Cassazione Penale, Sez. 6, 06 dicembre 2018, n. 54640 - Responsabilità amministrativa dell'ente per i reati commessi nel suo interesse o vantaggio da chi riveste una posizione apicale o da persone sottoposte alla vigilanza dei vertici


 

Presidente: FIDELBO GIORGIO Relatore: RICCIARELLI MASSIMO Data Udienza: 25/09/2018

 

 

 

Fatto

 


1. Con sentenza del 14/12/2017 la Corte di appello di Milano ha confermato quella del Tribunale di Milano del 26/10/2016, con la quale P.M., responsabile del centro operativo di Cologno Monzese della società Valtellina s,p.a., è stato riconosciuto colpevole del delitto di cui all'art. 322, comma secondo, cod. pen., contestatogli ai capi 3) e 4), in relazione ad offerte economiche formulate a B.A., assistente della società pubblica A2A Reti Elettriche s.p.a., e con la quale la società Valtellina s.p.a. è stata riconosciuta responsabile dell'illecito amministrativo di cui all'art. 25, comma 2, d.lgs. 231 del 2001, correlato alle contestazioni mosse al P.M. sub 3 e 4).
2. Ha presentato ricorso il P.M. tramite il suo difensore.
Deduce violazione di legge in relazione all'art. 362 cod. pen. e inosservanza di norme stabilite a pena di inutilizzabilità in relazione agli artt. 197, 197-bis e 210 cod. proc. pen.
Erroneamente il B.A. era stato escusso come teste, essendo emerso che egli era gravato da indizi di reità in ordine al delitto di omessa denuncia, di cui all'art. 362 cod. pen., a seguito delle ricevute proposte corruttive, non potendosi affermare che egli avesse adempiuto all'obbligo, dando notizia al superiore gerarchico A.G., e neppure che potesse valutare la serietà della proposta, come affermato dalla Corte in relazione al primo episodio.
In realtà sia il B.A. che l'A.G. avrebbero dovuto provvedere a denunciare il fatto di cui avevano avuto notizia, discendendo da ciò che almeno con riguardo al B.A., se non anche con riguardo aIl'A.G., si sarebbe dovuta prospettare la qualità di indagato, rilevante agli effetti dell'art. 63, comma 2, cod. proc. pen., fermo comunque l'obbligo di interrompere le sommarie informazioni del 22/10/2012, non appena era stato fatto riferimento alle proposte corruttive ricevute dal B.A..
Né costui avrebbe potuto invocare l'ignoranza inevitabile della legge penale.
Di qui l'inutilizzabilità delle dichiarazioni sulle quali si era fondata la condanna.
3. Ha proposto ricorso la società Valtellina s.p.a., tramite i suoi difensori.
3.1. Con il primo motivo deduce inosservanza di norme previste a pena di inutilizzabilità in relazione agli artt. 197, 197-bis e 210 cod. proc. pen.
Analogamente a quanto prospettato nel ricorso del P.M. rileva l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai testi B.A. e A.G., in quanto costoro erano gravati da indizi per il reato di cui all'art. 362 cod. pen. non avendo provveduto tempestivamente a denunciare la proposta corruttiva con riguardo al primo dei due episodi: non avrebbe potuto dirsi che il B.A. avesse ottemperato all'obbligo riferendo il fatto ai superiori, in quanto non si era considerato il primo episodio e non si era valutato il fatto che la comunicazione del B.A. aveva coinvolto anche l'A.G., parimenti gravato da obbligo di denuncia, essendo anzi risultato che era stato concordato da costoro di non presentare denuncia; non si sarebbe potuto inoltre non rilevare il ritardo, essendo il primo episodio risalente all'anno precedente e non venendo meno l'illiceità in ragione della denuncia successiva, e neppure avrebbe potuto darsi rilievo all'inesperienza del B.A. e all'esigenza di evitare denunce azzardate, ciò su cui aveva fatto leva la Corte di appello, posto che l'obbligato non può valutare giuridicamente il fatto e considerare eventuali esimenti e non può addurre neppure l'errore sull'obbligatorietà della denuncia.
D'altro canto i due testi avrebbero dovuto essere sentiti dall'inizio come imputati in procedimento connesso o collegato, discendendone l'inutilizzabilità delle dichiarazioni, posto che dall'art. 63, comma 2, cod. proc. pen. si evince che la materia non è disciplinata nel solo interesse del dichiarante ma anche nell'interesse della genuinità della prova e della legalità della sua acquisizione.
