Categoria: Cassazione civile
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Cassazione Civile, Sez. Lav., 27 febbraio 2019, n. 5749 - Comportamenti mobbizzanti e depressione


Presidente: NOBILE VITTORIO Relatore: ARIENZO ROSA Data pubblicazione: 27/02/2019

 

Fatto

 


1. Il Tribunale di S. Maria Capua Vetere aveva respinto la domanda proposta da M.F. intesa al risarcimento dei danni subiti per effetto di comportamenti mobbizzanti asseritamente adottati nei suoi confronti dalla s.p.a. RETAM Sud, della quale era stato dipendente fin dal 15.5.1990, domanda avente ad oggetto la impugnativa del licenziamento intimatogli per superamento del periodo di comporto, con conseguente ristoro dei danni patiti, la richiesta di condanna al pagamento di euro 32.141,05 a titolo di differenze retributive sul presupposto di avere contratto una malattia professionale, la condanna dell'INAIL alla costituzione di una rendita vitalizia o, in subordine, di un indennizzo in conto capitale e la corresponsione della indennità per inabilità temporanea.
2. La Corte di appello di Napoli accoglieva il gravame del lavoratore limitatamente alla richiesta di condanna della società al pagamento di euro 446,16 a titolo di differenza di retribuzione per il mese di gennaio 2006, rilevando come solo nella memoria di costituzione in appello la Retam Sud avesse contestato i conteggi, mentre in primo grado non aveva preso alcuna posizione in ordine al credito vantato dal lavoratore, con indicazione della sua causale e del conteggio analitico a supporto dello stesso.
3. Respingeva l'appello quanto alle ulteriori censure, osservando che, alla luce degli orientamenti giurisprudenziali richiamati, doveva ritenersi che nella specie i singoli episodi enunciati contraddicevano il dedotto intento persecutorio e che gli stessi non erano stati neanche provati attraverso l'istruttoria espletata, non potendo ravvisarsi nell'assegnazione a mansioni di magazziniere, asseritamente non rientranti nel livello di appartenenza, una condotta di mobbing, ma, al più, un demansionamento, improduttivo di un diritto al risarcimento dei danni, non richiesto a tale titolo. Quanto alle sanzioni disciplinari inflitte al lavoratore, queste erano state solo in parte ridotte dal collegio di conciliazione e arbitrato, ma non eliminate, il che dimostrava che i comportamenti sanzionati erano comunque esistenti. Non era, poi, stata provata la eziologia lavorativa della depressione allegata, che doveva ritenersi patologia ad eziologia multifattoriale sulla quale avevano influito lo stress nella vita di casa e sul lavoro, fattori ereditari, cambiamenti fisici dell'organismo, problemi finanziari e difficoltà relazionali e, quanto alla dermatite allergica da contatto, di modesta entità, non era stato riscontrato alcun rischio ambientale. Ogni altro credito vantato doveva poi ritenersi prescritto per effetto della mancanza di atti interruttivi nel quinquennio decorrente dal 1.12.2000.
4. Di tale decisione ha domandato la cassazione il M.F., affidando l'impugnazione a tre motivi, cui hanno resistito sia la società, che l'INAIL, con distinti controricorsi. La società ha depositato memoria ai sensi dell'art. 378 c.p.c.
 

 

Diritto

 


