Cassazione Penale, Sez. 4, 12 marzo 2019, n. 10857 - Infortunio durante i lavori sulla copertura di un capannone. Quando si può parlare di lavoro in quota


 

 

Presidente: DI SALVO EMANUELE Relatore: PAVICH GIUSEPPE Data Udienza: 07/02/2019

 

Fatto

 


1. La Corte d'appello di Roma, in data 25 settembre 2017, ha confermato la condanna emessa dal Tribunale di Rieti, il 22 settembre 2014, nei confronti di S.T., quale imputato del delitto di lesioni personali colpose, con violazione di norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro, in danno di M.DA. (oltreché di W.C., che però a differenza del M.DA. riportò lesioni guaribili in meno di 20 giorni e non presentò querela, con conseguente improcedibilità del reato).
L'addebito viene mosso al S.T. nella sua qualità di amministratore unico della ditta Rielco S.r.l. e di datore di lavoro del M.DA. e del W.C..
L'episodio si verificò in Rieti il 3 agosto 2010: i due lavoratori stavano lavorando sulla copertura di un capannone industriale, per la realizzazione di un impianto fotovoltaico; una parte della copertura del capannone era realizzata in onduline e non era perciò praticabile; vi erano unicamente delle palanche in legno poggiate sulle orditure in ferro dei pannelli fotovoltaici. Essendo passati su una porzione di copertura in ondulina per recuperare una bobina di cavo, i due operai sfondavano l'ondulina e cadevano da un'altezza di 5-5 metri, producendosi le lesioni di cui in rubrica.
Si contesta al S.T. di non avere indicato, nel Piano operativo di sicurezza (c.d. P.O.S.) le misure di prevenzione e protezione adottate e i dispositivi di protezione individuale da adottare per prevenire ì rischi di sfondamento della copertura suddetta.
La Corte di merito, nel confermare integralmente la sentenza di primo grado, ha ritenuto che fosse applicabile al caso di specie la disciplina prevista per il "lavoro in quota" (svolto a un'altezza superiore a 2 metri) e ha censurato l'inadeguatezza del P.O.S. per l'assenza di un'adeguata analisi del rischio di cadute, escludendo poi che la condotta dei lavoratori potesse qualificarsi come abnorme e imprevedibile. La responsabilità del S.T. é stata confermata pur a fronte della delega da lui conferita al preposto F..
2. Avverso la prefata sentenza ricorre il S.T., per il tramite dei suoi difensori di fiducia. Il ricorso é affidato a sette motivi di lagnanza.
Con il primo motivo il ricorrente denuncia vizio di motivazione della sentenza impugnata, atteso che il mero riferimento adesivo alla motivazione della sentenza di primo grado ha fatto sì che la Corte di merito non abbia considerato alcuni aspetti evidenziati nell'atto di appello, ossia la questione della nozione di "lavoro in quota", la questione della delega di funzioni e della posizione di garanzia e la questione del nesso di causalità tra la condotta e l'evento.
Nel secondo motivo di ricorso, in cui si lamenta violazione di legge, si affronta la prima delle suddette questioni, ossia quella della nozione di "lavoro in quota": nozione non applicabile nella specie, secondo il ricorrente, atteso che l'attività lavorativa non si svolgeva a più di due metri di altezza rispetto a un piano stabile, ma su una copertura piana, il cui piano di calpestio era qualificabile esso stesso come "piano stabile".
Con il terzo motivo di lagnanza, la questione della nozione di "lavoro in quota" viene affrontata sotto il profilo del vizio di motivazione: la sentenza impugnata erra nell'assimilare la copertura del capannone a un tetto, a fronte delle prove fornite dal ricorrente in sede d'appello.
Con il quarto motivo, il deducente contesta, sotto il profilo della violazione di legge, l'assunto della Corte di merito che considera inadeguato il P.O.S. in riferimento all'analisi del rischio di cadute: premesso che non ricorreva nella specie la nozione di "lavoro in quota", l'asserita inadeguatezza del P.O.S. doveva essere valutata in concreto le non in termini assoluti e astratti; inoltre il P.O.S. era stato redatto dal responsabile della sicurezza, di cui l'amministratore delegato si era avvalso; infine, la sentenza impugnata non indica quale sarebbe stata la condotta esigibile del S.T., né quale sarebbe stato il contenuto "adeguato" del documento.
Con il quinto motivo si denuncia vizio di motivazione in riferimento al nesso di causalità tra condotta ed evento: si sostiene che la Corte di merito ha omesso di considerare che la condotta dei due lavoratori fu abnorme, eccezionale e imprevedibile, atteso che lo svolgimento dell'attività lavorativa (ivi compresa l'operazione di recupero della bobina di cavo) non richiedeva in alcun modo che i due operai salissero sull'ondulina.
Con il sesto motivo si denuncia vizio di motivazione in relazione alla delega di funzioni da parte del S.T. al preposto F. e alla conseguente insussistenza della posizione di garanzia dell'odierno ricorrente: la sentenza impugnata ha liquidato come irrilevanti le due questioni poste dalla difesa nell'atto di appello, cosi incorrendo nel denunciato vizio motivazionale.
Con il settimo motivo si denunciano violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio e al diniego delle attenuanti generiche, che la Corte di merito ha motivato in modo inadeguato.
 

