Categoria: Cassazione penale
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Cassazione Penale, Sez. 4, 03 dicembre 2018, n. 53999 - Nessuna rimproverabilità soggettiva del datore di lavoro che non è a conoscenza della malattia pregressa del lavoratore


Presidente: PICCIALLI PATRIZIA Relatore: CENCI DANIELE Data Udienza: 04/10/2018

 

Fatto

 

1. La Corte di appello di Napoli il 28 settembre 2017, in riforma integrale della sentenza del Tribunale di Napoli del 2 luglio 2012, ha assolto, perché il fatto non sussiste, ai sensi dell'art. 530, comma 2, cod. proc. pen., P.N. dal reato di lesioni colpose nel confronti di N.D., con violazione della disciplina antinfortunistica, fatto commesso tra il 2004 ed il luglio 2006.
2. Si premettono alcune informazioni tratte dalle sentenze di merito.
2.1. L'imputato era stato ritenuto in primo grado responsabile, nella qualità di legale rappresentante della s.r.l. FIN.COM.ME., esercente l'attività di rivendita di prodotti farmaceutici, di avere causato lesioni personali, cioè l'aggravamento di una pregressa spondilolistesi da cui era già affetto, al dipendente N.D., che svolgeva le mansioni di allestitore (allestitore cioè degli ordini dei farmacisti sugli scaffali), consistenti, in concreto, nel sistemare, per circa 3-4 ore al giorno, prodotti medicinali e pacchi contenenti gli stessi su scaffali.
Il profilo di colpa addebitato è di tipo generico, per non avere fornito al dipendente macchinari o strumenti idonei ad evitare che nel corso del lavoro alzasse ripetutamente da una pedana scatole contenenti farmaci da sistemare sugli scaffali di un deposito, scatole il cui peso, secondo quanto riferito da alcuni testimoni, era compreso tra 10 e 21 chilogrammi, oltre a pacchi di peso inferiore, ovvero, all'atto dell'insorgere dei primi sintomi di una lombosciatalgia recidivante nel 2004, per non avere impedito che il dipendente sollevasse da solo scatole di peso superiore a 5 chilogrammi, essendo stato il magazzino meccanizzato soltanto nell'anno 2006; fatti commessi tra il 2004 e luglio 2006.
2.2. La Corte di appello, invece, ha ritenuto che della patologia congenita di cui soffriva il dipendente la società era stata informata soltanto nell'anno 2006, in quanto i momenti di possibile emersione della notizia della malattia erano - solo ed esclusivamente - i seguenti: nel corso della visita medica del 17 maggio 2004 N.D. aveva riferito verbalmente al medico dell'INPS, estraneo alla società, di soffrire dolori di schiena ma il sanitario, al termine del controllo, lo dichiarava idoneo al lavoro; in seguito, sempre nel 2004, il dipendente aveva verbalmente riferito al capo turno di dolori alla schiena ed era stato addetto per un periodo transitorio al servizio di portineria, per poi ritornare alle originarie mansioni; soltanto nell'anno 2006 l'esito del controllo medico era la dichiarazione di idoneità soltanto parziale al lavoro, nel senso che non avrebbe dovuto sollevare pesi superiori a dieci chilogrammi, ma il certificato giunto in azienda non conteneva, per ragioni di privacy, la diagnosi e non comunicava la patologia sofferta dal dipendente (pp. 3-4 della sentenza impugnata).
La Corte di appello ne ha tratto la conclusione (p. 4) che l'imputato - datore di lavoro - era ignaro, non per sua colpa, dello stato di salute del dipendente N.D., sicché non era esigibile una condotta diversa in termini di prevedibilità / prevenibilità quanto all'adozione di misure specifiche.
Quanto al peso dei pacchi da sollevare ed alle disposizioni sulla movimentazione degli stessi, la Corte di merito (pp. 4-5) ha valorizzato le deposizioni di quei testi che ha ritenuto più attendibili, secondo i quali i pesi da sollevare erano, di regola, di circa cinque chili e solo raramente di dieci-dodici chili; ha inoltre ritenuto che vi fosse stato un effettivo svolgimento di corsi specifici da parte di tutti i dipendenti, tra i quali anche coloro che in un primo momento avevano negato di averli mai svolti.
