Cassazione Civile, Sez. Lav., 03 ottobre 2018, n. 24121 - Perdita di gas da un tubo di scarico e conseguenti disturbi dell'equilibrio, disorientamento e depressione della stiratrice


 

 

 

Presidente: NOBILE VITTORIO Relatore: AMENDOLA FABRIZIO Data pubblicazione: 03/10/2018

 

 

 

Fatto

 


1. La Corte di Appello di Brescia, con sentenza del 12 novembre 2013, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva respinto il ricorso con cui M.P.L. aveva chiesto la condanna di Fondazione Casa Serena di Leffe al risarcimento dei danni patiti in conseguenza di un infortunio occorso il 7 febbraio 2007 nonché l'accertamento della illegittimità del licenziamento intimatole il 24 aprile 2008 per giustificato motivo oggettivo.
Quanto all'infortunio, identificato dalla M.P.L. nella perdita di gas da un tubo di scarico mentre ella era adibita alle mansioni di stiratrice a rullo, cui avevano fatto seguito disturbi dell'equilibrio, disorientamento, depressione del tono dell'umore, la Corte lombarda ha condiviso le seguenti conclusioni del consulente tecnico d'ufficio: "non si ritiene che quanto lamentato dalla paziente possa essere riferibile ad intossicazione da CO, che verosimilmente non è avvenuta. In ogni caso, anche nell'ipotesi che ci sia stata un'esposizione eccessiva, i valori estrapolati non sono così elevati da configurare un quadro di intossicazione tale da portare alla sintomatologia lamentata, dopo l'episodio e attualmente, dalla Sig.ra M.P.L.. Infatti, il valore estrapolato di 5-6% è compatibile con i livelli osservabili in fumatori e quindi potrebbero essere stati sperimentati in precedenza dalla Sig.ra M.P.L.".
Con riferimento al licenziamento - per quanto qui ancora interessa - la Corte d'appello ha ritenuto corretta la sentenza di primo grado che aveva considerato questione nuova l'applicabilità alla fattispecie della norma di cui all'art. 33 del d. lg.vo n. 165 del 2001 in tema di eccedenze di personale e mobilità collettiva.
2. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la lavoratrice con 4 motivi, cui ha resistito Fondazione Casa Serena Onlus, mentre la Società Reale Mutua di Assicurazioni Spa è rimasta intimata.
La M.P.L. e la Fondazione hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c.
 

 

Diritto

 

