Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 6, 04 settembre 2018, n. 39920 - Accusa di reato di maltrattamenti in famiglia per il notaio nei confronti della cognata sua dipendente. Mobbing


 

Presidente Villoni – Relatore Bassi

 

 

Fatto

 


1. Con il provvedimento in epigrafe, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano, all’esito del giudizio abbreviato, ha assolto F.H.M. dal reato di cui all’art. 572 cod. pen., perché il fatto non sussiste, e dal reato di lesioni personali, per remissione di querela. A sostegno del giudizio liberatorio per il delitto di maltrattamenti - commesso dall’imputato quale notaio in danno di B.M.d.B.V. , dipendente del suo studio notarile e sua cognata, in quanto sorella della moglie -, il Giudice ha dato conto del tenore della querela della parte lesa e delle dichiarazioni rese dalle varie persone informate dei fatti nonché dello stesso interessato e, sulla scorta di tali evidenze, ha escluso la materialità del reato, per difetto del requisito della para-familiarità.
2. Nel ricorso proposto il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Milano chiede l’annullamento della sentenza per i motivi di seguito sintetizzati, ai sensi dell’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.:
2.1. mancanza di motivazione in ordine alla ritenuta insussistenza del requisito della para-familiarità;
2.2. violazione di legge penale in relazione all’art. 572 cod. pen., per avere il Gup trascurato di considerare i più recenti approdi della giurisprudenza di questa Corte in tema di mobbing, sanzionabile con l’incriminazione di maltrattamenti quando la condotta sia realizzata in un contesto professionale ed il rapporto fra il datore di lavoro e il dipendente sia stretto e continuativo;
2.3. vizio di motivazione per travisamento della prova, per avere il Giudice escluso il requisito della para-familiarità sulla scorta del rilievo che gli studi notarili "moderni" impiegano un numero elevato di dipendenti e prescindono da relazioni fondate sull’intuitu personae, quando - nella specie - diversi testi hanno descritto il contesto lavorativo in oggetto come composto da cinque o sei collaboratori, essendo lo stato di soggezione rafforzato dal rapporto di affinità esistente fra l’imputato e la persona offesa.
3. Nella memoria depositata in Cancelleria, il patrono del F.H. ha chiesto che il ricorso del P.M. sia dichiarato inammissibile o rigettato, con conferma della sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Milano.

 

 

Diritto

 



