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L’asseverazione dei MOG da parte degli organismi paritetici: profili interpretativi e applicativi

 

di Alessio Giuliani

 

SOMMARIO: 1. Considerazioni preliminari. Natura e funzione dell’istituto dell’asseverazione del modello di organizzazione e gestione nel d.lgs. n. 81/2008 (c.d. “T.U. per la sicurezza sul lavoro”). – 1.1. L’assenza di una definizione: la novella del d.lgs. “correttivo” n. 106/2009. – 2. MOG e responsabilità amministrativa dell’ente: cenni alla normativa generale di riferimento. – 2.1. L’art. 25-septies sulla responsabilità per reati infortunistici (omicidio colposo e lesioni colpose gravi e gravissime) introdotto dalla legge delega n. 123/2007. – 3. Quale asseverazione e quale ruolo degli organismi paritetici? Osservazioni sul meccanismo di selezione dei sindacati legittimati a costituirli ai sensi degli artt. 2, lett. ee) e 51 del T.U. – 4. L’asseverazione come strumento di valutazione della idoneità/conformità dei MOG ex art. 30 T.U e della loro concreta efficacia. – 4.1. Confronto tra asseverazione e certificazione. – 4.2. La ratio partecipativa quale elemento caratterizzante l’asseverazione di cui all’art. 51, comma 3-bis, del T.U. – 5. Valutazione giudiziale di adeguatezza ed efficacia del MOG. – 6. Dibattito sulla efficacia esimente dell’asseverazione rispetto alla responsabilità amministrativa dell’ente ex d.lgs. n. 231/2001. – 7. Asseverazione e responsabilità individuali del datore di lavoro e  dei soggetti apicali: assenza di una presunzione, possibile incidenza sul grado di colpa. – 8. Considerazioni conclusive.
 

1. Considerazioni preliminari. Natura e funzione dell’istituto dell’asseverazione del modello di organizzazione e gestione nel d.lgs. n. 81/2008 (c.d. “T.U. per la sicurezza sul lavoro”)

 

“Asseverazione”, a livello etimologico (dal latino, asseveratio -onis), equivale ad un’affermazione decisa[1]. Per esteso, “asseverato” è un quid espresso con una dichiarazione garantita di verità ed esattezza, e si dice “asseverata” una relazione redatta da un tecnico che dichiara ed assicura la conformità dell’oggetto cui si riferisce alle norme di legge[2], non dispiegante un’efficacia esecutiva in quanto mera dichiarazione di scienza[3].

Al fine di comprendere natura e funzione dell’asseverazione dei modelli di organizzazione e di gestione della sicurezza sul lavoro, dal punto di vista propriamente giuridico, occorre prendere le mosse dalle previsioni contenute nei commi 3-bis e 3-ter dell’art. 51 del d.lgs. n. 81/2008.

Il primo statuisce che «gli organismi paritetici svolgono o promuovono attività di formazione […], nonché, su richiesta delle imprese, rilasciano una attestazione dello svolgimento delle attività e dei servizi di supporto al sistema delle imprese, tra cui l’asseverazione della adozione e della efficace attuazione dei modelli di organizzazione e gestione della sicurezza di cui all’articolo 30, della quale gli organi di vigilanza possono tener conto ai fini della programmazione delle proprie attività». Il secondo prevede che «ai fini di cui al comma 3-bis, gli organismi paritetici istituiscono specifiche commissioni paritetiche, tecnicamente competenti».

Le due disposizioni in parola s’imperniano e si inseriscono, dunque, sul complesso dei compiti attribuiti agli organismi paritetici in materia di sicurezza sul lavoro. Come è noto, la  definizione di tali organismi si ricava dall’art. 2, comma 1, lett. ee) T.U., secondo cui essi sono caratterizzati dall’essere costituiti «a iniziativa di una o più associazioni dei datori e dei prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, quali sedi privilegiate per: la programmazione di attività formative e l’elaborazione e la raccolta di buone prassi a fini prevenzionistici; lo sviluppo di azioni inerenti alla salute e alla sicurezza sul lavoro; l’assistenza alle imprese finalizzata all’attuazione degli adempimenti in materia; ogni altra attività o funzione assegnata loro dalla Legge o dai Contratti collettivi di riferimento».

