Consiglio di Stato, Sez. 3, 27 febbraio 2019, n. 1371 - Risarcimento danni da mobbing e demansionamento


 

Pubblicato il 27/02/2019

N. 01371/2019REG.PROV.COLL.

N. 00208/2013 REG.RIC.

 



REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO


Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Terza)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

 



sul ricorso numero di registro generale 208 del 2013, proposto dal signor -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Luciano Carinci, domiciliato presso la Segreteria della Terza Sezione del Consiglio di Stato in Roma, piazza Capo di Ferro, n.13;

contro

il Ministero dell'Interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata ex lege in Roma, via dei Portoghesi, n.12;

per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo, Sezione distaccata di Pescara (Sez. I) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente l’accertamento e la dichiarazione di mobbing subito all'interno dell'-OMISSIS- di Pescara, con richiesta di risarcimento dei danni.


Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell'udienza del giorno 29 gennaio 2019 il Consigliere Antonella Manzione e uditi per le parti l’avvocato Luciano Carinci e l'Avvocato dello Stato Giulio Bacosi;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
 

 



FattoDiritto

 


1. Con l’appello in esame, il -OMISSIS-, sostituto commissario della P.S. dispensato dal servizio per inabilità fisica nel dicembre -OMISSIS-, assegnato all’-OMISSIS- di Pescara all’epoca dei fatti di cui all’odierna controversia, impugna la sentenza del 12 giugno -OMISSIS-, n. -OMISSIS-, con la quale il T.A.R. per l’Abruzzo ha respinto il suo ricorso volto ad ottenere il risarcimento dei danni che assume di aver patito a causa delle ripetute condotte di mobbing cui sarebbe stato sottoposto dall’anno -OMISSIS- all’anno -OMISSIS- e del demansionamento realizzato nel medesimo contesto.

Per effetto di tale asserito mobbing sul luogo di lavoro, il ricorrente rappresenta varie voci di danno (da demansionamento, biologico, relazionale e di carriera), quantificando il primo nel 50% della retribuzione percepita dal mese di ottobre -OMISSIS- al mese di settembre -OMISSIS- e nel 100% della stessa per i mesi restanti; rimettendosi a valutazione equitativa, da effettuarsi in corso di causa, per le altre voci, salvo evocare la riduzione del trattamento pensionistico in ragione dell’anticipata collocazione in congedo.

2. La sentenza impugnata ha, innanzi tutto, richiamato gli esiti della verificazione disposta con ordinanza istruttoria n. -OMISSIS- del 2 dicembre -OMISSIS- a cura del Comando regionale dei Carabinieri di Pescara, ripercorrendo attraverso i passaggi salienti della relazione conclusiva della stessa la cronologia degli eventi narrati dal ricorrente. Indi, il TAR ha sintetizzato taluni principi in tema di mobbing o bossing, mutuandoli dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato consolidatasi fino a quel momento. Reca dunque il provvedimento che per mobbing si deve intendere «un’oggettiva situazione persecutoria, per essere stato il dipendente sottoposto ad una serie continua di comportamenti arbitrari da parte dei superiori (m. verticale) e/o altri colleghi (m. orizzontale), con l’unico scopo di danneggiare il sottoposto e/o collega, in quella che è la sua posizione lavorativa»; tale condotta si deve manifestare con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressione di un disegno finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale da farne conseguire un effetto lesivo; non rilevano invece «singoli atti che possono rientrare nell’ordinaria dinamica del rapporto di lavoro, ovvero che si pongono come conseguenti a conflitti interpersonali causati da antipatia, sfiducia, scarsa stima » (v. Cons. Stato, Sez. VI, 15 giugno -OMISSIS-, n. 3648 e 10 gennaio -OMISSIS-, n. 14).

3. Nell’analizzare le condotte e gli episodi “mobbizzanti” esposti dal ricorrente e che sarebbero confermati dall’istruttoria, il Giudice di prime cure ha affermato:

- quanto a quelli intercorsi con il direttore della “Sezione operativa addestramento e sicurezza del volo” (d’ora in avanti, O.A.S.V.), -OMISSIS-, collocabili nel periodo successivo al suo insediamento ai vertici del Reparto (-OMISSIS-), essi sono semplicemente emblematici di «un tipico comportamento interpersonale che, se ritenuto lesivo e/o offensivo, deve trovare il suo sbocco in sede penale e/o disciplinare»;

- quanto alla lamentata inattività (“nullafacenza”) sin dalla primavera del -OMISSIS-, essa non risulta provata, stante la genericità delle testimonianze che in particolare su tale questione sono state spesso lacunose o omissive (“non so”, “non ricordo”, “non ero presente”), se non addirittura a contenuto larvatamente critico nei confronti di un’inerzia comportamentale addebitabile esclusivamente al ricorrente, che comunque «non si proponeva di sua iniziativa in attività operative» (teste Bo. nel verbale delle dichiarazioni rese in sede di verificazione).

- il declassamento da comandante a secondo pilota è conseguito alla riscontrata perdita di dimestichezza al volo per l’avvenuta revoca del brevetto, e risponde alle prassi vigenti, mentre l’interruzione dell’addestramento necessario a recuperare tale dimestichezza è da ricondurre a indisponibilità finanziarie dell’Amministrazione;

-il trasferimento all’-OMISSIS- (-OMISSIS-) con responsabilità di gestione di materiali e risorse, formalizzato in data -OMISSIS-, «assume il significato di un normale avvicendamento ed ha scarso valore in situazione di non operatività»;

- alcuni degli episodi narrati (es., la perdita del riproduttore MP3 e il suo successivo rinvenimento nell’ufficio di altro dipendente) appaiono o «difficilmente inquadrabili» o semplicemente emblematici del «difficile rapporto interpersonale» nel cui contesto si collocano anche «i rimproveri dati in presenza di altri colleghi, qualificabili quali atti di cattivo gusto e nulla più»;

- altri episodi di sicura maggior gravità (affissione di articolo di giornale locale indubbiamente diffamatorio nei confronti del ricorrente nella bacheca aziendale nell’immediatezza del tragico incidente nel quale persero la vita tre piloti del medesimo Reparto) sono stati oggetto di apposito procedimento penale, conclusosi con l’archiviazione.

