Cassazione Penale, Sez. 4, 23 luglio 2018, n. 34818 - Caduta dall'alto dell'operaio manutentore. Responsabilità per omessa gestione del rischio da parte del datore di lavoro


Presidente: PICCIALLI PATRIZIA Relatore: MENICHETTI CARLA Data Udienza: 21/06/2018

 

Fatto

 

1. La Corte d'Appello di Brescia, con sentenza in data 13 settembre 2016, confermava la condanna resa dal Tribunale di Bergamo nei confronti di R.I., quale responsabile del reato di lesioni colpose ai danni di V.A., con l'aggravante della violazione delle norme in materia di infortuni sul lavoro; riduceva la pena inflitta in prime cure e concedeva il beneficio della sospensione condizionale.
2. Al R.I., legale rappresentante della società Olvan S.p.a., era stata contestata una colpa generica, la violazione dell'art.2087 cod.civ. ed ancora la violazione dell'art. 111, comma 1, lett.a) D.Lgs.n.81/08, per aver omesso di adottare idonee misure di protezione atte ad eliminare o ridurre il pericolo di precipitazione dei lavoratori durante le operazioni di rimozione del cilindro sicurezza idraulica della pressa ZANI 2000 ton. Era così accaduto che il V.A., dipendente della detta società con mansioni di operaio manutentore, dovendo rimuovere il detto componente ed utilizzando all'uopo una scala a castello mobile per portarsi in quota ed un muletto per portare a terra il cilindro, una volta rimosso, si era posizionato con un piede sulla scala e con l'altro sulla pala del muletto e così facendo aveva improvvisamente perso l'equilibrio ed era precipitato da un'altezza di circa mt.2,30, riportando un trauma cranico con ematoma subdurale e trauma dorsale, da cui era derivata una malattia guarita in un tempo superiore a quaranta giorni.
3. La Corte territoriale riteneva provati e fondati gli addebiti mossi al V.A. di aver adibito l'operaio ad un'operazione di straordinaria manutenzione senza avergli fornito un'adeguata formazione sulle esatte e sicure modalità di esecuzione; di aver consentito che per estrarre il cilindro dal suo alloggiamento si adoperasse un "mezzo primitivo", quale la leva, e non piuttosto attrezzature sicure, quali un'imbracatura del pezzo ed il suo spostamento a mezzo del muletto; di non aver fornito all'operaio le cinture di sicurezza prescritte per il lavoro in quota. Considerava che il perimetro dell'imputazione comprendeva anche la mancata predisposizione di misure di sicurezza individuali, e non solo collettive, e che dunque non vi era stata violazione dell'art.521 c.p.p., come sostenuto dalla difesa nell'atto di gravame. Precisava comunque che l'art.lll, comma 1, lett.a) del D.Lgs.n.81/08 riguardava tutte le attrezzature di lavoro, dando priorità alle misure di protezione collettiva rispetto a quelle di protezione individuale, cosicché l'obbligo di dotare il lavoratore delle cinture di sicurezza non era estraneo a tale disposizione, che si indica violata nel capo di imputazione. Osservava ancora che le cinture di sicurezza non rientravano in affetti tra i sistemi indicati nell'art.115 del citato D.Lgs., funzionali ad arrestare la caduta dall'alto, ma costituivano comunque una cautela preliminare a quelle necessarie per frenare ed arrestare la caduta, e rientravano perciò nelle misure di protezione individuale dell'art.111, applicabili non solo ai "cantieri temporanei e mobili" ma ad ogni attività lavorativa, anche diversa da quella edile, in cui si eseguono "lavori in quota".
I giudici di appello, ricostruita la dinamica del fatto in base alle testimonianze assunte, ed in particolare a quanto riferito in dibattimento dal funzionario ASL G., accertavano che un'operazione come quella posta in essere dal V.A., di asportazione del cilindro dal suo alloggiamento, era di difficile e rara esecuzione e, nonostante i rischi intrinseci ed evidenti che la caratterizzavano, non era stata in alcun modo regolamentata in relazione alle procedure da seguire e alle attrezzature da utilizzare, né l'operaio aveva ricevuto alcuna preventiva informazione dai quadri tecnici della società. Il V.A. aveva posto in essere un'operazione sicuramente pericolosa, in un equilibrio precario, ma non era stato in alcun modo formato su come avrebbe dovuto agire per salvaguardare la propria incolumità; l'essere persona di particolare esperienza e preparazione non esonerava il datore di lavoro della necessità di valutare preventivamente i rischi in materia di sicurezza e di predisporre metodologie e prassi idonee a neutralizzarli.
Rilevavano ancora i giudici di Brescia che anche nel DVR predisposto dall'azienda era solo "consigliata" l'adozione di cinture di sicurezza nel caso di lavorazioni eseguite in quota sulla piattaforma elevabile "nel caso di permanenza prolungata in altezza e nel caso in cui gli interventi in quota richiedano che il lavoratore si sporga parzialmente dal parapetto della piattaforma stessa", consiglio che nella specie doveva ritenersi ancora più cogente data la pericolosità dell'operazione, che non poteva essere eseguita stando al riparo del parapetto della piattaforma, mentre era risultato che le cinture di sicurezza non facevano parte delle dotazioni messe a disposizione del lavoratore.
Escludevano infine ogni comportamento anomalo o imprevedibile del lavoratore e rimarcavano in capo all'imputato l'esistenza della posizione di garanzia, data anche la mancanza nell'organigramma aziendale di quadri intermedi, quali un responsabile del settore manutenzione o anche un direttore di stabilimento.
Quanto alla nomina del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione, al quale secondo la difesa il R.I. avrebbe conferito appositi ed adeguati poteri di intervento e di spesa, la Corte territoriale escludeva il conferimento di una delega e rilevava che comunque la valutazione dei rischi rientrava tra le funzioni del datore di lavoro non delegabili.
4. Ha proposto ricorso per cassazione l'imputato, tramite il difensore di fiducia, per tre motivi.
4.1. Con il primo motivo deduce violazione dell'art.590 c.p. e vizio della motivazione e travisamento della prova in relazione alla ritenuta responsabilità per il reato di lesioni colpose. Insiste nell'affermare che vi era stata una delega in materia di sicurezza con documento sottoscritto in data 12 ottobre 2001 e che la Corte di Appello aveva errato nel ritenerlo un documento che non esonerava il datore di lavoro da responsabilità. 
4.2. Con il secondo motivo lamenta violazione di legge e vizio della motivazione quanto alla esclusione di un comportamento abnorme del lavoratore.
 