La Corte di appello ha, poi, ritenuto, «quanto al profilo medico, non [... essere stata] raggiunta la prova del nesso causale e segnatamente la correlazione dell'attività lavorativa svolta e l'aggravamento della patologia del N.D.. Infatti il CTU ha ritenuto in astratto inferenziale l'attività lavorativa alla compromissione della situazione patologica già esistente nel senso dell'aggravamento della stessa. Ma contestualizzando l'affermazione al caso concreto, va osservato che la limitata idoneità del N.D. al sollevamento dei pesi era stata diagnosticata solo nella visita di controllo del marzo 2006 ma non comunicata immediatamente né all'azienda, né al lavoratore che continuava nelle sue mansioni per ulteriori quattro mesi fino a che fu sottoposto ad un intervento chirurgico cui seguiva un lungo periodo di convalescenza, all'esito del quale il N.D. non riprendeva l'attività lavorativa perché licenziato [per superamento del periodo di comporto]. D'altronde il datore di lavoro che pure aveva adottato misure di sicurezza [...] in ordine al movimento dei carichi con i corsi di formazione e le direttive sul sollevamento in collaborazione dei carichi più pesanti, solo con la [...] w[si]ta del 2006 ha potuto conoscere la limitazione assoluta del carico cui era sottoponibile il dipendente N.D. non superiore ai 10 chilogrammi, ma il lasso temporale intercorsi da quando il N.D. ha lavorato in azienda fino al suo licenziamento è tale da non aver potuto influire in termini di certezza sulla patologia in essere secondo l'indicazione fornita dal CTU dott. M. nel corso del suo esame. In definitiva la affermazione della penale responsabilità non può essere [confermata poiché nel processo non è stata raggiunta la prova oltre ogni ragionevole dubbio delle omissioni colpose a carico dell'imputato, né quand'anche sussistenti, dell'inferenza delle stesse sull'aggravamento della patologia» (così alle pp. 5-6 della sentenza impugnata).
3. Ricorre, tramite difensore, per la cassazione della sentenza la parte civile N.D., che si affida ad un solo motivo, con cui denunzia contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, anche sotto il profilo del travisamento della prova.
3.1. Richiamati preliminarmente i limiti del sindacato di legittimità della S.C. in tema di difetto motivazionale e riassunta la decisione impugnata (pp. 1-4), assume il ricorrente (p. 4) avere la Corte di appello del tutto trascurato che i corsi specifici per lo svolgimento delle mansioni, con le conseguenti direttive sul sollevamento in collaborazione di carichi pesanti, sono stati tenuti per i dipendenti, compreso N.D., solo in data 29 novembre 2005 (come si evincerebbe dal relativo verbale, allegato al ricorso sub n. 3) e che il dipendente era stato assunto nel 1999, sicché lo stesso avrebbe, per ben sei anni, svolto mansioni di magazziniere senza alcun corso di formazione e, inoltre, che la visita medica di controllo con parziale idoneità e divieto di sollevamento di pesi superiori ad una certa portata si colloca soltanto nel mese di marzo 2006, e non già prima (come si desume dalla p. 5 della sentenza impugnata).
I richiamati elementi fattuali, che si assume essere totalmente pretermessi, inficerebbero l'intero ragionamento della Corte di merito. Si richiama al riguardo l'insegnamento della S.C., Sez. 4, che con la sentenza n. 36358 del 14/07/2010, dep. 12/10/2010, ric. Tancredi, non mass., ha precisato che l'art. 48 del d. lgs. 19 settembre 1994, n. 626, applicabile al caso di specie, trattandosi di fatti precedenti il nuovo testo legislativo, «disciplina gli obblighi del datore di lavoro nella movimentazione manuale dei carichi, prevedendo in via generale che egli deve disporre misure organizzative necessarie o ricorre ai mezzi appropriati, in particolare attrezzature meccaniche, per evitare la necessità di una movimentazione manuale dei carichi da parte dei lavoratori. Qualora non sia possibile evitare la movimentazione manuale dei carichi, è necessario che egli adotti misure organizzative necessarie, ricorre ai mezzi appropriati o fornisce ai lavoratori stessi i mezzi adeguati allo scopo di ridurre il rischio che comporta la movimentazione manuale di detti carichi. Infine, secondo il disposto del comma 4, il datore deve valutare le condizioni di sicurezza del lavoro e adottare di conseguenza misure idonee a ridurre i rischi» e che, in caso di deleghe, il datore di lavoro, ovvero il legale rappresentante della società, «in quanto titolare primario della posizione di garanzia in materia di sicurezza, non può dismettere totalmente tale posizione e conserva pur sempre obblighi di vigilanza sul rispetto delle norme di sicurezza» (così alla p. 4 del ricorso).