Passando dal dettaglio, proprio della materia della salute e sicurezza, ad una visione d’insieme, connessa in generale al diritto del lavoro, non può non notarsi come la definizione appena richiamata si ispiri a quella di enti bilaterali di cui all’art. 2, comma 1 lett. h), del d.lgs. n. 276/2003 (“Attuazione delle deleghe in materia di occupazione e mercato del lavoro, di cui alla legge 14 febbraio 2003, n. 30”), i quali non a caso sono qualificati come «sedi privilegiate per la regolazione del mercato del lavoro», cui viene riconosciuta un’estesa competenza in materia di mercato del lavoro[4]. In un rapporto di genus a species, gli organismi paritetici rappresentano l’istanza specialistica degli enti bilaterali sui temi di salute e sicurezza sul lavoro.

L’art. 30, stabilendo che «Il modello di organizzazione e di gestione idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica di cui al decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231, deve essere adottato ed efficacemente attuato», completa le disposizioni del T.U. incentrate sull’istituto dell’asseverazione. Nell’art. 30, dunque,  si enumerano una serie di obblighi giuridici il cui adempimento è funzionale al conseguimento di un’efficacia esimente, ai sensi del d.lgs. n. 231/2001 (“Disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica, a norma dell'articolo 11 della legge 29 settembre 2000, n. 300”), della responsabilità conseguente al verificarsi dei reati di omicidio colposo (589 c.p.) e di lesioni colpose gravi e gravissime (art. 590 c.p.) commessi mediante violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro. Quindi, al c.d. sottosistema della responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato[5], si affianca uno strumento sanzionatorio preordinato non solo alla dissuasione ma anche al contrasto delle ipotesi di aggiramento della normativa prevenzionistica[6].

Occorre porre in rilievo, fin da subito, che dal riferimento all’efficace attuazione traspare la volontà del legislatore di escludere l’efficacia esimente per quei modelli che, nonostante possano risultare “ineccepibili sulla carta”, non siano poi applicati efficacemente nel singolo contesto aziendale di riferimento[7]. Detto altrimenti, a poco o a nulla vale la correttezza formale del modello di organizzazione e di gestione o il riferimento, altrettanto formale, a  best practices mai concretamente ed efficacemente adottati ed efficacemente attuati.

 

 

1.1.  L’assenza di una definizione: la novella del d.lgs. “correttivo” n. 106/2009

 

Tra le definizioni di concetti-chiave fornite dal T.U. non figura quella relativa all’asseverazione. In effetti il decreto c.d. “correttivo” n. 106/2009 ha introdotto, a sorpresa e senza il benestare delle Regioni[8], i richiamati commi 3-bis e 3-ter nel testo dell’art. 51 del d.lgs. n. 81/2208, salvo poi non offrire un inquadramento tecnico-giuridico dell’istituto dell’asseverazione. Come è stato notato tale mancanza rischia di collocare l’asseverazione «in una dimensione quanto mai nebulosa»[9].

Ciononostante, essendo espressamente contemplata dall’art. 51, comma 3-bis, non v’è dubbio che l’asseverazione sia riconducibile alla ratio posta alla base dell’art. 2, lett. ee), vale a dire nel contesto di quei compiti di «assistenza alle imprese finalizzata all’attuazione degli adempimenti in materia» di salute e sicurezza. Si tratta senz’altro di un’attività coerente con le funzioni tipiche che gli organismi paritetici sono chiamati istituzionalmente a svolgere.

 

 

2. MOG e responsabilità amministrativa dell’ente: cenni alla normativa generale di riferimento

 

Il discorso sulla mancata definizione del concetto di asseverazione assume rilievo, a ben vedere, soprattutto se si ha riguardo alla questione relativa alle responsabilità dei soggetti che si avvalgono dell’asseverazione stessa[10].

Non si può non ricordare come  mediante l’emanazione del d.lgs. 231/2001[11] si è introdotta un’autonoma forma di responsabilità denominata “da reato” a carico degli enti, vale a dire una responsabilità collegata  alla commissione di uno dei reati-presupposto – espressamente indicati dallo stesso decreto – nell'interesse o a vantaggio dell’ente, da parte di persone fisiche a vario titolo appartenenti alla struttura societaria. Trattasi, pertanto, di una responsabilità che differisce e si affianca a quella del soggetto, persona fisica, che ha materialmente posto in essere la condotta criminosa[12], permettendo di aggredire direttamente la persona giuridica e in particolare il patrimonio dell’ente.  Essa, peraltro, richiede la necessaria compresenza di un elemento di tipo oggettivo e di un elemento di tipo soggettivo.

