Cassazione Penale, Sez. 4, 08 maggio 2019, n. 19381 - Inatteso sganciamento dell'imbracatura e caduta dall'altezza di 7 metri. Nessuna responsabilità del datore di lavoro nel caso abbia predisposto tutte le misure di sicurezza adeguate


 

L'inatteso sganciamento dell'imbracatura è stata la causa assorbente che ha determinato l'evento lesivo. Trattasi di causa non solo imprevedibile, ma anche inevitabile, giacché il contesto della prestazione del lavoro non poteva certo consentire al titolare della posizione di garanzia una persistente attività di costante verifica dell'utilizzo dello strumentario di sicurezza.

Una eventuale colpa del datore di lavoro va accertata, nel senso che va individuata la regola di condotta generica o specifica che si assume violata e, rispetto a tale norma, in ossequio ai principi generali vigenti in materia, va verificata la sussistenza dei presupposti della prevedibilità e della evitabilità del fatto dannoso verificatosi.
Nel caso di specie non risulta individuata - nè individuabile- una regola cautelare violata che possa ricollegarsi all'evento, essendo stato accertato in sede di merito che il datore di lavoro aveva dotato il lavoratore del necessario presidio di sicurezza e informandolo/formandolo al riguardo in maniera adeguata (Sez. 4, n. 10712 del 2012, Mastropietro, n.m.).

Deve rammentarsi che la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante (Sez. 4, n. 22837 del 21/04/2016, Visconti, Rv. 267319), imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso.


 

Presidente: PICCIALLI PATRIZIA Relatore: DAWAN DANIELA Data Udienza: 22/01/2019

 

 

 

Fatto

 

 

 