 

Diritto

 


1. Il primo motivo é manifestamente infondato, oltreché generico, atteso che esso non si confronta con la puntuale motivazione della sentenza impugnata relativa ai tre aspetti indicati dal ricorrente, ossia la riferibilità al caso di specie della nozione di lavoro in quota, quella della delega di funzioni e della posizione di garanzia e quella del nesso di causalità tra condotta ed evento. Aspetti in merito ai quali, come potrà vedersi in relazione ai motivi di seguito esaminati, la Corte di merito offre una motivazione corretta ed esaustiva.
A proposito della nozione di "lavoro in quota", in ordine alla quale il ricorrente articola il secondo e il terzo motivo (sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio di motivazione), le censure ivi articolate si appalesano infondate.
Erra il ricorrente nell'escludere detta nozione assumendo che quello su cui i due operai stavano lavorando fosse un piano stabile di calpestio e non abbisognasse di particolari misure volte a prevenire le cadute: vi é al riguardo un dato testuale che risulta dirimente, costituito dalle disposizioni di cui al Titolo IV, capo II del D.Lgs. n. 81/2008, recante Norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro nelle costruzioni e nei lavori in quota, ed in particolare da quanto stabilito dall'art. 148, in base al quale «Prima di procedere alla esecuzione di lavori su lucernari, tetti, coperture e simili, deve essere accertato che questi abbiano resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali di impiego»; e, «nei caso in cui sia dubbia tate resistenza, devono essere adottati i necessari apprestamenti atti a garantire la incolumità delle persone addette, disponendo, a seconda dei casi, tavole sopra le orditure, sottopalchi e facendo uso di idonei dispositivi di protezione individuale anticaduta».
Dunque é evidente la riferibilità della nozione di "lavoro in quota" anche alle prestazioni eseguite su coperture del tipo di quella ove avvenne l'infortunio per cui é processo.
Ne deriva, per converso, l'irrilevanza, oltreché l'infondatezza, dell'assunto in base al quale non si sarebbe potuto parlare, nella specie, di "lavoro in quota" non trattandosi di un tetto spiovente ma di una copertura piana: in realtà la presenza di una parziale copertura in ondulina del capannone (alto 5-6 metri circa), inidonea a sopportare il peso dei lavoratori, rendeva necessarie le misure di protezione e prevenzione degli infortuni derivanti da lavori in quota. Di tal che, anche nel caso di specie - come correttamente puntualizzato dalla Corte distrettuale - trova applicazione la nozione suddetta, che del resto l'art. 107 del Testo Unico dei 2008 riferisce a lavori comportanti rischi di caduta da un'altezza superiore ai due metri, e che é nozione di applicazione generale, al punto di non essere limitata al settore delle costruzioni edilizie, riguardando tutte le attività in quota che possano determinare cadute dall'alto dei lavoratori (cfr. Sez. 4, n. 21268 del 03/10/2012 - dep. 2013, Ciraci' e altri, Rv. 255277).
Ne deriva inoltre l'infondatezza, anche, del quarto motivo di ricorso: essendo infatti configurabile la nozione di "lavoro in quota", il piano operativo di sicurezza (di cui al combinato disposto dell'art. 17, comma 1 lettera A, dell'art. 89, comma 1 lettera H e dell'allegato XV del D.Lgs. n. 81/2008) doveva necessariamente recare specifica menzione delle misure preventive e protettive, nonché dei dispositivi di protezione individuale forniti ai lavoratori; l'assenza di tali indicazioni, rilevante ai fini del rischio concretizzatosi, é stata specificamente valutata dalla Corte di merito come elemento deponente per l'’inidoneità del piano operativo di sicurezza predisposto dall'impresa (per un caso in parte analogo di inidoneità del P.O.S. che non contemplava specifiche misure contro il rischio di caduta attraverso lucernari, vds. Sez. 4, n. 45862 del 14/09/2017, Prina, Rv. 271026).
Manifestamente infondato é il quinto motivo di lagnanza. Ed invero, occorre muovere dal principio affermato dalla sentenza n. 38343/2014 (Espenhahn ed altri, c.d. sentenza Thyssenkrupp), in base al quale, in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, é necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia (negli stessi termini vds. anche Sez. 4, n. 15124 del 13/12/2016 - dep. 2017, Gerosa e altri, Rv. 269603; cfr. in termini sostanzialmente identici Sez. 4, n. 15174 del 13/12/2017 - dep. 2018, Spina e altro, Rv. 273247).
