Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 30 ottobre 2018, n. 49593 - Infortuni mortali durante i lavori autostradali. Importanza della formazione. Distacco illegittimo


Presidente: DOVERE SALVATORE Relatore: MICCICHE' LOREDANA Data Udienza: 14/06/2018

 

Fatto

 


1. La Corte d'Appello di Firenze, con sentenza dell'11 marzo 2016, in parziale riforma della sentenza del 16 dicembre 2013 del Tribunale di Firenze, assolveva T.A. dal reato ascritto per non avere commesso il fatto e rideterminava la pena, ritenute le circostanze attenuanti generiche equivalenti all'aggravante contestata, per T.F. in anni tre e mesi dieci di reclusione e per A.A. e B.A. in anni due e mesi quattro di reclusione ciascuno, per i reati di cui agli artt. 113, 589, commi 1, 2 e 4 e 590, c. 3, cod.pen., per avere cagionato, per colpa generica e specifica, in violazione della normativa contro gli infortuni sul lavoro, ciascuno nelle rispettive qualifiche, la morte di C.R., M.G. e C.G., nonché per avere cagionato a LP.G. lesioni personali consistite in disturbo da stress postraumatico, ritenuto guaribile in un periodo di oltre tre mesi. La Corte d'Appello confermava la condanna degli imputati al risarcimento del danno, in solido con la responsabile civile T.A. Costruzioni Generali S.p.A. (oggi T.A. Holding S.p.A.), nei confronti della parte civile INAIL, alla quale veniva riconosciuta altresì una somma a titolo di provvisionale; nonché, per quanto qui di interesse, la condanna, a norma del d.lgs. n. 231/2001, della medesima società alla sanzione pecuniaria di 360.000,00 euro.
2. Il fatto veniva pacificamente ricostruito dai giudici di merito. Il 2 ottobre 2008, nel corso dei lavori per la realizzazione del Lotto 13 della Variante di Valico della Autostrada Al Firenze-Bologna, in Barberino di Mugello, lavori appaltati dalla Società Autostrade alla T.A. Costruzioni Generali S.p.A., ed in particolare durante l'esecuzione dei lavori di elevazione della pila n. 6 del viadotto Lora nel cantiere PC 13, i tre operai C.R., M.G. e C.G. perdevano la vita a causa di gravissimo trauma polifratturativo polidistrettuale dopo essere precipitati nel vuoto da un'altezza di circa 40 metri a seguito dello sganciamento della pedana sulla quale si trovavano, sganciamento causato dall'errato montaggio del sistema di ancoraggio PERI CB240, effettuato utilizzando, per il serraggio del cono, una vite di dimensioni inferiori, sia per lunghezza sia per diametro, a quelle prescritte, e ciò in quanto la barra Dywidag era penetrata eccessivamente nel cemento, a causa della mancanza, nel cono, della doverosa spina di battuta, a causa dell'usura o di una rottura. L'incidente provocava altresì un gravissimo disturbo da stress postraumatico in altro operaio, LP.G., che rimaneva in bilico sulla pedana attigua a quella caduta.
3. L'incidente, a seguito della complessa istruttoria di primo grado, veniva pacificamente ricostruito. La caduta della passerella su cui si trovavano gli operai si era verificata a causa dell'errato montaggio del suo sistema di ancoraggio, denominato PERI CB240, in particolare a causa dell'utilizzo di pezzi difettosi e conseguentemente montati in maniera errata. Tale sistema, utilizzato per accompagnare l'innalzamento della pila mano a mano che i vari conci di essa vengono formati ed impilati, prevede l'inserimento nel concio di cemento di un insieme di pezzi costituito da un cono e da una barra di acciaio di lunghezza predeterminata, denominata barra Dywidag, avvitata mediante una piastra, e l'inserimento su questo insieme, dopo la formazione del concio stesso, dell'ancoraggio vero e proprio, costituito da un rocchetto serrato nel cono con un bullone anch'esso di dimensioni predeterminate, calcolate per sorreggere, unitamente alla barra Dywidag, che funge da tirante, la passerella e gli operai che vi devono lavorare sopra.
3.1. Nel caso di specie, la barra Dywidag era stata inserita nel cono per una lunghezza eccessiva, probabilmente perché il cono risultava privo della spina di battuta, cosicché la barra era penetrata 35 mm oltre detta spina. In tal modo aveva invaso lo spazio in cui doveva essere avvitato il bullone, e gli operai, non riuscendo a serrare il tutto in maniera corretta, avevano utilizzato un bullone di dimensioni inferiori, sia quanto alla lunghezza, sia, soprattutto, quanto al diametro. Tale bullone di diametro inferiore, tuttavia, aveva anche un passo di filettatura diverso e quindi si era avvitato solamente per 1,7 mm, e non aveva retto, conseguentemente, al peso della passerella e degli operai, una volta che questa era stata agganciata al rocchetto. I giudici di merito, quindi, ritenevano che l'infortunio fosse avvenuto per due cause meccaniche concomitanti, ossia l'avvitamento eccessivo della barra Dywidag e l'utilizzo di un bullone non solamente troppo corto ma soprattutto di diametro inferiore a quello necessario.
3.2. Causa principale di questi errori veniva ritenuta la mancanza di idonea formazione del personale, il quale non aveva mai seguito alcun corso specifico su tale sistema di ancoraggio, risultando del tutto ignaro del suo funzionamento e delle sue corrette modalità di costruzione. A tale mancata formazione si aggiungevano poi anche la mancata fornitura dei pezzi prescritti e non usurati e l'impiego di modalità costruttive non conformi al manuale di istruzioni.
4. Quanto alle posizioni degli imputati, i giudici ritenevano responsabili dell'incidente T.F., A.A. e B.A., nonché, a norma del d.lgs. n. 231/2001, la T.A. Costruzioni Generali S.p.A. Il primo giudice, in questo confermato dalla Corte distrettuale, mandava invece assolti T.A. e C. F.; in appello, invece, veniva assolto anche T.A.. 
4.1. T.F., dirigente della T.A. S.p.A., veniva condannato in qualità di datore di lavoro delle persone offese. Giusta la formale, rituale, valida e dettagliata delega di funzioni rilasciata in data 27 settembre 2006 in suo favore dall'amministratore delegato e legale rappresentante della T.A. S.p.A, T.A., infatti, egli risultava dotato di poteri non limitati e di piena autonomia di gestione e di spesa in relazione all'unità produttiva corrispondente al Lotto 13, oggetto dell'appalto. Di tale unità produttiva, pertanto, doveva essere considerato vero e proprio datore di lavoro, dovendosi dunque ascrivere al T.F., oltre agli addebiti specifici che lo vedevano imputato quale dirigente, anche la violazione degli obblighi ricadenti sul datore di lavoro T.A.. In particolare, quindi, il T.F. veniva considerato responsabile, oltre che della violazione degli artt. 112, c. 1, 123, c. 1 e 127, c. 1, d.lgs. n. 81/2008, altresì di non avere fornito ai lavoratori addetti alla costruzione della pila alcuna informazione, formazione e addestramento circa le corrette regole di montaggio, utilizzo e smontaggio del sistema di ancoraggio PERI CB240; nonché di avere affidato i lavori in argomento senza tenere conto delle capacità e condizioni dei lavoratori impiegati in rapporto alla loro salute e sicurezza; nonché di non avere provveduto all'aggiornamento delle misure di prevenzione e sicurezza e di non avere messo a disposizione degli operai tutti i pezzi di montaggio propri del sistema, costringendoli ad utilizzare bulloni comunque presenti in officina.
4.2. A.A. e B.A. venivano condannati in qualità di datori di lavoro - il primo in senso sostanziale ed il secondo in senso formale - dell'operaio deceduto C.G.. Veniva infatti ritenuto dai giudici di merito che il B.A., amministratore della Manutenzione Strade S.r.l. e formale datore di lavoro del C.G., avesse fittiziamente distaccato il lavoratore, immediatamente dopo la sua assunzione, presso la A.A. S.r.l., società subappaltatrice di una parte dei lavori appaltati alla T.A. S.p.A. e della quale era amministratore l'A.A.. Il distacco veniva considerato illegittimo non ravvisandosi alcun interesse della società distaccante. Gli imputati, poi, avevano fraudolentemente somministrato il lavoratore alla T.A. S.p.A., nella cui diretta disponibilità veniva fatto passare, decedendo proprio durante lo svolgimento di lavori per quest'ultima società. La responsabilità di A.A. e B.A., appurata la posizione di garanzia di entrambi nei confronti del C.G., veniva ravvisata dai giudici nella mancanza di adeguata formazione ed informazione circa i lavori cui l'operaio sarebbe stato destinato e della cui tipologia sapevano o avrebbero dovuto sapere, nonché nell'avere consentito che venissero affidati alla persona offesa i lavori in argomento senza tenere conto delle sue capacità, competenze e condizioni. Nello specifico, all'A.A. veniva addebitato di avere lasciato che il proprio lavoratore venisse inviato in cantieri da lui mai esaminati e dei quali non conosceva la sicurezza, venendo adibito a lavori dei quali lo stesso A.A. non conosceva la natura. Al B.A., invece, veniva contestato il fatto di essersi del tutto disinteressato di controllare la sicurezza del cantiere in cui veniva fatto operare il proprio lavoratore.