1. Il ricorso è fondato e la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte d’appello di Milano per nuovo giudizio.
2. Ritiene invero la Corte che, nell’escludere l’integrazione del reato di cui all’art. 572 cod. pen. e nel pervenire al giudizio assolutorio, il Giudice a quo non abbia tenuto conto dei più recenti approdi ermeneutici di questa Corte in tema di maltrattamenti commessi in un contesto lavorativo, con specifico riguardo al concetto di "para-familiarità".
2.1. Giova premettere come la fattispecie di maltrattamenti in famiglia, tradizionalmente concepita in un contesto familiare, sia stata nel tempo estesa - ed in tale senso è l’attuale disposto normativo dell’art. 572 cod. pen. - anche a rapporti di tipo diverso, di educazione ed istruzione, cura, vigilanza e custodia nonché a rapporti professionali e di prestazione d’opera. Proprio avendo riguardo a tale ultima categoria di rapporti, questa Suprema Corte ha riconosciuto la possibilità di sussumere nella fattispecie dei maltrattamenti commessi da soggetto investito di autorità in contesto lavorativo la condotta di cd. mobbing posta in essere dal datore di lavoro in danno del lavoratore, quale fenomeno connotato da una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti reiterati nel tempo convergenti nell’esprimere ostilità verso la vittima e preordinati a mortificare e a isolare il dipendente nell’ambiente di lavoro, aventi dunque carattere persecutorio e discriminatorio (Sez. 5, n. 33624 del 09/07/2007, P.C. in proc. De Nubblio, Rv. 237439).
Avuto riguardo alla ratio dell’art. 572 c.p. - che si sostanzia quale delitto contro l’assistenza familiare -, affinché la condotta persecutoria e maltrattante del datore di lavoro in danno del dipendente possa essere sussunta nella fattispecie incriminatrice in parola è indispensabile che il rapporto interpersonale sia caratterizzata dal tratto della "para-familiarità": l’ampliamento ad opera della giurisprudenza del perimetro delle condotte che possono configurare il delitto di maltrattamenti anche oltre quello strettamente endo - familiare ha invero lasciato invariata la collocazione sistematica della fattispecie incriminatrice nel titolo dei delitti in materia familiare, di tal che, ai fini della integrazione del reato, non è sufficiente la sussistenza di un generico rapporto di subordinazione/sovra ordinazione, ma è appunto necessario che sussista il requisito della para-familiarità, che si caratterizza per la sottoposizione di una persona all’autorità di un’altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita (anche lavorativa) proprie e comuni alle comunità familiari, non ultimo per l’affidamento, la fiducia e le aspettative del sottoposto rispetto all’azione di chi ha ed esercita su di lui l’autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità. Se così non fosse ogni relazione lavorativa caratterizzata da ridotte dimensioni e dal diretto impegno del datore di lavoro dovrebbe, per ciò solo, configurare una sorta di comunità para-familiare, idonea ad imporre la qualificazione, in termini di violazione dell’art. 572 c.p., di condotte che, pur di eguale contenuto ma poste in essere in un contesto più ampio, avrebbero solo rilevanza in ambito civile con evidente profilo di irragionevolezza del sistema (Sez. 6, n. 685 del 22/09/2010, P.C. in proc. C., Rv. 249186; Sez. 6, n. 12517 del 28/03/2012, Rv. 252607; Sez. 6, n. 24642 del 19/03/2014, Pg in proc. G, Rv. 260063).
2.2. Le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (c.d. "mobbing") possono dunque integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para - familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, dal formarsi di consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell’altra (rapporto supremazia - soggezione), dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia, e come tale destinatario, quest’ultimo, di obblighi di assistenza verso il primo (da ultimo, Sez. 6, n. 24642 del 19/03/2014, Pg in proc. G., Rv. 260063; Sez. 6, n. 28603 del 28/03/2013, Rv. 255976). Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia nell’ambito di un rapporto professionale o di lavoro, è necessario che il soggetto attivo si trovi in una posizione di supremazia, connotata dall’esercizio di un potere direttivo o disciplinare tale da rendere ipotizzabile una condizione di soggezione, anche solo psicologica, del soggetto passivo, che appaia riconducibile ad un rapporto di natura para-familiare. (Fattispecie relativa a condotte vessatorie poste in essere nell’ambito di un rapporto tra un sindaco e un dipendente comunale, in cui la S.C. ha escluso la configurabilità del reato previsto dall’art. 572 cod. pen.) (Sez. 6, n. 43100 del 10/10/2011, R.C. e P., Rv. 251368).
2.3. La natura (o meno) para-familiare di un rapporto non può essere desunta dal dato - meramente quantitativo - costituito dal numero dei dipendenti presenti nel contesto lavorativo ove siano commesse le condotte in ipotesi maltrattanti, dovendo essa piuttosto fondarsi sull’aspetto qualitativo, id est sulla effettiva natura della relazione intercorrente tra datore di lavoro e lavoratore. Si potranno pertanto ravvisare gli estremi della para familiarità allorché ci si trovi in presenza di una relazione interpersonale stretta e continuativa, connotata da una consuetudine o comunanza di vita assimilabile a quella caratterizzante il consorzio familiare (come nel caso della collaborazione domestica svolta in ambito familiare) o comunque connotata da un rapporto di soggezione e subordinazione del dipendente rispetto al titolare, il quale gestisca l’azienda con atteggiamento "padronale" e, dunque, in modo autoritario, sì da innestare quella dinamica relazionale "supremazia - subalternità" che si ritrova nelle relazioni fra soggetti che si trovino ad operare su piani diversi.
È vero che una relazione di siffatta natura difficilmente potrà essere configurata in realtà aziendali o altri contesti lavorativi di notevoli dimensioni, in cui i rapporti fra dirigenti e sottoposti tendono ad essere più superficiali e spersonalizzati e, tuttavia, non può escludersi che non possano venirsi a creare dinamiche para-familiari nell’ambito dei in singoli reparti e, dunque, nei rapporti fra il capo reparto ed il singolo addetto. In caso di contesti lavorativi piccoli o medi, la valutazione sul punto non potrà invece prescindere da una attenta indagine sulle effettive dinamiche relazionali intercorrenti fra titolare e lavoratore, sì da acclarare la sussistenza o meno di uno stato di soggezione nei termini sopra delineati.
