Cassazione Penale, Sez. 4, 16 gennaio 2019, n. 1777 - Morte per folgorazione durante le operazioni di scarico di mangime. Responsabilità del committente e Rischi interferenti


 

 

Presidente: PICCIALLI PATRIZIA Relatore: CAPPELLO GABRIELLA Data Udienza: 06/12/2018

 

 

 

Fatto

 


1. La corte d'appello di Torino, in parziale riforma della sentenza del tribunale di Cuneo, appellata da P.G., condannato per il reato di cui all'art. 589 co. 1 e 2, cod. pen., posto in essere ai danni del lavoratore C.A.G., a seguito di incidente sul lavoro in data 30/12/2003, ha riconosciuto le circostanze attenuanti generiche, giudicate equivalenti rispetto all'aggravante contestata, e ha rideterminato la pena inflitta, confermando nel resto.
2. Si è contestato all'imputato di avere, quale rappresentante legale della società Cooperativa Allevatori CO.AL. a r.l., committente della ricezione di una partita di mangime, con violazione degli artt. 7 co. 1, lett. b) e co. 2 lett. a), 21 co. 1 e 35 co. 1, d.lgs. 626/94 e, comunque, per colpa, costituita da imprudenza, negligenza e imperizia, cagionato la morte del C.A.G.. Costui, autista alla dipendenze della Eredi di C.D. s.a.s., nell'occorso stava procedendo alle operazioni di scarico del mangime nei silos della CO.AL. e aveva mosso il braccio mobile contenente la coclea, in dotazione all'autocarro, allorché il tubo metallico era entrato in contatto con i sovrastanti conduttori elettrici ad alta tensione. Dal contatto era derivata la morte del C.A.G. per folgorazione.
In particolare, secondo il capo d'imputazione, il P.G. non avrebbe fornito le dovute informazioni, collaborando con il datore di lavoro della vittima, sulle precauzioni da adottare per scongiurare il contatto con i cavi scoperti della linea elettrica e non avrebbe provveduto altrimenti con i vari rimedi possibili (quali la messa fuori tensione della linea durante le operazioni, la protezione elettrica con apposito tubo, quella meccanica con canaline, la schermatura della linea).
3. Avverso la sentenza ha proposto ricorso il P.G. con proprio difensore, formulando nove motivi.
Con il primo, ha dedotto violazione di legge con riferimento all'art. 7 d.lgs. 626/94 e all'art. 14 delle preleggi, anche per i riflessi sulla prescrizione del reato, il cui termine sarebbe maturato in virtù del ritenuto venir meno dell'aggravante di cui all'art. 589 co. 2, cod. pen.
La difesa, in particolare, ha affermato che tra la società cooperativa CO.AL. a r.l. e la Eredi di C. s.a.s. non sarebbe stato stipulato alcun contratto di appalto, condizione necessaria perché il P.G. potesse assumere una posizione di garanzia nei confronti del dipendente della Eredi di C. s.a.s., vittima dell'infortunio. I giudici del merito avrebbero operato, sia pure con motivazioni tra loro differenti nel primo e nel secondo grado, una interpretazione analogica della norma di riferimento, includendo il tipo contrattuale effettivamente ricorrente nel novero di quelli per i quali il legislatore ha previsto gli obblighi a carico del committente, con ciò incorrendo nella violazione dell'art. 14 richiamato.
Con il secondo, ha dedotto vizio della motivazione, con riferimento al medesimo punto della decisione, rilevando che la corte territoriale non avrebbe esaminato la situazione di fatto conseguente ai rapporti esistenti tra i due contraenti e al contratto di trasporto tra le stesse 
concluso. In particolare, non avrebbe verificato la effettiva configurabilità di un rischio interferenziale, tenuto conto delle modalità di svolgimento del contratto, ivi comprese le operazioni accessorie di carico e scarico da parte del personale della Eredi di C. s.a.s. Né potrebbe attingersi alle motivazioni della sentenza appellata per integrare tale deficit, dal momento che il primo giudice aveva ritenuto sussistente un contratto di appalto, laddove la corte d'appello aveva ritenuto la irrilevanza della qualificazione giuridica del rapporto sottostante.
Con il terzo motivo, ha dedotto violazione di legge con riferimento al ritenuto rischio interferenziale che avrebbe coinvolto le due parti contrattuali. Nel caso di specie, secondo la prospettazione difensiva, non vi sarebbe stata interferenza tra le due distinte organizzazioni e, in particolare, tra le mansioni svolte dall'autista deceduto presso l'allevamento CO.AL. e i dipendenti di quest'ultima, cosicché non potrebbero neppure configurarsi doveri di cooperazione e controllo in capo al committente ai sensi dell'art. 7 d.lgs. 626/94. Il deducente ha osservato, in particolare, che le attività di carico e scarico del mangime erano eseguite solo dall'autista dipendente della Eredi di C. e che solo i dipendenti di questa, deputati a manovrare i mezzi meccanici, tra i quali la coclea brandeggiante utilizzata per raggiungere la "bocca" dei silos, potevano entrare in contatto, durante la esecuzione delle manovre, con la linea elettrica soprastante, la sola circostanza che la parte finale del trasporto si svolgesse all'interno dell'area cortilizia di pertinenza della committente non valendo di per se sola ad integrare l'elemento della sussistenza di un rischio interferenziale.