4.3. Infine, la T.A. Costruzioni Generali S.p.A. veniva ritenuta responsabile dell'illecito amministrativo da reato di cui all'art. 25-septies del d.lgs. n. 231/2001, essendosi ritenuti sussistenti i requisiti soggettivi ed oggettivi di cui all'art. 5 del medesimo decreto a causa della commissione dei reati da parte del direttore tecnico/datore di lavoro T.F. in vantaggio dell'ente, ed essendosi accertata l'inesistenza di un valido modello di organizzazione, gestione e controllo ai sensi dell'art. 7, c. 2.
5. Gli imputati T.F., A.A., B.A. e T.A. Holding S.p.A. (quest'ultima anche in qualità di responsabile civile) propongono, ciascuno a mezzo del proprio difensore di fiducia, ricorso per cassazione.
6. T.F. eleva sette motivi di ricorso.
7. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, ex art. 606, c. 1, lett. c), cod.proc.pen., violazione di legge in ordine al principio di correlazione fra accusa e sentenza. Al T.F., infatti, non erano stati contestati gli specifici addebiti mossi al T.A., datore di lavoro originariamente coimputato, pur essendo poi i giudici di merito pervenuti a condanna anche per tali contestazioni, una volta ritenuta valida la delega di funzioni, ed aver considerato il ricorrente il vero datore di lavoro del Lotto 13. Ne consegue violazione del diritto di difesa del prevenuto, in quanto la possibilità in concreto di difendersi deve essere valutata non in relazione a quanto viene detto in dibattimento in termini quantitativi ma bensì in relazione alla struttura logica dell'imputazione, non essendo possibile validamente difendersi in presenza di due contestazioni fra loro in rapporto di esclusione o incompatibilità, come nel caso di specie.
8. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, ex art. 606, c. 1, lett. e), cod.proc.pen., vizio di motivazione in ordine all'accertamento del nesso causale ed alla ritenuta esclusione dell'abnormità del comportamento dei lavoratori, in particolare di F., assistente di cantiere. Quanto al nesso causale, si sostiene come, per stessa ammissione dei giudici, dalle risultanze tecniche emerga che se fosse stato impiegato un bullone appropriato l'infortunio non si sarebbe verificato, anche nel caso in cui il bullone fosse stato più corto, ma con il corretto diametro. Di talché, si sostiene che non sia predicabile la sussistenza del nesso causale fra la mancata formazione dei lavoratori e l'evento, dal momento che la grossolanità della 
violazione di colui che impiega un bullone non solo più corto ma anche di passo diverso - pertanto visivamente ed immediatamente distinguibile da quello appropriato- non dipende certo dalla maggiore o minore consapevolezza del funzionamento del meccanismo di ancoraggio, ma sia evidente di per sé, a chiunque abbia una consapevolezza "laica" del fatto che un bullone di passo minore non possa fare adeguatamente presa in un alloggiamento di diametro superiore. Dinanzi alla mancanza di bulloni di giuste dimensioni ed all'evidenza dell'inadeguatezza di quelli disponibili, pertanto, la squadra avrebbe dovuto fermarsi e rimandare al giorno dopo ulteriori verifiche. Effettivamente, i lavoratori si erano indirizzati in questo senso, chiamando l'assistente F., il quale, tuttavia, con condotta del tutto abnorme, non aveva impedito agli operai di continuare le lavorazioni, così come l'operaio C.R. aveva manifestato comunque l'intendimento di procedere. Ne consegue la totale abnormità del comportamento dei lavoratori, capace come tale di interrompere il nesso causale, dal momento che, riguardata dal lato dell'evitabilità in concreto dell'evento, nessuna formazione specifica sul sistema di ancoraggio PERI avrebbe potuto evitare un'imprudenza abnorme come quella in esame. Ciò tanto più ove si consideri che la professionalità dei lavoratori in relazione a quel particolare sistema doveva considerarsi cosa acquisita, essendo professionalità tipicamente da addestramento sul campo, ed essendo tutti i lavoratori esperti in quelle lavorazioni.
9. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, ex art. 606, c. 1, lett. b) e lett. e), cod.proc.pen., violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alle ritenute violazioni del d.lgs. n. 81/2008 specificamente contestate al T.F..
9.1. Quanto alla violazione dell'art. 112, d.lgs. n. 81/2008 - relativa all'omessa verifica dell'inadeguatezza dell'attrezzatura dovuta alla mancanza della spina di battuta nei coni in dotazione ai lavoratori - il ricorrente sostiene che la motivazione della sentenza d'appello manchi dell'individuazione della concreta riconoscibilità della pretesa inadeguatezza da parte dell'imputato. Il T.F., infatti, era subentrato nella gestione del Lotto 13 facendo ragionevole affidamento sulle attrezzature ivi presenti, delle quali nessuno aveva mai segnalato anomalie o difetti e che sicuramente non erano divenute inadeguate nel corso delle lavorazioni del viadotto in questione. Peraltro, si sostiene che tale difettosità dei coni non avrebbe avuto nessuna incidenza causale, dal momento che l'unico requisito strutturale di sicurezza del sistema PERI è costituito dalla necessaria misurazione in fase di montaggio del pezzo di ancoraggio interno e che l'infortunio si è verificato per essere stato montato un bullone non adeguato, anomalia che non ha nulla a che vedere con le condizioni di usura dell'attrezzatura originale. 
9.2. Quanto alla violazione dell'art. 123, d.lgs. n. 81/2008 - relativo all'assenza di un preposto competente nel corso del montaggio - il ricorrente sottolinea come non possa essere ascritta al T.F. la mancanza, in quella giornata di lavoro, del C., preposto esperto nel sistema PERI, in quanto nulla sapeva di quell'assenza e, soprattutto, in quanto la mancata copertura di quell'assenza fu frutto di autonoma decisione del F., che omise di riferirne al diretto superiore. Né poteva considerarsi, come già detto, responsabilità del T.F. la decisione del F. di non interrompere il lavoro, decisione certamente non dovuta ad alcuna urgenza di rispettare il cronoprogramma, come emergerebbe da diverse testimonianze.
9.3. Quanto, infine, alla violazione dell'art. 127, d.lgs. n. 81/2008 - relativo alla mancata predisposizione di un progetto specifico per il viadotto Lora - il ricorrente sostiene che il progetto a suo tempo predisposto per il viadotto di Fiumicello poteva considerarsi del tutto adeguato, dal momento che le pile dei due viadotti erano state realizzate esattamente con il medesimo sistema costruttivo e che avevano esattamente le stesse caratteristiche, salva la sola larghezza di quelle del Lora, non comprendendosi in che senso le differenze geografiche fra le due aree potessero rilevare nel non rendere estensibile il progetto di Fiumicello al viadotto Lora.
10. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, ex art. 606, c. 1, lett. b), cod.proc.pen., violazione di legge in ordine al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all'art. 62, n. 6), cod.pen. Il ricorrente sottolinea come sia principio ormai consolidato quello per cui tale circostanza abbia natura oggettiva, e sia dunque concedibile anche quando il risarcimento provenga da un terzo, come nel caso odierno, in cui la compagnia assicuratrice della T.A. S.p.A. si è accollata l'onere risarcitorio per il 70%, mentre il restante 30% è stato assunto dell'assicurazione del committente. Parimenti, il giudice d'appello avrebbe violato un altro principio fondamentale in materia, quello per cui, in ipotesi di concorso di persone nel reato, quando uno dei correi abbia già provveduto alla riparazione integrale, è sufficiente ad integrare l'attenuante anche la condotta di chi si attivi per rimborsare il complice più diligente.
11. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, ex art. 606, c. 1, lett. e), cod.proc.pen., vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in misura prevalente rispetto all'aggravante contestata, pur sussistendone i presupposti.
