Categoria: Giurisprudenza civile di merito
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  • Mobbing


"Nel nostro ordinamento il c.d. mobbing si configura attualmente come fattispecie a condotta libera e connotabile soltanto in riferimento ai suoi effetti, che debbono consistere in una coartazione, diretta o indiretta, della libertà psichica del lavoratore, così da costringerlo a una certa azione, tolleranza od omissione.
Dal punto di vista oggettivo, l'elemento principale si rinviene nella ripetitività e/o reiterazione delle condotte prevaricatrici, che - giusta le indicazioni della letteratura sociologica e di psicologia del lavoro - debbono avere una durata di almeno sei mesi e consistere in episodi vessatori costanti nel tempo, pressoché quotidiani. Dal punto di vista soggettivo, invece, rileva la finalità persecutoria, che deve orientare in un unico programma vessatorio, connotandoli di illiceità, i vari atti o comportamenti i quali, se analizzati isolatamente, possono anche apparire neutri - ad es., semplici atti di amministrazione del rapporto di lavoro - ovvero addirittura rappresentare esercizio di diritti o potestà".

"D'altra parte, se è vero che l'obiettivo vessatorio o persecutorio nei confronti del lavoratore permette di unificare in un'unica condotta atti perfino legittimi e azioni od omissioni in sé del tutto lecite, com'è tipico delle condotte a dolo specifico, è non meno vero che l'azione intenzionalmente orientata a danno del lavoratore deve costituire il precipuo obiettivo a cui tende, e che ha mosso, la volontà dell'agente".

"Non basta, in altri termini, che gli effetti (potenzialmente) dannosi cadano nel raggio di cognizione di chi agisce, ma - come ha insegnato in fattispecie analoghe la giurisprudenza di legittimità: cfr. ad es. Cass. pen. n. 8802 del 1996 - occorre che essi costituiscano l'elemento polarizzante della sua volontà, per modo che si potrà ritenere sussistente l'illecito solo se si accerti che l'unica ragione della condotta è consistita nel procurare un danno al lavoratore, mentre bisognerà escluderlo in caso contrario, indipendentemente dall'eventuale prevedibilità e occorrenza in concreto di simili effetti.
Una restrizione del genere, se permette per un verso di rinvenire nel mobbing un'ulteriore manifestazione del divieto di agire intenzionalmente a danno altrui, che costituisce canone generale del nostro ordinamento giuridico (arg. ex artt. 833, 1391 comma 2, 1993 comma 2, 2384 c.c.) e fondamento dell'exceptio doli generalis (Cass. n. 5273 del 2007), consente per altro verso di escludere dall'orbita della fattispecie tutte quelle vicende in cui fra datore di lavoro e lavoratore si registrano semplicemente posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro."


REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
TRIBUNALE DI PALERMO
SEZIONE LAVORO
 
 
 
Il giudice del lavoro, dott. Paola Marino, pronunciando nella causa n. 6245/2006 R.G. promossa da Mi.Ro. (avv. Co.Ca.) contro il Comune di Monreale (avv. Gi.Ri.) avente ad oggetto il risarcimento danni da condotta mobbizzante, osserva quanto segue:
 