Con il quarto motivo, ha dedotto analogo vizio questa volta con riferimento alla contestazione della violazione dell'art. 7 co. 1 lett. b) d.lgs. n. 626/94, inerente agli obblighi informativi sui rischi specifici, rilevando come essi siano solo quelli che provengono dalla sfera del committente e non anche quelli generici derivanti dall'ambiente esterno, la linea elettrica essendo gestita e mantenuta in via esclusiva da soggetti terzi rispetto al datore di lavoro, individuato come committente e titolare di una posizione di garanzia.
Sotto altro profilo, il deducente ha rilevato che la norma in esame pone a carico del datore di lavoro un obbligo di informare l'impresa appaltatrice o i lavoratori autonomi prestatori d'opera, ma non anche i singoli dipendenti della prima. La formazione di costoro resta appannaggio del datore di lavoro, tenuto a trasmettere le informazioni e conoscenze ricevute dal committente. L'istruttoria avrebbe dimostrato che i lavoratori della Eredi di C. avevano ricevuto tali indicazioni dal loro datore di lavoro, a sua volta informato dalla CO.AL., e che il C.A.G., in particolare, nei circa tre anni di attività lavorativa alle dipendenze della Eredi di C., aveva effettuato decine di trasporti presso la CO.AL. ed era perfettamente a conoscenza della presenza della linea elettrica e della manovra da compiersi.
Con il quinto motivo, ha dedotto analogo vizio con riferimento alla stessa norma nella declinazione dell'obbligo di cooperazione per l’attuazione delle misure di prevenzione e protezione dai rischi sul lavoro incidenti sull’attività lavorativa oggetto dell’appalto, assumendone l'errata interpretazione da parte dei giudici di merito, atteso che esso sarebbe circoscritto alle misure prevenzionali intese a eliminare fattori di rischio comuni ai lavoratori 
delle due organizzazioni, restando il committente e l'appaltatore garanti in via esclusiva della incolumità dei propri dipendenti. Ove si opinasse diversamente, ne deriverebbe, secondo il deducente, una inammissibile ingerenza del committente nell'attività dell'appaltatore.
Inoltre, la parte ricorrente ha osservato che, se è vero che il pericolo di contatto della coclea brandeggiante era riconoscibile anche dai lavoratori CO.AL. e dagli esterni, non sarebbe altrettanto vero che tale pericolo era comune a personale estraneo alla ditta dei trasporti, le operazioni di carico e scarico del mangime all'interno dell'allevamento essendo compiute in totale autonomia senza aiuto o interferenza da parte di alcuno. Con la conseguenza che il rischio del contatto (con una linea elettrica posta ad oltre otto metri da terra) era del tutto estraneo ai lavoratori dipendenti dell'allevamento, le cui mansioni erano espletate interamente a terra. Sotto altro profilo, la difesa ha contestato l'affermazione della corte d'appello secondo cui non poteva escludersi qualche forma di collaborazione tra il personale dipendente delle due ditte, rilevando che ai fini della ravvisabilità di una posizione di garanzia, derivante dall'obbligo di cooperazione e coordinamento tra varie organizzazioni del lavoro, non possono considerarsi evenienze meramente astratte o ipotetiche, bensì gli effetti concreti che derivano dalla esecuzione del contratto, dovendosi fare riferimento solo a quei rischi che, per effetto della esecuzione dell'appalto, risultino comuni a impresa committente e appaltatrice.
Con il sesto motivo, ha dedotto analogo vizio con riferimento al principio di correlazione tra accusa e sentenza, avendo la corte d'appello respinto la doglianza in quella sede proposta sull'errato assunto che una colpa generica potesse essere ravvisata in capo all'imputato. Ha, in particolare, rilevato che il P.G. aveva affidato il trasporto del mangime a una ditta specializzata, munita dei mezzi necessari, fornendo non solo alla Eredi di C., ma anche ai singoli lavoratori, le informazioni circa l'esistenza della linea elettrica e la pericolosità derivante dal relativo contatto e, pur non essendone onerato, aveva verificato che le operazioni venissero svolte nella massima sicurezza dai dipendenti della Eredi di C..
Con il settimo motivo, ha dedotto violazione di legge con riferimento alla esigibilità del comportamento alternativo corretto, con specifico riguardo alla impossibilità per il P.G. di intervenire sulla linea elettrica. Si tratterebbe, secondo il deducente, di una specifica condotta omissiva colposa, non contestata, considerato che una richiesta di intervento presso L'ENEL sarebbe stata verosimilmente respinta, poiché il pericolo non derivava dalla linea elettrica in sé, ma dal rischio di contatto dei mezzi meccanici della Eredi di C. con la linea stessa, di talché ogni iniziativa incombeva proprio a tale ultima ditta.
Con l'ottavo motivo, ha dedotto analogo vizio, questa volta con riferimento alla valutazione della interruzione del nesso causale in conseguenza del comportamento della vittima, imprevedibile e illogico. Il C.A.G. era lavoratore esperto che aveva sempre posizionato correttamente il mezzo e svolto il lavoro in sicurezza, laddove il 30 dicembre del 2003 aveva invece posto in essere una manovra eccentrica rispetto a quella da praticarsi. Il P.G., secondo la difesa, non avrebbe avuto alcuna signoria sulle modalità di svolgimento del lavoro da parte del personale dipendente dell'appaltatrice che, peraltro, lo aveva sempre svolto correttamente. 
Con il nono motivo, infine, ha dedotto violazione di legge relativamente al trattamento sanzionatorio, contestando l'esito del giudizio di bilanciamento, e alla estinzione del reato, che sarebbe intervenuta, secondo parte ricorrente, già nel corso del giudizio di primo grado.
 