1. Con sentenza del 21/09/2017, la Corte di appello di Venezia ha confermato la pronuncia del Tribunale di Verona che - ritenuto A.G. responsabile del reato di cui agli artt. 40 e 590 cod. pen., aggravato dalla violazione della disciplina antinfortunistica sui luoghi di lavoro - lo condannava alla pena di mesi 10 di reclusione e al risarcimento del danno alla parte civile, da liquidarsi in altra sede, disponendo in favore di questa una provvisionale di euro 150.000,00.
2. Il committente, M.C., affidava, con contratto di appalto, lo svolgimento di lavori di fornitura "chiavi in mano" di un impianto fotovoltaico ad A.F., titolare dell'impresa Elettrodomus, il quale li subappaltava alla Servizio Tecno Elettrici di A.G. alle cui dipendenze lavorava, in qualità di operaio, M.R..
Nel corso di una fase della lavorazione, questi poggiava erroneamente il piede su un cupolino ondulato, non calpestabile che si rompeva provocandone la caduta da un'altezza di 7 metri. Dall'infortunio derivavano gravi conseguenze traumatiche al lavoratore, comportanti un'invalidità permanente valutata dall'INAIL in ragione del 40%. Il fatto avveniva in Oppeano il 26/04/2011.
2. All'imputato viene, in particolare, ascritta la colpa generica e quella specifica per la violazione delle norme sulla prevenzione degli infortuni sul lavoro in quanto, nel corso dei lavori di installazione e fissaggio staffe e di supporti metallici per pannelli fotovoltaici su tetto di capannone ad un'altezza di circa 7 metri, venivano installate al centro delle travi "a Y" che seguivano la curvatura dei cupolini ondulati non calpestagli in assenza di: validi dispositivi collettivi di protezione anticaduta posizionati sul tetto-passerella; idonei e sicuri sistemi di ancoraggio (linee vita) per i DPI (imbracature) indossati dai lavoratori presenti sul tetto; un reale e specifico DVR relativo alle attività di installazione dell'impianto fotovoltaico tanto dell'impresa appaltatrice che dell'impresa subappaltatrice.
In particolare, M.R., intento a montare e fissare le staffe sul tetto del capannone dell'impresa committente, per passare al compagno di lavoro M.Z. l'unico trapano a loro disposizione in quel momento, poggiava il piede su un cupolino retrostante collocato fuori dell'area di sostegno assicurata dal bordo della trave il quale cedeva a causa del suo peso determinandone la perdita di equilibrio e la caduta.
3. Avverso la prefata sentenza, l'imputato interpone, a mezzo del difensore, ricorso con cui eleva tre motivi.
4.1. Con il primo, deduce vizio di motivazione con riguardo alla sua ritenuta responsabilità penale, anche per contrasto ed inconciliabilità rispetto ad altre, difformi, decisioni sugli stessi fatti nell'ambito dello stesso procedimento. Il coimputato A.F., all'esito di giudizio abbreviato, è stato assolto, con sentenza divenuta irrevocabile, per insussistenza del fatto. In detto provvedimento il Tribunale di Verona afferma che «la condotta del lavoratore M.R., nel svincolare l'ancoraggio d'imbracatura ai sistema di trattenuta, risulta del tutto anomala, imprevedibile, eccezionale ed abnorme». A siffatto esito si perveniva per le risultanze in atti, compendiate dalle s.i.t. delle persone poi sentite anche nel dibattimento a carico del A.G. e dalle informazioni, assunte nell'ambito di investigazioni difensive, dal dipendente del A.F., tale T.M., che confermava la versione di M.Z. sulla presenza di tre funi di ancoraggio in loco, sufficienti stante che ogni fune ancorava due persone e i lavoratori, nell'occasione, erano solo cinque. Riguardo all'anzidetta sentenza assolutoria, la Corte territoriale omette qualsiasi motivazione. L'impugnata pronuncia è poi contraddittoria laddove reputa attendibili le affermazioni della persona offesa, costituitasi parte civile, in quanto coincidenti con la testimonianza del funzionario dello SPISAL e comprovate dalle fotografie da questi scattate in occasione del sopraluogo nell'immediatezza dell'incidente. Portatore di un rilevante interesse economico, il M.R, ha reso in dibattimento dichiarazioni contraddittorie al fine di giustificare l'unico dato certo, emerso sia in fase di indagini che durante l'istruttoria dibattimentale, e cioè il fatto che egli si era volontariamente sganciato dal presidio anticaduta.
Si sottolinea che i dispostivi forniti dal A.G. - lo stesso kit salvavita utilizzato dalla persona offesa nel corso di altre installazione di pannelli solari - erano risultati conformi anche al vaglio del tecnico SPISAL.
La contraddittorietà dell'impugnata sentenza risiede nel fatto che, pur non negando l'evidenza di un interesse economico della vittima dell'infortunio, apoditticamente ritiene non svalutabile il suo racconto, omettendo di dar conto di tutte le incongruenze evidenziate nell'atto di appello.
Né la sentenza motiva sulla maggiore attendibilità di un teste rispetto ad un altro.
4.2. Con il secondo motivo, si eccepisce la carenza di motivazione in punto di trattamento sanzionatorio (di cui si invoca la riduzione) e il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. In particolare, si evidenzia che al A.G. è stata applicata una pena superiore alla media edittale e in misura prossima al massimo stabilito per il reato in ordine al quale ha riportato la condanna.
4.3. Il terzo motivo afferisce alla provvisionale in relazione alla quale ci si duole del vizio di motivazione: la Corte del merito ha frettolosamente ritenuto la sua quantificazione "prudenziale", erroneamente liquidando come meramente ipotetiche le legittime rimostranze dell'imputato. Avrebbe invece dovuto verificare il quantum relativo all'indennizzo percepito dall'infortunato sotto forma di rendita INAIL che, stante il grado di menomazione superiore al 16%, riguarda in parte anche il danno non patrimoniale.
 

 

Diritto

 