3.2. Quanto alle discrasie evidenziate dalla Corte territoriale circa il peso dei carichi da spostare, discrasie che sarebbero tali da non consentire di determinare il reale ammontare degli stessi, si tratta, ad avviso del ricorrente, di propalazioni svincolate dal dato processuale certo, che era stato, invece, correttamente evidenziato dal Tribunale e - si assume - completamente pretermesso dal giudice di appello, poiché, come si legge alla p. 3 della sentenza del Tribunale, la circostanza che i dipendenti spostassero pesi superiori a venti chili è affermato sia da alcuni testi dell'accusa sia da alcuni testi a difesa (pp. 4-5 del ricorso).
3.3. Inoltre, la Corte di appello, nel ritenere non provata l'incidenza delle omissioni e della condotta lamentate dall'accusa e dalla parte civile sull'aggravamento della patologia congenita di cui era portatore il lavoratore, patologia che può aggravarsi a causa di attività lavorativa di movimentazione carichi non adeguata (come si legge alla stessa p. 3 della sentenza impugnata), non tiene, però, conto, ad avviso del ricorrente, delle conclusioni del perito, dr. M., che ha qualificato in termini di alta probabilità l'incidenza sulla patologia pregressa del ricorrente di una movimentazione di carichi di circa venti chili protratta nel tempo e che ha, inoltre, definito insufficiente una vista medica effettuata con frequenza biennale (allega il verbale dell'esame del dr. M. all'udienza del 30 gennaio 2012, con particolare riferimento alle pp. 35 e 36).
In sostanza, il datore di lavoro, come era stato colto correttamente dal Tribunale, non ha assolto all'obbligo di garanzia in materia di sicurezza, non provvedendo, almeno sino al 29 novembre 2005, alla formazione specifica del dipendente, anche se la movimentazione dei carichi si estendeva sicuramente sino a pesi superiori ai venti chilogrammi (p. 5 del ricorso).
3.4. Infine, richiamate nel ricorso le dichiarazioni rese dall'imputato (all'udienza del 4 giugno 2012, pp. 14-16, all. n. 5 al ricorso) e dal perito dr. M. (all'udienza del 30 gennaio 2012, p. 29, all. n. 4), si assume che, «Quanto alla circostanza dedotta in sentenza che il prevenuto fosse ignaro senza colpa dello stato di salute del N.D., questi, come rilevato nella stessa sentenza Impugnata, provvide a notiziare del propri dolori il medico in occasione della visita di controllo del 2004 e la società attraverso capo turno e P.N.  fa chiaramente riferimento ai certificati per malattia prodotti dall'Imputato all'azienda a partire da quell'anno attraverso l'Indicazione del medico certificante, tale dr. P. [...]. Sta di fatto - pacificamente accertato - [...] che neppure dopo l'idoneità parziale di marzo 2006 diagnosticata al N.D., il prevenuto si adeguò alle prescrizioni impartite dal medico del lavoro per la parte civile, non provvedendo neanche a comunicare immediatamente l'esito all'odierno ricorrente [...] come invece era d'obbligo» (così pp. 5-6 del ricorso).
4. Con memoria depositata il 21 settembre 2018 il difensore dell'imputato P.N. ha chiesto dichiararsi inammissibile o in subordine rigettarsi il ricorso di N.D., ritenendo che l'impugnazione sia fondata solo su censure di merito riguardanti le date di partecipazione ai corsi di formazione e l'effettiva portata delle dichiarazioni testimoniali e del perito ed assumendo che la parte civile pretenda - ma inammissibilmente - dalla S.C. una valutazione di merito e proponga una lettura meramente alternativa dell'esito dell'istruttoria, la cui corretta ricostruzione ed interpretazione è stata effettuata dalla Corte di appello, con motivazione congrua e logica, con cui la parte civile non si confronterebbe.
 