12. Infine, con il sesto ed il settimo motivo, il ricorrente lamenta, ex art. 606, c. 1, lett. c), cod.proc.pen., violazione di legge in ordine al divieto di reformatio in peius, che sarebbe stato leso dalla Corte distrettuale. L'art. 597, c. 3, cod.proc.pen., infatti, nel vietare, al giudice di secondo grado, su appello del solo imputato, di superare il limite di pena segnato dalla sentenza di primo grado, impedisce non soltanto che risulti più elevata la pena finale, ma anche quella comminata per i singoli elementi del calcolo della pena, ancorché essa risulti poi in esito complessivamente diminuita. Nel caso di specie, la Corte territoriale aveva correttamente accolto il motivo di appello relativo all'inapplicabilità al caso odierno del divieto di bilanciamento delle circostanze di cui al vecchio art. 590-bis cod.pen. (oggi 590-quater), in quanto limitato alla violazione delle regole sulla circolazione stradale, ma aveva poi errato nel ricalcolare la pena, una volta compiuto il giudizio di equivalenza fra attenuanti generiche e l'aggravante di cui all'art. 589, c. 2, cod.pen. Infatti, avendo a suo tempo il Tribunale fissato la pena base in anni due di reclusione, quale differenza fra la pena base di anni tre e la diminuzione di un anno per le generiche, la Corte d'Appello non avrebbe potuto fissare la nuova pena base in due anni e quattro mesi. Parimenti, non avrebbe potuto aumentare di un anno e dieci mesi la pena base per effetto dell'art. 589, c. 4, cod.pen., trattandosi di aumento di 11/12, assai più elevato di quello di 2/3 fissato in primo grado. Tutto ciò, a prescindere dal fatto che la pena finale - 3 anni e 10 mesi - risulti più bassa di quella irrogata in primo grado (4 anni). Diversamente, il giudice d'appello avrebbe dovuto fare sì che l'esclusione del divieto di cui all'art. 590-bis cod.pen. comportasse effetti favorevoli in concreto sulla pena finale, cosa che non è dato riscontrare, dal momento che la pena base è stata fissata in misura di poco inferiore alla metà del massimo edittale, sterilizzando così l'eliminazione del predetto divieto, mentre in primo grado la pena base di tre anni era stata determinata operando una riduzione maggiore rispetto alla pena media edittale.
13. A.A. eleva due motivi di ricorso.
14. Con entrambi i motivi, sintetizzabili insieme in quanto il secondo vale a rinforzare le argomentazioni presenti nel primo, il ricorrente lamenta, ex art. 606, c. 1, lett. b) e lett. e), cod.proc.pen., violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla posizione di garanzia ed al nesso causale.
14.1. Quanto alla posizione di garanzia, il ricorrente sostiene che alcuna qualifica di datore di lavoro potesse essere contestata all'A.A.. Era infatti il B.A. il datore di lavoro formale del C.G., mentre datore di lavoro di fatto doveva ritenersi il T.A., in virtù dell'art. 299, d.lgs. n. 81/2008. Peraltro, la qualifica di datore di lavoro non era stata affatto contestata al prevenuto, essendo quindi erronea la riferibilità a costui degli obblighi previsti dall'art. 18 del medesimo decreto. 
14.2. Quanto al nesso causale, il ricorrente sostiene che il C.G., per quanto componente della squadra di operai addetti alla realizzazione della pila in quota, non avesse eseguito né concorso in alcun modo ad eseguire l'erronea operazione causatrice dell'evento. Conseguentemente, quand'anche l'A.A. avesse adempiuto alle prescrizioni contestategli nel capo di imputazione, consentendo l'impiego dell'operaio solamente dopo averlo adeguatamente formato, tale formazione non avrebbe comunque evitato l'evento, atteso che lo stesso si era verificato solamente per il concorso di due cause tecniche ben precise, poste in essere dai lavoratori che concretamente avevano proceduto al montaggio del sistema PERI, e non già dal C.G., risultando elemento assolutamente irrilevante - nel giudizio controfattuale - la circostanza che egli fosse o meno formato rispetto ad una condotta alla cui erronea esecuzione non aveva partecipato.
15. B.A. eleva due motivi di ricorso.
16. Con entrambi i motivi, il ricorrente lamenta, al pari del coimputato A.A., ex art. 606, c. 1, lett. b) e lett. e), cod.proc.pen., violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla posizione di garanzia ed al nesso causale.
16.1. In relazione al primo profilo, il ricorrente sottolinea come il C.G. dovesse considerarsi a tutti gli effetti lavoratore distaccato presso l'A.A., ricorrendone i presupposti di legge. Di conseguenza, il lavoratore distaccato, pur rimanendo formalmente dipendente dal datore distaccante, doveva ritenersi inserito funzionalmente nell'organizzazione distaccatala, in quanto interamente organizzato e diretto da quest'ultima. Pertanto, la principale posizione di garanzia individuabile nella fattispecie di distacco non è quella del distaccante, bensì quella del distaccatario. Sul distaccante, infatti, grava unicamente l'obbligo di informare e formare il lavoratore sui rischi generici connessi alle mansioni per le quali viene distaccato. Nel caso di specie, dunque, solamente sui rischi relativi alla mera attività di manovalanza a terra, gravando invece sul distaccatario - nella specie sul Della Gatta, preposto e referente dell'A.A. - l'obbligo di ogni più specifica formazione per Insicurezza.
16.2. Quanto al secondo profilo, il B.A. ripropone esattamente le medesime doglianze sollevate dall'A.A., alle quali pertanto si rimanda.
17. La T.A. Holding S.p.A. eleva tre motivi di ricorso.
18. Con il primo motivo, la ricorrente lamenta, ex art. 606, c. 1, lett. b) e lett. e), cod.proc.pen., violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità della società quale responsabile civile. Una volta ricostruito, infatti, l'iter che ha portato al conferimento della delega di funzioni al T.F., ed una volta riconosciutane anche la legittimità, tanto da consentire di qualificare l'imputato come datore di lavoro, i giudici di merito non avrebbero potuto predicare il concorso di responsabilità della T.A. S.p.A. quale responsabile civile. La responsabilità dell'unico datore di lavoro T.F. dovrebbe infatti escludere quella della società quale responsabile civile.
19. Con il secondo ed il terzo motivo, la ricorrente lamenta, ex art. 606, c. 1, lett. b) e lett. e), cod.proc.pen., violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità da reato dell'ente ai sensi del d.lgs. n. 231/2001. In primo luogo, la ricorrente sottolinea come, prima della commissione del reato contestato, la società avesse adottato ed efficacemente attuato un modello di organizzazione, gestione e controllo idoneo a norma dell'art. 7, c. 2, circostanza del tutto pretermessa dalla Corte territoriale, e come, di conseguenza, le successive deficienze attuative non potessero essere ricondotte alla società, ma ai soggetti a ciò deputati. In secondo luogo, la ricorrente contesta l'entità della sanzione pecuniaria irrogata dai giudici di merito, dal momento che risultava del tutto scollegata rispetto ai bilanci della T.A. S.p.A., all'epoca negativi ed evidenziane una situazione patrimoniale e contabile deficitaria, nonché calcolata senza tenere minimamente conto delle attività svolte per eliminare le conseguenze del fatto, quali l'integrale risarcimenti delle parti civili e la predisposizione di un modello di gestione e controllo, circostanze non adeguatamente considerate nemmeno nell'operare la riduzione di cui all'art. 12 , c. 2, lett. a), d.lgs. n. 231/2001, calcolata in maniera erronea e quantificata appena nell'11% della somma finale.
20. All'odierna udienza l'INAIL, dopo aver dato notizia dell'accordo transattivo intervenuto tra l'Istituto e la T.A. Holding S.p.A per il pagamento di una somma complessiva definita tra le parti, ha dichiarato di revocare la costituzione di parte civile.
 

 

Diritto

 


1. I motivi di ricorso elevati da T.F. sono tutti infondati, ad eccezione di quello relativo all'attenuante comune di cui all'art. 62, n. 6), cod.pen.
2. Quanto alla doglianza relativa alla violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, questa Corte ha avuto modo anche recentemente di ribadire l'orientamento per cui la violazione del principio di correlazione tra l'accusa e l'accertamento contenuto in sentenza si verifica solo quando il fatto accertato si trovi, rispetto a quello contestato, in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale tale da recare un reale pregiudizio dei diritti della difesa (Sez. 4, n. 4497 del 16 dicembre 2015, Addio ed altri, Rv. 265946; Sez. 1, n. 28877 del 4 giugno 2013, Colletti, Rv. 256785), ovvero quando il capo d'imputazione non contiene l'indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, né consente di ricavarli in via induttiva (Sez. 6, n. 54457 del 17 novembre 2016, Marchiafava ed altro, Rv. 268957; Sez. 6, n. 10140 del 18 febbraio 2015, Bossi ed altro, Rv. 262802). Tale principio trova la propria ratio nella necessità di garantire il diritto di difesa dell'imputato (ex multis, Sez. 6, n. 899 del 11 novembre 2014, Isolan, Rv. 261925), conseguendone che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non si esaurisce nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia di garanzie e di difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'iter del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione (Sez. Un., n. 36551 del 15 luglio 2010, Carelli, Rv. 248051).
