Cassazione Penale, Sez. 4, 02 aprile 2019, n. 14270 - Caduta all'interno di un tombino chiuso male. Mancanza di adeguata valutazione dei rischi relativi al luogo di lavoro


Presidente: PICCIALLI PATRIZIA Relatore: RANALDI ALESSANDRO Data Udienza: 17/01/2019

 

FattoDiritto

 

1. Con sentenza del 23.10.2017 la Corte di appello di Firenze, per quanto qui interessa, ha confermato la declaratoria di responsabilità di O.C. per il reato di lesioni personali colpose cagionate a A.Y., derivanti dall'infortunio sul lavoro avvenuto a Firenze il 27.11.2009 con le seguenti modalità: il lavoratore, nell'atto di accatastare il materiale appena tolto dai locali della banca committente, scavalcando una catenella e ponendo il piede su un pozzetto chiuso male, cadeva con la gamba dentro il tombino, procurandosi gravi lesioni. L'area dell'infortunio era antistante l'ingresso secondario della banca: si trattava di una proprietà privata di terzi nella quale era situata una fossa biologica a servizio del condominio prospiciente l'area.
1.1. L'addebito nei confronti del O.C., quale datore di lavoro dell'infortunato, era quello di non essersi coordinato con il committente in merito ai rischi specifici dell'attività svolta, non prevedendo adeguate procedure di lavorazione per lo smaltimento del materiale ai sensi dell'art. 26 d.lgs. n. 81/2008.
1.2. La Corte territoriale, pur escludendo nel caso la configurabilità di profili di colpa specifica connessi con la violazione dell'art. 26 cit. nei confronti del rappresentante della ditta committente, E.A., ha ritenuto la colpa del ricorrente perché costui, presente in loco durante le operazioni ed interpellato dal dipendente circa l'opportunità di accatastare il materiale in zona estranea alla banca, avrebbe dovuto controllare il sito al fine di accertarne l'idoneità e l'assenza di situazioni di rischio.
2. Avverso tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore del O.C., lamentando che dalla lettura del capo di imputazione si evince come al ricorrente non fosse stato contestato di aver tenuto una generica condotta colposa, ma unicamente di non aver osservato l'art. 26 del d.lgs. n. 81/2008, in relazione alla omessa predisposizione del documento di valutazione dei rischi connessi all'attività lavorativa appaltata. Nonostante la Corte di appello abbia ritenuto che la detta attività non rientrasse nell'ambito di applicazione dell'art. 26 cit., ha ugualmente condannato l'imputato per aver omesso il controllo del sito di accatastamento del materiale sotto il profilo della valutazione dei rischi, in ragione della sua posizione di datore di lavoro del dipendente infortunato, e quindi di soggetto titolare della posizione di garanzia; tale omissione, tuttavia, non era stata contestata nel capo di imputazione.
Rileva, quindi, l'erronea applicazione della norma incriminatrice di cui all'art. 590, comma 3, cod. pen.; l'inosservanza delle norme processuali di cui agli artt. 516, 518 e 522 cod. proc. pen. per difformità tra contestazione e sentenza, in uno con la manifesta illogicità della motivazione.
3. Il ricorso si fonda su un presupposto erroneo: che la sentenza abbia addebitato al prevenuto una condotta di colpa generica, diversa da quella contestata nel capo di imputazione.
Ma a ben vedere non è così.
Il nucleo della contestazione nei confronti del datore di lavoro è sempre stato quello di non aver valutato adeguatamente i rischi relativi al luogo di lavoro. Ne deriva che appare irrilevante lo specifico riferimento all'art. 26 d.lgs. n. 81/2008 (la cui esclusione, peraltro, è valsa soltanto per il proscioglimento del soggetto committente), in quanto, in definitiva, al datore di lavoro è stato correttamente addebitato - sulla scorta di quanto contestato in fatto - di non aver valutato adeguatamente il sito dove si stava svolgendo l'attività lavorativa, al fine di accertarne l'idoneità e le situazioni di rischio, obbligo cautelare che è sempre a carico del datore di lavoro ai sensi della norma generale di cui all'art. 15 d.lgs. n. 81/2008, che impone alla figura datoriale di valutare tutti i rischi presenti nei luoghi di lavoro nei quali sono chiamati ad operare i dipendenti, ovunque essi siano situati (cfr. Sez. 4, n. 45808 del 27/06/2017, Catrambone, Rv. 27107901).
4. L'infondatezza del ricorso non impedisce di rilevare d'ufficio l'intervenuta causa estintiva del reato per cui si procede, essendo spirato il relativo termine di prescrizione massimo pari ad anni sette e mesi sei. Deve rilevarsi che il ricorso in esame non presenta profili di inammissibilità, per manifesta infondatezza delle doglianze ovvero perché basato su censure non deducibili in sede di legittimità. Pertanto, sussistono i presupposti, discendenti dalla intervenuta instaurazione di un valido rapporto processuale di impugnazione, per rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen. maturate, come nel caso di specie, successivamente rispetto alla sentenza impugnata (la sentenza di secondo grado è stata resa in data 23.10.2017, mentre il termine di prescrizione, tenuto conto delle sospensioni intervenute - per un totale di 5 mesi e 18 giorni - risulta spirato il 14.11.2017).
Si osserva, infine, che non ricorrono le condizioni per una pronuncia assolutoria di merito, ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen., non potendosi constatare con evidenza dagli atti l'insussistenza del fatto-reato.
5. Si impone, pertanto, agli effetti penali, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, per essere il reato estinto per prescrizione. 
Il ricorso deve essere rigettato agli effetti civili.
 

 

P.Q.M.
 

 

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, agli effetti penali, perché il reato è estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili.
Così deciso il 17 gennaio 2019