4. Brevi considerazioni, infine, vengono rivolte agli accertamenti medici versati in atti, che, per la ritenuta documentazione di «validi elementi valutabili», hanno indotto il Tribunale a non disporre la richiesta C.T.U., ritenendola superflua. In particolare, prescindendo dalla certificazione del consulente di parte, -OMISSIS-, la diagnosi ricavabile anche da quella rilasciata dalla struttura “-OMISSIS-”, alla quale il ricorrente si è rivolto in prossimità della sottoposizione a visita, già fissata per il -OMISSIS-, presso il Dipartimento di Medicina legale di Chieti, fa effettivamente riferimento ad un “disturbo di adattamento” e ad una “ruminazione in chiave ossessiva del pensiero su eventi di vita stressanti vissuti nel recente passato”, ma, a parte la connotazione temporale (“recente” passato, laddove la maggior parte dei comportamenti denunciati si collocano nel periodo fine -OMISSIS--inizio -OMISSIS-), non ne individua in maniera chiara l’eziologia. Egualmente la relazione specialistica dello psichiatra (-OMISSIS-) del 25 marzo -OMISSIS-, ove si conferma la patologia, ma non si riferisce con precisione di alcuna pratica persecutoria quale causa della stessa.

5. In sintesi, conclude il Giudice di prime cure, nel caso di specie non si è al cospetto di conseguenze abnormi riconducibili ad una «organizzazione costrittiva» - quella della P.S.- , tanto più che essa è «tale per sua natura, con controlli anche esasperati, al pari dei continui richiami». D’altra parte, il Reparto ha subìto la perdita di tre giovani dipendenti in occasione di un tragico incidente aereo e in conseguenza di ciò esso è stato oggetto di un comprensibile svuotamento di mansioni e contenuti operativi.

Il mancato rilievo penale e disciplinare assunto dalle singole condotte denunciate confermerebbe la correttezza di inquadramento dogmatico delle stesse nel senso della neutralità rispetto al fenomeno del mobbing.

6. Avverso tale decisione vengono proposti i seguenti motivi di appello:

- violazione e falsa applicazione degli artt. 112 c.p.c. e 88 c.p.a. Il Giudice di prime cure, infatti, si è soffermato esclusivamente sul danno da mobbing, con ciò trascurando di esaminare quello, asseritamente prioritario, da demansionamento;

- erronea valutazione della documentazione allegata ed erronea valutazione dei fatti. Ciascun episodio ha una valenza individuale e specifica che contribuisce a mostrare il quadro di insieme, pur non perdendo la propria esclusività e gravità, in relazione alla lesione della professionalità del dipendente; essi risulterebbero tutti confermati dalle testimonianze acquisite in sede di verificazione, diversamente da quanto affermato dal Giudice di prime cure, e integrerebbero l’elemento materiale del mobbing. Il danno alla salute che ne è conseguito sarebbe a sua volta comprovato da tutte le certificazioni in atti, ivi comprese quelle della C.M.O. In sintesi, diversamente da quanto opinato dal Giudice di prime cure, da un lato risulterebbe ampiamente provata la sussistenza dei comportamenti ostili e vessatori; dall’altro, quella del danno conseguitone e del necessario nesso eziologico tra gli stessi, stante la certificata riconduzione a fattori lavorativi avversativi, nonché l’insorgere dei disturbi solo successivamente agli stessi, ovvero a partire dal -OMISSIS- (dimagrimento, cui ha fatto seguito una fase opposta di bulimia, con consistente aumento ponderale; fumo da stress dal -OMISSIS-; insonnia; attacchi di panico; interruzione della vita relazionale, ivi compresa la pregressa pratica di sport, ecc.).

7. Si è costituito in giudizio il Ministero dell’Interno.

8. All’udienza pubblica di trattazione, la causa è stata riservata in decisione.

9. Il ricorrente lamenta una serie di episodi qualificati come vessatori, prolungatisi nel tempo, posti in essere nei suoi confronti da parte di vari superiori gerarchici, tali che avrebbero concretizzato un fenomeno di mobbing per il quale egli chiede il risarcimento, stante il danno alla salute conseguitone.

La questione dedotta in giudizio porrebbe, invero, un problema preliminare di giurisdizione in ordine all’individuazione del plesso giudiziario munito della potestas iudicandi.

Al riguardo, un consolidato indirizzo giurisprudenziale (per tutte, cfr. Cons. Stato, Sez. III, 9 ottobre 2018, n, 5789) ha chiarito come la giurisdizione del giudice amministrativo nelle controversie aventi ad oggetto un comportamento qualificabile come mobbing sussista solo ove lo stesso venga collegato ad attività che l'Amministrazione datrice di lavoro pone in essere nell'esercizio del potere di supremazia gerarchica verso il lavoratore subordinato, impartendogli ordini, disposizioni e direttive, ovvero assegnandolo o distogliendolo dal compimento di attività e funzioni nell'ambito della propria struttura organizzativa (cfr. Cass., Sez. un., 7 febbraio 2006, n. 2507; id., 13 ottobre 2006, n. 22101 e 2 luglio -OMISSIS-, n. 12137).