2.1. Nel caso di specie, il ricorrente ritiene configurabile la violazione del principio in discorso - e correlativamente del diritto di difesa - poiché i giudici di merito, una volta appurata la validità della delega di funzioni, avevano ritenuto che il T.F. dovesse considerarsi quale vero e proprio "datore di lavoro" degli operai deceduti, con conseguente addebito a costui non solo delle violazioni di colpa generica e specifica espressamente contestate allo stesso in qualità di dirigente, ma anche di quelle contestate al capo A) dell'imputazione a T.A., originario datore di lavoro.
2.2. Come efficacemente argomentato nella sentenza impugnata, il T.F. ha invece avuto ampiamente modo di esercitare i propri diritti difensivi anche in riferimento alle contestazioni mosse alla figura del datore di lavoro. È stato lo stesso imputato, infatti, ad ammettere il proprio ruolo di datore di lavoro ed a rivendicare come attività da lui compiute quelle di fornire o meno una specifica formazione agli operai, di provvedere in tema di misure di prevenzione e protezione e, soprattutto, di redigere il DVR (Documento di Valutazione dei Rischi), risultato incompleto e lacunoso. È stato lo stesso T.F. a riferire del proprio ruolo di datore di lavoro "delegato", ed a difendersi, nel corso del processo, dalle accuse di non avere organizzato corsi di formazione specifici per il sistema di ancoraggio PERI, di avere lasciato operare soggetti non preparati, di non avere messo a disposizione mezzi di protezione e di avere tollerato una prassi lavorativa diversa da quella prevista nel POS, nella redazione del quale aveva svolto peraltro un ruolo di primo piano. In definitiva, corretta e conforme ai principi sopra riportati si mostra la sentenza impugnata, laddove dà conto di come l'imputato stesso avesse concretamente accettato il contraddittorio sulle contestazioni mosse al datore di lavoro, riconoscendosi come tale e difendendosi dalle accuse rivoltegli in tale veste, accuse delle quali dunque risultava essere stato portato pienamente a conoscenza.
2.3. Non è rinvenibile, peraltro, alcuna incompatibilità logica fra le contestazioni mosse al T.F. in qualità di dirigente e quelle invece addebitategli in qualità di datore di lavoro, in quanto non è dato normativamente riscontrare alcuna incompatibilità fra gli obblighi gravanti su tali due garanti della sicurezza dei lavoratori, salvo gli obblighi di elaborare la valutazione dei rischi e di nominare il RSPP, gravanti solo sul ruolo apicale. Per il resto, il T.U. in materia di sicurezza ed igiene del lavoro (D.lgs. n. 81/2008) riconduce al datore di lavoro ed al dirigente i medesimi obblighi di sicurezza, benché declinati in maniera differente, come chiaramente evincibile, fra gli altri, dal disposto dell'art. 18, rubricato, per l' appunto, Obblighi del datore di lavoro e del dirigente.
3. Parimenti infondato è il motivo di ricorso relativo al nesso causale ed all'abnormità del comportamento dell'assistente di cantiere F..
3.1. Sul punto, va premesso, in diritto, che l'obbligo di fornire adeguata formazione ai lavoratori, è uno dei principali gravanti sul datore di lavoro, ed in generale sui soggetti preposti alla sicurezza del lavoro (Sez. 4, n. 41707 del 23 settembre 2004, Bonari, Rv. 230257; Sez. 4, n. 6486 del 3 marzo 1995, Grassi, Rv. 201706). Si afferma pacificamente in giurisprudenza, infatti, che il datore di lavoro risponde dell'infortunio occorso al lavoratore, in caso di violazione degli obblighi, di portata generale, relativi alla valutazione dei rischi presenti nei luoghi di lavoro nei quali siano chiamati ad operare i dipendenti, e della formazione dei lavoratori in ordine ai rischi connessi alle mansioni, anche in correlazione al luogo in cui devono essere svolte (Sez. 4, n. 45808 del 27 giugno 2017, Catrambone ed altro, Rv. 271079). È infatti tramite l'adempimento di tale obbligo che il datore di lavoro rende edotti i lavoratori dei rischi specifici cui sono esposti (Sez. 4, n. 11112 del 29 novembre 2011, P.C. in proc. Bortoli, Rv. 252729). Ove egli non adempia a tale fondamentale obbligo, sarà chiamato a rispondere dell'infortunio occorso al lavoratore, laddove l'omessa formazione possa dirsi causalmente legata alla verificazione dell'evento. Non può infatti venire in soccorso del datore di lavoro - come pretenderebbe il ricorrente - il comportamento imprudente posto in essere dai lavoratori non adeguatamente formati. Il datore di lavoro che non adempie agli obblighi di informazione e formazione gravanti su di lui e sui suoi delegati risponde, infatti, a titolo di colpa specifica, dell'infortunio dipeso dalla negligenza del lavoratore il quale, nell'espletamento delle proprie mansioni, pone in essere condotte imprudenti, trattandosi di conseguenza diretta e prevedibile della inadempienza degli obblighi formativi (Sez. 4, n. 39765 del 19 maggio 2015, Vallani, Rv. 265178). Si è poi ulteriormente specificato che l'obbligo di informazione e formazione dei dipendenti, gravante sul datore di lavoro, non è escluso né è surrogabile dal personale bagaglio di conoscenza del lavoratore, formatosi per effetto di una lunga esperienza operativa, o per il travaso di conoscenza che comunemente si realizza nella collaborazione tra lavoratori, anche posti in relazione gerarchica tra di loro (Sez. 4, n. 22147 del 11 febbraio 2016, Morini, Rv. 266860). Ciò in quanto l’apprendimento insorgente da fatto del lavoratore medesimo e la socializzazione delle esperienze e della prassi di lavoro non si identificano e tanto meno valgono a surrogare le attività di informazione e di formazione prevista dalla legge e gravanti sul datore di lavoro (Sez. 4, n. 21242 del 12 febbraio 2014, Nogherot, Rv. 259219).
3.2. Tanto premesso, è evidentemente necessario che tale omessa formazione ed informazione risulti causalmente rilevante per la verificazione dell'evento lesivo, secondo il ben noto paradigma Franzese. La giurisprudenza di legittimità ampiamente consolidata, ritiene infatti che, in tema di causalità omissiva, nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non possa ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma debba essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l’azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l’interferenza di decorsi causali alternativi, l’evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (ex multis, Sez. Un., n. 30328 del 10 luglio 2002, Franzese, Rv. 222138).
3.3. Orbene, i giudici di merito hanno condivisibilmente affermato, attraverso una attenta e logica valutazione del materiale probatorio acquisito, la inequivocabile sussistenza del nesso causale fra la mancata informazione e formazione dei lavoratori sul funzionamento del sistema di ancoraggio PERI CB240 e la verificazione degli eventi morte e lesioni personali. Essi hanno considerato come si stato dimostrato che gli operai montatori e i loro superiori non avevano eseguito alcun corso di formazione circa il predetto sistema, deducendolo anche dalla totale superficialità con cui veniva montato lo stesso, nonostante la rilevantissima pericolosità connessa all'utilizzo di un piano di lavoro ad un'altezza così elevata. Ad avviso della Corte territoriale, proprio a causa della mancanza di formazione, e quindi di conoscenza del funzionamento intrinseco del sistema PERI e del modo con cui esso assicurava solidità agli ancoraggi, gli addetti al montaggio avevano tragicamente sottovalutato l'importanza dell'uso dei pezzi previsti dal suo costruttore, dell'accantonamento di quelli usurati e dello scrupoloso rispetto delle modalità di installazione prescritte. Conseguentemente, i lavoratori avevano proceduto in maniera del tutto inconsapevole a non accantonare i coni privi della spina di battuta, a non verificare con attenzione la lunghezza di inserimento in essi della barra Dywidag, a non montare separatamente il cono, il rocchetto ed il suo bullone ed a non usare solamente i bulloni delle misure prescritte. Di talché non appare censurabile in questa sede l'avere la Corte di Appello ritenuto, oltre ogni ragionevole dubbio, che se i lavoratori avessero avuto adeguata conoscenza del sistema PERI CB240, non avrebbero mai proceduto ad un suo errato montaggio, in quanto sarebbero stati ben consapevoli del rischio che ciò avrebbe comportato, e di conseguenza non si sarebbero verificate quelle condizioni meccaniche indispensabili affinché l'evento si producesse. E risulta ineccepibile dal punto di vista logico il ragionamento dei giudici di merito secondo cui l'avvitamento eccessivo della barra Dywidag e l'utilizzo di un bullone troppo corto e di diametro inferiore al necessario altro non sono che la manifestazione e la conseguenza della mancata informazione dei lavoratori. Gli operai, infatti, proprio in quanto non formati, non sono stati messi nella condizione di rendersi conto dell'alto valore securitario rivestito dall'utilizzo di un bullone di diametro e lunghezza adeguati nella prevenzione dell'evento.
