Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 11 luglio 2018, n. 31621 - Scavo illegittimo e crollo: pericolo per l'incolumità pubblica


 

Presidente: BLAIOTTA ROCCO MARCO Relatore: DOVERE SALVATORE Data Udienza: 04/04/2018

 

 

 

Fatto

 


1. Con la sentenza indicata in epigrafe, escludendo la contestata recidiva e rideterminando la pena, la Corte di appello di Potenza ha parzialmente riformato la pronuncia emessa dal Tribunale di Matera nei. confronti di D.B.P., che era stato giudicato responsabile del reato di cui agli artt. 113, 449, co. 1 cod. pen. in relazione all'art. 434 cod. pen. e condannato, previo riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62 n. 5 cod. pen., giudicata equivalente alla ritenuta recidiva, alla pena di un anno di reclusione e al pagamento delle spese processuali.
Secondo l'accertamento condotto nei gradi di merito il D.B.P., nella sua qualità di titolare della ditta individuale che era stata incaricata di eseguire i lavori di scavo presso l'area di proprietà dei coniugi B.-C. aveva cagionato il crollo parziale dell'immobile di proprietà di R.A., ubicato in posizione sovrastante lo scavo, realizzato in aderenza a tale immobile; dal crollo era derivato un grave e concreto pericolo per l'incolumità pubblica.
Il crollo era stato determinato dall'esecuzione dello scavo in modo difforme da quanto previsto dalle prescrizioni contenute nel POS e nel Piano generale di sicurezza; in particolare, pur essendo il terreno di natura sabbioso-limosa, non era stata data al fronte dello scavo l'inclinazione adeguata al caso né adottate misure idonee ad evitare fenomeni erosivi e movimenti gravitativi, sicché il terreno sul quale poggiava il trave di fondazione del sovrastante edificio aveva ceduto.
2. Avverso tale decisione ricorre per cassazione l'imputato a mezzo del difensore di fiducia, avv. P.D..
2.1. In primo luogo l'esponente sollecita la promozione di questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, co. 6 cod. pen. nella parte in cui prevede il raddoppio del termine di prescrizione per il reato di cui all'art. 449 cod. pen.; previsione che l'esponente giudica irragionevole perché in tal modo si equiparano i termini di prescrizione previsti rispettivamente per il reato colposo e per il correlato reato doloso, richiamando e riportandosi a quanto esposto nell'ordinanza emessa da questa Corte il 18.3.2015.
2.2. In secondo luogo si deduce la violazione di legge, per aver la Corte di Appello qualificato il fatto come delitto ex art. 449 cod. pen. invece che come contravvenzione ai sensi dell'art. 676 co. 2 cod. pen.
Assume l'esponente che il Tribunale, che aveva posto il tema, sembra aver affermato che nella specie ricorre l'ipotesi di cui all'art. 676, co. 2 perché il crollo parziale dell'edificio avvenuto nell'area di cantiere recintata non assume la fisionomia del disastro, non essendo idoneo a diffondersi ampiamente nello spazio circostante.
La Corte di Appello, invece, non ha affrontato l'argomento. Per il ricorrente nel caso, di specie manca quell'evento distruttivo di proporzioni straordinarie, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi, che si richiedono per il disastro. Non si è verificato che il crollo parziale di un edificio disabitato al momento, entro l'area di scavo del cantiere recintato, senza possibilità di diffusione del pericolo verso persone diverse ed indefinite. Anche l'imputazione non menziona altro che il crollo parziale dell'edificio.
Dalla diversa qualificazione giuridica discende l'avvenuta estinzione del reato per decorso del termine massimo di prescrizione.
2.3. Con ulteriore motivo si deduce la violazione degli artt. 125 e 546 cod. proc. pen. per assoluta carenza di motivazione in ordine alla responsabilità dell'imputato.
In particolare, osserva l'esponente, la Corte di Appello ha affermato che il D.B.P. è responsabile del fatto perché titolare dell'impresa "senza indicare elementi soggettivi di colpa".
2.4. Viene quindi dedotta la violazione degli artt. 40 e 43 cod. pen. per vizio della motivazione in ordine alla ritenuta posizione di garanzia del D.B.P..
Stante la mancanza di motivazione del Tribunale con l'atto di appello erano stato segnalato l'esistenza di delega rilasciata dal D.B.P. a favore di due soggetti, responsabili della sicurezza sul cantiere, e che il fatto era riconducibile alle autonome determinazioni del soggetto delegato.
La Corte di Appello, per contro, ha ritenuto responsabile l'imputato per il solo fatto che egli fosse il titolare dell'impresa, senza considerare e motivare in ordine al ruolo di garanzia da questi ricoperto, all'eventuale grado della colpa, all'efficienza causale della condotta, alla luce della nomina dei responsabili di sicurezza.
2.5. Ultimo motivo viene elevato in relazione al diniego di riconoscimento delle attenuanti generiche, per violazione degli artt. 62-bis cod. pen., in relazione agli artt. 132 e 133 cod. pen., ”111 e 546 Cost.".
Il primo giudice aveva totalmente omesso la motivazione in ordine a quel diniego; la Corte di Appello motiva ma omette ogni riferimento ai rilievi rappresentati in appello.
 

