sede né penale né amministrativa, a carico dei medesimi dal Servizio di Prevenzione e Sicurezza Ambienti di Lavoro e la valutazione del Tribunale in ordine alla ravvisata negazione del vincolo eziologico tra misure di protezione eventualmente adottabili (realizzazione di parapetto a protezione di cadute degli operatori nello scavo, ancoraggio del ponteggio a parti stabili dell'edificio, collegamento a terra delle masse metalliche della betoniera e della sega circolare) e infortunio.
2. Con il secondo, i ricorrenti deducono violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 1227 c.c., 41, secondo comma c.p., per l'abnormità del comportamento tenuto dal lavoratore, interruttivo del nesso di causalità tra l'omessa adozione delle misure di protezione necessarie alla piena tutela dell'Integrità fisica del lavoratore e l'infortunio dal medesimo subito, consistente nel lavorare sotto una parete sulla quale sia precariamente appoggiato un pilone di ferro.
3. Il primo motivo, relativo ad insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, è inammissibile.
3.1. Il semplice difetto di "sufficienza" della motivazione è, infatti, irrilevante nell'odierno paradigma del novellato testo dell'art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., perchè esso ha ad oggetto non più un vizio motivo, afferente alla valutazione di fatti, quanto piuttosto "l'omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio" (con evidente esclusione di un tale carattere dalla pluralità degli elementi enumerati, neppure integranti fatti, quanto piuttosto valutazioni, sicché nessuno di essi risulti ex se davvero decisivo: Cass. 5 luglio 2016, n. 13676) "oggetto di discussione tra le parti": dovendo il ricorrente indicare il "fatto storico", il cui esame sia stato omesso, il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua "decisività"; fermo restando che l'omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice (come appunto nel caso di specie, per la valutazione, ancorché non condivisa, delle risultanze istruttorie): con la conseguente preclusione nel giudizio di cassazione dell'accertamento dei fatti ovvero della loro valutazione a fini istruttori (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439).
E ciò chiaramente osta ad una valutazione della motivazione alla stregua dei parametri di insufficienza o contraddittorietà, salvo che essa non risulti apparente né perplessa o obiettivamente incomprensibile: come non si verifica nel caso di specie, avendo la Corte territoriale dato critico e argomentato conto dell'accertamento in fatto operato (al p.to 4 di pgg. 3 e 4 della sentenza).
4. Il secondo motivo, relativo a violazione e falsa applicazione degli artt. 2087, 1227 c.c., 41, secondo comma c.p., per l'abnormità del comportamento tenuto dal lavoratore, interruttivo del nesso di causalità tra l'omessa adozione delle misure di protezione necessarie e l'infortunio, è infondato.
4.1. A norma dell'art. 2087 c.c., il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, anche qualora esso sia ascrivibile non soltanto ad una disattenzione, ma anche ad imperizia, negligenza e imprudenza sue (Cass. 10 settembre 2009, n. 19494). Il primo è, infatti, totalmente esonerato da ogni responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore assuma caratteri di abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo "tipico" ed alle direttive ricevute, in modo da porsi quale causa esclusiva dell'evento (Cass. 17 febbraio 2009, n. 3786; Cass. 13 gennaio 2017, n. 798): così integrando il cd. "rischio elettivo", ossia una condotta personalissima del lavoratore, avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa o anche ad essa riconducibile, ma esercitata e intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali, al di fuori dell'attività lavorativa e prescindendo da essa, come tale idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata (Cass. 5 settembre 2014, n. 18786; Cass. 26 aprile 2017, n. 10319).
4.2. Qualora detti caratteri non ricorrano invece nel comportamento del lavoratore, l'imprenditore è integralmente responsabile dell'infortunio che dipenda dalla inosservanza delle norme antinfortunistiche, poiché la violazione dell'obbligo di sicurezza integra l'unico fattore causale dell'evento: non rilevando in alcun grado il concorso di colpa del lavoratore, posto che il datore di lavoro è tenuto a proteggerne l'incolumità nonostante la sua imprudenza e negligenza (Cass. 25 febbraio 2011, n. 4656; Cass. 4 dicembre 2013, n. 27127).
4.3. Ed infatti, le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso: con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente (Cass. 14 marzo 2006, n. 5493; Cass. 10 settembre 2009, n. 19494).
4.4. Ebbene, nel caso di specie, la prova del fatto (discutibilmente) prospettato come abnorme, ossia della consapevolezza del lavoratore "della condizione precaria dei pilone e quindi dei pericolo che ciò creava" (così nella parte finale del terzultimo capoverso di pg. 3 della sentenza), è stata addirittura esclusa con un accertamento in fatto adeguatamente motivato (al citato p.to 4 della sentenza), pertanto insindacabile in sede di legittimità.
5. Dalle superiori argomentazioni discende coerente il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e distrazione in favore del difensore antistatario, secondo la sua richiesta.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte rigetta il ricorso e condanna partì ricorrenti alla rifusione, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge, con distrazione al difensore antistatario.
Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma il 12 aprile 2018.