3.2. Con il secondo motivo denuncia violazione di legge processuale per difetto di correlazione tra contestazione e sentenza in relazione agli artt. 522 e 521, comma 2, cod. proc. pen.
Alla società era stato contestato l'illecito amministrativo nel presupposto della posizione apicale del P.M., mentre la condanna era avvenuta nel diverso presupposto del ruolo non apicale, cosicché era stato fatto riferimento non al canone di imputazione di cui agli artt. 5, comma 1, lett. a), e 6 d.lgs. 231 del 2001 ma a quello di cui agli artt. 5, comma 1, lett. b), e 7 d.lgs. 231 del 2001, non potendosi al riguardo parlare di derubricazione, ma di rilievo di un profilo eterogeneo, implicante la verifica del livello organizzativo all'interno del quale il reato era stato commesso e gli obblighi di direzione e vigilanza omessi, fermo restando che la contestazione non conteneva alcun riferimento agli elementi che integrano l'illecito ai sensi dell'art. 7 d.lgs. 231 del 2001.
3.3. Con il terzo motivo denuncia vizio di motivazione in ordine al canone di imputazione dell'interesse dell'ente.
La Corte aveva fornito con riguardo a tale criterio di imputazione una motivazione apodittica e illogica, sebbene fosse stato dato atto della finalità del P.M. di consolidare la sua posizione all'interno della società, elemento tale da attestare l'interesse esclusivo del predetto, a fronte del quale era stato rilevato l'interesse della società all'eliminazione o riduzione di sanzioni e penali o, come rilevato dalla Corte, all'azzeramento dei controlli, senza che tuttavia fosse stato dato conto di tale convincimento, contrastato dalla modestia delle somme richieste a titolo di sanzioni e dall'interesse della società ad avvalersi piuttosto di personale efficiente e all'altezza.
In realtà i Giudici di merito avevano fatto riferimento alla lettera del P.M. del 30 settembre 2011 e al riferimento che lo stesso P.M. aveva fatto all'esigenza di evitare un danno di immagine nei confronti della direzione di Valtellina: la condotta elusiva del P.M. avrebbe dovuto dunque essere correttamente intesa, risultando illogiche le valutazioni della Corte che non aveva spiegato le ragioni per cui il dipendente dovesse agire contro la società, e insufficienti nella parte in cui non aveva rilevato l'opposto interesse della Valtellina.
Ma il vizio di motivazione era rilevabile anche in relazione alla indebita sovrapposizione dei profili dell'interesse e del vantaggio, il primo da valutarsi ex ante e il secondo di natura oggettiva, valutabile ex post, ma non ravvisabile con riguardo ad una fattispecie di tentativo.
3.4. Con il quarto motivo denuncia vizio di motivazione in ordine all'elemento costitutivo dettato dall'art. 7 d.lgs. 231 del 2001.
I Giudici di merito non avevano motivato in ordine alla violazione dei doveri di direzione e vigilanza, avendo dato rilievo al rimborso spese richiesto nel 2007 dal P.M. per somme erogate al funzionario N. per mantenimento di buoni rapporti, ma non considerando la genericità dell'annotazione del 2007 e il suo riferirsi a fatto estraneo al tema di prova, accaduto inoltre cinque anni prima.
In realtà non era stato dato conto dell'individuazione del dovere di vigilanza idoneo ad impedire l'illecito, della verifica dell'inosservanza, della prova del nesso eziologico tra illecito e inosservanza.
La consapevolezza delle spese di rappresentanza nulla diceva circa l'offerta corruttiva.
Inoltre l'impedimento dell'illecito avrebbe dovuto reputarsi impossibile, essendosi trattato di iniziativa estemporanea del dipendente.
Ed ancora la motivazione avrebbe dovuto reputarsi illogica nella parte in cui la Corte aveva affermato che Valtellina aveva favorito la deriva corruttiva e che era a conoscenza del modo di agire dell'imputato e nel contempo aveva fondato la ricostruzione della dinamica delittuosa sulla volontà manifestata dal P.M. di occultare il proprio agire illecito ai superiori, intendendo evitare un danno di immagine.
Del resto se l'elusione dei modelli organizzativi esclude la responsabilità dell'ente nel caso di reato imputabile a soggetti apicali, altrettanto deve ritenersi che l'elusione non possa che escludere la responsabilità anche agli effetti dell'art. 7 d.lgs. 231 del 2001.