- 1 -

Con ricorso depositato in data 5 dicembre 2006, l'odierno ricorrente esponeva: di essere dipendente del Comune di Monreale, in servizio presso il Corpo di Polizia Municipale dal 1/12/1995, proveniente dal Comune di Palermo; di essersi accorto che non gli era stata liquidata l'indennità di P.S. per il mese di dicembre 1995, di avere comunicato di essersi iscritto al corso di laurea in scenografia, chiedendo i benefici di legge, tra lui la esenzione dai turni di lavoro domenicali; che, tuttavia, veniva inserito nei predetti turni domenicali per esigenze di servizio che non gli venivano appalesate, costringendolo anche a non presentarsi in servizio quando comandato, creando disservizi dei quali i colleghi si lamentavano; che in occasione delle sue assenze il Comando chiamava a casa sua per chiedere notizie; che la sua frequenza del corso universitario creava malumori nell'amministrazione e tra i colleghi, che lo manifestavano apertamente; che nell'ottobre 1998 avendo egli sbagliato nel chiedere un periodo di ferie per accompagnare la madre a Parigi per motivi di salute e avendo poi chiesto la modifica del periodo, una volta accortosi del proprio errore, il Comandante del Corpo non voleva concedere la modifica da lui richiesta che veniva accolta solo dietro l'intervento del vicesegretario generale; che in seguito a concorso interno, nel 1999 egli diveniva sottufficiale, ma, anche in concomitanza di lunghi periodi di malattia, non gli venivano assegnate le relative mansioni; che a fine marzo 2001, egli veniva a ricoprire il grado di ufficiale, ma anche questa volta, assentandosi sempre egli di volta in volta per un mese dal servizio, non gli venivano affidati incarichi corrispondenti al grado fino a marzo 2002 quando gli veniva affidata la gestione dell'Ufficio Comando fino a gennaio 2003; che da febbraio 2003 il suo incarico veniva affidato ad altro dipendente; che dopo la sua sostituzione alla porta dell'Ufficio Comando veniva cambiata la serratura; che egli veniva quindi rassegnato a servizi esterni in qualità di capopattuglia, ma spesso non era lui ad essere contattato in detta qualità per variazioni di servizio, quanto piuttosto i suoi sottoposti; che nel settembre 2004 chiedeva al Comandante assegnazione di incarico in qualità di istruttore direttivo di P.M.
e che gli venivano assegnati a ottobre 2004 due incarichi per tale qualifica a cinque giorni di distanza l'uno dall'altro, che comportavano servizio esterno; che egli a novembre 2004 scriveva al Comandante di non poter espletare servizio esterno per mancanza della divisa; che per il fatto di prestare servizio esterno senza divisa riceveva diversi rimproveri e contestazione disciplinare; che detta situazione si protraeva nel tempo perché il sarto non riusciva a confezionargli una divisa confacente; che chiedeva di essere assegnato ad altro settore per incompatibilità ambientale non
ricevendo risposta; che prendeva periodo di aspettativa per motivi di studio e si recava in Spagna e comunicava dalla Spagna la interruzione dell'aspettativa per godere delle ferie, ma detta
richiesta non veniva accettata, opponendosi che l'aspettativa non poteva essere interrotta, nonostante le sue richieste fossero state per lui presentate da una collega in servizio; che durante l'assenza del ricorrente nessuno si preoccupava di far riparare la sua divisa;
che quindi continuavano le contestazioni perché egli si presentava in servizio in abiti civili (estate 2006); che nuovamente la divisa confezionata da altro sarto non era della misura giusta e allora il
ricorrente provvide a proprie spese a farla aggiustare; che quindi il Comandante ritirava le contestazioni; che nella scheda di valutazione del primo quadrimestre del 2006, in cui egli era assente in aspettativa, il punteggio era zero, invece che non classificato;
che tutte le condotte esposte producevano danno alla propria salute, con peggioramento delle proprie condizioni fisiche, soprattutto dopo il 2003.
Tanto premesso, il predetto agiva in questa sede, all'esito infruttuoso del tentativo obbligatorio di conciliazione, per sentir:
1) dichiarare che il ricorrente ha subito danno all'immagine, alla reputazione e alla dignità personale dall'esposto comportamento dell'Amministrazione;
2) dichiarare il Comune responsabile per inadempimento degli obblighi contrattuali;
3) condannare il Comune convenuto al risarcimento dei danni biologico, psichico, esistenziale, alla vita di relazione, alla dignità personale, da dequalificazione professionale, all'immagine professionale e morale, nella misura complessive di Euro 216.301,86 o in altra misura determinando a seguito di C.T.U. Chiedeva di dimostrare per testimoni, oltre che per interrogatorio formale del convenuto, le
circostanze esposte in fatto.
Instauratosi ritualmente il contraddittorio, si costituiva tempestivamente in giudizio il Comune resistente (con memoria depositata il 29/11/2007) contestando la fondatezza dell'avversa domanda e chiedendone il rigetto, con il favore delle spese di lite;
argomentava in particolare che, da un lato, i fatti esposti in ricorso non costituivano condotta mobbizzante e che, d'altro canto, parte ricorrente non aveva prodotto la documentazione posta a sostegno delle proprie domande, con particolare riferimento alle richieste concernenti motivi di studio, non avendo mai presentato neppure al Comune regolari piani di studio o prospetto di esami
sostenuti.
Matura per la decisione allo stato degli atti, la causa è stata rinviata per la decisione, assegnato alle parti termine per note conclusive, all'odierna udienza, ove veniva discussa e decisa mediante lettura della presente sentenza contestuale.