 

Diritto

 


1. Il ricorso va rigettato.
2. I temi introdotti dal ricorso e, prima ancora, dall'appello, si polarizzano attorno ad alcune questioni, riguardanti specificamente la natura del contratto che legava la CO.AL. e la Eredi di C. e la sua riconducibilità al novero delle pattuizioni dalle quali derivano i singoli obblighi contestati all'imputato nella qualità di committente e, quindi, la natura stessa dell'infortunio dal quale è derivata la morte del C.A.G., con le ovvie ricadute sul computo dei termini di prescrizione; la ricorrenza di un rischio interferenziale; la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza, con riferimento ai profili di colpa generica; infine, l'incidenza sul nesso causale della imprevedibile e illogica condotta della vittima.
3. Rispetto al primo profilo, la corte di merito ha rilevato che il tema era stato ampiamente dibattuto in primo grado, avendo il tribunale ritenuto che il contratto intercorso tra le due ditte fosse un vero e proprio appalto e non un contratto di trasporto, poiché, nel caso in esame, il vettore si era assunto l'obbligo di eseguire le operazioni di carico e scarico e riempimento dei silos in piena autonomia e tra le parti vi era un accordo di massima a natura continuativa con un corrispettivo prestabilito e non definito di volta in volta.
La corte d'appello, a fronte delle rinnovate prospettazioni difensive, ha ritenuto come, al di là della veste civilistica del rapporto negoziale certamente esistente tra le due imprese, dovesse considerarsi il semplice dato fattuale dell'affidamento di lavori da svolgersi all'interno della CO.AL. a un'organizzazione diversa, la Eredi di C., e come da tale circostanza fosse derivata una vera e propria interferenza tra due organizzazioni lavorative, operanti nel medesimo luogo di lavoro.
Ne è derivata, per quel giudice, la piena operatività degli obblighi di cui alla norma oggetto di contestazione.
In particolare, quanto alla mancata trasmissione all'appaltatore delle informazioni sui rischi specifici (relativamente al pericolo connesso all'esistenza di una linea elettrica avente le caratteristiche di quella presente presso l'allevamento), rispondendo alla osservazione difensiva secondo cui tale flusso informativo era stato comunque verbalmente assicurato, ha condiviso le conclusioni del tribunale secondo cui, al di là del persistente dubbio sul punto, non era comunque emerso, dalla istruttoria svolta e in particolare dalla prova orale assunta, che agli autisti della Eredi di C. fosse stato rappresentato il pericolo di morte connesso all'uso del brandeggiante in prossimità di cavi a tensione medio/alta. Presso l'allevamento, infatti, non era stata riscontrata la presenza di apposita segnaletica o delimitazioni e le raccomandazioni erano limitate a un generico richiamo a fare attenzioni ai fili e alla manovra di scarico, stante la presenza del "palo". La lettura delle varie testimonianze aveva confermato, secondo la corte d'appello, la mancanza di apposite direttive e l'ignoranza sulla natura dei cavi presenti, non conoscendo i titolari della ditta Eredi di C. i dettagli degli ambienti di lavoro delle varie ditte per le quali operavano.
Quanto alle istruzioni sul posizionamento del mezzo per effettuare lo scarico, era emerso che le istruzioni erano volte a facilitare le operazioni e non a salvaguardare la sicurezza nello svolgimento del lavoro in una situazione logistica neppure specificamente conosciuta.
Quanto alla natura della informazione di che si tratta, invece, la corte territoriale ha precisato che essa avrebbe dovuto avere connotati specifici, legislativamente previsti e non esser affidata a fenomeni di circolarità delle notizie o alla mera socializzazione delle esperienze lavorative. Nel caso in esame, era emerso che nessuna delle due ditte aveva formalizzato lo scambio delle informazioni sui rischi presenti in quell'azienda e, in particolare, sulla linea elettrica e che non esisteva un documento della CO.AL. volto ad avvisare coloro che accedevano agli impianti della presenza di quei cavi. L'imputato, inoltre, non aveva cooperato con il titolare della Eredi di C. per attuare le misure di prevenzione e protezione dei rischi.
Sul piano del giudizio controfattuale, poi, quel giudice ha osservato che una corretta formazione e informazione degli autisti, attraverso la necessaria formalizzazione delle relative procedure di sicurezza, in uno con la predisposizione, da parte di CO.AL., della cartellonistica e degli altri requisiti di sicurezza, avrebbe certamente scongiurato l'evento verificatosi.
Peraltro, proprio con riferimento all'obbligo di cooperazione e coordinamento tra l'imputato e il titolare della Eredi di C., la corte d'appello ha evidenziato come il rischio del contatto con i cavi della linea elettrica derivasse dalla dotazione dei mezzi usati dagli autisti (sforniti di radiocomando), tanto che qualche anno prima si era verificato analogo infortunio presso altro allevamento, ma da ciò la corte territoriale non ha tratto le conclusioni opposte a difesa, secondo cui si sarebbe trattato di un rischio esclusivo della ditta Eredi di C.: il rischio in esame, infatti, era generico, riconoscibile senza alcuna preparazione tecnica, e coinvolgeva anche i lavoratori dell'allevamento CO.AL., i quali ben avrebbero potuto trovarsi nelle vicinanze del punto in cui gli autisti effettuavano le operazioni di scarico, per le quali era sì prevista autonomia, o in condizioni di interferire con lo svolgimento di quelle operazioni.