 

Diritto

 


1. Il ricorso non è fondato.
2. Con il primo motivo il ricorrente insiste nell'affermare che vi era stata una delega in materia di sicurezza, richiamando il documento sottoscritto da R.I. e L.R. in data 12 ottobre 2001 intitolato alla "Gestione della Sicurezza Aziendale" nel quale erano indicate le funzioni del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione.
Lamenta, in relazione a tale documento, vizio di travisamento della prova in quanto la Corte di Appello aveva escluso che lo stesso potesse valere come formale delega, idonea ai sensi dell'art.16 d.lgs.n.81/2008 a sollevare il datore di lavoro dalla responsabilità per le accertate omissioni e per le conseguenze delle stesse.
Riteneva infatti la Corte territoriale che tale documento contenesse una semplice elencazione delle funzioni e dei poteri propri del RSPP nell'ambito della organizzazione aziendale, senza un esplicito e formale trasferimento a questi delle funzioni in materia antinfortunistica proprie del datore di lavoro, con corrispondente rinuncia all'esercizio delle stesse da parte datoriale; rilevava ancora che tale documento era privo di data certa e non aveva avuto alcuna forma di pubblicità in azienda, tanto che nell'annotazione di polizia giudiziaria del 4 aprile 2011, prodotta in dibattimento, si era dato atto esplicitamente che all'interno della Olvan S.p.a. non esistevano deleghe in materia di igiene e sicurezza; in ogni caso, affermava che per espresso dettato legislativo, ex art.17 del citato decreto n.81/2008, il datore di lavoro e, nelle società di capitali, il legale rappresentante dell'ente, a prescindere dalla organizzazione e da eventuali deleghe conferite, rimaneva il diretto responsabile per l'omessa valutazione dei rischi inerenti le specifiche lavorazioni da eseguirsi all'interno dell'azienda, non potendo la relativa funzione formare oggetto di delega.
Gli argomenti sviluppati dai giudici di appello sono corretti ed immuni dalla prospettata censura.
Il richiamato documento - visionato da questo Collegio essendo stato dedotto un vizio di travisamento della prova e non un mero difetto di motivazione in relazione alla sua valutazione (che avrebbe costituito accertamento in fatto estraneo al giudizio di legittimità) - come giustamente ritenuto nella impugnata sentenza, ha un contenuto solamente enunciativo delle funzioni e dei poteri propri del RSPP, tra cui sono elencate - come del resto si legge nel ricorso odierno - la individuazione ed elaborazione delle misure di prevenzione e protezione per la sicurezza e la salute dei lavoratori, sulla base del documento di valutazione dei rischi; l'elaborazione di procedure lavorative nelle mansioni in cui vengono ritenute opportune; la scelta dei dispositivi di protezione individuale; la gestione delle modalità operative degli interventi di manutenzione straordinaria; la capacità di decidere sulle spese per interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, di acquistare dispositivi di protezione individuale, di intervenire disciplinarmente per inadempienze nella gestione della sicurezza sul lavoro.
Univoca è del resto la giurisprudenza di questa Corte Suprema nell'affermare che in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro il datore di lavoro è tenuto a redigere e sottoporre ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art.28 del d.lgs.n.81/2008, all'interno del quale deve indicare in modo specifico i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda, in relazione alla singola lavorazione e all'ambiente di lavoro e le misure precauzionali ed i dispositivi adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori; il conferimento a terzi della delega relativa alla redazione del suddetto documento non esonera il datore di lavoro dall'obbligo di verificarne l'adeguatezza e l'efficacia, di informare i lavoratori dei rischi connessi alle lavorazioni in esecuzione e di fornire loro una formazione sufficiente ed adeguata in materia di sicurezza e salute, con particolare riferimento al proprio posto di lavoro ed alel proprie mansioni. Infatti la delega di funzioni, - ora disciplinata precipuamente dall'art. 16 del T.U. sulla sicurezza - non esclude l'obbligo di vigilanza del datore di lavoro in ordine al corretto espletamento da parte del delegato delle funzioni di gestione del rischio trasferite (Sez.4, n.27295 del 2/12/2016, Rv.270355; Sez.4, n.22837 del 21/4/2016, Rv.267319; Sez.4, n.22147 del 11/2/2016, Rv.266859).