- 2 -

Al fine di verificare la fondatezza o meno della domanda in questa sede proposta, giova premettere che nel nostro ordinamento il c.d. mobbing si configura attualmente come fattispecie a condotta libera e connotabile soltanto in riferimento ai suoi effetti, che debbono consistere in una coartazione, diretta o indiretta, della libertà psichica del lavoratore, così da costringerlo a una certa azione,
tolleranza od omissione.
Dal punto di vista oggettivo, l'elemento principale si rinviene nella ripetitività e/o reiterazione delle condotte prevaricatrici, che - giusta le indicazioni della letteratura sociologica e di psicologia del lavoro - debbono avere una durata di almeno sei mesi e consistere in episodi vessatori costanti nel tempo, pressoché quotidiani. Dal punto di vista soggettivo, invece, rileva la finalità persecutoria, che deve orientare in un unico programma vessatorio, connotandoli di illiceità, i vari atti o comportamenti i quali, se analizzati isolatamente, possono anche apparire neutri - ad es., semplici atti di amministrazione del rapporto di lavoro - ovvero addirittura rappresentare esercizio di diritti o potestà
(cfr. Cass. n. 475 del 1999).
D'altra parte, se è vero che l'obiettivo vessatorio o persecutorio nei confronti del lavoratore permette di unificare in un'unica condotta atti perfino legittimi e azioni od omissioni in sé del tutto lecite, com'è tipico delle condotte a dolo specifico, è non meno vero che l'azione intenzionalmente orientata a danno del lavoratore deve costituire il precipuo obiettivo a cui tende, e che ha mosso, la volontà dell'agente (cfr. ad es. Cass. n. 4774 del 2006).
Non basta, in altri termini, che gli effetti (potenzialmente) dannosi cadano nel raggio di cognizione di chi agisce, ma - come ha insegnato in fattispecie analoghe la giurisprudenza di legittimità: cfr. ad es. Cass. pen. n. 8802 del 1996 - occorre che essi costituiscano l'elemento polarizzante della sua volontà, per modo che si potrà ritenere sussistente l'illecito solo se si accerti che l'unica ragione della condotta è consistita nel procurare un danno al lavoratore, mentre bisognerà escluderlo in caso contrario, indipendentemente dall'eventuale prevedibilità e occorrenza in concreto di simili effetti. Una restrizione del genere, se permette per un verso di rinvenire nel mobbing un'ulteriore manifestazione del divieto di agire intenzionalmente a danno altrui, che costituisce canone generale del nostro ordinamento giuridico (arg. ex artt. 833, 1391 comma 2, 1993 comma 2, 2384 c.c.) e fondamento dell'exceptio doli generalis (Cass. n. 5273 del 2007), consente per altro verso di escludere dall'orbita della fattispecie tutte quelle vicende in cui fra datore di lavoro e lavoratore si registrano semplicemente posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro.