 

Diritto

 

1. Il motivo proposto nel ricorso P.M. e il corrispondente primo motivo del ricorso di Valtellina s.p.a. sono infondati.
1.1. Viene dedotto che le dichiarazioni rese come teste da B.A. nonché quelle rese nella medesima qualità da A.G. dovrebbero considerarsi inutilizzabili, in quanto provenienti da chi era già gravato da indizi di reità in ordine al delitto di cui all'art. 362 cod. pen., da ritenersi collegato a quello di istigazione alla corruzione addebitato al P.M..
1.2. Orbene, in base alla ricostruzione della vicenda, desumibile dalle sentenze di merito, risulta che il B.A., assistente tecnico della A2A, fu avvicinato una prima volta nel 2011, nella primavera-estate, dal P.M., addetto al centro operativo di Cologno Monzese della Valtellina s.p.a. il quale, prospettando la possibilità di erogare in cambio denaro o altro genere di utilità, propose al B.A. di conferire a Valtellina lettere di incarico per il ripristino di alcune aree, con l'intesa che comunque non si sarebbe provveduto ad alcun tipo di lavoro, potendo il P.M. confidare sulla disponibilità del geom. N. del Comune di Milano, che avrebbe comunque ripreso in consegna le aree in questione.
Il B.A. non si mostrò disposto ad assecondare la richiesta e qualche giorno dopo egli, non avvezzo a situazioni simili, si confrontò con il superiore gerarchico A.G., con il quale convenne di non dare seguito alla vicenda, che sembrava essere stata chiarita e costituire un fatto isolato, salva la necessità avvertita dall'A.G. di «tenere monitorata la cosa».
Risulta inoltre che il 17 febbraio 2012 si verificò un nuovo episodio: questa volta il P.M. prospettò al B.A. in cambio di denaro o buoni gasolio di non emettere sanzioni o di non esigere il pagamento di penali per irregolarità riscontrate nei cantieri o comunque di compensare le somme richieste con il riconoscimento in contabilità di somme aggiuntive.
Parimenti il B.A., turbato per l'episodio, oppose un netto rifiuto e ne parlò con l'A.G., con il quale poi prese contatto con l'intera catena di comando della società A2A, ciò che dette origine alla denuncia.
Si assume dunque, in chiave difensiva, che con riguardo al primo episodio sarebbe addebitabile al B.A. e al l'A.G. di non aver tempestivamente denunciato la notizia di reato a loro conoscenza e che su tali basi i predetti avrebbero dovuto essere poi escussi in qualità di indagati, conseguendone l'inutilizzabilità erga omnes di cui all'art. 63, comma 2, cod. proc. pen.
1.3. Deve peraltro rimarcarsi che l'inutilizzabilità di cui all'art. 63, comma 2, cod. proc. pen. presuppone che le dichiarazioni provengano da soggetto a carico del quale già sussistevano indizi in ordine al medesimo reato o in ordine a reato connesso o collegato, restando escluse dalla sanzione dichiarazioni riguardanti reati diversi (Cass. Sez. U. n. 1282 del 9/10/1996, dep. nel 1997, Carpanelli, rv. 206946).
In particolare è stato sottolineato che è necessario che «siano già acquisiti, prima dell'escussione, indizi non equivoci di reità, come tali conosciuti dall'autorità procedente, non rilevando a tale proposito eventuali sospetti od intuizioni personali dell'interrogante» (Cass. Sez. U. n. 23868 del 23/4/2009, Fruci, rv. 243417; Cass. Sez. 2, n. 20936 del 7/4/2017, Minutólo, rv. 270363).
Inoltre è stato rilevato che spetta al giudice, in merito alla qualità del dichiarante, il potere di verificare «l'attribuibilità allo stesso della qualità di indagato nel momento in cui le dichiarazioni stesse vengano rese, e il relativo accertamento si sottrae, se congruamente motivato, al sindacato di legittimità» (Cass. Sez. U. n. 15208 del 25/2/2010, Mills, rv. 246584).
1.4. Ciò posto, si rileva che nel caso di un'istigazione alla corruzione un elemento qualificante è costituito dalla serietà dell'offerta, apprezzabile in base a tutte le circostanze del caso, in quanto la stessa sia idonea ad ingenerare turbamento psicologico nel pubblico ufficiale o nell'incaricato di pubblico servizio (sul punto Cass. Sez. 6, n. 3176 del 11/1/2012, Stabile, rv. 251577; Cass. Sez. 6, n. 21095 del 25/2/2004, Barhoumi, rv. 229022).
D'altro canto il dolo del delitto di omessa denuncia va apprezzato in relazione al momento del suo perfezionarsi e non in un momento successivo, essendo possibile che colui che sia destinatario di un'istigazione alla corruzione ne percepisca l'effettiva serietà solo in epoca posteriore in base a fatti avvenuti in prosieguo (Cass. Sez. 3. n. 3866 del 27/9/1990, Collura, rv. 185575).