3.4. La funzione della formazione in termini di acquisita consapevolezza, da parte dei lavoratori, del valore securitario delle precauzioni antinfortunistiche connesse al sistema di ancoraggio, permette di ritenere manifestamente infondato anche il rilievo, avanzato dal ricorrente, circa la pretesa abnormità del comportamento dei lavoratori e del F.. Quanto ai lavoratori, ccorre ricordare come la giurisprudenza di questa Corte sia assolutamente costante nel ritenere che la colpa del lavoratore, concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica ascritta al datore di lavoro ovvero al destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione, esime questi ultimi dalle loro responsabilità allorquando il comportamento anomalo del primo sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore (Sez. 4, n. 16397 del 5 marzo 2015, Guida, Rv. 263386; Sez. 4, n. 8676 del 14 giugno 1996, Ieritano, Rv. 206012). Più di recente, si è precisato che, per potersi parlare di abnormità del comportamento del lavoratore, è necessario che esso sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (Sez. 4, n. 15124 del 13 dicembre 2016, Gerosa ed altri, Rv. 269603; Sez. 4, n. 16890 del 14 marzo 2012, Feraboli, Rv. 252544; Sez. 4, n. 23292 del 28 aprile 2011, Millo ed altri, Rv. 250710; Sez. 4, n. 36227 del 26 marzo 2014, Breda ed altri, Rv. 259767; Sez. 4, n. 7955 del 10 ottobre 2013, Rovaldi, Rv. 259313; Sez. 4, n. 7188 del 10 gennaio 2018, Bozzi, Rv. 272222). Niente di tutto ciò è riscontrabile nel caso odierno, nel quale il rischio concretizzatosi nell'evento non può certo dirsi esorbitante o diverso rispetto a quello connesso al compito affidato ai lavoratori. Né l'uso di un bullone di dimensioni diverse può dirsi comportamento estraneo alle mansioni attribuite, essendo stato peraltro necessitato dalla mancanza di pezzi propri del sistema PERI. Quanto poi al F., che rivestiva la posizione di preposto, l'accertata totale mancanza di formazione in capo a quest'ultimo rendeva ampiamente prevedibile la condotta posta in essere, senza che possa in alcun modo ipotizzarsi una deviazione dalla catena causale determinante il tragico evento. La Corte d'Appello è dunque pervenuta correttamente a ritenere che le condotte dei lavoratori e del F. non solo non erano state cause esclusive del sinistro, ma che non potessero qualificarsi nemmeno come concause, essendo derivate integralmente dalle violazioni cautelari contestate agli imputati.
4. Privo di pregio è poi il motivo relativo alle contestazioni di colpa specifica mosse al T.F., ossia di avere violato gli artt. 112, 123 e 127 del d.lgs. n. 81/2008.
4.1. Quanto all'art. 112 (Idoneità delle opere provvisionali), la Corte territoriale ha correttamente richiamato l'incidenza causale della mancanza, nei coni, per la quasi totalità, della spina di battuta. Tale mancanza, infatti, aveva reso possibile che la barra Dywidag venisse avvitata in misura eccessiva, andando così ad invadere lo spazio destinato all'aggancio del rocchetto e provocando quell'impossibilità di avvitamento completo di quest'ultimo che indusse gli operai ad usare un bullone più corto;, restando del tutto irrilevante la circostanza che l'usura dei pezzi riutilizzati non avesse provocato altri incidenti. Va invero ribadito che costituisce specifico obbligo del datore di lavoro quello di far sì che le opere provvisionali, definite dall'art. 7, d.lgs. n. 81/2008, vengano allestite con buon materiale ed a regola d'arte (Sez. 4, n. 31288 del 16 aprile 2013, Mangione, Rv. 255898). Inoltre, è necessario che, sino a che l'opera provvisionale sia presente nel cantiere, essa sia conservata in efficienza, in modo tale da non costituire pericolo per la incolumità degli addetti anche nel caso di uso al di fuori della fase lavorativa in un dato momento attiva e, persino, nel caso di utilizzo improprio (Sez. 4, n. 3504 del 13 dicembre 2007, Leta ed altro, Rv. 239029; Sez. 4, n. 2800 del 15 dicembre 1998, Breccia ed altro, Rv. 213225). Né può valere a difesa del T.F. la circostanza di essere subentrato nella gestione del Lotto 13 facendo ragionevolmente affidamento sull'idoneità delle strutture, in quanto, per il principio di equivalenza delle cause, il nesso causale non risulta interrotto dalla eventuale violazione cautelare perpetrata da altri garanti (Sez. 4, n. 7725 del 7 novembre 2001, Buriali ed altro, Rv. 220954), non potendo parlarsi di affidamento quando colui che si affida sia in colpa per aver violato determinate norme precauzionali o per aver omesso determinate condotte, confidando che altri rimuova o neutralizzi la situazione di pericolo o adotti dei comportamenti idonei a prevenirlo, atteso che in tali casi il mancato intervento del terzo non si configura come fatto eccezionale ed imprevedibile sopravvenuto da solo sufficiente a produrre l'evento (Sez. 4, n. 22614 del 19 febbraio 2008, P.G. in proc. Gualano ed altri, Rv. 239902; Sez. 4, n. 692 del 14 novembre 2013, Russo ed altro, Rv. 258127; Sez. 4, n. 50038 del 10 ottobre 2017, De Fina ed altri, Rv. 271521). In altri termini, il T.F., sul quale gravava direttamente l'obbligo di controllare che le opere provvisionali risultassero idonee e sicure in quanto datore di lavoro, non poteva fare legittimo affidamento sull'operato di quanti lo avevano preceduto nella stessa posizione, trattandosi di due obblighi autonomi e distinti.
4.2. Quanto all'art. 123 (Montaggio e smontaggio delle opere provvisionali), il quale impone che le operazioni di montaggio e smontaggio delle opere provvisionali siano compiute sotto la diretta sorveglianza di un preposto, la Corte ha adeguatamente argomentato richiamando il contenuto della deposizione dell'assistente di cantiere F. secondo cui, il giorno dell'infortunio, il preposto caposquadra C. risultava assente; nonché l'indiscussa circostanza che il predetto F. era del tutto impreparato sul funzionamento del sistema PERI, tanto da non preoccuparsi che il montaggio avvenisse correttamente né di interrompere i lavori, stante l'assenza del preposto. Ha sottolineato la Corte che è preciso obbligo del datore di lavoro quello di prevedere l'eventuale assenza dei propri preposti, di disporne la sostituzione, ove possibile, ovvero, in caso contrario, l'interruzione dei lavori. A fronte di tali ineccepibili affermazioni, il ricorrente si limita ad affermare, in modo tautologico rispetto alle doglianze già espresse in sede di appello, che egli aveva designato la figura del preposto, che non era stato informato della sua assenza e che la decisione di proseguire i lavori da parte del F. era stata una decisione autonoma di quest'ultimo. Correttamente, sul punto, la Corte fiorentina ha invece posto l'accento sulla assenza di un modello organizzativo che stabilisse i meccanismi di sostituzione del preposto e, in caso di impossibilità di sostituzione, l'interruzione dei lavori di montaggio.
4.3. Quanto, infine, all'art. 127 (Ponti a sbalzo), relativo alla necessità di un progetto specifico ed idoneo per i cantieri in cui i ponti a sbalzo vengano utilizzati, la Corte territoriale ha fornito adeguata e corposa motivazione circa l'indiscussa mancanza di un progetto specifico per il cantiere luogo del sinistro nonché la non totale adattabilità del progetto a sua volta redatto per il diverso viadotto di jj Fiumicello. In proposito, i giudici di merito hanno rilevato che doveva tenersi conto 
del fatto che le lavorazioni sul viadotto Lora dovevano svolgersi su pile aventi differenti altezze e posizioni, ribadendo altresì, con ragionamento logicamente corretto, che l'inesistenza di un progetto specifico aveva certamente concorso a determinare la assoluta assenza di formazione idonea in capo al personale addetto alle lavorazioni. Si tratta di argomentazioni coerenti non scalfite dai rilievi addotti dal ricorrente, il quale espressamente ammette ( pag 30 del ricorso) che la misura del viadotto Lora era differente rispetto a Fiumicello, il che implicava la necessità di "aggiungere un pezzo di passerella", con ciò riconoscendo, per l'appunto, che mancava del tutto un apposito progetto riguardante il viadotto luogo del sinistro.