Nel caso di specie nulla era stato previsto nel DVR in merito alla operazione, di difficile esecuzione, cui era stato demandato il V.A., né l'operaio era stato informato sulle modalità di utilizzo della scala, della piattaforma elevabile e del muletto che erano stati messi a sua disposizione: in un'ottica di doverosa salvaguardia dell'Incolumità fisica dei lavoratori non era stato considerato il rischio inerente la rimozione in quota del cilindro della pressa, non era stato spiegato al dipendente come quel lavoro straordinario e di rara esecuzione dovesse essere eseguito, eventualmente coordinato con l'intervento ausiliario di altri, né come quelle attrezzature avrebbero dovuto essere utilizzate.
Per quanto si è detto circa l'obbligo del datore di lavoro di elaborare il DVR in maniera completa, e comunque di vigilare sull'operato del soggetto eventualmente delegato alla predisposizione di tale documento, è evidente la responsabilità del R.I., nella indicata qualità, essendo l'infortunio occorso al lavoratore causalmente collegato alla omessa gestione del rischio, che le specifiche norme cautelari imposte al datore di lavoro miravano a prevenire e la cui osservanza avrebbe evitato l'evento lesivo.
3. Con il secondo motivo il ricorrente censura la pronuncia della Corte di Brescia laddove ha escluso un comportamento abnorme del lavoratore. 
Anche tale doglianza è destituita di fondamento.
Questa Corte Suprema si è già ripetutamente pronunciata sul tema, statuendo nel senso che il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere del tutto autonomamente ed in un ambito estraneo alle mansioni affidategli - e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro - ovvero rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (Sez.4, n.7188 del 10/1/2018, Rv.272222). E' stato ulteriormente precisato che perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario che sia, oltre che imprevedibile, tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governato dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez.4, n.15124 del 13/12/2016, Rv.269603).
La Corte territoriale ha fatto buon governo di tali principi di diritto, calandoli nella fattispecie in esame: ha infatti rilevato che l'agire del lavoratore non si era posto al di fuori dell'ambito lavorativo assegnatogli dal datore di lavoro, ma anzi aveva costituito l'esplicazione di un'operazione propria delle sue mansioni di manutentore, e che inoltre, non avendo il datore di lavoro predisposto opportune ed adeguate misure di prevenzione e convenientemente formato il lavoratore al rispetto delle previste procedure di sicurezza e all'utilizzo delle attrezzature antinfortunistiche, la condotta pericolosa del lavoratore non poteva porsi come straordinaria e consapevole violazione di quelle disposizioni, del tutto mancanti, e dunque non poteva mai essere considerata causa da sola idonea ad aver determinato l'evento, indipendentemente dalle accertate omissioni del datore di lavoro.
4. Il terzo motivo di gravame attiene all'asserita violazione dell'art.521 c.p.p. Osserva il ricorrente che l'accusa contestata nel capo di imputazione faceva riferimento alla violazione dell'art.2087 c.c. e all'art.111,comma 1, lett.a) d.lgs.n.81/2008; che nella sentenza di primo grado era stata ravvisata la colpa del R.I. per non aver fornito al lavoratore le cinture di sicurezza; che la Corte d'Appello aveva invece ravvisato la responsabilità datoriale nel fatto che l'operazione posta in essere dal V.A. non era regolamentata in relazione alle procedure da seguire ed alle attrezzature da utilizzare, e che l'operaio non aveva ricevuto alcuna formazione dai quadri tecnici della società. Tale accusa, mai contestata, aveva comportato la violazione del diritto di difesa.
Anche questo ultimo motivo di ricorso non è fondato.
Giova osservare che in tema di correlazione tra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l'ipotesi astratta prevista dalla legge, in modo che si configuri un'incertezza sull'oggetto dell'Imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa. L'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va di conseguenza esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale tra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'Imputazione (S.U., 17 maggio 2010 n.36551, Carelli, Rv.248051).