 
1. I primi tre motivi di ricorso investono il rigetto della domanda concernente la richiesta di risarcimento del danno per l'infortunio occorso sul luogo di lavoro.
Con il primo mezzo si deduce "omessa ed insufficiente motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c.", censurando la sentenza della Corte di Appello per "mero recepimento della c.t.u.", espletata anche in secondo grado, senza tenere conto delle contestazioni del consulente di parte appellante.
Il motivo, in disparte i profili di inammissibilità derivanti dalla denuncia di una ' pretesa "insufficienza" motivazionale, non più sindacabile nel vigore dell'art. 360 c.p.c., co. 1, n. 5, come riformulato dall'art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla l. n. 134 del 2012, non può trovare accoglimento.
Nelle ipotesi in cui il giudice respinga o accolga la domanda avvalendosi del parere di un consulente tecnico d'ufficio, tanto più quando è richiesto un accertamento di situazioni rilevabili solo con l'ausilio di specifiche cognizioni o 1 strumentazioni tecniche (come avviene con la consulenza medico-legale), questa Corte ha più volte ribadito che il giudice del merito non è tenuto a giustificare diffusamente le ragioni della propria adesione alle conclusioni del consulente tecnico d'ufficio, ove manchino contrarie argomentazioni delle parti o esse non siano specifiche, potendo, in tal caso, limitarsi a riconoscere quelle conclusioni come giustificate dalle indagini svolte dall'esperto e dalle spiegazioni contenute nella relativa relazione (cfr., ex plurimis, Cass. n. 1660 del 2014; n. 25862 del 2011; n. 10688 del 2008; n. 4797 del 2007; n. 26694 del 2006; n. 10668 del 2005).
Si è altresì affermato che il giudice di merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l'obbligo della motivazione con l'indicazione delle fonti del proprio convincimento, senza che sia necessario, che egli si soffermi sulle contrarie deduzioni dei consulenti di fiducia che, anche se non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili con le argomentazioni accolte, risolvendosi in tal caso le critiche di parte, tendenti al riesame di elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, in mere allegazioni difensive, che non possono configurare  il vizio di motivazione previsto dall'art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. (Cass. n. 8355 del 2007; conformi. Cass. n. 17606 del 2007, n. 282 del 2009).
In ogni caso costituisce fermo principio della giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui il vizio, denunciabile in sede di legittimità, della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni della perizia medico legale è ravvisabile in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, o nella omissione degli accertamenti strumentali dai quali secondo le predette nozioni non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico che si traduce in una inammissibile critica del convincimento del giudice (cfr. ex multis Cass. n. 1652 del 2012; n. 569 del 2011; n. 9988 del 2009).
Dal punto di vista processuale, poi, il vizio di difetto di motivazione per criticata adesione alle risultanze di una consulenza tecnica d'ufficio non può prescindere dall'osservanza degli oneri imposti dall'alt. 366, co. 1, n. 6, c.p.c., nonché dall'art. 369, co. 2, n. 4, c.p.c., per cui, per rispettare il canone dell'autosufficienza è necessario che il contenuto della CTU, quanto meno nelle sue parti rilevanti, sia riportato in ricorso (Cass. n. 1652 del 2012), oltre a precisare dove la stessa sia reperibile e dove sia stata prodotta. Analoghi oneri di indicazione specifica e di produzione dovranno essere assolti ove il motivo sia fondato anche sulle osservazioni critiche contenute in una consulenza tecnica di parte.
Nella specie il motivo in esame - oltre a presentare carenze dal punto di vista del rispetto del canone dell'autosufficienza in ordine ai chiarimenti richiesti, rispetto ai quali comunque in sentenza, alla pag. 7, viene dato atto che la CTU di secondo grado è stata disposta proprio perché il consulente d'ufficio in primo grado si era limitato a non condividere le "osservazioni critiche del consulente di parte lavoratrice" - in ogni caso, lungi dall'individuare un fatto dotato del carattere della "decisività", che sarebbe stato trascurato dalla sentenza impugnata e dalla consulenza tecnica d'ufficio cui la medesima ha prestato adesione, che avrebbe condotto con certezza ad esiti diversi, si limita a contestare le valutazioni offerte dal giudice di merito e dal suo ausiliare, prospettando una diversa ricostruzione soggettiva, in quanto più rispondente alle attese della patrocinata, senza evidenziare una manifesta illogicità tra gli elementi di valutazione medico-legale acquisiti al giudizio ovvero una palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica.
Sicché in definitiva il motivo si traduce nell'invocata revisione dei convincimenti espressi dal giudice di merito, tesa a conseguire una nuova valutazione ed un diverso apprezzamento dei fatti, non concessa perché del tutto estranea alla natura ed alla finalità del sindacato di legittimità che non consente un terzo grado di giudizio.
2. Con il secondo motivo si denuncia "violazione di legge art. 437 comma 2 (scilicet: c.p.c.) e mancata o insufficiente motivazione sui punti decisivi della controversia", in quanto, nonostante con l'atto di appello fosse stata richiesta l'escussione di un nuovo teste, la Corte territoriale non ammetteva la prova, omettendo di fornire qualsiasi motivazione.