3. Di tali condivisibili principi non ha fatto buon governo il Giudice milanese là dove ha disconosciuto l’esistenza di un contesto interpersonale di natura para-familiare sulla base di argomentazioni contrarie a logica ed a comuni massime d’esperienza nonché a diritto.
3.1. In primo luogo, il Giudice a quo ha errato nell’escludere la natura para-familiare del rapporto di lavoro dalla mera impostazione "moderna ed attuale" dello studio notarile, dovendo piuttosto verificare l’effettiva natura della relazione intercorrente tra datore di lavoro e lavoratrice, a prescindere dal dato meramente quantitativo - costituito dal numero dei dipendenti.
D’altronde, secondo quanto dato conto dallo stesso Giudice di merito, il notaio aveva effettivamente due studi, ma si trattava comunque di contesti lavorativi di dimensioni ridotte con un numero di addetti limitato e di per sé non spersonalizzante nelle dinamiche intersoggettive.
3.2. A ciò si aggiunga che, come giustamente valorizzato dalla parte pubblica ricorrente, fra H.F. e B.M.d.B.V. intercorreva una relazione familiare in senso proprio, essendo quest’ultima la cognata del primo in quanto sorella della di lui moglie.
Inoltre, come riferito dalla persona offesa, al momento della sua assunzione, nello studio lavoravano altri due collaboratori, precisamente il fratello M. e la cognata C.E. , circostanza confermata dalla stessa moglie dell’imputato, la quale ha riferito che "il marito voleva circondarsi di persone di famiglia, quindi fidate".
Di tali circostanze obbiettive il Gup avrebbe dovuto tenere conto al fine di verificare se la relazione personale intercorrente fra datore di lavoro e la dipendente presentasse in concreto intensità e natura para-familiare.
4. Né la para-familiarità può essere esclusa dal fatto che l’atteggiamento discriminatorio non fosse riservato alla sola persona offesa, ma costituisse una prassi costante del datore di lavoro nei confronti di tutti i collaboratori dello studio, essendo egli solito rivolgersi ai dipendenti con "toni aggressivi e sgarbati (spesso turpiloquio)" e con "atteggiamenti a dir poco inurbani" (v. pagina 10 della sentenza).
4.1. La circostanza che i comportamenti discriminanti e prevaricatori siano attuati nei confronti di più di una persona offesa, in un ambito che possa appunto ritenersi para-familiare, non è invero di per sé suscettibile di escludere la sussistenza della condizione di soggezione e di subordinazione che caratterizza la fattispecie de qua. Si deve ancora una volta ribadire come, a tale fine, debba essere verificata l’essenza della relazione e, dunque, la concretezza di una situazione di subalternità del lavoratore rispetto all’atteggiamento oppressivo, ingiusto e prevaricante serbato dal titolare, piuttosto che la reiterazione dell’atteggiamento penalizzante nei confronti dei soggetti alle proprie dipendenze.
Seguendo il ragionamento del decidente di merito si finirebbe invero per affermare che la replica dell’atteggiamento discriminatorio nei confronti di una pluralità di lavoratori sia idonea di escludere in radice il crearsi di una situazione di subalternità e soggezione, là dove tale circostanza, anziché essere considerata come indicativa di una particolare intensità del dolo valutabile a carico del reo in sede di determinazione della pena, fungerebbe addirittura quale causa di non punibilità a favore dell’imputato, con conseguenze all’evidenza paradossali e contrarie, prima che al diritto, alla logica comune. Del resto, mai si è negata la configurabilità del reato di maltrattamenti commesso in un canonico contesto familiare allorché le condotte aggressive, prevaricatorie ed umilianti siano esperite dal pater familias abitualmente e sistematicamente nei confronti di tutti i membri di una famiglia molto numerosa.
5. Giova infine rilevare come la sussistenza della condizione di subordinazione non possa essere esclusa dal fatto che la persona offesa si sia determinata a denunciare all’Autorità giudiziaria il fatto di essere vittima di cd. mobbing da parte del datore di lavoro.
5.1. Ed invero, lo stato subordinazione e di soggezione del lavoratore vittima rispetto al datore di lavoro, quale condicio sine qua non per la sussumibilità del cd. mobbing nella fattispecie incriminatrice dei maltrattamenti in famiglia, deve sussistere all’atto delle condotte vessatorie ed oppressive e non può essere escluso - ex post - dal fatto che la vittima, dopo avere subito un sistematico e continuativo atteggiamento discriminatorio, abbia azionato tutti gli strumenti di reazione in suo potere per opporsi alla prevaricazione e denunciare i fatti di cui sia stata vittima.
5.2. Per le medesime ragioni risulta del tutto irrilevante ai fini dell’incriminazione la circostanza che la persona offesa abbia, nel corso del processo, rimesso la querela, fatto comunque rilevante in relazione alla procedibilità del solo reato di lesioni personali e non anche di quello di maltrattamenti.
6. Alla stregua delle su esposte considerazioni, tenuto conto del disposto dell’art. 569, comma 4, cod. proc. pen., la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte d’appello di Milano.
6.1. Nel procedere ad un nuovo giudizio in conformità ai principi di diritto sopra espressi, la Corte d’appello lombarda dovrà verificare se, nel rapporto fra B.M.d.B.V. e F.H.M. , sia riscontrabile o meno la para-familiarità, avendo riguardo - non e tanto al numero di collaboratori dello studio notarile ed alla reiterazione delle condotte discriminatorie nei confronti di una pluralità di soggetti - bensì alle dinamiche relazionali in seno al contesto lavorativo e, nello specifico, a quelle intercorrenti fra la dipendente ed il professionista. Dall’altro lato, il Collegio dovrà accertare se sia o meno ravvisabile una condotta obiettivamente maltrattante - connotata dai caratteri dell’abitualità, della sistematicità e dell’intenzionalità persecutoria - e di una condizione di soggezione e subalternità della B.M.d.B. nei dell’H.F. .
6.2. Alla liquidazione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute in questo grado dalla parte civile provvederà la Corte d’appello all’esito giudizio.

 

 

P.Q.M.

 



annulla la sentenza impugnata e rinvia per il giudizio alla Corte d’Appello di Milano.