Né la corte ha ritenuto sussistere alcuna violazione del principio di cui all'art. 521 cod. proc. pen., nella circostanza che il novero dei rimproveri attribuiti al P.G. si fosse arricchito dei riferimenti alla mancata predisposizione di appositi segnali di pericolo e delimitazioni dell'area a rischio, per prevenire eventuali errori nella movimentazione del brandeggiante all'interno dell'azienda: nel caso di specie, infatti, si trattava di condotte ritenute sulla scorta delle emergenze processuali (risultanze della perizia) con riferimento agli accorgimenti che peraltro erano già citati in una circolare della ASL diretta proprio alle aziende agricole (uso di radiocomandi, protezione della linea elettrica, uso di nastro trasportatore, interramento della linea elettrica, disalimentazione della linea durante le fasi di carico e scarico).
Proprio con riferimento ai possibili interventi sulla fonte del rischio, la corte torinese ha respinto la deduzione difensiva con la quale l'appellante aveva opposto la inesigibilità del comportamento alternativo corretto, ritenendo accertato che il P.G. aveva la disponibilità giuridica dei luoghi ove si svolgeva il lavoro e che, anche ove non avesse potuto intervenire personalmente sulla linea elettrica, avrebbe dovuto e potuto esigere l'intervento dei tecnici dell'ENEL (peraltro avvenuto dopo l'infortunio di che trattasi, mediante il parziale interramento della linea). Inoltre, la corte territoriale ha rilevato che, se alcune iniziative potevano considerarsi inesigibili da parte dell'imputato, e rispetto ad esse potesse solo muoversi un rimprovero per non essersi attivato presso i soggetti a ciò deputati, altri comportamenti erano nella sua piena e totale disponibilità (il riferimento è alla segnaletica e cartellonistica, alla delimitazione della zona di scarico, all'utilizzo del nastro trasportatore, alla cooperazione con la ditta incaricata del trasporto perché utilizzasse autocarri dotati di radiocomando).
Escluso inoltre che la condotta del lavoratore deceduto avesse avuto un effetto interruttivo del nesso causale (la stessa non avendo avuto i caratteri della esorbitanza, ma neppure della eccentricità rispetto al processo lavorativo devoluto), quel giudice ha ritenuto che il comportamento del C.A.G. era stato comunque conseguenza delle insufficienti misure di prevenzione approntate, il cui scopo è anche quello di neutralizzare eventuali imprudenze e negligenze degli stessi lavoratori.
Infine, con riferimento al trattamento sanzionatorio, la corte d'appello ha parzialmente accolto le doglianze difensive, adeguando la pena al caso concreto in virtù delle riconosciute generiche, stante l'incensuratezza del P.G., il cui bilanciamento in termini di mera equivalenza ha motivato alla luce della pluralità delle cautele omesse, alcune nella diretta disponibilità del P.G., e comunque tutte promuovibili con la necessaria attivazione presso terzi, considerato che il rischio interferenziale aveva riguardato un ambiente lavorativo posto all'interno dell'azienda della quale aveva la disponibilità. Oltre a ciò, quel giudice ha stigmatizzato la mancata attivazione di strumenti risarcitori successivamente al sinistro, circostanza che ha ritenuto sintomatico di una scarsa resipiscenza.
Quanto, infine, al tema della estinzione del reato per prescrizione, affrontato nella parte iniziale della sentenza censurata a seguito di sollecitazione da parte del procuratore generale presso la corte territoriale, ma riproposto anche con l'ultimo motivo di ricorso (e quale corollario dei motivi con i quali si è contestata la sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 589 co. 2, cod. pen.), la corte torinese, pur dando atto che il fatto era anteriore alla novella legislativa di cui alla legge n. 125 del 2008 (che ha aumentato a sette anni di reclusione il limite massimo della pena edittale prevista dall'art. 589 co. 2, cod. pen.), ha operato un rinvio all'art. 157 co. 6, cod. pen. che prevede il raddoppio del termine indicato dal comma 1, cosicché il reato andrebbe a prescriversi il 30 dicembre 2018.
4. I primi cinque motivi sono infondati.
La trattazione congiunta di essi è giustificata dall'interconnessione delle tematiche prospettate dalla difesa, muovendo esse dalla allegata insussistenza dell'aggravante contestata per difetto di una situazione giuridica riconducibile al paradigma di cui all'art. 7 d. lgs. 626/94. Opportuno appare pertanto prendere le mosse dalla verifica della correttezza del ragionamento con cui i giudici del merito hanno ritenuto sussistente in capo al P.G. una posizione di garanzia connessa alla qualità di committente di lavori da svolgersi in un contesto lavorativo nella sua disponibilità, relativamente al rischio interferenziale derivante dalla contestuale presenza di maestranze alle dipendenze di altra organizzazione lavorativa.
La corte d'appello ha fatto corretta applicazione dei principi di matrice giurisprudenziale che questa corte condivide e fa propri.