1.5. Ciò significa che, al fine di stabilire se effettivamente il B.A. e l'A.G. dovessero assumere veste di indagati, avrebbero dovuto essere ab origine ravvisabili inequivoci indizi in ordine alla configurabilità a carico dei predetti di una dolosa omissione della denuncia del reato di istigazione alla corruzione, nel presupposto dunque che potesse dirsi che gli stessi ne avessero concretamente apprezzato, in occasione del primo episodio, quei tratti che concorrono a rendere la condotta penalmente rilevante, non potendosi a tale stregua far riferimento alle vicende sopravvenute, che erano certamente valse a dar conto, anche a ritroso, degli intendimenti seriamente corruttivi del P.M..
Non si tratta di riconoscere al soggetto gravato dall'obbligo di denuncia la facoltà di valutare la fondatezza della notizia di reato, bensì di stabilire, ai fini in esame, se una effettiva notizia di reato fosse immediatamente apprezzabile e fosse stata come tale percepita, non sussistendo altrimenti indizi di reato inequivoci, tali da giustificare l'attribuzione ai predetti dichiaranti della veste di indagati.
A tale quesito la Corte ha fornito una non illogica risposta, avendo inteso sottolineare che la proposta corruttiva ben poteva non essere stata immediatamente compresa nella sua serietà, risultando in tal senso giustificato l'ulteriore riferimento alla volontà di evitare denunce azzardate.
A fronte di ciò i ricorrenti hanno ribadito sul piano giuridico i presupposti per la configurabilità del delitto di omessa denuncia, ma non si sono specificamente confrontati con il tema posto dalle peculiari connotazioni del delitto che nel caso di specie si sarebbe trattato di denunciare, a fronte di quanto richiesto dalla giurisprudenza perché possa previamente ravvisarsi sul piano sostanziale la qualità di indagato.
Né sono stati concretamente prospettati elementi dai quali poter effettivamente desumere, anche sulla base di quanto successivamente dichiarato in fase di indagini dal B.A., nella veste di persona informata sui fatti, l'effettiva insorgenza, prima della deposizione dibattimentale, di inequivoci indizi nei termini suindicati.
1.6. Ne discende che correttamente si è proceduto all'audizione del B.A. e dell'A.G. quali testi, fermo restando che l'eccezione difensiva non avrebbe potuto in nessun caso valere con riferimento al secondo episodio, giacché in questo caso non è stata prospettata un'omessa denuncia e comunque il collegamento probatorio, valutato in relazione alla posizione del dichiarante, avrebbe potuto ravvisarsi tra la prima istigazione alla corruzione e la corrispondente omessa denuncia e non anche tra quest'ultima e la seconda condotta di istigazione.
2. Anche il secondo motivo del ricorso di Valtellina s.p.a. è infondato.
2.1. E' stata prospettata la nullità di cui agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. in relazione al difetto di correlazione tra la contestazione dell'illecito amministrativo posto a carico della società e la successiva sentenza di condanna, fondata non più sulla posizione apicale del P.M. e dunque sul modello delineato dagli artt. 5, comma 1, lett. a), e 6 d.lgs. 231 del 2001, bensì sull'attribuzione al P.M. della qualità di soggetto sottoposto all'altrui direzione e vigilanza e dunque sul modello delineato dagli artt. 5, comma 1, lett. b), e 7, comma 1, d.lgs. 231 del 2001.
E' stato in particolare sottolineato che nella contestazione si faceva riferimento alla mancata adozione di modelli organizzativi e che non si sarebbe potuto parlare di derubricazione, essendo invece ravvisabile una responsabilità di natura ontologicamente diversa.
2.2. Deve al riguardo in via generale osservarsi che la responsabilità degli enti è configurata come derivante da fatto proprio degli stessi, dipendente da uno dei reati specificamente previsti nel catalogo normativo (Cass. Sez. U. n. 38343 del 24/4/2014, Espenhah, rv. 261112; Cass. Sez. 6, n. 27735 del 18/2/2010, Scarafia, rv. 247666).
In particolare danno luogo a responsabilità dell'ente ai sensi dell'art. 5 d.lgs. 231 del 2001 i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio, da chi riveste posizione apicale di rappresentanza, amministrazione o direzione, anche di unità organizzativa dotata di autonomia, o da persone sottoposte alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti apicali.
La responsabilità si fonda su una colpa di organizzazione, in senso normativo, correlata ai reati specificamente previsti (Cass. Sez. U. n. 38343 del 24/4/2014, Espenhahn, rv. 261113): con riguardo a reati commessi da chi riveste posizione apicale la stessa trova espressione nell'art. 6, alla cui stregua l'ente, altrimenti responsabile, può opporre, secondo la scelta del legislatore delegato, la prova della preventiva adozione e attuazione di idonei modelli organizzativi, volti a prevenire reati della specie di quello verificatosi, dell'affidamento del compito di vigilare sul funzionamento e sull'osservanza dei modelli a organismo dell'ente dotato di autonomi poteri, della fraudolenta elusione dei modelli, della non ravvisabilità di un'omessa o insufficiente vigilanza; con riguardo invece a reati commessi da soggetti non apicali, la colpa, avente comunque il significato di rinviare ad un sistema complessivo di regole, è espressa dall'art. 7, in forza del quale l'ente è responsabile se la commissione del reato è stata resa possibile dall'inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza, inosservanza che è comunque da escludere in caso di preventiva adozione e attuazione di idonei modelli organizzativi.