 

Diritto

 


l. Il ricorso è infondato e deve essere rigettato.
Posto che la sentenza di primo grado (come si rammenta nei motivi di ricorso) individua la posizione di garanzia in capo all'imputato ed afferma il verificarsi di un danno al dipendente ed il nesso di causalità materiale tra svolgimento delle mansioni cui lo stesso era adibito e le lesioni riportate, si prende, tuttavia, atto che è la rimproverabiltà soggettiva all'imputato che viene esclusa dalla Corte di appello, la quale ha - non illogicamente - valorizzato la mancanza di prova che il datore di lavoro conoscesse la pregressa patologia da cui era affetto N.D., e ciò almeno sino a dopo il marzo del 2006, non avendo mai comunicato nulla il dipendente alla società e non essendo stata la comunicazione del medico all'azienda circa l'esito delle visita del 2006 immediata (p. 5 della sentenza impugnata), con malattia insorta in maniera manifesta soltanto nel luglio 2007, e non già prima. Tale aspetto, in effetti, non viene specificamente contestato nel ricorso della parte civile, che si appunta su altri elementi, in astratto anche controvertibili ma che non risultano decisivi, mentre risulta tranciante, appunto, che il ricorso non contesti puntualmente né che il datore di lavoro non sapesse della patologia pregressa del lavoratore (pp. 3-4 della sentenza impugnata) né la circostanza (p. 5 della sentenza di appello) del ritardo da parte del medico che effettuò l'ulteriore visita medica, nel marzo 2006, la dr.ssa DL., nel comunicare alla società l'esito della stessa.
Peraltro, l'impugnazione della parte civile non soltanto contiene valutazioni di merito ma è anche, in più passaggi, assertiva: infatti, quanto alla violazione dell'obbligo di formazione, assume che dal verbale del 29 novembre 2005, allegato all'impugnazione, si ricavi che la formazione ai dipendenti in tema di rischi lavorativi sia stata fatta una sola volta, circostanza che, invece, non si trae letteralmente dal contenuto del documento; afferma, poi, la maggiore attendibilità di alcuni testimoni rispetto ad altri, chiamando la S.C. ad una - non consentita - valutazione circa la maggiore plausibilità di una versione testimoniale rispetto ad un'altra; infine, retrodata la comunicazione del dipendente alla società circa i problemi alla schiena, senza chiarire, però, se si tratti di lombalgia (mero sintomo riconducibile a più cause) ovvero - ed è cosa ben diversa - di emersione di spondilolistesi (che è patologia congenita o acquisita in età pediatrica, certamente preesistente all'assunzione, come illustrato nell'esame del dr. M. all'udienza del 30 gennaio 2012, dato riferito nelle sentenze di merito) ad una visita dell'anno 2004 (pp. 5-6 del ricorso), in contrasto, però, con i dati contenuti nella sentenza impugnata e persino in quella di condanna adottata in primo grado, che puntualizza (alle p. 4-5) che il dipendente al termine della visita del 17 maggio 2004, pur avendo informato di episodi di mal di schiena il medico competente, dr.ssa DL., era stato dichiarato dal sanitario idoneo al lavoro.
La parte civile, in realtà, incentra il proprio ragionamento circa la - ritenuta - responsabilità dell'imputato su di una risposta, contenuta alla p. 35 del verbale dell'esame del perito dr. M., trascurando, tuttavia, la circostanza che la Corte di merito ha ritenuto di dovere contestualizzare il contributo del perito (pp. 4-5), tenendo espressamente conto dell'epoca in cui concretamente la ditta venne a conoscenza della patologia del dipendente, peraltro in forma assai contratta e sintetica, e della natura probabilistica della ricostruzione svolta dal dr. M.; inoltre, la valutazione della Corte di appello, secondo cui «il lasso temporale intercorso da quando il N.D. ha lavorato in azienda fino al suo licenziamento è tale da non aver potuto influire in termini di certezza sulla patologia in essere secondo l'indicazione fornita dal CTU dott. M. nel corso del suo esame» (p. 6 della sentenza impugnata), è, in effetti, conforme alla risposta fornita in udienza dal dr. M., come emerge dal contenuto dello stesso verbale allegato (sub n. 4) al ricorso della parte civile.
2. La sentenza di appello risulta, in definitiva, logica e congrua ed immune da violazioni di legge. Consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente (art. 616 cod. proc. pen.) al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 04/10/2018.