5. Fondato, invece, come anticipato, è il motivo relativo all'attenuante comune di cui all'art. 62, n. 6), cod.pen.
5.1. Come chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, infatti, ai fini della configurabilità della circostanza attenuante di cui alfart. 62, c. 1, n. 6), cod.pen., il risarcimento del danno deve essere volontario, integrale, comprensivo sia del danno patrimoniale che morale, ed effettivo (Sez. 6, n. 6405 del 12 novembre 2015, Minzolini, Rv. 265831; Sez. 5, n. 21517 del 8 febbraio 2018, Del Pizz ed altri, Rv. 273021; Sez. 2, n. 9143 del 24 gennaio 2013, Corsini ed altri, Rv. 254880). Non è richiesto, invece, che l'attività del reo sia anche spontanea (come nella seconda ipotesi della stessa disposizione), essendo sufficiente che si tratti di attività volontaria (Sez. 5, n. 57573 del 31 ottobre 2017, Rv. 271872).
5.2. Ciò premesso in generale, nel caso specifico in cui il risarcimento sia effettuato da parte di un soggetto diverso dall'imputato, non è sufficiente che tale soggetto abbia con l'imputato, ovvero con i suoi coobbligati solidali, rapporti contrattuali o personali che ne giustifichino l'intervento, ma è necessario che l'imputato manifesti una concreta e tempestiva volontà riparatoria, che abbia contribuito all'adempimento (Sez. 4, n. 6144 del 28 novembre 2017, Rv. 271969). Nel caso in cui il soggetto terzo sia una società assicuratrice - come accaduto nel processo odierno - il risarcimento deve ritenersi effettuato personalmente dall'imputato tutte le volte in cui questi ne abbia conoscenza e mostri la volontà di farlo proprio (Sez. 4, n. 13870 del 6 febbraio 2009, Cappelletti, Rv. 243202; Sez. 4, n. 23663 del 24 gennaio 2013, Segatto, Rv. 256194; Sez. 4, n. 14523 del 2 marzo 2011, Di Gioia, Rv. 249937).
5.3. Tanto premesso, la sentenza impugnata si mostra sul punto carente di motivazione. La Corte territoriale si limita ad affermare che il risarcimento alle parti civili era stato erogato " in parte" da una compagnia assicuratrice terza, mentre la integralità del risarcimento è un requisito indispensabile. La motivazione della Corte territoriale, alquanto concisa e non chiara sul punto, va integrata con le 
argomentazioni contenute nella sentenza di primo grado, nella quale (pag. 61) si dà compiutamente conto di come sia " ampiamente dimostrato dalle quietanze depositate in atti e dalle conseguenti revoche delle costituzioni di parte civile che sia il lavoratore infortunato LP.G. sia i familiari dei deceduti sono stati integralmente risarciti di ogni danno attraverso l'erogazione delle compagnie assicuratrici"; nonché del fatto che "il teste Rapposelli, dirigente della T.A., ha spiegato di essersi personalmente attivato, su pressione deil'ing. T.F., perché le assicuratrici della società erogassero in quantità elevata i risarcimenti". Il primo giudice - con statuizione confermata dalla Corte d'Appello - ha però escluso l'applicabilità dell'attenuante in parola poiché l'integralità del risarcimento, pur sussistente, non era nel suo complesso riconducibile ad opera diretta o sollecitata del colpevole T.F., in quanto la somma pervenuta agli eredi M.G. e C.G. era stata erogata dalla società assicuratrice della committente società Autostrade, e non dal T.F. direttamente nè dalla società assicuratrice della T.A. costruzioni.
Orbene, alla luce dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, risulta evidente l'erroneità delle argomentazioni sopra richiamate. Emerge, invero, l'integralità, nel complesso, del risarcimento del danno, come ulteriormente avvalorata dalla revoca della costituzione delle parti civili, intervenuta già nel corso del primo giudizio; nonché la volontà del T.F. di attivarsi in tal senso. L'impugnata pronuncia va quindi annullata sul punto.
6. Manifestamente infondato è il motivo relativo alle circostanze attenuanti generiche, di cui il prevenuto lamenta la concessione in misura solamente equivalente rispetto all'aggravante contestata. È giurisprudenza pacifica e costante quella per cui, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod.pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, 43952 del 13 aprile 2017, Pettinelli, Rv. 271269; Sez. 2, 3896 del 20 gennaio 2016, De Cotiis, Rv. 265826). Tanto premesso, risulta incensurabile in questa sede la motivazione, del tutto congrua e basata sulla gravità dell'evento e sul rilevante grado della colpa, con cui la Corte distrettuale ha inteso non concedere le attenuanti generiche in misura prevalente.
7. Privi di pregio, infine, risultano i motivi elevati contro il calcolo della pena, ritenuta irrogata in violazione del principio del divieto di reformatio in peius.
7.1. Il ricorrente richiama il principio per cui, nel giudizio di appello, il divieto di reformatio in peius della sentenza impugnata dall'imputato non riguarda solo l'entità complessiva della pena, ma tutti gli elementi autonomi che concorrono 
alla sua determinazione, per cui il giudice di appello, anche quando esclude una circostanza aggravante e per l'effetto irroga una sanzione inferiore a quella applicata in precedenza (art. 597 comma quarto cod.proc.pen.), non può fissare la pena base in misura superiore rispetto a quella determinata in primo grado (Sez. Un., n. 40910 del 27 settembre 2005, William Morales, Rv. 232065; Sez. 4, n. 18086 del 24 marzo 2015, Carota, Rv. 263449). Il principio è condiviso da questa Corte, ma, contrariamente a quanto sostenuto nei motivi di ricorso, risulta correttamente applicato dai giudici di appello.
7.2. Occorre partire dalla ricostruzione del calcolo della pena, per come effettuata nei giudizi di merito. In primo grado, il Tribunale era partito da una pena base di 3 anni, scelta all'interno della cornice edittale della fattispecie aggravata dalla violazione delle norme contro gli infortuni sul lavoro (art. 589, c. 2, cod.pen.), ritenuta erroneamente sottratta al bilanciamento per effetto dell'art. 590-bis (oggi art. 590-quater) cod.pen., applicabile però solamente all'ipotesi aggravata di cui al vecchio art. 589, c. 3, cod.pen., in questo caso insussistente ed erroneamente richiamata nel capo di imputazione. Tale pena base veniva aumentata, ex art. 589, c. 4 cod.pen. (cd omicidio colposo plurimo) a 5 anni ed infine ridotta per le generiche ad anni 4 (pena finale).
La Corte d'Appello, correggendo l'errore compiuto in primo grado e segnalato nei motivi di appello, aveva correttamente escluso l'applicazione del divieto di bilanciamento fra circostanze, ed aveva proceduto al giudizio di bilanciamento in termini di equivalenza. Conseguentemente, aveva stabilito la pena base all'interno della cornice edittale dell'ipotesi non aggravata, fissandola in anni 2 e mesi 4, e l'aveva poi aumentata a 3 anni e 10 mesi (pena finale) a norma dell'art. 589, c. 4, cod.pen.
7.2. Il ricorrente sostiene che, per rispettare il divieto di reformatio in peius, il secondo giudice non sarebbe potuto partire da un computo pari ad 2 e mesi 4 di reclusione, perché superiore alla pena base fissata dal primo giudice. Secondo quanto dedotto nei motivi, la pena base stabilita dal Tribunale sarebbe infatti stata pari a soli due anni, considerato che la diminuizione di un anno per le attenuanti generiche avrebbe dovuto essere applicata non già a seguito dell'aumento a norma dell'art. 589, ultimo comma, ma a seguito della fissazione della pena base ( e dunque anni tre, diminuita di un anno, anni due, cui avrebbe dovuto seguire l'aumento in conseguenza della pluralità di vittime).