In linea generale, con riferimento alla cornice normativa nella quale va inquadrata la vicenda che ci occupa e valutati gli obblighi derivanti dalla coesistenza di due organizzazioni lavorative nel medesimo contesto, deve intanto precisarsi che l'abrogazione del d. lgs. n. 626 del 1994, a seguito dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 81 del 2008, non pone alcun problema interpretativo ai sensi dell'art. 2 co. 4, cod. pen., sul piano sostanziale, data la corrispondenza contenutistica delle norme di cui all'art. 7 co. 1 lett. b) e co. 2 lett. a) e b) del d.lgs. 626/94 e 26 co. 1 lett. b) e co. 2 lett. a) e b) del d.lgs. 81/08.
Ciò posto, al fine di rispondere al rilievo difensivo secondo cui l'intepretazione offerta dalla corte territoriale si sarebbe tradotta sostanzialmente in una inammissibile, in campo penale, interpetazione analogica dell'art. 7 citato, deve innanzitutto precisarsi il concetto di "interferenza" rilevante ai fini che occupano, perché da tale specifica situazione deriva l'applicabilità al caso di specie delle norme che si assumono violate e la riconoscibilità di una posizione di garanzia in capo all'imputato.
Questa corte ha già precisato che il termine non riceve una declinazione normativa, ma che una definizione può rinvenirsi nella Determinazione n.3/2008 dell’Autorità per la Vigilanza sui contratti pubblici di lavori, servizi e forniture, che la intende come «circostanza in cui si verifica un contatto rischioso tra il personale del committente e quello dell'appaltatore o tra il personale tra imprese diverse che operano nella stessa sede aziendale con contratti differenti (cfr. in motivazione sez. 4 n. 30557 del 07/06/2016, PC e altro in proc. Carfì e altri).
Nella sentenza testé citata si è pure precisato che gli obblighi di cui al richiamato art. 7 presuppongono si un rapporto di appalto o di somministrazione, secondo le definizioni civilistiche di tali tipologie contrattuali, ma essi non esauriscono i rapporti ai quali fa riferimento l'intero art. 7, posto che la ratio della norma è quella di tutelare i lavoratori appartenenti ad imprese diverse che si trovino ad interferire le une con le altre per lo svolgimento di determinate attività lavorative nel medesimo luogo di lavoro e far sì che il datore di lavoro committente organizzi la prevenzione dei rischi interferenziali, derivanti da tale compresenza, attivando e promuovendo percorsi condivisi di informazione e cooperazione e soluzioni comuni di problematiche complesse, rese tali dalla sostanziale estraneità dei dipendenti delle imprese appaltataci all'ambiente di lavoro dove prestano la loro attività lavorativa. Se questa è la ratio della norma, ciò che rileva per ravvisarne l'operatività, non è dunque la qualificazione civilistica attribuita al rapporto tra imprese che cooperano tra loro, quanto l’effetto che tale rapporto crea, cioè l'interferenza tra organizzazioni, che può essere fonte di ulteriori rischi per i lavoratori di tutte le imprese coinvolte (cfr. in motivazione''sez. 4 n. 30557 del 2016, PC e altro in proc. Carfì e altri, cit.).
Tale principio è stato già altre volte affermato da questa sezione.
Si è, infatti, opportunamente precisato che, non solo il contatto rischioso tra lavoratori di imprese diverse che operano nel medesimo luogo di lavoro, ma anche la coesistenza in un medesimo contesto di più organizzazioni genera la posizione di garanzia dei datori di lavoro ai quali fanno capo le distinte organizzazioni. L'interferenza rilevante, dunque, va intesa in senso funzionale, come interferenza non di soli lavoratori, ma derivante dalla coesistenza in un medesimo contesto di più organizzazioni, ciascuna delle quali facente capo a soggetti diversi [cfr., in motivazione, sez. 4, n. 44792 del 17/06/2015, Mancini, Rv.264957 (principio affermato proprio con riferimento a un'ipotesi di trasporto presso una ditta di stoccaggio di merci)].
Alla luce di tali principi, pertanto, deve escludersi la violazione di legge denunciata, avendo la corte territoriale operato una interpretazione della norma del tutto coerente con la ratio dell'istituto. Al contempo, va rilevata l'inconferenza del precedente citato in ricorso (sez. 4 n. 27306 del 18/04/2017, Brivio, Rv. 270188), riguardante una fattispecie in cui i giudici del merito avevano ritenuto la responsabilità del datore di lavoro committente per l'infortunio occorso in una fase antecedente all'affidamento dei lavori e, quindi, prima dell'assunzione del ruolo di committente.
Quanto alla violazione degli obblighi derivanti dalla posizione di garanzia ravvisata in capo all'imputato, il ragionamento svolto dai giudici del merito è del tutto congruo, logico e soprattutto coerente con dette risultanze, essendo stato provato che non vi fu, tra le ditte coinvolte, un effettivo flusso informativo, riguardante i concreti pericoli connessi alla movimentazione dei mezzi usati dagli autisti della Eredi di C. per scaricare il mangime presso i silos dell'allevamento CO.AL., tenuto conto dello stato dei luoghi in cui i mezzi dovevano essere utilizzati e della presenza di cavi elettrici a media/alta tensione, raggiungibili dal brandeggiante azionato dall'autista addetto allo scarico. Alla stregua delle emergenze processuali, inoltre, era stata altresì accertata la mancanza della necessaria cooperazione da parte del P.G. per fronteggiare il rischio interferenziale di che trattasi, il cui riconoscimento, peraltro, non necessitava di particolari competenze tecniche, trattandosi di un rischio di tipo generico, connesso allo svolgimento di lavori in prossimità di cavi elettrici e alla necessità di evitarne il contatto.