La nozione strutturale di "fatto" contenuta nelle disposizioni di cui agli artt.521 e 522 c.p.p., va perciò coniugata con quella funzionale, fondata sull'esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, posto che il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata (oggetto di un potere del pubblico ministero) e decisione giurisdizionale (oggetto del potere del giudice), risponde all'esigenza di evitare che l'imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi (Sez.l, 18 giugno 2013 n.35574, Rv.257015; Sez.4, 15 gennaio 2007 n.10103, Rv.236099).
In particolare, in tema di reati colposi, è stata esclusa la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e la sentenza di condanna se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti al concreto esercizio del diritto di difesa (Sez.4, n.35943 del 7/3/2014, Rv.260161).
4.1. Ciò posto in diritto, si osserva che nel capo di imputazione è stata contestata al R.I. una colpa generica, la inosservanza di norme in materia di igiene e sicurezza sul lavoro, per mancata adozione delle misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, erano necessarie a tutelare l'integrità fisica dei lavoratori (art.2087 c.c.) e segnatamente la violazione dell'art. 111 comma 1) lett.a) d. lgs.n.81/2008, per aver omesso di adottare idonee misure di protezione atte ad eliminare o ridurre il pericolo di precipitazione dei lavoratori durante le operazioni di rimozione del cilindro di sicurezza idraulica della pressa Zani 2000 ton.
La richiamata disposizione del T.U. sulla sicurezza, intitolata "Obblighi del datore di lavoro nell'uso di attrezzature per i lavori in quota", prescrive che il datore di lavoro sceglie le attrezzature più idonee a garantire e mantenere condizioni di lavoro sicuro, seguendo una serie di criteri, dando priorità alle misure di protezione collettiva rispetto a quelle di protezione individuale.
Sostiene allora il ricorrente che il Tribunale sarebbe incorso nella violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza individuando la responsabilità dell'imputato soprattutto nel fatto che la persona offesa lavorava in quota senza la necessaria cintura di sicurezza, che non gli era stata mai fornita, e che dunque la Corte di Appello avrebbe dovuto accogliere il motivo di gravame relativo a tale eccepito profilo di nullità della decisione del primo giudice.
Ritiene il Collegio che la sentenza impugnata sia giuridicamente corretta anche sul punto in esame.
La Corte di Brescia ha infatti ben osservato che la disposizione dell'art.111, comma 1, lett.a) non riguarda soltanto l'obbligatoria adozione delle misure di sicurezza collettive, ma si limita a porre un criterio che deve guidare il datore di lavoro nella scelta delle attrezzature di lavoro più idonee a garantire e mantenere la sicurezza nei caso in cui "i lavori temporanei in quota non possono essere eseguiti in condizioni di sicurezza e in condizioni ergonomiche adeguate a partire da un luogo adatto allo scopo", dando "priorità alle misure di protezione collettiva rispetto alle misure di protezione individuale", nel senso che queste ultime devono essere adottate qualora le prime non siano tecnicamente realizzabili. E' quindi errato affermare - hanno concluso i giudici di appello - che l'obbligo di dotare i lavoratori di cinture di sicurezza sia esterno rispetto alla previsione del menzionato articolo di legge, atteso che anche i sistemi di trattenuta personale rientrano tra le attrezzature idonee ad assicurare le lavorazioni in quota che il citato art. 111 fa obbligo di fornire ai lavoratori.
Dunque, stante la completezza del capo di imputazione, in applicazione dei principi di diritto sopra richiamati, appare corretto lo sviluppo argomentativo che ha portato i giudici di appello a disattendere il motivo di impugnazione in esame, posto che, in concreto, l'imputato ha avuto modo di difendersi dall'accusa che gli è stata mossa di non aver valutato il rischio relativo a quel lavoro di straordinaria manutenzione, di non aver formato il lavoratore in merito alle modalità esecutive dell'operazione di rimozione del cilindro della pressa, e di non avergli fornito le attrezzature necessarie alla esecuzione in sicurezza del lavoro assegnatogli.
Il motivo peraltro è enunciato in maniera molto sintetica e generica ed omette di confrontarsi con le puntuali considerazioni della Corte territoriale.
5. Il ricorso deve pertanto essere rigettato ed il ricorrente condannato al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.