7.3. Come detto, il ragionamento non può essere condiviso.
soggetto per l'esecuzione di una determinata attività lavorativa. In tal caso, il datore di lavoro formale risulterà essere il soggetto distaccante, mentre l'utilizzatore della manodopera sarà il distaccatario. In presenza di legittimo distacco - dunque nel caso in cui i requisiti previsti dall'art. 30, c. 1, citato risultino rispettati - la ripartizione degli obblighi di prevenzione e protezione fra il distaccante ed il distaccatario, obblighi che sono, per esplicita disposizione normativa, distinti da ogni altro obbligo e specificamente disciplinati, viene stabilita dall'art. 3, c. 6, d.lgs. n. 81/2008. Tale disposizione prevede che tutti gli obblighi di prevenzione e protezione siano a carico del distaccatario, fatto salvo l'obbligo a carico del distaccante di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali egli viene distaccato. In altre parole, sul distaccante viene a gravare solamente l'obbligo di informazione e formazione relativo alle mansioni per cui il lavoratore viene distaccato, e non tutti gli altri obblighi previsti dal T.U. n. 81/2008.
In base a tale ricostruzione normativa, la giurisprudenza ha infatti avuto modo di chiarire che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, in caso di distacco di un lavoratore da un'impresa ad un'altra, i relativi obblighi gravano sia sul datore di lavoro che ha disposto il distacco, sia sul beneficiario della prestazione, tenuto a garantire la sicurezza dell'ambiente di lavoro nel cui ambito la stessa viene eseguita (Sez. 4, n. 37079 del 24 giugno 2008, Ansaioni, Rv. 241021), sebbene in maniera diversa. In particolare, infatti, in caso di distacco di un lavoratore da un'impresa ad un'altra, per effetto dell'art. 3, c. 6, d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, sono a carico del distaccatario tutti gli obblighi di prevenzione e protezione, fatta eccezione per l’obbligo di informare e formare il lavoratore sui rischi tipici generalmente connessi allo svolgimento delle mansioni per le quali questo viene distaccato, che restano a carico del datore di lavoro distaccante (Sez. 4, n. 31300 del 19 aprile 2013, Farinotti ed altro, Rv. 256397; Sez. 4, n. 40499 del 20 ottobre 2010, Borei li, Rv. 248861, nella parte motiva).
9.2. Resta tuttavia da chiarire che la disciplina del distacco di lavoratori così come sinteticamente ricostruita trova applicazione solamente ove il distacco possa dirsi legittimo, ove quindi ne sussistano i presupposti. Il presupposto essenziale per aversi legittimo distacco è rappresentato, come visto, dalla sussistenza di un interesse al distacco proprio del datore di lavoro distaccante. Ne consegue che risulta configurabile il reato di distacco illegittimo (previsto dall'art. 18, c. 5-bis, in relazione all'art. 30, d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276) nel caso in cui il lavoratore sia distaccato presso altro soggetto in mancanza di un interesse proprio del datore di lavoro distaccante (Sez. 3, n. 47006 del 29 ottobre 2009, Umana, Rv. 245621; Sez. 3, n. 38919 del 10 giugno 2009, Rillo ed altro, Rv. 244959). 
Come risulta dalla ricostruzione del procedimento di calcolo della pena compiuto in primo grado, e sopra descritto, il primo giudice ha ritenuto sussistenti aggravante ed attenuante, determinando la pena base - tenuto conto dell'aggravante - in tre anni. Ha poi apportato l'aumento di cui all'ultimo comma e ha infine applicato la diminuzione, come previsto dall'art. 590 quater.
Una volta messo in luce l'errore, ossia quello di considerare non bilanciabile l'aggravante di cui all'art. 589, c. 2, cod.pen. con le attenuanti generiche, la sussistenza dell'aggravante risulta comunque già configurata dal primo giudice, e quindi affermabile senza alcuna reformatio in peius; e, ritenuta l'equivalenza (anch'essa non peggiorativa in quanto non era stato compiuto alcun bilanciamento) certamente il giudice resta libero di fissare la pena base, essendo vincolato soltanto al limite dei tre anni stabilito in primo grado. Peraltro, l'aumento per l'ultimo comma è stato determinato anch'esso in misura inferiore a quello precedentemente stabilito, e così anche la pena finale.
In conclusione, l'assunto dal quale muove il ricorrente, ossia che la pena base fosse stata in realtà fissata in due anni, è frutto di una errata interpretazione delle norme e di una presunzione che non trova rispondenza alcuna nella sentenza, e ciò perché la pena base per l'ipotesi aggravata non viene determinata sulla base di una circostanza ad effetto comune, ma sulla base di una circostanza ad effetto speciale.
8. Infondati e dunque da rigettare sono anche i motivi di ricorso proposti dagli imputati A.A. e B.A.. Essendo incentrati, nello specifico, sulla posizione di garanzia da ciascuno dei due rivestita in relazione alla figura del lavoratore C.G., nonché sul nesso causale relativo al decesso sempre del medesimo lavoratore, possono essere trattati congiuntamente.
9. Per confermare la sussistenza della qualifica di datore di lavoro su entrambi gli imputati, occorre partire dalla ricostruzione del rapporto di lavoro intercorrente fra di essi ed il C.G., così come accertato nei gradi di merito. Da questi è emerso che il lavoratore era formalmente dipendente della Manutenzione Strade S.r.l., della quale era amministratore il B.A., che aveva distaccato (fittiziamente) il lavoratore presso la A.A. S.r.l., di cui era amministratore l'A.A., società subappaltatrice di una parte dei lavori appaltati alla T.A. S.p.A.
9.1. Sul piano normativo è necessario prendere le mosse dall'istituto del distacco, di cui all'art. 30, d.lgs. n. 276/2003, il quale stabilisce che l'ipotesi del distacco si configura quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, pone temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di altro
9.3. Rimane da chiarire, in diritto, quali siano le conseguenze dell'illegittimità del distacco sugli obblighi antinfortunistici propri del datore di lavoro. Se il distacco è solamente fittizio - ossia non sorretto da alcun interesse effettivo del distaccante - non si produrrà quello spostamento degli obblighi di protezione e prevenzione dal distaccante al distaccatario che si avrebbe in caso di distacco legittimo. Ragionando a contrario, infatti, se tale slittamento della posizione di garanzia avvenisse indipendentemente dalla ritualità o meno del distacco, non vi sarebbe alcun bisogno di specificare, come invece fa l'art. 3, c. 6, d.lgs. n. 81/2008, che la disciplina dallo stesso prevista si applica solamente nelle ipotesi di cui all'art. 30, d.lgs. n. 276/2003, vale a dire nelle ipotesi di distacco reale.
Ne consegue che, in caso di distacco fittizio, non troverà applicazione l'art. 3, c. 6, citato, ma bensì i principi e le disposizioni generali sanciti dal T.U. n. 81/2008, in particolare agli artt. 2 e 299. Ne deriverà, cioè, che risulteranno gravati dalla posizione di garanzia propria del datore di lavoro (in tutta la sua estensione) sia il datore di lavoro formale (id est, il distaccante fittizio), a norma dell'art. 2, decreto citato, sia il datore di lavoro sostanziale o di fatto (id est, il distaccatario fittizio), a norma dell'art. 299, medesimo decreto. Sul distaccatario fittizio, infatti, verrà a gravare una posizione di garanzia ulteriore e concorrente rispetto a quella del datore di lavoro formale, e che trova la propria origine normativa nell'art. 299, in quanto è proprio il distaccatario fittizio a servirsi di fatto del lavoratore, dovendone garantire la sicurezza. Come noto, infatti, la giurisprudenza di legittimità è costante nell'interpretare l'art. 299, d.lgs. n. 81/2008 nel senso che l’individuazione dei destinatari degli obblighi posti dalle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro deve fondarsi non già sulla qualifica rivestita, bensì sulle funzioni in concreto esercitate, che prevalgono, quindi, rispetto alla carica attribuita al soggetto, ossia alla sua funzione formale (Sez. 4, n. 10704 del 7 febbraio 2012, Corsi, Rv. 252676; Sez. 4, n. 18090 del 12 gennaio 2017, Amadessi ed altro, Rv. 269803). Secondo il diritto vivente, pertanto, la disposizione in esame concretizzerebbe, dal punto di vista normativo, il principio di effettività (Sez. 4, n. 22606 del 4 aprile 2017, Minguzzi, Rv. 269973; Sez. 4, n. 18200 del 7 gennaio 2016, Grosso ed altro, non massimata).