 

Diritto

 


3. Il ricorso è infondato.
3.1. Occorre prendere le mosse, stante il carattere eventualmente pregiudiziale, dal terzo e dal quarto motivo, che possono essere trattati unitariamente. 
L'evocazione da parte del ricorrente della 'posizione di garanzia' non è appropriata. Al D.B.P. è stato ascritto di aver cagionato il crollo dell'edificio eseguendo uno scavo privo dei caratteri previsti nel Piano operativo di sicurezza e nel Piano generale di sicurezza, in tal modo indebolendo il naturale appoggio del manufatto edilizio posto alla sommità dell'ammasso terroso. Quel che di omissivo vi è nella descrizione della condotta del D.B.P. attiene alla connotazione colposa di questa, venendogli rimproverato di aver omesso di eseguire lo scavo in conformità alle prescrizioni valevoli al riguardo, tese ad evitare i fenomeni erosivi ed i movimenti gravitativi.
Si tratta, quindi, di una condotta commissiva colposa. Ne consegue che il concetto di posizione di garanzia non ha ragione di essere richiamato, essendo esso pertinente al campo dei reati omissivi impropri, nel quale permette di individuare il soggetto titolare dell'obbligo giuridico di impedire l'evento. Per i reati commissivi che risultano eseguiti nell'esercizio di attività lecite intrinsecamente pericolose (cd. a rischio consentito) è maggiormente utile il concetto di gestore del rischio (per questa impostazione, ormai consolidata nella giurisprudenza di legittimità, si veda per tutte Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014 - dep. 18/09/2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri). Fermo restando che nei reati a condotta attiva, una volta accertato chi ne sia stato l'autore, il dato essenziale è l'efficienza causale dell'azione tipica rispetto all'evento illecito.
Ciò posto, che la decisione di far eseguire lo sbancamento e di eseguirlo con le modalità che si registrarono sia stata del D.B.P. è stata contestato assumendo che il comportamento che aveva causato il crollo era stato frutto di autonome autodeterminazioni del soggetto delegato dal D.B.P., avendo questi nominato due tecnici qualificati quali responsabili della sicurezza.
Già la Corte di Appello tuttavia, ha osservato che non è stata acquisita alcuna prova della esistenza di una delega ad altri di talune funzioni del legale rappresentante dell'impresa; e che la nomina del direttore dei lavori e del coordinatore della sicurezza per l'esecuzione dei lavori non comporta ex se il trasferimento ad essi dei poteri e dei doveri che gravano sul titolare dell'impresa.
Si tratta di affermazioni che, quanto al profilo fattuale, non hanno trovato adeguata critica da parte del ricorrente; e che per quanto attiene al profilo giuridico risultano del tutto corrette.
E' sufficiente rammentare che la figura del direttore dei lavori non è tra quelle dei titolari di obblighi prevenzionistici descritti dal d.lgs. n. 81/2008; si tratta di un ruolo che si innesta nella relazione tra committente ed impresa esecutrice dei lavori, essendo deputato a sorvegliare l'esecuzione dei lavori onde assicurare che essi siano conformi al progetto, e ciò nell'interesse del committente. Conseguentemente, in tema di prevenzione degli infortuni si ritiene che il direttore dei lavori non possa essere chiamato a rispondere dell'infortunio subito dal lavoratore a meno che non sia accertata una sua ingerenza nell'organizzazione del cantiere (Sez. 3, n. 1471 del 14/11/2013 - dep. 15/01/2014, Gebbia e altro, Rv. 257922).
Quanto al coordinatore per l'esecuzione dei lavori, egli è elevato a gestore del rischio interferenziale per conto del committente e non si sostituisce a questi nella titolarità degli ulteriori poteri-doveri (Sez. 4, n. 27165 del 24/05/2016 - dep. 04/07/2016, Battisti, Rv. 267735), venendo quindi a svolgere una funzione di alta vigilanza che ha ad oggetto esclusivamente il rischio c.d. generico, relativo alle fonti di pericolo riconducibili all'ambiente di lavoro, al modo in cui sono organizzate le attività, alle procedure lavorative ed alla convergenza in esso di più imprese, non anche al c.d. rischio specifico, proprio dell'attività dell'impresa appaltatrice o del singolo lavoratore autonomo (Sez. 4, n. 3288 del 27/09/2016 - dep. 23/01/2017, Bellotti e altro, Rv. 269046).