Pertanto la domanda di risarcimento dei danni discendenti da mobbing non potrebbe essere accolta qualora il lavoratore non avesse tempestivamente impugnato i provvedimenti adottati dall’amministrazione nell’ambito di tale tipologia di attività gestionale, da cui sarebbe derivata l’asserita modifica peggiorativa del rapporto di lavoro ovvero, nel caso in cui il danno consegua ad atteggiamenti vessatori e persecutori, ove gli stessi integrino meri comportamenti materiali (Cons. Stato, Sez. IV, 22 gennaio 2018, n. 389; id., 26 novembre 2015, n. 5371; Sez. VI, 20 giugno -OMISSIS-, n. 3584).

Si tratterebbe, pertanto, di valutare se nella controversia in esame sussistano o meno i presupposti, sopra enucleati, che avrebbero consentito di radicare la giurisdizione del giudice amministrativo, quanto meno in relazione a parte delle condotte lamentate.

Il collegio ritiene, tuttavia, inutile nella fattispecie in esame siffatto approfondimento.

Della giurisdizione ha fatto cenno, invero, il giudice di prime cure nella sua ordinanza n. -OMISSIS-/-OMISSIS-, ritenendo assorbente allo scopo «lo status di appartenente al Corpo di polizia del ricorrente che pone, a presupposto della sua azione risarcitoria ex art. 30 cpa, fatti avvenuti in costanza del rapporto di lavoro e da parte di funzionari della P.S.», senza ulteriori approfondimenti sul fondamento giuridico della indagata responsabilità e sulle possibili diverse articolazioni dello stesso in relazione alla pluralità di condotte/atti denunciati.

Sulla questione di rito, tuttavia, in assenza di eccezioni sul punto o proposizione di domanda, si è formato il giudicato interno, tale da non consentire un ulteriore scrutinio, prendendo atto dell’implicita valutazione positiva effettuata dal T.A.R.

10. Nel merito, il Collegio ritiene l’appello infondato e come tale da respingere, con conseguente conferma della sentenza impugnata, ancorché con le precisazioni che seguiranno.

Diventa dunque irrilevante ogni approfondimento delle questioni sui limiti entro i quali le condotte del personale militare – in ipotesi illecite e caratterizzate dal dolo - siano imputabili alla Amministrazione appellata, in base ai principi applicabili in tema di immedesimazione organica e di frattura del relativo nesso.

Lamenta dunque il ricorrente di aver subìto nel tempo atti e comportamenti vessatori, alcuni dei quali concretizzatisi nella dequalificazione delle mansioni, ad opera dei vari Dirigenti o comunque dei superiori gerarchici succedutisi ai vertici del Reparto di appartenenza.

In altri termini, nei suoi confronti sarebbe stata portata avanti una strategia complessiva da una pluralità di soggetti, finalizzata a danneggiarlo ed isolarlo dal contesto, integrante gli estremi del cosiddetto mobbing.

11. L’individuazione della cornice definitoria del fenomeno, in assenza di indicazioni normative, è ormai agevolata dai numerosi arresti giurisprudenziali, penali, civili, amministrativi e contabili, sostanzialmente convergenti verso l’enucleazione di principi comuni.

La Sezione ritiene sufficiente qualche cenno al riguardo, onde attualizzare il paradigma giuridico rispetto alla già chiara ricostruzione del T.A.R., allo scopo di valutare la correttezza della valutazione effettuata di insussistente sovrapponibilità degli accadimenti in esame rispetto allo stesso.

Il Giudice amministrativo ha dunque confermato, con considerazioni cui ci si riporta, che «l’elemento oggettivo della fattispecie del mobbing è integrato dai ripetuti soprusi legati tra loro dall’intento persecutorio nei confronti della “vittima”» (cfr. ex multis, Cons. Stato, Sez. IV, 7 febbraio 2019, n. 910). La tradizionale distinzione tra c.d. mobbing verticale o bossing, e c.d. mobbing orizzontale, in ragione del soggetto attuatore delle condotte vessatorie (il superiore gerarchico o un collega), nel caso di specie parrebbe non rilevare, venendo in evidenza entrambe le componenti. Il ricorrente, infatti, se si eccettua il chiaro riferimento all’azione del direttore del Reparto collocabile nel lasso di tempo tra il -OMISSIS- al -OMISSIS-, non si diffonde nella ricerca delle responsabilità soggettive, con ciò accomunando nella narrazione condotte e atti posti in essere da autori diversi per i quali la riconducibilità ad un unitario disegno persecutorio appare tutt’altro che provata.

12. Il Collegio rileva infatti come sotto il profilo dell’elemento psicologico si renda necessario che gli accadimenti siano tutti sussumibili sotto l’egida unificante del dolo generico o specifico di danneggiare psicologicamente la personalità del lavoratore, emarginandolo, sulla base di un’unica strategia. Singoli atti riconducibili all’ordinaria dinamica del rapporto di lavoro, perfino se conflittuale a cagione di antipatia, sfiducia, scarsa stima professionale, ove non caratterizzati da tale volontà, non assumono rilievo nella necessaria visione d’insieme del fenomeno. La ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante deve essere pertanto esclusa allorquando la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il richiamato carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 15 ottobre 2018, n. 5905).

13. Chiarito quanto sopra, il Collegio può passare a vagliare la complessa vicenda sottesa alle deduzioni del ricorrente, avuto riguardo peraltro alla dualità delle richieste avanzate: in primo luogo, il danno da asserito demansionamento; indi quello da mobbing.