La censura è inammissibile perché anch'essa denuncia una pretesa "insufficienza" motivazionale senza tenere conto della novellata formulazione del n. 5 dell'art. 360 c.p.c., così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite di questa Corte (sent. nn. 8053 e 8054 del 2014), di cui la difesa della ricorrente non mostra di avere contezza.
Inoltre il capitolato di prova richiesto, così come la "dichiarazione scritta" del teste invocato, ha un tenore privo di qualsiasi carattere di decisività - facendo riferimento alla percezione dell'odore di gas da parte del S. sopraggiunto sul luogo dell'infortunio - nel senso definito da questa Corte, per cui la circostanza trascurata avrebbe dovuto condurre con certezza e non con prognosi di mera possibilità ad un diverso esito della lite.
Infatti il consulente tecnico d'ufficio ha considerato che, "anche nell'ipotesi che ci sia stata un'esposizione eccessiva, i valori estrapolati non sono così elevati da configurare un quadro di intossicazione tale da portare alla sintomatologia lamentata, dopo l'episodio e attualmente, dalla Sig.ra M.P.L."; quindi, pur ammettendo l'intossicazione, non si è ravvisata la prova del nesso causale con i disturbi lamentati dalla lavoratrice. 
Trattasi di un apprezzamento di fatto che non può essere rimesso in discussione in questa sede di legittimità.
3. Con il terzo motivo si denuncia "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti", lamentando che la Corte territoriale avrebbe "omesso di esaminare la circostanza per la quale l'infortunio in oggetto veniva denunciato all'Inail come tale dallo stesso datore di lavoro".
Anche tale censura non può essere accolta.
Pur attribuendo ad una denuncia di infortunio sul lavoro effettuata ex art. 53, D.P.R. n. 1124 del 1965, nella parte in cui ne descrive, sia pur succintamente, le modalità di accadimento e/o ogni altra circostanza di fatto valenza di confessione stragiudiziale ex art. 2735 c.c. (cfr. Cass. n. 5141 del 1985), non può trascurarsi che tale confessione - essendo rivolta ad un terzo (INAIL) - ex art. 2735 c.c., comma 1, secondo periodo, è liberamente apprezzabile dal giudice (Cass. n. 8611 del 2013, in motivazione), sicché la Corte territoriale ben ha potuto fondare il suo convincimento sulle risultanze peritali, senza incorrere nel vizio di cui al novellato art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c., più volte richiamato, che presuppone la sicura decisività del fatto omesso.
Mentre dallo stesso contenuto della denuncia riportato in ricorso si evince che il datore di lavoro si è limitato a riportare quanto affermato dalla lavoratrice, per cui il valore contessorio attiene alla provenienza delle dichiarazioni dalla medesima, ma non certo alla descrizione dell'accaduto.
4. Con il quarto motivo, concernente invece l'impugnativa di licenziamento, si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 113 c.p.c., dell'art. 33 d. l.vo n. 165 del 2001 e dell'art. 3 L.R. Lombardia n. 1 del 2003.
Si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha affermato che l'applicazione di dette norme alla fattispecie è preclusa perché si tratterebbe di "questioni che presuppongono la proposizione di domande nuove".
Si sostiene che la Fondazione, in quanto ex IPAB, conserverebbe al personale la posizione giuridica nonché i trattamenti economici in godimento, con conseguente applicabilità del T.U. n. 165 del 2001 sul lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni ad opera del giudice, indipendentemente dalla circostanza che la questione sia stata introdotta nel corso del giudizio.
Il motivo di doglianza non può essere accolto.
E' noto che, in relazione alla natura giuridica degli enti di assistenza e beneficenza, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 396 del 1988, la natura pubblica o privata di tali istituzioni deve essere accertata, in concreto, dal giudice ordinario (Cass. SS.UU. n. 1151 del 2012; Cass. SS.UU. n. 10365 del 2009).
E' onere della parte interessata dimostrare la natura dell'istituzione, da fornirsi innanzi tutto tramite la produzione in giudizio dello statuto della medesima, quale atto dal quale non si può prescindere per desumere gli elementi (origine, struttura e fonti di finanziamento) al riguardo rilevanti (Cass. SS.UU. n. 3679 del 2009); si è pure statuito che ove risulti accertata la natura di ente privato dell'IPAB, non è consentito ritenere che lo stesso abbia mai avuto natura pubblicistica (Cass n. 7843 del 2003).
Ne deriva che l'allegazione di fatti idonei ad individuare la natura pubblica o privata di una ex IPAB non può essere introdotta nel corso del giudizio, contribuendo ad identificare le ragioni giuridiche della domanda e dovendosi in ogni caso negare che ad una persona giuridica di diritto privato, in quanto estranea all'elenco dettagliato nell'art. 3 del d. l.vo n. 165 del 2001, possa applicarsi l'art. 33 del medesimo decreto legislativo.
5. Conclusivamente il ricorso va respinto e le spese seguono la soccombenza liquidate in favore della Fondazione come da dispositivo; nulla va disposto per le spese nei confronti della Soc. Reale Mutua in difetto di attività difensiva.
Occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente liquidate in euro 4.000,00, oltre euro 200 per esborsi, rimborso spese forfettario al 15% ed accessori secondo legge.
Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 7 giugno 2018