Cassazione Civile, Sez. 6, 15 gennaio 2019, n. 692 - Flebopatia agli arti inferiori: mancanza di nesso causale tra la malattia e l'attività lavorativa di cameriere


 

Presidente: ESPOSITO LUCIA Relatore: FERNANDES GIULIO Data pubblicazione: 15/01/2019

 

 

Rilevato
che, con sentenza del 3 ottobre 2016, la Corte d'Appello di Bari in riforma della decisione del Tribunale di Trani - che aveva accolto la domanda proposta da M.R. nei confronti dell'INAIL riconoscendo al ricorrente il diritto ad un rendita da inabilità permanente derivata da malattia professionale nella misura del 20% - rigettava la domanda del M.R.;
che la Corte territoriale condivideva pienamente la consulenza tecnica nuovamente disposta in appello che aveva escluso la ricorrenza di un nesso di causalità o concausalità tra la malattia da cui il M.R. era affetto (flebopatia agli arti inferiori) e l'attività lavorativa dallo stesso svolta di cameriere di sala con servizio ai tavoli ed al bar ritenendo che il predetto fosse impegnato "davvero molto poco" e per una "parte minima della giornata" nelle mansioni di barista (che comportavano posture fisse all'in piedi, situazione che fermava la "pompa surale", rallentando il deflusso attivo del sangue venoso verso l'alto e generando ipertensione venosa e varici) rispetto a quelle di servizio ai tavoli ( che, invece, costringendo a frequenti e continui movimenti, attivavano la "pompa surale");
che per la cassazione di tale decisione propone ricorso il M.R. affidato a due motivi cui resiste con controricorso l'istituto;
che è stata depositata la proposta del relatore, ai sensi dell'art. 380-bis cod. proc. civ., ritualmente comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell'adunanza in camera di consiglio;
che il ricorrente ha depositato memoria ex art. 380 bis cod. proc. civ. in cui dissente dalla proposta del relatore ed insiste per l'accoglimento del ricorso; 
 

 

Considerato che:

 

con il primo motivo di ricorso si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. ( in relazione all'art. 360, primo comma, n.4, cod. proc. civ.) per avere la Corte territoriale sovvertito la valutazione della prova compiuta dal primo giudice ritenendo che il M.R. fosse impegnato "davvero molto poco" e per una "parte minima della giornata" nelle mansioni di barista (che comportavano posture fisse all'in piedi, situazione che fermava la "pompa surale" rallentando il deflusso attivo del sangue venoso verso l'alto generando ipertensione venosa e varici) rispetto a quelle di servizio ai tavoli (che costringendo a frequente e continuo movimento attivavano la "pompa surale"), mutuando tali affermazioni dal contenuto della consulenza tecnica espletata in appello e senza scrutinare autonomamente il contenuto della testimonianza assunta così finendo con il decidere su un aspetto saliente della controversia (cioè l'accertamento di un ortostatismo professionale del M.R.) non sulla scorta delle prove proposte dalle parti (e regolarmente assunte) ma di valutazioni personali ed atecniche del consulente, evidenziandosi anche come l'adesione acritica alle conclusioni dell'ausiliare aveva riguardato anche i chiarimenti, resi a seguito delle osservazioni del consulente di parte, che nulla avevano detto in merito al rilievo concernente le migliorate condizioni del M.R. rispetto a quelle rilevate in occasione della prima consulenza tecnica (espletata otto anni prima) come conseguenza della cessazione dell'attività lavorativa avvenuta nel 2014; con il secondo motivo viene dedotta violazione e falsa applicazione dell'art. 3 del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 in combinato disposto con l'art. 41 cod. pen. ( in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo la Corte di appello escluso il nesso di causalità tra la l'attività lavorativa svolta dal M.R. e malattia cui questi era affetto senza tenere conto che in materia di infortuni sul lavoro e malattie professionali il rapporto causale tra evento e danno è governato dal principio di equivalenza delle condizioni in forza del quale va riconosciuta efficienza a causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota alla produzione dell'evento ragion per cui anche un ortostatismo assunto per "molto poco tempo" ma ogni giorno e per diversi anni aveva avuto un'indubbia efficacia, quantomeno amplificatoria, di altre cause determinanti l'affezione;
che il primo motivo è infondato non ricorrendo una questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. cod. civ. che può porsi solo allorché il ricorrente alleghi che il giudice di merito: - abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d'ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; - abbia fatto ricorso alla propria scienza privata ovvero ritenuto necessitanti di prova fatti dati per pacifici; - abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione; - abbia invertito gli oneri probatori (Cass. n. 27000 del 27/12/2016; Cass. ri. 13960 del 19/06/2014; Cass. n. 26965 del 20/12/2007). Ed infatti nessuna di tali situazioni ricorre nel caso in esame in cui la Corte di appello nel far proprie le argomentazioni del consulente tecnico d'ufficio in merito alle modalità di svolgimento dell'attività lavorativa del M.R. le ha ritenute corrette così dimostrando di aver valutato le risultanze istruttorie come emergenti dalla prova testimoniale assunta, dalla documentazione acquisita agli atti nonché dalle nozioni di comune esperienza. In effetti, il motivo finisce anche con il prospettare una diversa lettura delle prove ed indicare un errore di valutazione della fonte di prova - nel senso di ritenerla dimostrativa o meno del fatto che con essa si intendeva provare - non sindacabile in sede di legittimità. Quanto al rilievo relativo alla omessa valutazione dell'attenuazione della malattia a seguito del collocamento a riposo del lavoratore non può non rilevarsi che la Corte, nel far proprie le risultanze della consulenza tecnica, non la ha ritenuta una circostanza idonea a poter ritenere sussistente anche un nesso di concausalità tra l'attività svolta e la malattia denunciata; 
che del pari infondato è il secondo motivo in quanto l'impugnata sentenza ha del tutto escluso un nesso di causalità o concausalità tra la malattia da cui il M.R. è affetto e l'attività lavorativa dallo stesso in passato svolta avendo evidenziato come, da un lato, la molteplicità di fattori eziologici determinanti l'insorgenza di una "flebopatia agli arti inferiori", dall'altro lo svolgimento di un'attività lavorativa non favorente marcatamente l'affezione unitamente ai trattamenti operatori di asportazione delle vene superficiali sfiancate già nel 1992 e nel 2000 alcuni anni prima della presentazione della domanda amministrativa (avvenuta nel 2005) che avevano comportato un sovraccarico per l'apparato venoso profondo escludevano la possibilità di attribuire un ruolo anche solo concausale all'attività lavorativa svolta;
che, pertanto, in adesione alla proposta del relatore, il ricorso va rigettato;
che le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza, sono poste a carico del ricorrente e vengono liquidate come da dispositivo;
che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall'art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio, introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013) trovando tale disposizione applicazione ai procedimenti iniziati in data successiva al 30 gennaio 2013, quale quello in esame (Cass. n. 22035 del 17/10/2014; Cass. n. 10306 del 13 maggio 2014 e numerose successive conformi);
 

 

P.Q.M.

 


La Corte, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese del presente giudizio liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 2.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese forfetario del 15%.
Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
Così deciso in Roma, il 10 ottobre 2018