Il sistema nel suo complesso, come posto in luce anche dalla dottrina, si fonda dunque sulla concreta riconducibilità del fatto alla sfera di operatività e interesse dell'ente e ad un profilo di immedesimazione della responsabilità, la quale può essere esclusa solo nel caso di preventiva adozione di idonei modelli organizzativi, cui sia correlato un proficuo e mirato sistema di prevenzione.
Nel caso di reato commesso da soggetto apicale la mancata adozione è di per sé bastevole al fine di suffragare la responsabilità dell'ente (sul punto Cass. Sez. 6, n. 36083 del 9/7/2009, Mussoni, 244256), in quanto viene a mancare in radice un sistema che sia in grado di costituire un oggettivo parametro di riferimento anche per chi è nella condizione di esprimere direttamente la volontà dell'ente.
Nel caso di soggetto non apicale, la circostanza che l'adozione del modello organizzativo valga ad escludere ai sensi dell'art. 7 la responsabilità dell'ente implica che in tale ipotesi il legislatore abbia ritenuto non addebitabile all'ente un profilo di colpa di organizzazione, tale da rendere ravvisabile un'effettiva immedesimazione della responsabilità, dovendosi quindi considerare il reato come estraneo alla sfera di operatività e concreta interferenza dell'ente.
In assenza di un modello organizzativo idoneo, la colpa di organizzazione risulta comunque sottesa ad un deficit di direzione o vigilanza -incentrata su un sistema di regole cautelari-, che abbia in concreto propiziato il reato.
Posto che i reati cui è connessa la responsabilità sono specificamente previsti e che ogni ente deve essere in grado di prevenirne la commissione, anche in rapporto alle rispettive sfere di rischio, occorre che l'assetto organizzativo risulti comunque in grado di assicurare un'azione preventiva, con la conseguenza che solo il concreto ed effettivo esercizio di un mirato potere di direzione e controllo può valere a scongiurare la responsabilità, in questo senso dovendosi intendere il riferimento contenuto nell'art. 7 all'inosservanza dei doveri di direzione e vigilanza, connaturati all'esigenza preventiva di cui si è detto.
In tale prospettiva, nel caso di mancata adozione di modelli organizzativi, i presupposti della responsabilità dell'ente, a seconda che si tratti o meno di soggetto apicale, differiscono solo alla condizione che sia concretamente attestato un assetto, ispirato da regole cautelari, destinato comunque ad assicurare quell'azione preventiva, in tal caso essendo necessario provare che il fatto sia stato propiziato dall'inosservanza nel caso concreto della necessaria azione di direzione o vigilanza.
Qualora peraltro non risultino specificamente dedotti assetti incentrati sul concreto svolgimento di quell'azione, da qualificarsi nondimeno come necessaria, non può dirsi occorrente, al fine di attestare la responsabilità dell'ente, una prova specifica ulteriore, avente ad oggetto la dimostrazione di una regola cautelare rimasta inosservata.
Vuol dirsi cioè che la mancata previsione di un assetto, connotato dall'attribuzione di mirati poteri e doveri e in grado di esercitare un'azione preventiva, non può tradursi in una condizione di privilegio sotto il profilo probatorio, ma implica che gli obblighi di direzione e vigilanza siano rimasti inosservati, essendo da ciò derivata la commissione del reato da parte del soggetto non apicale.
2.3. Alla luce di tale analisi le censure difensive, incentrate sulla configurazione di un diverso modello di responsabilità, risultano prive di rilievo.
Ed invero, anche con riguardo alla responsabilità degli enti, il parametro di valutazione ai fini della verifica della correlazione tra contestazione e sentenza non può che essere quello del rispetto del diritto di difesa, che deve essere garantito sia sotto il profilo dell'analisi critica sia sotto quello della facoltà di prova.
Si è al riguardo rilevato che «l'immutazione del fatto di rilievo, ai fini della eventuale applicabilità della norma dell'art. 521 cod. proc. pen., è solo quella che modifica radicalmente la struttura della contestazione, in quanto sostituisce il fatto tipico, il nesso di causalità e l'elemento psicologico del reato, e, per conseguenza di essa, l'azione realizzata risulta completamente diversa da quella contestata, al punto da essere incompatibile con le difese apprestate dall'imputato per discolparsene» (Cass. Sez. 1, n. 6302 del 14/4/1999, Iacovone, rv. 213459).