Malgrado, tuttavia, tale insistita distinzione, rileva la Sezione come la narrazione dei fatti si sviluppi senza soluzione di continuità in un arco di tempo pluriennale, con ciò sovrapponendo presunte vessazioni comportamentali a vere e proprie scelte organizzative ritenute evidentemente comunque espressione delle stesse.

A fronte, dunque, dell’avvenuta ricostruzione di un nucleo storico condiviso, non ne consegue la richiesta classificazione giuridica dello stesso in ragione della ritenuta insussistenza di un fil rouge intenzionale che dovrebbe svilupparsi nel corso di circa sei anni di vita professionale dell’appellante; né l’avvenuto riconoscimento del nesso eziologico tra lo stesso e il disturbo psichiatrico, con danno irreversibile alla personalità, sulla base del quale il ricorrente è stato dichiarato permanentemente inabile al servizio attivo e conseguentemente posto in congedo, avendo egli stesso scelto di non transitare nei ruoli civili dell’Amministrazione di appartenenza, come avrebbe comunque potuto.

La Sezione non ignora che la divergente percezione degli eventi, anche in ragione della sensibilità soggettiva dei protagonisti, segna tipicamente il discrimine tra la sofferenza patita e la sua riconducibilità alla volontà lesiva di chi ne viene individuato come causa. Nel caso di specie, tuttavia, è lo stesso ricorrente a revocare in dubbio l’esistenza del mobbing, laddove, per enfatizzare la mancata valutazione dell’autonomo danno da dequalificazione, afferma esplicitamente che, «se può discutersi circa la sussistenza o meno del mobbing nel caso di specie, appare alquanto arduo negare il demansionamento» (pag. 28 del ricorso).

14. Ritiene tuttavia il Collegio che l’asserita dequalificazione non possa essere esaminata in maniera autonoma e separata dagli eventi che l’hanno oggettivamente determinata -rectius, che stanno alla base delle scelte organizzative effettuate: in sintesi, tali scelte, delle quali il ricorrente lamenta la lesività, trovano ragione e giustificazione negli eventi pregressi, asseritamente mobbizzanti, per cui se ne impone un’analisi cronologicamente disgiunta, ma causalmente connessa.

Il Giudice di prime cure, al contrario, tende a narrare la vicenda senza soluzione di continuità estrapolando episodi riferibili all’una o all’altra fase indifferentemente. Da qui la ritenuta mancata valutazione in toto del danno da demansionamento. Trattasi, tuttavia, ritiene il Collegio, della conseguenza solo apparente di una tecnica redazionale della motivazione che necessita di integrazioni esplicative, ma va esente da mende sotto il lamentato profilo del travisamento dei fatti. Più propriamente, infatti, a fronte della mole degli stessi, tenuto conto del ricordato ampio lasso temporale di riferimento, il T.A.R. sceglie di motivare, ancorché implicitamente, per relationem attraverso il rimando agli esiti della verificazione, limitandosi ad estrapolare dalla stessa singole conclusioni riferite a selezionati episodi, senza riferire su ciascuno, con ciò decontestualizzando il giudizio dal quadro narrativo complessivo, col rischio di farlo apparire eccessivamente semplicistico.

In sintesi, le lamentate mancanze valutative non integrano vere e proprie lacune di giudizio, ma rispondono alla ritenuta superfluità di riferirne, una volta acclarata la loro irrilevanza ai fini della configurazione della fattispecie di mobbing nella scrupolosa istruttoria disposta allo scopo. Emblematica al riguardo, tra le questioni di cui l’appellante lamenta la mancata disamina da parte del Tribunale, la vicenda della gestione dei riposi compensativi, su cui è intervenuta anche l’associazione sindacale di appartenenza con una nota di richiesta di chiarimenti, alla quale peraltro non è conseguita, a riprova dell’avvenuta soluzione della tematica, alcuna azione di protesta: egli si duole di essere stato contattato in data 13 gennaio -OMISSIS- dall’agente scelto incaricato della gestione degli stessi per uno specifico chiarimento in merito alle proprie tempistiche di fruizione dell’istituto, ritenendo ciò di per se stesso “provocatorio”, visti i precedenti equivoci già insorti al riguardo; ma nulla dice sulle ragioni per cui si dovrebbe ritenere provata tale provocazione, di cui evidentemente l’autore si sarebbe reso strumento, potendo più plausibilmente trattarsi di un episodio riconducibile alla normale dialettica tra colleghi utile al miglioramento della pianificazione del servizio; ovvero ancora al diniego di cambio del turno per esigenze familiari (11 marzo -OMISSIS-), opposto da tal -OMISSIS-, la cui finalità ritorsiva non può certo desumersi dall’avere la stessa successivamente assentito il richiesto congedo ordinario, vuoi perché ciò può esser corrisposto alla volontà opposta di appianare i dissidi insorti, vuoi perché i due istituti (cambio del turno, che presuppone la presenza e le potenzialità di utilizzo e congedo ordinario, che implica invece l’assenza del lavoratore) rispondono a logiche di impiego del personale completamente diverse.

14. Al fine di porre ordine nella cronologia degli eventi e agevolare la completezza ricostruttiva, la Sezione ritiene opportuno evidenziare come anche il ricorrente ne leghi la narrazione senza soluzione di continuità dall’ottobre del -OMISSIS- al dicembre del -OMISSIS-, con ciò accumulando una tale mole di dettagli, eterogenei tra di loro, da rendere in qualche modo necessitata la scelta di sintesi effettuata dal Giudice di prime cure.