Sulla scorta di questo principio si é altresì affermato che, in tema di causalità, la colpa del lavoratore, concorrente con la violazione della normativa antinfortunistica ascritta al datore di lavoro ovvero al destinatario dell'obbligo di adottare le misure di prevenzione, esime questi ultimi dalle loro responsabilità solo allorquando il comportamento anomalo del primo sia assolutamente estraneo al processo produttivo o alle mansioni attribuite, risolvendosi in un comportamento del tutto esorbitante ed imprevedibile rispetto al lavoro posto in essere, ontologicamente avulso da ogni ipotizzabile intervento e prevedibile scelta del lavoratore (Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, Guida, Rv. 263386).
Nel caso di specie, l'infortunio é avvenuto mentre i lavoratori erano impegnati in un'attività propria delle mansioni loro affidate e ponevano in essere una condotta tutt'altro che imprevedibile, circostanza che di fatto emerge sia dalla tipologia di lavoro affidata agli operai (come opportunamente rilevato dalla Corte di merito), sia dallo stesso impiego di palanche di legno appoggiate tra le travi in metallo della struttura, da cui é agevole ricavare in via logica che la pur inidonea precauzione adottata per evitare il rischio di cadute da sfondamento rendeva evidente la consapevolezza di tale rischio da parte della società di cui il S.T. era legale rappresentante. 
E' del pari manifesta l'infondatezza del sesto motivo di ricorso, per la dirimente considerazione che si versa nella specie in materia di valutazione dei rischi: materia che, come noto, non é suscettibile di delega da parte del datore di lavoro a mente dell'art. 17, comma 1, lettera A, D.Lgs. n. 81/2008 (disposizione richiamata dall'art. 89, comma 1, lettera H, dello stesso testo unico, a proposito della nozione di "piano operativo di sicurezza"). Ne consegue che non può in alcun modo parlarsi di traslazione della posizione di garanzia in capo ad altri soggetti, ivi compreso il preposto indicato dal ricorrente, atteso che in subiecta materia vale il principio generale in base al quale il datore di lavoro, essendo soggetto responsabile della sicurezza, ha l'obbligo non solo di predisporre le misure antinfortunistiche, ma anche di sorvegliare continuamente sulla loro adozione da parte degli eventuali preposti e dei lavoratori, in quanto, in virtù della generale disposizione di cui all'art. 2087 cod. civ., egli é costituito garante dell'incolumità fisica dei prestatori di lavoro (ex multis Sez. 4, n. 4361 del 21/10/2014 - 2015, Ottino, Rv. 263200).
E', infine, infondato l'ultimo motivo di lagnanza, riguardante il trattamento sanzionatorio e il diniego delle attenuanti generiche. Ed invero, avuto riguardo ai limiti edittali derivanti dall'applicazione dei contestati commi 3 e 4 dell'art. 590 cod.pen., la pena confermata in appello é largamente inferiore alla media edittale, con la conseguenza che non é necessaria una specifica e dettagliata motivazione da parte del giudice, se il parametro valutativo é desumibile dal testo della sentenza nel suo complesso argomentativo e non necessariamente solo dalla parte destinata alla quantificazione della pena (Sez. 3, n. 38251 del 15/06/2016, Rignanese e altro, Rv. 267949); nella specie, il riferimento alla particolare gravità del fatto e delle inadempienze nella valutazione del rischio sul P.O.S. trova ampia conferma nell'intero percorso argomentativo della sentenza e soddisfa, pertanto, le esigenze motivazionali nei termini indicati dalla giurisprudenza. Quanto poi al diniego delle attenuanti generiche, non é necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma é sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (cfr. Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899); é perciò sufficiente anche il richiamo alla gravità del fatto, in applicazione dei criteri generali di cui all'art. 133 cod.pen..
2. Poiché però non tutti i motivi articolati dal ricorrente possono dirsi manifestamente infondati, e tenuto peraltro conto dell'assenza di ragioni evidenti di proscioglimento nel merito (cfr. Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274), deve constatarsi che il reato, in relazione all'epoca di accertamento e all'assenza di fatti sospensivi, è ormai prescritto.
Conseguentemente la sentenza impugnata va annullata senza rinvio, agli effetti penali, per essere il reato estinto per prescrizione. Il ricorso va invece rigettato agli effetti civili.
 

 

P.Q.M.

 


Annulla senza rinvio, agli effetti penali, la sentenza impugnata perché il reato é estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili.
Così deciso in Roma il 7 febbraio 2019.