D'altro canto «il principio di correlazione tra contestazione e sentenza è funzionale alla salvaguardia del diritto di difesa dell'imputato; ne consegue che la violazione di tale principio è ravvisabile quando il fatto ritenuto nella decisione si trova, rispetto al fatto contestato, in rapporto di eterogeneità, ovvero quando il capo d'imputazione non contiene l'indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, né consente di ricavarli in via induttiva» (Cass. Sez. 6, n. 10140 del 18/2/2015, Bossi, rv. 262802).
A tal fine non può comunque sottacersi che «il precetto dell'art. 521 primo comma, cod. proc. pen., che enuncia il principio della correlazione tra accusa e sentenza va inteso non in senso "meccanicistico formale", ma in funzione della finalità cui è ispirato, quella cioè della tutela del diritto di difesa. Ne consegue che la verifica dell'osservanza di detto principio non può esaurirsi in un mero confronto letterale tra imputazione e sentenza, occorrendo che ogni indagine in proposito venga condotta attraverso l'accertamento della possibilità per l'imputato di difendersi in relazione a tutte le circostanze del fatto» (Cass. Sez. 6, n. 618 del 8/11/1995, dep. nel 1996, Pagnozzi, rv. 203371).
Nella medesima linea è stato rilevato che il potere di «attribuire al fatto una diversa qualificazione giuridica, rispetto a quella formulata nell'imputazione, sempre che non risulti in concreto pregiudicato il diritto di difesa, deve essere interpretato nel rigoroso rispetto delle esigenze del pieno contraddittorio, in applicazione del principio costituzionale del giusto processo. Pertanto, tale potere va escluso nei casi in cui tra il fatto-reato contestato e quello di cui l'imputato è stato ritenuto responsabile vi sia un rapporto di piena ed irriducibile alterità, senza una matrice di condotta unitaria» (Cass. Sez. 3, n. 13151 del 2/2/2005, Vignola, rv. 231829).
Orbene, a fronte di una contestazione incentrata sul ruolo apicale, associato alla mancata adozione di modelli organizzativi, la responsabilità dell'ente è stata affermata sulla base della diversa qualificazione del ruolo attribuibile al P.M., peraltro secondo le stesse sollecitazioni difensive, e sulla base del rilievo del 
mancato svolgimento di una concreta e mirata azione preventiva, correlata al catalogo normativo dei reati, al di là dell'astratto potere di controllo affidato al soggetto apicale M., tema sul quale, secondo quanto osservato dalla Corte -senza che sul punto siano state formulate specifiche censure-, la difesa ha avuto ampia facoltà di interloquire mediante testi e documenti, risultando dunque assicurato il contraddittorio in ordine al profilo della concreta qualificazione della responsabilità, incentrata su un modello che, stante la reale dinamica dell'ente, come ricostruita dai Giudici di merito, ha finito per presentare connotazioni assimilabili a quelle dell'originaria contestazione, comunque incentrata sulla mancata adozione e attuazione di specifiche regole cautelari.
Di qui l'infondatezza della doglianza.
3. E' infondato il terzo motivo del ricorso di Valtellina s.p.a.
3.1. La censura è riferita alla motivazione con cui la Corte ha ravvisato la configurabilità dell'illecito della società, in relazione alla sussistenza di un suo concorrente interesse.
3.2. Si è in proposito già rilevato come l'illecito amministrativo dell'ente si fondi in primo luogo sul fatto che il reato sia stato commesso nell'interesse o a vantaggio di esso.
E' stato al riguardo affermato che la formula usata dall'art. 5, comma 1, d.lgs. 231 del 2001 non configura un'endiadi ma individua criteri alternativi e concorrenti tra loro, «in quanto il criterio dell'interesse esprime una valutazione teleologica del reato, apprezzabile "ex ante", cioè al momento della commissione del fatto e secondo un metro di giudizio marcatamente soggettivo, mentre quello del vantaggio ha una connotazione essenzialmente oggettiva, come tale valutabile "ex post", sulla base degli effetti concretamente derivati dalla realizzazione dell'illecito» (Cass. Sez. U. n. 38343 del 24/4/2014, Espnhahn, rv. 261114).
D'altro canto l'art. 5, comma 3, d.lgs. 213 cit. stabilisce che l'ente non risponde se la persona ha agito nell'interesse esclusivo proprio o di terzi e l'art. 12, comma 1, lett. a), d.lgs. 231 cit., contempla invece una diminuzione della sanzione nel caso in cui il soggetto abbia agito nel prevalente interesse proprio o di terzi.
3.3. Nel caso di specie i Giudici di merito hanno ritenuto che il P.M. avesse tenuto le condotte illecite sia nel prevalente interesse proprio, in funzione della tutela della propria immagine, a fronte della situazione in cui versava il centro di Cologno Monzese, in conseguenza di rilievi e addebiti di irregolarità, comportanti sanzioni e penali, sia nel concorrente interesse della società. 