In realtà, come desumibile dalla ricordata circostanza dell’avvenuto mutamento degli autori delle singole condotte o delle singole scelte organizzative denunciate, il Collegio ritiene più opportuno scindere il lungo periodo focalizzato in due fasi distinte. La prima fase, che abbraccia il lasso di tempo compreso tra il mese di -OMISSIS- e il mese di settembre -OMISSIS-, si caratterizza per lo più per gli episodi ascritti al responsabile dell’O.A.S.V., -OMISSIS-; nella seconda, invece, lo stesso non figura e di fatto cambia anche la tipologia degli atti lamentati, che si concretizzano in scelte organizzative, ovvero in quanto necessario o conseguente alla loro attuazione (senza che peraltro nessuno degli atti “incriminati” sia stato oggetto di apposito gravame).

Di tali scelte sarebbe responsabile in primo luogo proprio il -OMISSIS-, la fedeltà al quale viene indicata dal ricorrente come una delle cause dello “scollamento” interno al personale del Reparto, per cui ne risulta difficilmente comprensibile la volontà persecutoria: è a sua firma, infatti, l’atto con cui in data -OMISSIS-, con decorrenza 22 dicembre -OMISSIS-, viene revocato al ricorrente l’incarico di responsabile della sicurezza volo del Reparto, avendolo nel contempo assegnato, con atto in data -OMISSIS-, all’-OMISSIS-, quale responsabile della gestione dei materiali, in avvicendamento ad altro dipendente, peraltro di pari grado (sostituto commissario). Altro atto dichiaratamente lesivo sarebbe invece da individuare nella scelta del direttore (-OMISSIS-), che lo pone ai vertici di un “Servizio”, i cui contenuti nominalistici parrebbero corrispondere alle attività che già in precedenza svolgeva (la cura della “sicurezza volo”, appunto), ma la cui modalità organizzativa, attuata con la creazione di apposita articolazione interna, sarebbe strumentale alla dequalificazione, in ritenuta assenza dei contenuti necessari a garantirne l’effettiva operatività ( la “scatola vuota” cui fa riferimento il ricorso).

A tale riguardo, il Collegio rileva come alla base della scelta originaria di trasferimento da un Reparto operativo ad altro meramente amministrativo, sicuramente meno vicino alle comprensibili aspirazioni professionali del ricorrente, si sia posta l’emersa necessità di utilizzare un dipendente con qualifica di pilota nella fase in cui è stato privato dell’abilitazione al volo. Evidenziando anche come la rapida successione dei citati provvedimenti documenti il tentativo di preservare in un primo momento il dipendente, mantenendolo nelle sue funzioni originarie di responsabile della sicurezza volo, malgrado ciò appaia poco coerente con la perdita del relativo brevetto; salvo poi addivenire all’assegnazione ad incarico più consono alla nuova situazione soggettiva dello stesso.

La innegabile passione per il volo del ricorrente, d’altro canto, risulta anche comprensibilmente frustrata dagli ostacoli economici frapposti al recupero della necessaria dimestichezza attraverso la frequenza degli appositi corsi, una volta ottenuta la reintegra nel brevetto: e tuttavia, proprio la circostanza che comunque, in conseguenza di tale reintegra e dell’impossibilità pratica di un immediato recupero formativo, egli sia stato declassato a secondo pilota, lascia ipotizzare l’assoggettamento alle doverose visite di controllo dell’idoneità psico-fisica propedeutiche al volo. Proprio la mancata sottoposizione alle stesse nel periodo -OMISSIS-, infatti, aveva causato la contestazione di addebito disciplinare sfociata nella riferita revoca del brevetto. Pertanto si può ragionevolmente escludere che i disturbi dei quali lamenta l’insorgenza sin dal -OMISSIS- si fossero già concretizzati in qualsivoglia rilevante epifenomeno, del quale comunque non è versata in atti alcuna documentazione.

15. L’imprescindibile iato esistente fra i due menzionati periodi (-OMISSIS---OMISSIS- e 2006--OMISSIS-) è dato dunque da un lato dal verificarsi del tragico incidente aereo nel quale hanno perso la vita tre appartenenti al Reparto (11 maggio -OMISSIS-); dall’altro, dall’avvio, pressoché concomitante in termini cronologici, del procedimento disciplinare sfociato nella revoca del brevetto di volo.

Il primo periodo di lamentata inoperosità si colloca proprio a valle di tale revoca, ma anche nell’ambito della «prolungata messa a terra di tutta la linea degli aeroplani in servizio nella Polizia di Stato», quale conseguenza dell’incidente aereo (pag. 8 della relazione ‘Molinaro’ del 30 aprile -OMISSIS-, richiamata ad altri fini anche dal T.A.R.). E’ evidente quindi che nel periodo di riferimento era diversa la situazione soggettiva dell’interessato, ma egualmente diverso il contesto lavorativo, senza che tuttavia di tale mutamento esterno il ricorrente paia tenere minimamente conto, evidenziando se del caso in chiave comparatistica discriminazioni rispetto a presunti livelli ordinari di attività di un settore in comprensibile fase di temporanea stasi operativa.

Vero è che le modalità di attivazione di tale procedimento disciplinare, “scavalcando” la dirigenza di reparto e prescindendo dalla rappresentazione dei fatti che essa tenta di fare a supporto della tesi del ricorrente (v. documentazione in atti a firma del -OMISSIS-, ma anche il contenuto della sua deposizione, sostanzialmente confermativa delle anomalie procedurali denunciate, senza che tuttavia della stessa venga fatta alcuna menzione nella relazione finale sulla verificazione) risultano sicuramente lesive, anche nella forma delle comunicazioni, dei diritti di difesa dell’appellante.