Ribadito, quindi, che la presenza delle menzionate figure non può condurre ad identificare in corrispondenza di esse il centro decisionale, la circostanza segnalata dal ricorrente va valutata anche sotto il profilo della colpevolezza; che l'esponente evoca accampando una mancanza di motivazione in merito alla rimproverabilità della condotta (non senza fare nuovamente impropri riferimenti all'incidenza di quelle nomine sul nesso causale). Ben diversamente deve rilevarsi come la corte distrettuale abbia precisato che l'evento non era imprevedibile e quindi poteva essere previsto: il rischio poteva e doveva essere riconosciuto dal D.B.P.; questi fu a conoscenza delle prescrizioni tecniche che si sarebbero dovute osservare nell'esecuzione dello scavo, e tuttavia non le attuò. Il ricorrente non ha allegato alcuna ragione per la quale non gli sarebbe stato possibile prevedere ed evitare l'evento.
I motivi risultano quindi infondati.
3.2. Tal'è anche il secondo motivo. Come rammenta la giurisprudenza di questa Corte ai fini della configurabilità del delitto di crollo colposo è necessario che il crollo della costruzione - inteso quale caduta violenta e improvvisa della stessa, senza che sia necessariamente richiesta la disintegrazione delle strutture essenziali - assuma la fisionomia del disastro, cioè di un avvenimento di tale gravità e complessità da porre in concreto pericolo la vita e l'incolumità delle persone, indeterminatamente considerate, in conseguenza della diffusività degli effetti dannosi nello spazio circostante; mentre, per la sussistenza della contravvenzione di rovina di edifici di cui all'art. 675, secondo comma, cod. pen., non è necessaria una tale diffusività e non si richiede che dal crollo derivi un pericolo per un numero indeterminato di persone (Sez. 4, n. 51734 del 08/11/2017 - dep. 14/11/2017, Piacentini, Rv. 271535). L'accertamento che il crollo abbia avuto in concreto i connotati che implicano quella diffusività del pericolo caratteristica dei delitti di pericolo comune attiene al merito e non può essere censurato in sede di legittimità se assistito da motivazione non manifestamente illogica e coerente alle acquisizioni probatorie. .
Va innanzitutto sgombrato il campo da un dato perplesso evocato dal ricorrente. Diversamente da quanto da questi assunto il Tribunale non ha mai ritenuto che nella fattispecie ricorresse l'ipotesi contravvenzionale del crollo, tanto da infliggere la pena della reclusione, prevista - ovviamente - per il delitto.
Sul profilo del pericolo per l'incolumità pubblica, puntualizzato che il capo di imputazione enuncia espressamente la derivazione dal crollo di "grave e concreto pericolo per l'incolumità pubblica", mette conto rilevare che la Corte di Appello realmente non si è intrattenuta sul tema, non esponendo gli aspetti in fatto valevoli ad integrare il disastro in forma esplicita.
Tuttavia l'esponente medesimo ha rappresentato che il tema della qualificazione giuridica del fatto non venne sottoposto alla Corte di Appello; e però, ha aggiunto, esso venne trattato dal Tribunale, sicché può essere divisato dal giudice di legittimità.
Orbene, la questione sulla qualificazione giuridica del fatto rientra nel novero di quelle su cui la Corte di Cassazione può decidere ex art. 609 comma secondo, cod. proc. pen. e, pertanto, può essere dedotta per la prima volta in sede di giudizio di legittimità, solo se per la sua soluzione non siano necessari accertamenti in punto di fatto (Sez. 2, n. 17235 del 17/01/2018 - dep. 18/04/2018, Tucci, Rv. 272651; Sez. 1, n. 13387 del 16/05/2013 - dep. 21/03/2014, Rossi, Rv. 259730; Sez. 6, n. 6578 del 25/01/2013 - dep. 11/02/2013, Piacentini, Rv. 254543).
Nel caso che occupa le sentenze non offrono alcun lume in ordine ai dati che sarebbero rilevanti, sicché questa Corte non è in condizione di poter disattendere il giudizio espresso nei gradi di merito; le connotazioni del fatto indicate dall'esponente (parzialità del crollo dell'edificio, temporanea assenza dei suoi abitanti, recinzione del cantiere) non sono di per sé escludenti l'esposizione a pericolo di un novero indeterminato di persone.
Indeterminatezza che non è data soltanto nell'ipotesi in cui sia indeterminata la categoria delle persone attingibili dal pericolo ma anche quando sia il numero delle persone esposte ad essere non individuabile ex ante (cfr., ex multis, Sez. 4, n. 7664 del 15/10/2009 - dep. 25/02/2010, Pirovano, Rv. 246848).
3.3. Escluso che la sentenza impugnata debba essere annullata nell'affermazione di responsabilità del D.B.P. e che debba essere presa in 
considerazione l'ipotesi che il reato sia estinto, perché avente natura contravvenzionale, è possibile prendere in considerazione la sollecitazione del ricorrente a sollevare incidente di costituzionalità.