Quest'ultima nel motivo di ricorso contesta la configurabilità di un proprio interesse, adducendo che il rischio derivante dalla condotta illecita era sproporzionato rispetto alla minima consistenza di penali e sanzioni, e che comunque era interesse della società di avvalersi semmai di collaboratori apprezzati e trasparenti.
3.4. Orbene, deve in primo luogo escludersi che la condotta possa dirsi tenuta a vantaggio della società, giacché secondo la valutazione ex post un siffatto vantaggio non è ravvisabile.
Contrariamente a taluni rilievi formulati nel motivo di ricorso deve peraltro rilevarsi come la Corte, nel far riferimento al vantaggio economico, abbia tuttavia inteso dar rilievo alla prospettiva di vantaggio sottesa all'azione corruttiva, e dunque in concreto al concorrente interesse della società, correlato ad una condotta dalla quale avrebbe potuto discendere, in base al primo episodio, addirittura l'attribuzione fittizia di lavori non eseguiti e, in base al secondo episodio, l'eliminazione di penali e sanzioni, non solo con riferimento a quelle all'epoca irrogate, ma in via generale con riguardo a tutte le potenziali conseguenze negative sottese ai controlli di competenza dell'assistente B.A..
Deve certamente convenirsi con la difesa che il riferimento all'interesse, pur connotato da una prevalente connotazione soggettiva, implica nondimeno il confronto con un parametro oggettivo, non rimesso esclusivamente ad imperscrutabili intendimenti dell'agente.
Tuttavia anche in tale prospettiva gli argomenti difensivi, incentrati sul limitato vantaggio, a fronte di elevati rischi, e sull'interesse a disporre di personale adeguato, non valgono a superare la motivazione su cui si fonda la condanna, essendo stato dato conto di profili di concreta utilità, come tali apprezzabili, rivenienti dall'azione illecita, profili dei quali il P.M., secondo quanto rilevato dai Giudici di merito, aveva fatto menzione anche con il B.A., menzionando sia il danno economico per l'impresa sia il danno di immagine per lui, come responsabile nei confronti della direzione di Valtellina (sentenza del Tribunale, pag. 9).
Non assumono rilievo in senso contrario le argomentazioni esposte nel motivo di ricorso, volte a valorizzare da un lato il riferimento fatto dai Giudici di merito alla lettera del P.M. del settembre 2011 e dall'altro il preteso agire di lui contro la società, che di seguito lo aveva sottoposto a sanzione disciplinare: in realtà si tratta di elementi che non pongono in luce profili di illogicità o contraddittorietà della motivazione, ma semplicemente valgono a suffragare l'assunto per cui il P.M. ebbe ad agire nel prevalente interesse proprio, circostanza che di per sé non implica l'esclusione del concorrente e pur marginale interesse della società a fruire dei risultati della condotta corruttiva (sul punto della rilevanza del concorrente interesse della società, si rinvia a Cass. Sez. 6, n. 24559 del 22/5/2013, House Building, s.p.a., rv. 255442).
E neppure potrebbe farsi riferimento ad una vera e propria attività elusiva del P.M., attestante l'opposto interesse della società, occorrendo a tal fine una condotta ingannevole e subdola, influente sull'esercizio dei poteri di gestione e controllo (sul punto, sia pur al diverso fine della configurabilità della responsabilità ai sensi dell'art. 6, si rinvia a Cass. Sez. 5, n. 4677 del 18/12/2013, dep. nel 2014, Impregilo s.p.a., rv. 257987).
4. E' infondato infine il quarto motivo del ricorso di Valtellina s.p.a.
4.1. Ricollegandosi ai temi sviluppati nel secondo motivo, la ricorrente ha prospettato la mancata individuazione del dovere di vigilanza e la mancanza di motivazione sulla derivazione dell'illecito da tale inosservanza.
4.2. Si tratta tuttavia di prospettiva che muove da una non corretta analisi dei presupposti della responsabilità ai sensi dell'art. 7.
Va infatti richiamato quanto già osservato (sul punto cfr. retro al punto 2.2. del «Considerato in diritto») in ordine al fondamento di tipo normativo della colpa di organizzazione, che fa leva sulla mancata predisposizione di un sistema di regole cautelari volte a prevenire determinati reati.
In tale prospettiva si rileva che il dovere di direzione e vigilanza deve specificamente orientarsi verso la prevenzione delle condotte illecite incluse nel catalogo normativo, tanto più con riguardo a quelle inerenti ai rischi propri del tipo di impresa.
4.3. Nel caso di specie per contro le deduzioni difensive non hanno in alcun modo riguardato la prospettazione di un idoneo e preciso assetto di cautele, di cui si sarebbe trattato di vagliare l'eventuale violazione nel caso concreto, risultando a fronte di ciò corretto l'assunto dei Giudici di merito secondo cui era mancata in radice la concreta vigilanza sull'operato del P.M., in assenza di qualsivoglia indicazione di mirate cautele all'uopo adottate.