Ma di ciò ha già avuto modo di occuparsi il T.A.R. per l’Abruzzo, che con sentenza n. -OMISSIS- ha annullato la revoca del brevetto di volo ritenendo assorbente la tempistica della contestazione di addebito, effettuata nel -OMISSIS-, per fatti risalenti al -OMISSIS-, peraltro già noti ai vertici della struttura. All’esito di tale giudizio il ricorrente, come detto, è stato reintegrato nel ruolo, con tempistica ragionevolmente rispondente alle esigenze procedimentali; è stato messo in condizione di poter volare, previo addestramento, poi interrotto, senza lamentare alcun particolare danno alla salute, che sarebbe peraltro stato presumibilmente ostativo al mantenimento dello status effettivo di pilota.

16. La documentazione versata in atti mette in luce un ambiente lavorativo connotato, almeno fino al tragico incidente del -OMISSIS-, da una generalizzata conflittualità interna, a sfondo anche sindacale. Significativa, al riguardo, è la cruda ricostruzione contenuta nella relazione del consulente tecnico nominato dalla Procura di Teramo nell’ambito dell’indagine conseguita all’incidente, -OMISSIS-.

A pag. 128 della stessa si legge testualmente: «Non può essere ignorato, per una completa comprensione dell’ambiente operativo, l’elevato grado di conflittualità sindacale esistente al Reparto volo di Pescara…» E ancora: «Di certo ogni tentativo da parte del dirigente di mantenere un minimo livello di disciplina veniva interpretato dagli interessati come comportamento di mobbing.. o vessatorio..», con richiami esemplificativi ad episodi interessanti personale nominativamente citato, non il ricorrente.

17. Emblematico di tale clima appare, rileva la Sezione, l’episodio che il Giudice di prime cure stigmatizza come «difficilmente inquadrabile» relativo alla sparizione e al successivo ritrovamento del riproduttore MP3 di proprietà del ricorrente: emerge chiaramente in atti, infatti, che ciò che preoccupa il superiore gerarchico, nonché, prima ancora, il collega nel cui ufficio l’apparecchio viene rinvenuto (ufficio nel quale il ricorrente si era effettivamente trattenuto per diverso tempo per rispondere velocemente, a suo dire, ad una telefonata di servizio), è la funzione di registratore dello stesso. Ciò in ragione dell’evidente contesto di diffidenza reciproca e timore che venissero documentate finanche le esternazioni colloquiali quotidiane, per cui l’asserito utilizzo solo come riproduttore di suoni non riesce a scongiurare i cautelanti rilievi di polizia giudiziaria, per quanto essi possano apparire anomali una volta individuato il legittimo proprietario dell’apparecchio stesso.

18. In tale crescendo di dissapori mal gestiti si colloca anche il ben più grave episodio dell’affissione in bacheca aziendale dell’articolo di stampa locale diffamatorio, che imputa al ricorrente la responsabilità morale dell’incidente aereo in quanto non presente nel relativo turno di servizio, riferendo addirittura della necessità di assistenza psicologica che sarebbe conseguita al rimorso scaturitone. Al riguardo il T.A.R. si limita a richiamare, come assorbente della sua ritenuta irrilevanza, l’avvenuta archiviazione della querela proposta in merito dall’appellante.

A ben vedere, invece, proprio i contenuti di tale provvedimento di archiviazione dicono del disvalore morale e deontologico attribuito all’episodio dal Pubblico Ministero procedente, stante che egli ne afferma espressamente la rilevanza disciplinare, dopo aver negato quella penale per l’estraneità dell’autore dell’affissione al reato di diffamazione, consumatosi con la stesura e la pubblicazione dello scritto offensivo, già divulgato a mezzo stampa. Egualmente deplorevole è l’episodio, neppure menzionato in sentenza, della esternazione del fastidio arrecato con la sua sola presenza al funerale dei colleghi, ancorché non ne siano stati chiariti gli effetti sul ricorrente, e, ancor prima, le modalità (ovvero se gli sia stato impartito un vero e proprio ordine di non presenziare o soltanto espresso, con atteggiamento di commendevole livello etico, un personale giudizio sull’opportunità della presenza per imprecisate motivazioni). Il tutto in un momento la cui drammaticità avrebbe casomai imposto al contrario particolare equilibrio gestionale per recuperare coesione e per quanto possibile serenità lavorativa.

19. Tutto ciò non può evidentemente essere minimizzato semplicemente affermando, come pare concludere il Giudice di prime cure, che quel che non ha assunto rilievo penale o disciplinare è egualmente irrilevante ex se sotto il profilo della sussumibilità ad elemento costitutivo del mobbing. Nel caso di specie, infatti, non potrebbe certo imputarsi all’appellante l’erronea individuazione dei soggetti responsabili del reato di diffamazione ovvero, ancor più, la mancata attivazione di un procedimento disciplinare a carico dell’autore della condotta de qua.

Trattasi, tuttavia, di comportamenti, di indubbio disvalore etico, non concatenati a tutti i precedenti narrati, e comunque evidentemente inidonei a produrre quei danni alla salute e alla personalità che il ricorrente ha iniziato ad accusare soltanto a distanza di molti anni. Perfino la conclamata illiceità di una singola condotta, infatti, non si sarebbe risolta di per sé in elemento costitutivo del mobbing, dovendo essa collocarsi, per quanto ampiamente chiarito, in una rete sistematica di eventi, che al contrario paiono espressione della ricordata conflittualità e polemica dialettica di Reparto, tanto da essere ascritte a vari appartenenti allo stesso e nei confronti di più soggetti (si ricordi ancora la relazione peritale, ove si richiama la preoccupazione del Dirigente ad esercitare i propri poteri di supremazia gerarchica per le minacciate continue azioni per mobbing).