1. Il ricorso è fondato e la sentenza deve essere annullata senza rinvio.
2. Erroneamente la Corte distrettuale non ha dato conto della sentenza del Tribunale di Verona divenuta irrevocabile il 15/03/2014 con cui il coimputato A.F., all'esito di giudizio abbreviato, è stato assolto per insussistenza del fatto. In detto provvedimento, il citato Tribunale afferma che «la condotta del lavoratore M.R., nel svincolare l'ancoraggio d’imbracatura al sistema di trattenuta, risulta del tutto anomala, imprevedibile, eccezionale ed abnorme» e che le dichiarazioni della persona offesa - parte civile nel presente procedimento - sono smentite dai documenti acquisiti dal tecnico dello SPISAL in occasione del sopralluogo, delle foto contenute nel fascicolo fotografico e dalla dichiarazioni di M.Z. il quale confermava che tutti i lavoratori erano imbragati e assicurati alle funi anticaduta, dichiarando altresì che lo stesso infortunato, con cui lavorava in coppia, in corso d'opera era sempre ancorato e di non essersi accorto del momento in cui lo stesso si era svincolato. La sentenza del Tribunale di Verona ricorda anche che il verbale dell'infortunio redatto dai Carabinieri intervenuti per primi nell'immediatezza del fatto dà atto che M.R., sul tetto unitamente ad altri colleghi di lavoro e intento al fissaggio delle staffe di supporto sui relativi cavi in cemento armato, «si sganciava dal cavo di ritenuta ed inavvertitamente calpestava la copertura in fibro-cemento non portante» che ne determinava l'improvvisa caduta; e che l'accertamento del tecnico dello SPISAL, documentato dalle foto, rileva la presenza sul tetto del capannone, di balaustre e parapetti anticaduta in acciaio ancorato al cemento armato con passarelle posti lungo il perimetro del tetto per evitare cadute nel vuoto verso l'esterno; che sui paletti di acciaio dei parapetti erano ancorate delle funi, quali dispositivi di ritenuta anticaduta, che si stendevano sul tetto in modo perpendicolare rispetto ai cupolini in eternit. Evidenza inoltre come lo stesso infortunato non appaia attendibile allorché afferma prima che le funi non consentivano di essere utilizzate per poi precisare che le stesse erano invece utilizzate dagli altri operai della Elettrodomus.
Ebbene, posto che tra le sentenze divenute irrevocabili che possono essere acquisite ai fini della prova del fatto in esso accertato, ai sensi dell'art. 238-bis cod. proc. pen., rientrano anche le sentenze emesse a seguito di giudizio abbreviato o di patteggiamento (Sez. 1, n. 50706 del 05/06/2014, Macri', Rv. 261480), va innanzitutto rilevato che, nel caso in esame, il giudizio ordinario ed il giudizio abbreviato originavano da un unico procedimento, oggetto di separazione processuale solo in ragione della richiesta del coimputato A.F. di definizione alternativa; sicché il patrimonio probatorio e valutativo era, fatte salve le peculiarità delle regole di acquisizione dibattimentale, pressoché identico in entrambi i procedimenti. Pertanto, il giudizio abbreviato - definito con la sentenza impugnata - verteva sui medesimi fatti contestati nel giudizio ordinario, avvenuti nella medesima realtà territoriale. Pacifico, altresì, che le sentenze divenute irrevocabili, acquisite ai sensi dell'art. 238-bis cod. proc. pen., costituiscono prova dei fatti considerati come eventi storici (Sez. F - n. 56596 del 03/09/2018, PG C/ Balsebre Nicola Frane., Rv. 274753; Sez. 4, n. 12175 del 03/11/2016, dep. 2017, Bordogna, Rv. 270384), pur dovendo le risultanze di un precedente giudicato penale essere valutate alla stregua della regola probatoria di cui all'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., ovvero come elemento di prova la cui valenza, per legge non autosufficiente, deve essere corroborata da altri elementi di prova che lo confermino ( Sez. 5, n. 23226 del 12/02/2018, Iandolo e altri, Rv. 273207; Sez. 1, n. 4704 del 08/01/2014, Adamo, Rv. 259414), attraverso la verifica dei necessari riscontri che possono consistere in elementi di prova sia rappresentativa che logica (Sez. 6, n. 42799 del 30/09/2008, Campesan, Rv. 241860).
Sotto gli anzidetti profili la motivazione della sentenza impugnata si appalesa del tutto carente.
3. È nota la giurisprudenza di rigore della Corte di legittimità in tema di rilevanza della colpa del lavoratore ai fini e per gli effetti di escludere o meno l'addebito di responsabilità a carico del datore di lavoro. Vale il principio in forza del quale, di norma, la responsabilità del datore di lavoro non è esclusa dai comportamenti negligenti, trascurati, imperiti del lavoratore, che abbiano contribuito alla verificazione dell'infortunio. Ciò in quanto al datore di lavoro è imposto (anche) di esigere il rispetto delle regole di cautela da parte del lavoratore: cosicché il datore di lavoro è "garante" anche della correttezza dell'agire del lavoratore. Per l'effetto, la colpa del datore di lavoro non è esclusa da quella del lavoratore e l'evento dannoso è imputato al datore di lavoro, in forza della posizione di garanzia di cui ex lege è onerato, sulla base del principio dell'equivalenza delle cause vigente nel sistema penale (art. 41, comma 1, cod. pen.). Per mitigare gli effetti del richiamato principio, vale peraltro il concorrente principio dell'interruzione del nesso causale, esplicitato normativamente dall'art. 41, comma 2, cod. pen., in forza del quale, facendosi eccezione proprio al concorrente principio dell'equivalenza delle cause, quella sopravvenuta del tutto eccezionale ed imprevedibile, in alcun modo legata a quelle che l'hanno preceduta, finisce con l'assurgere a causa esclusiva di verificazione dell'evento.