- 3 -
 
Ciò posto in punto di diritto, deve rilevarsi in fatto che parte ricorrente ha delineato come condotta "mobbizzante" una serie di episodi, peraltro asseritamene posti in essere da persone diverse o addirittura da una generalità di esse (colleghi di lavoro), che si configurano come episodi fisiologici all'interno del rapporto di lavoro, nei quali lavoratore e datore si comportano in modo da realizzare il proprio rispettivo interesse, non sempre convergendo sulle determinazioni da assumere.
Così, infatti, si configura la richiesta di corresponsione di indennità di P.S. per il dicembre 1995, che il Comune rigettava ritenendola non dovuta, non essendo inserito il ricorrente nella programmazione di quell'anno, avendo preso servizio solo appunto a dicembre 1995.
Pure così si configura la richiesta di esenzione dai servizi domenicali e altri benefici connessi all'iscrizione del ricorrente a corso di laurea, in cui peraltro, il diritto del ricorrente - pur soddisfatto in certa misura dal Comune - non è stato neppure dimostrato con la produzione, neppure in giudizio, della documentazione relativa all'iscrizione, ai piani di studio, agli esami sostenuti.
La generica lamentela del ricorrente di essere, ciò nonostante, assegnato a servizi domenicali per esigenze di servizio non è quindi, da un lato, sostenuta da prove della illegittimità della condotta del Comune, ma non è neppure una condotta in sé "mobbizzante", concretandosi in ipotesi di divergenze relative l'espletamento del servizio festivo e straordinario per esigenze di servizio, che verosimilmente in astratto possono verificarsi in un servizio quale quello di Polizia Municipale.
Ugualmente è a dirsi per l'affidamento di incarichi al ricorrente, in relazione ai quali, a ben vedere, non è neppure in astratto ravvisabile un demansionamento: al ricorrente, inizialmente, non vengono assegnati incarichi di sottufficiale (mai prima ricoperti) perché nel concomitante periodo egli si trovava spesso assente per malattia, protraendo la propria assenza per un mese alla volta; ugualmente per incarichi di ufficiale a seguito della nomina per concorso interno, per gli stessi motivi, fino a quando gli viene assegnato, al contrario, incarico di elevata importanza, quale la gestione dell'Ufficio Comando; l'affidamento dell'incarico ad altro dipendente (che il Comune sostiene motivato dallo stato di malattia di quest'ultimo, impossibilitato a espletare servizi esterni) è seguito - come si evince della stessa documentazione versata in atti anche dal ricorrente - dall'assegnazione di altri incarichi propri della qualifica rivestita dal ricorrente, di istruttore direttivo di P.M., cui corrispondeva l'assegnazione di servizi all'esterno.
In quest'ambito, non si vede la rilevanza del cambiamento della serratura della porta dell'ufficio Comando, in un momento in cui il ricorrente già non vi lavorava più.
Quanto, poi, alle complesse vicende relative alla divisa del ricorrente, esse non appaiono configurabili come condotta "mobbizzante", dovendosi diversamente ipotizzare il concorso in essa di soggetti anche estranei all'amministrazione, ben due sarti, che avrebbero intenzionalmente confezionato diverse divise tutte non conformi alla corporatura del ricorrente, nonostante numerose prove, nonché di diversi superiori del ricorrente e del Sindaco, che, pur a conoscenza del complotto, avrebbero contestato che, per anni, il ricorrente si presentava in servizio esterno senza la divisa.
La stessa narrazione cronologica dei fatti, operata dal ricorrente, rende evidente che costui non voleva essere impiegato nei servizi esterni di istituto confacenti alla propria qualifica, perché
avrebbe preferito continuare a gestire l'Ufficio Comando, tanto che comunicava, ripetutamente e a distanza di anni, di non poterli svolgere per mancanza della divisa e più volte rifiutava di
adempiere ad un servizio cui era stato comandato assumendo la mancanza della divisa; dopo diverse forniture effettuate dall'amministrazione (documentate in atti) il ricorrente dall'autunno del 2004 e fino all'autunno del 2006 svolgeva il servizio senza la divisa o rifiutava di svolgerlo, ricevendo contestazioni disciplinari che, peraltro, venivano ritirate dal Comandante quando, finalmente, dopo diversi inviti cui non si rendeva disponibile, il ricorrente provvedeva a farsi aggiustare la
divisa e ad indossarla.
Non è dato ravvisare, in detta successione di fatti, alcuna condotta persecutoria da parte di chicchessia nei confronti del ricorrente.
Anche in relazione al lamentato rifiuto di ricevere da parte di terzi istanze di cessazione dell'aspettativa - per il termine della borsa di studio Er. - con contestuale collocazione in ferie, senza
fare rientro dalla Spagna, essa, a prescindere dalla verifica della sua legittimità, non appare assolutamente vessatoria, evidenziandosi da parte dell'amministrazione problemi in relazione
all'ammissibilità della richiesta.
Ugualmente dicasi per le presunte telefonate a casa del ricorrente in occasione di sue assenze, non è dedotto da chi effettuate, che peraltro potrebbero rappresentare un mero interessamento per il collega o una richiesta di notizie volta all'organizzazione dei servizi, in relazione alla durata dell'assenza.
Inoltre, il ricorrente, nella narrazione dei fatti come sopra evidenziati, non ha nemmeno indicato né chiesto di provare in quale (o quali) dei suoi superiori gerarchici sarebbe maturato il complessivo disegno persecutorio di cui egli sarebbe stato vittima, visto che le diverse condotte sono attribuite a diversi soggetti e anche in generale ai colleghi (che mal tolleravano, a dire del ricorrente, le assenze del ricorrente dovute a studio o la sua esenzione dai turni festivi).
E tanto basta, ad avviso del giudicante, a ritenere del tutto implausibile la prospettazione di mobbing sostenuta in ricorso e le correlate richieste di risarcimento di danno morale ed esistenziale, non potendo certo riferirsi una condotta sorretta da dolo specifico se non a persone fisiche determinate o quanto meno determinabili.
Le condotte descritte in ricorso, quindi, anche ove provate, non appaiono idonee a configurare una condotta "mobbizzante" e per questo non sono state ammesse le prove richieste da parte ricorrente, che non appaiono - peraltro in assenza della documentazione posta a fondamento dei diritti vantati dal ricorrente e che egli assume non rispettati - idonee a dimostrare nemmeno la censura d'illiceità dei singoli comportamenti addotti da parte ricorrente sia come sintomatici della persecuzione che come fonte ex se di danno patrimoniale, da dequalificazione professionale e
biologico.

- 4 -
 
Il ricorso, pertanto, va rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come dadispositivo.
 
 
P.Q.M.
 
Il giudice del lavoro, definitivamente pronunciando, disattesa ogni diversa istanza ed eccezione, rigetta le domande proposte dal ricorrente e lo condanna alla rifusione delle spese di lite di parte convenuta, che liquida in complessivi Euro 2.000,00, di cui Euro 1.100,00 per onorari.
Così deciso in Palermo l'11 febbraio 2009.
Depositata in Cancelleria l'11 febbraio 2009.