Il ricorrente ha preteso di sostituire la propria valutazione del materiale probatorio a quella operata dal giudice del gravame, attraverso considerazioni che denunciano la loro reale natura, di personali convinzioni, cioè, originate da una difforme valutazione del compendio probatorio. Trattasi di operazione non consentita in questo giudizio, nel quale sono precluse la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (cfr. sez. 6 n. 47204 del 07/10/2015, Rv. 265482), poiché, anche a seguito della modifica apportata all'art. 606, lett. e), cod. proc. pen. dalla l. n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito (cfr. sez. 6 n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; sulpunto, cfr., anche, sez. 6 n. 13442 dell'08/03/2016, Rv. 266294; n. 43963 del 30/09/2013, Rv. 266924; n. 43963 del 30/09/2013, Rv. 258153, quanto alla inammissibilità del ricorso che si fondi su argomentazioni che si pongono in confronto diretto con il materiale probatorio, e non, invece, sulla denuncia di uno dei vizi logici, tassativamente previsti, riguardanti la motivazione della sentenza in ordine alla ricostruzione del fatto).
In altri termini, poiché non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali a imporre diversa conclusione del processo, sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento (cfr. sez. 6 n. 13809 del 17/03/2015, Rv. 262965).
Peraltro, non è ultroneo ricordare che, in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, qualora il lavoratore presti la propria attività in esecuzione di un contratto d'appalto, il committente è esonerato dagli obblighi in materia antinfortunistica, con esclusivo riguardo alle precauzioni che richiedono una specifica competenza tecnica nelle procedure da adottare in determinate lavorazioni, nell'utilizzazione di speciali tecniche o nell'uso di determinate macchine [cfr. sez. 4 n. 1511 del 28/11/2013 Ud. (dep. 15/01/2014), Schiano Di Cola e altro, Rv. 259086; sez. 3 n. 12228 del 25/02/2015, Cicuto, Rv. 262757; sez. 4 n. 12348 del 29/01/2008, Giorgi, Rv. 239252].
Infine, quanto al profilo della natura del rischio da contatto, non è fondata la considerazione difensiva secondo cui esso fosse proprio ed eslcusivo dei dipendenti della Eredi di C. e non fosse comune a, né condiviso con quelli della CO.AL., le cui mansioni non prevedevano lavori in quota che potessero porli in contatto con i cavi elettrici: l'assunto non tiene conto del concetto di "interferenza" sopra tratteggiato, dal quale risulta che la finalità della norma è proprio quella di tutelare tutti i soggetti che si trovino a lavorare nel medesimo contesto lavorativo, anche coloro, quindi, che siano ad esso estranei.
5. Il sesto motivo è manifestamente infondato.
Nella decisione impugnata non si ravvisa alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza. La valutazione operata dal tribunale, attraverso il filtro delle doglianze difensive, è conforme ai principi elaborati in materia da questa corte e da questa stessa sezione, in base ai quali si è esclusa la violazione del principio in esame se la contestazione concerne globalmente la condotta addebitata come colposa, essendo consentito al giudice di aggiungere agli elementi di fatto contestati altri estremi di comportamento colposo o di specificazione della colpa, emergenti dagli atti processuali e, come tali, non sottratti ai concreto esercizio del diritto di difesa [cfr. sez. 4 n. 35943 del 07/03/2014, Denaro e altro, Rv. 260161; n. 51516 del 21/06/2013, Miniscalco e altro,Rv. 257902; sez. 4 n. 31968 del 19/05/2009, Rv. 245313).
Peraltro, si è pure chiarito che il principio di correlazione tra contestazione e sentenza è funzionale alla salvaguardia del diritto di difesa deil'imputato; ne consegue che la violazione di tale principio è ravvisabile quando il fatto ritenuto nella decisione si trova, rispetto al fatto contestato, in rapporto di eterogeneità, ovvero quando il capo d'imputazione non contiene l'indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, né consente di ricavarli in via induttiva (sez. 6, n. 10140 del 18/02/2015 Ud. (dep. 10/03/2015),Rv. 262802), sempre che il fatto materiale per cui vi è stata condanna risulti sufficientemente descritto nell'imputazione, in tal caso non essendo neppure ipotizzabile una violazione del contraddittorio e del correlato diritto dell'imputato ad un equo processo, dal momento che egli è stato messo in condizione di interloquire pienamente sulla riqualificazione giuridica operata dal tribunale, dapprima con l'atto di appello e, in seguito, con il ricorso per cassazione (sez. 6, n. 49820 del 05/12/2013 Ud. (dep. 10/12/2013), Rv. 258138).
In altri termini, non può ravvisarsi una violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza ogni qualvolta - nella contestazione, considerata nella sua interezza - siano rinvenibili gli stessi elementi del fatto costitutivo del reato ritenuto in sentenza, poiché l'immutazione si verifica solo nel caso in cui tra i due episodi ricorra un rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale per essersi realizzata una vera e propria trasformazione, sostituzione o variazione dei contenuti essenziali dell'addebito nei confronti dell'imputato, posto, così, a sorpresa di fronte ad un fatto del tutto nuovo senza avere avuto nessuna possibilità d'effettiva difesa (sez. 6 n. 17799 del 06/02/2014 Ud. (dep. 28/04/2014), Rv.260156). Né può ritenersi la dedotta violazione allorché la lettura del capo d'imputazione (nel quale, si ribadisce, siano riversati gli elementi fondanti l'accusa) si sia in definitiva risolta in uno dei possibili epiloghi decisori del giudizio, secondo uno sviluppo interpretativo assolutamente prevedibile, in relazione al quale l’imputato ed il suo difensore abbiano avuto nella fase di merito la possibilità di interloquire (in tal senso sez. 2 n. 46686 del 24/10/2014 Ud. (dep. 12/11/2014), Rv. 261052).