In tal caso, anche la condotta colposa del datore di lavoro che possa essere ritenuta antecedente remoto dell'evento dannoso, essendo intervenuto un comportamento assolutamente eccezionale ed imprevedibile del lavoratore, finisce con l'essere neutralizzata e privata di qualsivoglia rilevanza efficiente rispetto alla verificazione di un evento, che, per l'effetto, è addebitabile materialmente e giuridicamente al lavoratore.
Per interrompere il nesso causale occorre, comunque, un comportamento del lavoratore che sia "anomalo" ed "imprevedibile" e, come tale, "inevitabile"; cioè un comportamento che ragionevolmente non può farsi rientrare nell'obbligo di garanzia posto a carico del datore di lavoro (cfr., tra le altre, Sez. 4, 04/07/2003, Valduga; nonché, Sez. 4, 12/02/ 2008, Trivisonno).
Nella vicenda esaminata, la ricostruzione operata da entrambi i giudici di merito (quello del giudizio a carico del A.F. e quello del presente procedimento), pur pervenuti a conclusioni difformi, depone per la non riconducibilità dell'evento lesivo alla condotta colpevole del datore di lavoro: l'inatteso sganciamento dell'imbracatura è stata la causa assorbente che ha determinato l'evento lesivo. Trattasi di causa non solo imprevedibile, ma anche inevitabile, giacché il contesto della prestazione del lavoro non poteva certo consentire al titolare della posizione di garanzia una persistente attività di costante verifica dell'utilizzo dello strumentario di sicurezza.
Ma a ben vedere, qui si pone, proprio alla luce della ricostruzione della vicenda operata in sede di merito, un ulteriore profilo per addivenire ad una soluzione liberatoria.
La descrizione della vicenda incriminata non consente di apprezzare finanche la "colpa" del datore di lavoro che è pur sempre come ovvio il presupposto dell'addebito, anche nella concorrente presenza della colpa del lavoratore infortunato. La colpa va accertata, nel senso che va individuata la regola di condotta generica o specifica che si assume violata e, rispetto a tale norma, in ossequio ai principi generali vigenti in materia, va verificata la sussistenza dei presupposti della prevedibilità e della evitabilità del fatto dannoso verificatosi.
Qui non risulta individuata - ne' individuabile- una regola cautelare in ipotesi violata che possa ricollegarsi all'evento, essendo stato accertato in sede di merito che il datore di lavoro aveva dotato il lavoratore del necessario presidio di sicurezza e informandolo/formandolo al riguardo in maniera adeguata (Sez. 4, n. 10712 del 2012, Mastropietro, n.m.).
A fronte delle lacune sopra evidenziate nella motivazione della sentenza impugnata in ordine all'area di rischio che il ricorrente, quale datore di lavoro, era chiamato a gestire, deve rammentarsi che la titolarità di una posizione di garanzia non comporta, in presenza del verificarsi dell'evento, un automatico addebito di responsabilità colposa a carico del garante (Sez. 4, n. 22837 del 21/04/2016, Visconti, Rv. 267319), imponendo il principio di colpevolezza la verifica in concreto sia della sussistenza della violazione - da parte del garante - di una regola cautelare (generica o specifica), sia della prevedibilità ed evitabilità dell'evento dannoso che la regola cautelare violata mirava a prevenire (cosiddetta concretizzazione del rischio), sia della sussistenza del nesso causale tra la condotta ascrivibile al garante e l'evento dannoso (ex multis, Sez. 4, n. 24462 del 06/05/2015, Ruocco, Rv. 264128). Nella specie l'iter motivazionale della sentenza oggetto d'impugnazione non si sottrae a critiche, non avendo convenientemente valutato né il contenuto e i limiti della posizione di garante assunta dal A.G. nella sua qualità datoriale, in rapporto alle specificità del caso concreto; né l'ipotizzabile interruzione del nesso causale e la prevedibilità ed evitabilità in concreto dell'evento, in relazione alla condotta negligente del lavoratore.
All'evidenza, quanto precede assume rilievo assorbente rispetto alle ulteriori questioni sollevate nel ricorso.
4. In conclusione, si impone l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non sussiste.

 

P.Q.M.

 


Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non sussiste. Così deciso il 22 gennaio 2019