20. Da quanto sopra, ritiene la Sezione che risulta ampiamente chiarita la peculiarità dell’odierna vicenda, che si colloca, quanto meno nella prima fase, in un contesto di malessere lavorativo diffuso, sicuramente di mancanza di armonia e condivisione, correlate anche alla diversa appartenenza sindacale.

Ora, è noto che l’analisi del mobbing, per la particolare sensibilità della relativa tematica, impone al giudice di evitare di assumere acriticamente l'angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima: da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro (cui siano imputabili in ipotesi le condotte illecite di altri dipendenti) non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica; dall'altro, che gli atti relativi siano di per sé ragionevoli e giustificati, in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà caratteriali.

In altre parole, non si deve sottovalutare l'ipotesi che l'insorgere di un clima di cattivi rapporti umani e l’insorgere di comportamenti oggettivamente sgraditi derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell'interessato; tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale, pur non essendo tale.

Tale cautela di giudizio si impone particolarmente quando l'ambiente di lavoro presenta delle peculiarità, come nel caso delle Amministrazioni militari o gerarchicamente organizzate, quali i Corpi di Polizia, caratterizzate per definizione da una severa disciplina e nelle quali non tutti i rapporti possono essere amichevoli, non tutte le aspirazioni possono essere esaudite, non tutti i compiti possono essere piacevoli e non tutte le carenze possono essere tollerate.

Ciò tuttavia non implica, ritiene il Collegio, l’adesione alla generica e generalizzata affermazione del T.A.R. alla stregua del quale vanno accettati come ontologicamente intrinseci alla struttura «controlli esasperati, al pari dei continui richiami», con ciò legittimando comunque atteggiamenti che, ove connotati effettivamente dall’aggettivazione indicata (“esasperati” ovvero “continui”) e non rispondenti ad esigenze di buon andamento del servizio nelle sue peculiarità intrinseche, si risolverebbero in un’aprioristica legittimazione di condotte concretamente lesive della dignità del lavoratore in ragione della sua scelta di appartenenza a una determinata tipologia di organizzazione. Semplicemente, essa ne impone una valutazione più rigorosa, che tenga conto di tali peculiarità derivanti dal necessario assoggettamento ai valori tipici dell’organizzazione gerarchica, che impone un rispetto ed un’obbedienza estranei ad altre organizzazioni aziendali.

Ciò è avvenuto nel caso di specie, così da far emergere un contesto generalizzato di contrasti e di “ammutinamento” (cfr. ancora testualmente la ricordata relazione del perito del giudice ordinario) difficilmente riconducibile esclusivamente alla situazione lavorativa del ricorrente.

21. Quanto all’asserita dequalificazione, il Collegio non intende porre in dubbio la circostanza che l’art. 2103 c.c. vieti anche la sottrazione di mansioni da un punto di vista quantitativo (cfr. sul punto Cass., n.10405/1995), fino al limite estremo di ridurre il lavoratore ad una situazione che nel caso di specie egli qualifica come “nullafacenza”.

Essa infatti, ove intenzionalmente causata, è idonea di per sé a costituire una forma di violenza morale per le sue potenzialità svilenti della dignità del lavoratore e della considerazione di cui gode nel contesto sociale di riferimento.

Il divieto di demansionamento opera oggettivamente, indipendentemente, cioè, dalla sussistenza dell’animus nocendi in capo al datore di lavoro, che serve esclusivamente ad imprimere alle scelte organizzative -anche- il carattere eventuale di elemento costitutivo del mobbing.

E tuttavia nel caso di specie (seppur non si tenga conto dei principi sui limiti della imputabilità all’Amministrazione delle condotte illecite di altri) il lamentato -e incontestabile- depauperamento qualitativo di attribuzioni subito dal ricorrente a far data dal settembre -OMISSIS-, né è indice di un preordinato disegno persecutorio, né è immotivato sotto il profilo gestionale.

A fronte, infatti, della circostanza soggettiva dell’avvenuta perdita del brevetto di volo, da un lato; oggettiva, del comprensibile svuotamento temporaneo delle attività del Reparto dopo l’incidente aereo, dall’altro, un minorato utilizzo del lavoratore appare non solo comprensibile, ma addirittura per certi versi necessitato.

Vero è che la privazione del brevetto di volo ha cagionato al ricorrente il lamentato danno economico della sottrazione dallo stipendio delle corrispondenti indennità: della decurtazione, tuttavia, lo stesso risulta essere stato ristorato, ancorché con decorrenza -OMISSIS- (v. nota del -OMISSIS-, della Direzione centrale per le Risorse umane del Ministero dell’Interno), corrispondente a quella fissata retroattivamente nel provvedimento di reintegra nella titolarità del medesimo brevetto e nelle funzioni di pilota di aereo a firma del Capo della Polizia in data -OMISSIS-, non impugnato in parte qua.

Solo ad colorandum, e per contestualizzare ulteriormente lo stato d’animo innegabilmente poco collaborativo del ricorrente, senza nulla togliere alle motivazioni soggettive dello stesso, il ricorso non richiama le interlocuzioni intercorse con i propri superiori gerarchici, ovvero le configura esclusivamente in chiave rappresentativa delle oggettive difficoltà ad assolvere compiti ritenuti impossibili (si veda al riguardo la richiesta di stilare il piano prevenzione incidenti per l’anno 2007, cui fa seguito, con ritardo rispetto ai previsti tempi di risposta, la nota di riscontro del -OMISSIS-, con la quale egli si limita a declinare la propria competenza avendo lo stesso piano ad oggetto elicotteri, e non aerei, senza rilevare la dotazione di velivoli in quel preciso momento storico del Reparto e finendo per far gravare del relativo adempimento il medesimo superiore gerarchico che aveva avanzato la richiesta).