Tale orientamento è del tutto conforme, peraltro, ai principi costituzionali racchiusi nella norma di cui al novellato art. 111 Costituzione e all'art. 6 della Convenzione E.D.U., siccome interpretato, in base alla sua competenza esclusiva, dalla Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, a partire dalla nota pronuncia della Corte di Strasburgo nel caso Drassich v. Italia (CEDU 2 sez. 11 dicembre 2007).
Come risulta evidente dai principi giurisprudenziali richiamati, quindi, nessuna nullità appare configurabile nel caso all'esame, nel quale i giudici del merito hanno valorizzato, all'esito della perizia disposta nel pieno contraddittorio tra le parti, alcuni profili di colpa riguardanti specificamente la mancata adozione di misure prevenzionistiche intese a richiamare l'attenzione sulla presenza dei cavi dell'elettricità.
6. Il settimo motivo è infondato. 
Esso è strettamente correlato a quello che precede, avendo la difesa prospettato la Inesigibilità del comportamento alternativo corretto, con riferimento proprio agli interventi sulla linea elettrica.
Sul punto, giovi premettere che la colpa, in base alla formula legale rinvenibile nell'art. 43, cod. pen., presenta un tratto di carattere eminentemente oggettivo e normativo, incentrato sulla condotta posta in essere in violazione di una norma cautelare che esprime la funzione di orientare il comportamento dei consociati e l'esigenza di un livello minimo ed irrinunciabile di cautele (una volta abbandonate le risalenti teorie che riconoscevano un fondamento eminentemente psicologico alla colpa); e un altro, di natura più squisitamente soggettiva, solo indirettamente adombrato dalla definizione legale, che serve a segnare il confine con l’imputazione dolosa. Esso è generalmente individuato <<nella capacità soggettiva dell’agente di osservare la regola cautelare, ossia nella concreta possibilità di pretendere l’osservanza della regola stessa: in poche parole, nell’esigibilità del comportamento dovuto ... ... Si tratta di un aspetto che può essere collocato nell'ambito della colpevolezza, in quanto esprime il rimprovero personale rivolto all'agente e costituisce un profilo della colpevolezza colposa al quale la riflessione giuridica più recente ha dedicato molta attenzione, nel tentativo di rendere personalizzato il rimprovero dell'agente attraverso l'introduzione di una doppia misura del dovere di diligenza, che tenga conto non solo dell'oggettiva violazione di norme cautelari, ma anche della concreta capacità dell'agente di uniformarsi alla regola, valutando le sue specifiche qualità personali [cfr., in motivazione, Sez. U. n. 38343 del 2014, Espenhahn e altri, richiamata anche in sez. 4 n. 12175 del 03/11/2016 Ud. (dep. 14/03/2017), Montefibre 2]. Con formula che sintetizza efficacemente la ricostruzione sopra tratteggiata, si è pertanto affermato che il rimprovero colposo riguarda la realizzazione di un fatto di reato che poteva essere evitato mediante l'esigibile osservanza delle norme cautelari violate (cfr., in motivazione, sez. 4 n. 12478 del 19-20/11/2015, P.G. in proc. Barberi e altri e n. 12175 del 2017, Montefibre 2 cit. che alla prima rinvia).
Ciò premesso, deve rilevarsi come le obiezioni difensive scontino il mancato, effettivo confronto con le ragioni esposte nella sentenza censurata: in quella sede, il giudice d'appello ha dato conto del fatto che il P.G. aveva la disponibilità giuridica dei luoghi nei quali si svolgeva il lavoro e sui quali insisteva la linea elettrica incriminata e ha riconosciuto l'impossibilità di intervenire direttamente sulla stessa. Al contempo, tuttavia, ha sottolineato la mancata attivazione di poteri di intervento indiretti sull'ente gestore della linea, intesi a sollecitare le necessarie iniziative da parte del medesimo, peraltro poste in esser solo dopo l'evento mortale attraverso il parziale interramento della linea. Inoltre, per quel che qui maggiormente interessa, ha richiamato le ulteriori omissioni da parte del P.G., queste esigibili direttamente dall'imputato e idonee a far fronte alla situazione di pericolo in atto (tra le quali, esemplificativamente, si ricorda l'apposizione di apposta segnaletica o la delimitazione visibile della posizione di scarico).
7. L'ottavo motivo è manifestamente infondato. 
Il comportamento tenuto dalla vittima non può considerarsi abnorme, nei termini precisati dal consolidato orientamento di questa corte. Costituisce ius recepetum nella giurisprudenza di questa stessa sezione il principio secondo cui, perché la condotta colposa del lavoratore faccia venir meno la responsabilità del datore di lavoro, occorre un vero e proprio contegno abnorme del lavoratore medesimo, configurabile come un fatto assolutamente eccezionale e del tutto al di fuori della normale prevedibilità, quale non può considerarsi la condotta che si discosti fisiologicamente dal virtuale ideale (cfr. Sez. 4 n. 22249 del 14/03/2014, Rv. 259127). Sempre con riferimento al concetto di "atto abnorme", si è pure precisato che tale non può considerarsi il compimento da parte del lavoratore di un'operazione che, pure inutile e imprudente, non sia però eccentrica rispetto alle mansioni a lui specificamente assegnate nell'ambito del ciclo produttivo (cfr. Sez. 4 n. 7955 del 10/10/2013 Ud. (dep. 19/02/2014), Rv. 259313).