Deve inoltre osservarsi che il rischio di condotte corruttive non è estraneo alla sfera di rischio propria delle società che operano a contatto con la pubblica amministrazione o in settori di rilievo pubblicistico, fermo restando che di tale specifico rischio la società avrebbe dovuto comunque farsi carico, anche a prescindere dal riferimento a determinati indici delle modalità solitamente utilizzate dal P.M., noti agli organi apicali.
Al di là del marginale rilievo attribuibile alla documentazione risalente al 2007, da cui era emerso che il P.M. aveva avanzato richiesta di rimborso spese, in relazione alla somma di euro 300,00, erogata al geom. N. per il mantenimento di buoni rapporti, peraltro riferito anche a «vari verbali non effettuati», è stato comunque dato conto dai Giudici di merito del fatto che il P.M. operava a contatto con pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio, occupandosi anche di occasioni conviviali, il che implicava la necessità di un'azione di direzione e controllo, volta a scongiurare il rischio di condotte più disinvolte, azione che non risultava essere stata svolta.
Né potrebbe replicarsi che nel caso di specie si fosse trattato di iniziativa estemporanea del P.M., in quanto tra i compiti della società vi era specificamente quello di creare le condizioni perché siffatte condotte non avvenissero o fossero comunque idoneamente prevenute.
4.4. Non assume alcun concreto rilievo la circostanza che di seguito il P.M. fosse stato sottoposto a sanzione disciplinare, circostanza che non implica il previo esercizio di un'effettiva azione di direzione e controllo sulla base della definizione di nitide regole cautelari.
Ed infine non può argomentarsi alcunché dal fatto che il P.M., nel perseguire l'intendimento di tutelare la propria immagine, avesse in concreto agito tenendo nascosto il suo agire illecito ai superiori, giacché ciò di per sé non vale a superare il rilievo, sul quale si sono fondati i Giudici di merito, della mancata adozione di mirate strategie preventive, fermo restando che non può neppure parlarsi di condotta ingannevole e subdola, tale da costituire propriamente elusione di una cogente regola cautelare.
5. Ciò posto, deve rilevarsi che l'infondatezza del ricorso del P.M. non preclude la valutazione del tempo trascorso ai fini del termine di prescrizione.
5.1. A questo riguardo va rimarcato che il primo dei due episodi, contestato al capo 3), è stato collocato nel tempo in modo assai incerto, essendosi fatto riferimento alla primavera-estate del 2011, senza che siano ravvisabili concreti margini per una più puntuale indicazione della data.
Si tratta di riferimento irrimediabilmente impreciso che impone, in ossequio al principio del favor rei, di prendere in considerazione la data più favorevole (sul punto Cass. Sez. 3, n. 1182 del 17/10/2007, dep. nel 2008, Cilia, rv. 2388509; cfr. anche Cass. Sez. 2, n. 19472 del 24/5/2006, Rinaldi, rv. 233835, per l'addebitabilità dell'onere della prova all'accusa, dovendosi applicare nel dubbio la causa estintiva), coincidente con l'inizio della primavera, con la conseguenza che alla data odierna risulta decorso il termine massimo di prescrizione, pari ad anni sette e mesi sei.
Di qui l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata in parte qua nei confronti del P.M., discendendone l'eliminazione della relativa pena, come calcolata dal Tribunale, con conseguente rideterminazione della stessa per il reato residuo in anni uno mesi quattro di reclusione e corrispondente durata della pena accessoria.
Il ricorso del P.M. deve essere rigettato nel resto.
5.2. Ciò peraltro non giova alla società Valtellina s.p.a., in quanto la responsabilità dell'ente sussiste ai sensi dell'art. 8 d.lgs. 231 del 2001 anche nel caso di estinzione del reato per causa diversa dall'amnistia e in quanto diverso è il criterio di computo della prescrizione nei confronti della società (il termine si sospende ai sensi dell'art. 24 d.lgs. in caso di contestazione dell'illecito amministrativo).
Ne discende il rigetto del ricorso della società, che deve essere condannata al pagamento delle spese processuali.
 

 

P. Q. M.

 


Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di P.M., limitatamente al capo 3), perché il reato è estinto per intervenuta prescrizione e per l'effetto ridetermina la pena per il residuo reato in anni uno e mesi quattro di reclusione, con corrispondente durata della pena accessoria applicata; rigetta nel resto il ricorso del P.M..
Rigetta il ricorso di Valtellina s.p.a., che condanna al pagamento delle spese processuali.
Cosi deciso il 25/9/2018