La questione prospettata dall'esponente coincide nelle sue argomentazioni e nelle conclusive censure a quelle poste alla Corte costituzionale dalla Corte di cassazione, dal Tribunale ordinario di Velletri, dal Tribunale ordinario di Torino e dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Larino. Questioni decise dalla Corte costituzionale con sentenza n. 265 del 2017 (G.U. 051 del 20/12/2017), con declaratoria di infondatezza.
Era stato dubitato della legittimità costituzionale dell'art. 157, sesto comma, del codice penale, come sostituito daH'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251, nella parte in cui prevede che il termine di prescrizione del delitto di crollo di costruzioni o altro disastro colposo (art. 449, in riferimento all'art. 434 cod. pen.) è raddoppiato.
Anche sulla scorta di quanto statuito dai giudice della Consulta con la sentenza n. 143 del 2014, i giudici a quibus ipotizzavano che la norma censurata violasse l'art. 3 della Costituzione, per contrasto con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza, giacché, in conseguenza della regola del raddoppio, il termine di prescrizione del delitto in questione risulta uguale a quello della corrispondente fattispecie dolosa (art. 434, secondo comma, cod. pen.), identica sul piano oggettivo, ma di disvalore sensibilmente maggiore in rapporto al diverso coefficiente di partecipazione psicologica del reo, come attestato dall'ampio scarto tra le rispettive cornici sanzionatorie edittali,
La Corte costituzionale ha osservato in primo luogo che nella sentenza n. 143/2014 non si rinviene ragione per ritenere espresso un principio per il quale occorre stabilire, senza possibilità di eccezioni, per l'ipotesi colposa un termine diverso e più breve di quello valevole per la versione dolosa del medesimo reato.
Anzi, ha puntualizzato, l'assoggettamento delle due forme di realizzazione dello stesso delitto - dolosa e colposa - ad un eguale termine di prescrizione non rappresenta una anomalia introdotta per la prima volta dalla legge n. 251 del 2005, risultando fenomeno già noto al sistema anteriore; peraltro proprio ai reati di incendio, che in quanto puniti con pene massime comprese tra i cinque e i dieci anni di reclusione - cinque anni l'incendio colposo, sette il doloso - corrispondenti alla "fascia" di cui al numero 3) dell'originario art. 157, primo comma, cod. pen., si prescrivevano entrambi, prima della legge n. 251 del 2005, in dieci anni.
Anche nel nuovo regime della prescrizione si registra un ragguardevole numero di casi di equiparazione (essenzialmente tra i delitti puniti con pena sino a sei anni), una volta di più anche tra i delitti contro la pubblica incolumità. 
In conclusione, il giudice delle leggi ha ritenuto che al legislatore non è precluso di ritenere, nella sua discrezionalità, che in rapporto a determinati delitti colposi la "resistenza all'oblio" nella coscienza sociale e la complessità dell'accertamento dei fatti siano .omologabili a quelle della corrispondente ipotesi dolosa, giustificando, con ciò, la sottoposizione di entrambi ad un identico termine prescrizionale. E tale apprezzamento può legittimamente esprimersi anche attraverso la introduzione di deroghe alla disciplina generale.
Non v'è ragione di rinnovare l'interlocuzione con la Corte costituzionale.
3.4. Il quinto motivo è inammissibile. Il consolidato indirizzo del giudice di legittimità insegna che nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010 - dep. 23/09/2010, Giovane e altri, Rv. 248244). Ciò in quanto la ragion d'essere della previsione normativa recata dall'art. 62-bis cod. pen. è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile. Ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove questi ritenga invece di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo, l'affermata insussistenza. Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell' imputato volta all'ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (in tali termini già Sez. 1, n. 11361 del 19/10/1992, Gennuso, Rv. 192381 e più di recente Sez. 1, n. 46568 del 18/05/2017 - dep. 11/10/2017, Lamin, Rv. 271315).
Nel caso di specie la Corte di Appello ha ritenuto che le attenuanti generiche non fossero da riconoscere per la gravità del fatto ed i precedenti penali gravanti sull'imputato. Pertanto il motivo è manifestamente infondato.
4. Segue al rigetto del ricorso, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 4/4/2018.