L'abnormità del comportamento del lavoratore, dunque, può apprezzarsi solo in presenza della imprevedibilità della sua condotta e, quindi, della sua ingovernabilità da parte di chi riveste una posizione di garanzia. Sul punto, si è peraltro efficacemente sottolineato che tale imprevedibilità non può mai essere ravvisata in una condotta che, per quanto imperita, imprudente o negligente, rientri comunque nelle mansioni assegnate, poiché la prevedibilità di uno scostamento del lavoratore dagli standards di piena prudenza, diligenza e perizia costituisce evenienza immanente nella stessa organizzazione del lavoro. Il che, lungi dall'avallare forme di automatismo che svuotano di reale incidenza la categoria del "comportamento abnorme", serve piuttosto ad evidenziare la necessità che siano portate alla luce circostanze peculiari - interne o esterne al processo di lavoro - che connotano la condotta dell'Infortunato in modo che essa si collochi al di fuori dell'area di rischio definita dalla lavorazione in corso (cfr. in motivazione Sez. 4 n. 7955/2013 richiamata). Tale comportamento "...è "interruttivo" (per restare al lessico tradizionale) non perché "eccezionale" ma perché eccentrico rispetto ai rischio lavorativo che il garante è chiamato a governare" (Sez. 4, n. 49821 del 23/11/2012, Rv. 254094).
Nel caso in esame, del tutto correttamente la corte territoriale ha sottolineato la circostanza che la condotta della vittima riguardava proprio il segmento di lavoro assegnatogli e non si atteggiava in termini di "stranezza o imprevedibilità, tali da porla al di fuori di ogni possibile controllo, tenuto conto che la predisposizione delle cautele pretermesse avrebbe certamente scongiurato l'infortunio nel quale il lavoratore perse la vita.
8. Infine, è manifestamente indondato anche l'ultimo motivo.
Quanto al giudizio di bilanciamento operato dalla corte territoriale, pare ancora una volta sufficiente un rinvio ai principi elaborati da questa corte per rilevare come le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggano al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell'equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (cfr. Sez. U. n. 10713 del 25/02/2010, Contatelo, Rv. 245931; sez. 2 n. 31543 dell'08/06/2017, Pennelli, Rv. 270450). Anche successivamente, in linea di continuità con tale principio, è stato sottolineato il carattere globale di tale valutazione [cfr. sez. 7 n. 11210 del 2Ó/10/2017 Cc. (dep. 13/03/2018), Rv. 272460].
La valutazione è stata correttamente operata dalla corte di merito che ha ritenuto ostativi alla prevalenza delle generiche sulla cointestata aggravante le modalità della condotta, tradottasi nella inosservanza di plurime cautele, alcune delle quali nella diretta disponibilità del P.G.; la condizione prolungata di insicurezza del luogo di lavoro nella sua disponibilità; e la mancata dimostrazione di segnali di concreta resipiscenza.
Quanto, invece, alla prescrizione del reato, esso è stato commesso il 30/12/2003 e la sentenza di primo grado è stata pronunciata dopo l'entrata in vigore della legge 251/2005. Pertanto, si pone la questione circa la individuazione della legge più favorevole tra la vecchia e la nuova (cfr. Sez. Un., n. 47008 del 29/10/2009, D'Amato, Rv. 244810).
Lo statuto della prescrizione applicabile al caso di specie è quello anteriore alla legge 251 del 2005, laddove la pena per il relativo calcolo è quella prevista dall'art. 589, primo comma, cod. pen. (da sei mesi a cinque anni) e, quindi, il termine minimo è quello di anni dieci, secondo il disposto normativo anteriormente vigente.
Da ciò non deriva, tuttavia, la conseguenza che la difesa ha preteso di trarre, atteso che il termine breve per il reato in esame è quello di anni dieci, mentre il termine lungo, per effetto degli atti interruttivi sul corso della prescrizione disciplinati dall'art. 160 comma 2 cod. pen., vigente prima della modifica introdotta dall'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (a mente del quale <<in nessun caso i termini stabiliti nell'articolo 157 possono essere prolungati oltre la metà>>), è quello di quindici anni, in base al disposto di cui ai commi 1 e 6 dell'art. 157 cod. pen. novellato (con risultato del tutto analogo, quindi, all'applicazione del regime di prescrizione successivo alla legge c.d. ex Cirielli).
9. Al rigetto del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili costituite che si liquidano in complessivi euro 4.500,00 per le parti civili OMISSIS, oltre accessori come per legge.
 

 

P.Q.M.

 


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al rimborso delle spese sostenute dalle parti civili in questo giudizio di legittimità, così liquidate: euro 4.500,00, oltre accessori come per legge, in favore delle parti civili OMISSIS, tutte rappresentate dall'Avv. Luca M..
Deciso in Roma il giorno 06 dicembre 2018