9.4. Tanto premesso, priva di censure si mostra la sentenza impugnata, laddove correttamente ritiene la illegittimità del distacco, pervenendo ad addossare la posizione di garanzia per la morte del C.G. sia sul Bonannì (datore di lavoro di diritto, distaccante fittizio), sia sull'A.A. (datore di lavoro di fatto, distaccatario fittizio). La motivazione sul punto non risulta in alcun modo manifestamente illogica. Ha osservato la Corte territoriale che non era possibile ravvisare alcun interesse della società distaccante, e che il B.A. non aveva dedotto nulla in tal senso. Il C.G., infatti, doveva svolgere meri lavori di manovalanza per i quali lo stesso distaccante lo aveva già formato, non ravvisandosi dunque quale accrescimento professionale, o anche solo quale mantenimento della professionalità acquisita, avrebbe potuto comportare il distacco presso l'A.A.. Parimenti, la condotta dell'A.A., che pur avendo in corso un rilevante subappalto con la T.A. S.p.A. si era liberato dei propri dipendenti ed aveva acquisito quelli della Manutenzione Strade S.r.l. attraverso il distacco, era tale da confermare la fittizietà del distacco, dimostrando la sostanziale unicità, nei fatti, delle due predette società. Conforme ai datti di fatto emersi in giudizio nonché ai suespesposti principi è la conclusione dei giudici di merito, secondo cui entrambi gli imputati devono rispondere dell'evento occorso al C.G., in qualità di suoi datori di lavoro (uno formale e l'altro di fatto). Su entrambi gravava l'obbligo di informare e formare il lavoratore circa i rischi specifici delle mansioni cui veniva concretamente adibito, né per il B.A. tale obbligo può dirsi rispettato tramite la generica informazione circa le mansioni di mera manovalanza per le quali sarebbe avvenuto il distacco, del tutto differenti dalle effettive mansioni cui era stato addetto.
9.5. Deve dunque essere affermato il principio di diritto per cui, in caso di distacco fittizio di lavoratori (vale a dire avvenuto al di fuori dei casi previsti dall'art. 30, c. 1, d.lgs. n. 276/2003), non trova applicazione il disposto dell'art. 3, c. 6, d.lgs. n. 81/2008, e gli obblighi di prevenzione e protezione, di cui al d.lgs. n. 81/2008, vengono a gravare sia sul distaccante fittizio, il quale mantiene la qualifica di datore di lavoro in senso formale a norma dell'art. 2, d.lgs. n. 81/2008, sia sul distaccatario fittizio, il quale assume la qualifica di datore di lavoro di fatto, dal momento che si serve concretamente del lavoratore, a norma dell'art. 299 del medesimo decreto.
10. Infondato, infine, è anche il motivo relativo al nesso causale fra le contestazioni mosse a B.A. ed A.A. e la morte del C.G.. I ricorrenti sostengono che ì giudici di merito avrebbero errato nel giudizio controfattuale, dal momento che il lavoratore non aveva eseguito né concorso ad eseguire l'erronea operazione di montaggio del sistema PERI che si era poi rivelata causatrice dell'evento e che quindi, anche se fosse stato correttamente informato, l'evento non avrebbe comunque potuto essere evitato. 
10.1. Le doglianze sono prive di valore. Come affermato concordemente, in un'ottica di doppia conforme, dalle due sentenze di merito, con esaurienti argomentazioni non manifestamente illogiche, il C.G., al pari degli altri operai deceduti, era componente a tutti gli effetti della squadra addetta al montaggio del sistema PERI, nonostante fosse un carpentiere privo della necessaria formazione, e dunque deve considerarsi del tutto irrilevante il fatto che, nello specifico frangente in cui si è verificato il sinistro, pur essendo salito sulla pedana con gli altri, non avesse concretamente effettuato alcuna operazione volta al montaggio del sistema.
Come sottolinea la Corte territoriale, il C.G. faceva parte della squadra di opera, dunque avrebbe dovuto essere formato per le specifiche mansioni che in tale veste andava a svolgere, nonché informato sugli specifici rischi che tali mansioni comportavano. Se fosse stato debitamente informato, infatti, avrebbe avuto le conoscenze necessarie per rendersi conto dell'enorme pericolo che un errato montaggio del sistema PERI avrebbe comportato, e pertanto si sarebbe rifiutato di salire, come avrebbero fatto anche gli altri. Ciò è ampiamente sufficiente per ritenere integrato il nesso causale e validamente indagato il giudizio controfattuale.
11. Quanto alla posizione della T.A. Holding S.p.A., occorre preliminarmente dichiarare l'inammissibilità, per carenza di interesse, del motivo di ricorso relativo alla condanna della società quale responsabile civile. Dal momento, infatti, che anche la parte civile INAIL, nel corso dell'udienza odierna, ha proceduto a dare atto dell'avvenuto integrale pagamento del risarcimento del danno da parte della T.A. (secondo pregresso accordo transattivo intercorso fra le parti) ed ha conseguentemente revocato la propria costituzione, non sussistono più parti civili costituite, essendo la loro posizione stata compiutamente definita, ed essendosi dunque estinto il rapporto processuale civile interno al processo penale (Sez. 2, n. 43311 del 8 ottobre 2015, Vismara, Rv. 255250). Evidente è dunque la sopravvenuta carenza di interesse da parte della ricorrente, cui segue la dichiarazione di inammissibilità del motivo di ricorso.
12. Infondate, infine, sono le censure elevate in riferimento alla responsabilità della T.A. Holding S.p.A. ai sensi del d.lgs. n. 231/2001.
12.1. Al riguardo, si mostra del tutto generica la doglianza relativa alla pretesa esistenza di un adeguato modello di organizzazione, gestione e controllo capace di escludere la responsabilità dell'ente ai sensi dell'art. 7, c. 2, decreto citato. Per esplicita disposizione normativa (art. 5, d.lgs. n. 231/2001), infatti, è l'ente a dovere provare di avere adottato ed attuato efficacemente un idoneo il modello organizzativo. Nessuna circostanziata o fondata prova in questo senso viene offerta dalla ricorrènte nei motivi di appello, né è o sarebbe riscontrabile in questa sede di legittimità. La Corte distrettuale, infatti, dà palese smentita dell'esistenza di tale modello, alla luce delle indagini che hanno permesso di accertare la totale mancanza di organizzazione e di controlli.
12.2. Del tutto generica e sviluppata in fatto è in ultimo la censura relativa all'entità della sanzione pecuniaria irrogata all'ente. Il calcolo della sanzione compiuto dai giudici di merito risulta effettuato correttamente e congruamente, sulla base delle emergenze di fatto, sulle quali non è possibile tornare in questa sede. I giudici hanno infatti commisurato la sanzione sulla base dei criteri di cui all'art. 11, d.lgs. n. 231/2001, tenendo conto della gravità del fatto, del grado di responsabilità dell'ente, dell'attività svolta per eliminare o attenuare le conseguenze del fatto e delle condizioni economiche e patrimoniali dell'ente. Tale sanzione veniva poi correttamente aumentata ex art. 21, medesimo decreto, essendosi in presenza di una pluralità di illeciti, e poi ridotta a norma dell'art. 12, c. 2, medesimo decreto, essendo avvenuto il risarcimento del danno. Non essendovi tuttavia prova del fatto che la società abbia adottato un modello organizzativo idoneo ad impedire altri reati, correttamente è stata esclusa la maggiore riduzione prevista dall'art. 12, c. 3, decreto citato. A fronte di tali dati pacifici, del tutto generica si mostra la censura elevata dalla ricorrente, che si limita ad affermare la sussistenza di una situazione patrimoniale della società incerta e critica, senza tuttavia offrire alcuna prova concreta di tale asserzione, né allegare, anche ai fini dell'autosufficienza del ricorso, alcun documento che possa deporre in tal senso.
13. Alla luce di quanto detto, si impone il rigetto integrale dei ricorsi avanzati da A.A., B.A. e dalla T.A. Holding S.p.A., cui segue per legge la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Quanto alla posizione di T.F., invece, si impone il rigetto di tutti i motivi di ricorso, ad eccezione di quello relativo all'attenuante comune di cui all'art. 62, c. 1, n. 6), cod.pen., limitatamente al quale deve disporsi l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'Appello di Firenze per nuovo giudizio.
14. Stante la revoca della costituzione di parte civile da parte dell'INAIL, avvenuta all'udienza di discussione, la sentenza impugnata deve altresì essere annullata senza rinvio in ordine alle statuizioni civili, in virtù della estinzione dei relativi rapporti processuali.

 

P.Q.M.

 


Annulla senza rinvio la sentenza impugnata in ordine alle statuizioni civili per estinzione dei rapporti processuali civili a seguito della revoca di costituzione di parte civile dell'INAIL Annulla la sentenza impugnata nei confronti di T.F., limitatamente alla statuizione concernente l'attenuante di cui all'art. 62 n.6 c.p. e rinvia alla Corte d'Appello di Firenze per nuovo esame sul punto. Rigetta il ricorso nel resto. Rigetta i ricorsi di B.A., A.A. e della T.A. Holding spa e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma il 14 giugno 2018