1. Con il primo motivo, si denunzia violazione o falsa applicazione dell'art. 2087 c.c., in relazione alla erronea valutazione della mancata adozione, da parte dell'imprenditore, nell'esercizio dell'impresa, delle misure atte a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale del lavoratore, nonché dell'osservanza degli obblighi relativi alla sicurezza del lavoro previsti dal D. lgs. 81/2008, anche nella parte in cui la sentenza computa nel periodo di comporto ai fini del licenziamento le assenze per malattia professionale. Si assume che il ricorrente era stato adibito ad attività oggettivamente nocive per la sua salute e che il datore non aveva posto in essere i necessari correttivi organizzativi e strumentali imposti dalla normativa vigente in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro. Si aggiunge che nei plurimi certificati medici scientifici prodotti in lite era stata evidenziata la riconducibilità della sindrome ansioso depressiva aggravata alle condizioni lavorative, anche in rapporto al tipo di mansioni di assegnazione, cui il datore di lavoro non aveva posto rimedio, agendo senza adozione delle cautele necessarie alla tutela dell'integrità fisica del lavoratore assicurato. Si deduce la violazione anche delle disposizioni del CCNL Industria Elettromeccanica nella parte in cui prevedono il superamento del periodo di comporto, non avendo la decisione impugnata escluso, nel computo del periodo di malattia, le assenze per malattia professionale.
2. Con il secondo motivo, è dedotta nullità della sentenza per omessa pronuncia in relazione alla violazione dell'art. 112, co. 2, c.p.c, non essendo stato deciso in ordine alla illegittimità e/o illiceità e comunque inefficacia del licenziamento, ancorché tale illegittimità fosse stata oggetto del giudizio di primo grado, nonché delle censure interposte alla sentenza di prime cure, contestandosi la valutazione delle certificazioni mediche prodotte che sarebbe stata, ove correttamente effettuata, idonea ad escludere la conclusione del superamento del comporto in relazione a patologie contratte durante il rapporto di lavoro.
3. Con il terzo motivo, si ascrive alla sentenza impugnata l'omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, ai sensi dell'art. 360, n. 5, c.p.c., ed, in particolare, della documentazione prodotta, che asseritamente provava la sussistenza del mobbing e delle malattie professionali aventi genesi lavorativa e l'illegittimità del licenziamento, con conseguente diritto al risarcimento dei danni, alla costituzione di rendita vitalizia, ovvero, in subordine, all'indennizzo di somma in conto capitale.
Si censura la mancata valutazione delle risultanze documentali acquisite al processo, con riferimento anche alla c.t.p. medica depositata presso la Corte territoriale in data 17.12.2014 dall'INAIL, attestante incontrovertibilmente la natura e la genesi lavorativa delle patologie sofferte dal ricorrente a causa delle mansioni svolte, nonché la nocività dell'ambiente lavorativo in cui lo stesso aveva prestato la propria attività lavorativa. Si rileva anche l'erroneo mancato espletamento della c.t.u. contabile quanto alle differenze retributive e permessi non retribuiti, nonché alle differenze a titolo di TFR oggetto di richiesta.
4. Il primo motivo è connotato da assoluta genericità delle critiche mosse alla decisione impugnata. Peraltro, la decisione si pone in linea con i principi reiteratamente affermati da questa Corte in tema di responsabilità del datore di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c. c. e di riparto dell'onere della prova, principi secondo i quali tale norma "non configura un'ipotesi di responsabilità oggettiva, in quanto la responsabilità del datore di lavoro - di natura contrattuale - va collegata alla violazione degli obblighi di comportamento imposti da norme di legge o suggeriti dalle conoscenze sperimentali o tecniche del momento; ne consegue che incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno (cfr. Cass. 19.10.2018 n. 26495, Cass. 8.10.2018 n. 24742 e , da ultimo, Cass. 12808/2018).
5. In tema di malattie ed eziologia plurifattoriali, la prova della causa di lavoro o della speciale nocività dell'ambiente di lavoro, che grava sul lavoratore, deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la mera possibilità dell'origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un rilevante grado di probabilità (cfr. Cass. 8.5.2013 n. 10818). Né la riconosciuta dipendenza delle malattie da una "causa di servizio" implica necessariamente, o può far presumere, che gli eventi dannosi siano derivati dalle condizioni di insicurezza dell'ambiente di lavoro, potendo essi dipendere piuttosto dalla qualità intrinsecamente usurante della ordinaria prestazione lavorativa e dal logoramento dell'organismo del dipendente esposto ad un lavoro impegnativo per un lasso di tempo più o meno lungo, restandosi così fuori dall'ambito dell'art. 2087 cod. civ., che riguarda una responsabilità contrattuale ancorata a criteri probabilistici e non solo possibilistici (cfr. Cass. 29.1.2013 n. 2038).
6. Infine, le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell'art. 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinchè l'assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un'origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. (cfr. Cass. 27.6.2017 n. 15972). Ciò che nella specie è stato escluso dal giudice del gravame con motivazioni che, come sopra precisato, non sono state idoneamente contrastate dai rilievi mossi in questa sede.
7. Quanto al secondo motivo, è sufficiente rilevare che non si specificano i motivi contenuti nell'atto di gravame, pur assumendosi che la richiesta relativa al licenziamento era stata reiterata e che la sentenza impugnata era stata censurata anche in ordine a tale capo, e tale carenza si riflette nella mancanza di specificità del motivo che ne determina l'inammissibilità. 
8. Il terzo motivo, per come formulato, si colloca all'esterno dell'area dell'art. 360, n. 5, cod. proc. civ., perché sconfina in valutazioni di merito, e perché - quanto al vizio di omesso esame - esso è altresì dedotto in modo irrituale: infatti, sempre alla luce di Cass. S.U. n. 8053/14, in tanto può sussistere il vizio di omesso esame d'un fatto decisivo che sia stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ.) in quanto si tratti d'un fatto processualmente esistente, per esso intendendosi non un fatto storicamente accertato, ma un fatto che in sede di merito sia stato allegato dalle parti: tale allegazione può risultare già soltanto dal testo della sentenza impugnata (e allora si parlerà di rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza del dato extra-testuale). Sempre le S.U. precisano gli oneri di allegazione e produzione a carico del ricorrente ai sensi degli artt. 366, comma 1, n. 6 e 369, comma 2, n. 4 cod. proc. civ.: il ricorso deve indicare chiaramente non solo il fatto storico del cui mancato esame ci si duole, ma anche il dato testuale (emergente dalla sentenza) o extra-testuale (emergente dagli atti processuali) da cui risulti la sua esistenza, nonché il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e spiegarne, infine, la decisività.
9. Nel caso di specie tali oneri di allegazione e produzione non risultano rispettati e ci si duole, tra l'altro, dell'omesso esame di documenti e non di fatti in sé, sollecitando una differente lettura d’un documento, il che presupporrebbe un accesso diretto agli atti medesimi e una loro delibazione in punto di fatto, operazione incompatibile con il giudizio innanzi a questa Corte Suprema (Cass. 4534/2018).
10. Alle svolte considerazioni consegue la declaratoria di inammissibilità del ricorso.
11. Le spese del presente giudizio di legittimità sono poste a carico del ricorrente in base alla regola della soccombenza e sono liquidate come da dispositivo in misura differenziata nei confronti di ciascun controricorrente, avuto riguardo alla circostanza che solo il terzo motivo è estensibile all'INAIL e che ciò rileva ai fini della determinazione degli importi per compensi professionali, commisurati alla difesa sostenuta.
12. Sussistono le condizioni di cui all'art. 13, comma 1 quater, dPR 115 del 2002.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte dichiara l'inammissibilità del ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 3500,00 per compensi professionali, in favore della società controricorrente ed in euro 200,00 per esborsi ed in euro 3000,00 per compensi professionali in favore dell'INAIL, nonché, in favore di entrambi, degli accessori di legge sugli importi suddetti e delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell'art. 13, comma Ibis, del citato D.P.R..
Così deciso in Roma, in data 5 dicembre 2018