Egualmente nessun riferimento è dato cogliere ai tentativi di coinvolgimento posti in essere dall’Amministrazione, come comprova la nota del -OMISSIS- in data -OMISSIS- con la quale il ricorrente viene invitato ad individuare personalmente due nominativi di collaboratori da utilizzare nell’ambito del neo istituito “servizio sicurezza volo”.

Nessuna spiegazione infine si rinviene circa l’avvenuta irrogazione, in data -OMISSIS- (dunque nel periodo dell’asserito demansionamento), della sanzione disciplinare della pena pecuniaria, a causa della quale gli è stata negata l’onorificenza della medaglia d’argento per meriti di servizio, la cui mancata attribuzione, pure lamentata nel ricostruito quadro persecutorio, ha evidentemente comunque carattere discrezionale.

In data -OMISSIS- risulta infine un richiamo scritto, egualmente non impugnato, ad ulteriore riprova di una situazione ormai distonica rispetto all’Amministrazione di appartenenza.

22. Alla luce di quanto sopra, anche l’ulteriore motivo di appello con il quale si censura la sentenza impugnata, laddove questa ha inteso respingere la domanda risarcitoria per il danno da dequalificazione, deve essere respinto.

Come questo Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare (v. Cons. Stato, Sez. IV, n. 14/-OMISSIS- cit. sub § 2, richiamata anche dal T.A.R.), «il prestatore di lavoro, che chiede la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno subito a causa della lesione del proprio diritto di eseguire la prestazione lavorativa in base alla qualifica professionale rivestita (lesione idonea a determinare la dequalificazione del dipendente stesso), deve fornire la prova dell’esistenza di tale danno e del nesso di causalità con l’inadempimento, prova che costituisce presupposto indispensabile per procedere ad una valutazione equitativa (ex multis,Cass. Civ., sez. lav., 5 dicembre 2008, n. 28849».

Nel caso di specie, alla luce di quanto innanzi esposto, non risulta integrata la prova della sussistenza del danno, né degli specifici aspetti riconducibili a responsabilità del datore di lavoro pubblico, che avrebbero privato il lavoratore dello svolgimento di uno o più dei profili mansionistici afferenti alla propria qualifica, tali da potersi ricollegare causalmente ad un danno subito e, come si è detto, non provato.

23. Infine, e per completezza, sulle certificazioni mediche: nessun dubbio, ritiene la Sezione, è avanzato dal Giudice di prime cure circa la sussistenza delle patologie diagnosticate in maniera pressoché omogenea dai vari specialisti che hanno avuto in cura il ricorrente, sia su sua richiesta privata, sia in ambito pubblicistico.

Ciò che non risulta provato è il nesso eziologico, tanto più che le lamentate situazioni lavorative avversative hanno la risalenza nel tempo sopra descritta; il mutamento -non la riduzione-di mansioni, che sicuramente può aver inciso in termini di mortificazione delle proprie legittime aspirazioni professionali, risulta invece ampiamente giustificato dalla concatenazione degli eventi, personali e del Reparto, egualmente rappresentata.

Il legame tra gli eventi lavorativi e le lesioni è chiaramente affermato solo nella relazione del perito di parte, -OMISSIS- Ritiene tuttavia la Sezione che il giudizio che si deve esprimere nei confronti di valutazioni mediche di parte, senza con questo sminuire la diagnosi e l’oggettiva sofferenza del ricorrente, non può che essere puntuale in relazione alla sussistenza del nesso causale, laddove espressamente affermato: esse si fondano, infatti, esclusivamente su una fonte, ovvero le affermazioni del soggetto coinvolto, e necessitano comunque di un vaglio critico attrezzato di un ben diverso grado di oggettività e di terzietà, rispetto al coinvolgimento personale del paziente.

Nel caso di specie tale vaglio “terzo” vi è oggettivamente stato all’epoca dei lamentati disturbi, stante che il ricorrente è stato sottoposto a visita medico legale, nella quale gli veniva diagnosticato effettivamente un “disturbo depressivo permanente in trattamento”, successivamente confermato in data 27 gennaio -OMISSIS-, con conseguente declaratoria di inabilità temporanea al servizio, poi commutata in inabilità permanente e conseguente dispensa dallo stesso in data 22 dicembre -OMISSIS-. Tali certificazioni, negando radicalmente l’asserito nesso eziologico, non hanno mai ricondotto le patologie riscontrate alle vessazioni subite, ivi compresa la dequalificazione, in quanto non hanno riconosciuto la dipendenza da causa di servizio.

Avverso tale diniego non risulta proposto alcun gravame, con ciò essendosi cristallizzata non solo la diagnosi, ma anche la negata eziologia.

24. In conclusione, alla luce di tutte le considerazioni esposte, l’appello deve essere rigettato, con conseguente conferma della sentenza impugnata, pur con le precisazioni di cui ai paragrafi precedenti.

Stante la natura delle questioni trattate, sussistono giusti motivi per compensare tra le parti spese ed onorari del presente grado di giudizio.

 

 

P.Q.M.
 

 


Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello n. 208 del 2013, come in epigrafe proposto, lo respinge e per l’effetto conferma la sentenza di primo grado.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.

Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, comma 1, del d.lgs. 30 giugno -OMISSIS-, n. 196, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità, nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 29 gennaio 2019, con l'intervento dei magistrati:

Luigi Maruotti, Presidente

Raffaello Sestini, Consigliere

Solveig Cogliani, Consigliere

Giovanni Sabbato, Consigliere

Antonella Manzione, Consigliere, Estensore


L'ESTENSORE IL PRESIDENTE
Antonella Manzione Luigi Maruotti



IL SEGRETARIO