L’art. 5 del d.lgs. n. 231/2001, nel delineare i criteri oggettivi di imputazione della responsabilità, individua  tre condizioni che devono realizzarsi affinché sia riscontrabile la responsabilità da reato della società: la commissione di un reato rientrante nel catalogo dei reati-presupposto previsti dal decreto; la commissione del reato nell’interesse o a vantaggio dell’ente; la commissione del reato da parte di un soggetto in posizione c.d. apicale o subordinata.

L’impostazione tradizionale, elaborata con riferimento ai delitti dolosi, ritiene che l’interesse debba essere concepito come un coefficiente psicologico del soggetto agente, ulteriore e distinto rispetto al concetto di dolo specifico, quale indice del fatto che la politica d’impresa sia  orientata alla commissione di uno dei reati-presupposto. Al fine di verificare gli obiettivi perseguiti, quindi, il giudice dovrà compiere una valutazione ex ante della condotta delittuosa posta in essere dalla persona fisica[13].

Per vantaggio, invece, deve intendersi qualsiasi beneficio, patrimoniale e non, derivante dalla commissione del reato-presupposto, in termini di «acquisizione per la società di una posizione privilegiata del mercato derivante dal reato commesso dal soggetto» in posizione apicale[14].

Ciononostante, quando tra i reati-presupposto sono stati introdotti i reati in materia di salute e sicurezza sul lavoro, si è posto il problema della compatibilità del criterio dell’interesse o vantaggio con  reati di natura colposa, i quali - per definizione - prescindono dalla volontà di chi li commette[15] ex art. 43 c.p. La Corte di Cassazione[16], a tal proposito, afferma nettamente che l’interesse e il vantaggio sono requisiti autonomi e non cumulativi: «evocano concetti distinti e devono essere intesi come criteri concorrenti, ma comunque alternativi», non essendo necessario, dimostrato che l’ente ha conseguito un vantaggio, dimostrare inoltre che il soggetto agente abbia voluto perseguire l’interesse dell’impresa.

Al fine di evitare che tale circostanza potesse comportare un eccessivo allargamento dell’area della punibilità, il legislatore ha introdotto un temperamento all’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 231/2001 stabilendo che «l’ente non risponde se le persone indicate nel comma precedente hanno agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi», quale clausola di esclusione della responsabilità amministrativa da reato.

L’altro requisito necessario, ai sensi dell’art. 5, del d.lgs. n. 123/2001, perché possa addebitarsi la responsabilità da reato in capo all’impresa è che il fatto illecito presupposto sia commesso: «a) da persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso; b) da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a)». In mancanza di una definizione ad hoc di tali soggetti, si può ricorrere in via ermeneutica alle altre norme o principi vigenti  in altre branche dell’ordinamento, così da intendere il concetto di “amministrazione" come legato al potere di gestione e controllo delle risorse materiali dell’ente o da  ricostruire la “rappresentanza” quale manifestazione all’esterno della volontà dell’ente in relazione agli atti negoziali. In sostanza si può affermare che in materia viene accolto un criterio oggettivo-funzionale, riconducibile al basilare principio di effettività, di modo che nell’individuazione dei soggetti apicali rileva la funzione concretamente svolta, non la qualifica formale.

Il legislatore delegato, poi, nell’intento di evitare scivolamenti di responsabilità verso il basso della compagine organizzativa, ha previsto che può costituire fonte di responsabilità per l’ente, ove posto in essere nel suo interesse o a suo vantaggio, anche il reato-presupposto che venga commesso da persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza dei soggetti apicali, ossia dai c.d. soggetti subordinati.

Infine, nel d.lgs. n. 231/2001 vengono contemplati anche criteri di attribuzione della responsabilità di natura soggettiva.

La previsione di tali ulteriori criteri è necessaria alla luce del dettato dell’art. 27 Cost., che come è noto enuncia il principio della personalità della responsabilità penale[17]. In effetti, l’ente può essere destinatario di sanzioni soltanto nel caso in cui ai soggetti apicali o subordinati sia ascrivibile una condotta antigiuridica, posta in essere mediante scelte aziendali consapevoli o, quantomeno, consistente nell’inosservanza degli obblighi di predisporre adeguate misure preventive, nonché di controllo e vigilanza. Il che ha consentito di superare le eccezioni di illegittimità costituzionale relative ad una presunta configurazione a carico dell’ente di una inammissibile responsabilità di natura oggettiva[18].

Fermo restando - giova metterlo in evidenza - che le regole di corretta organizzazione prevenzionistica, per non causare una paralisi dell’operatività aziendale, non potranno mai del tutto azzerare il rischio di commissione del reato, dovendo piuttosto tendere alla delimitazione della sfera del “rischio consentito” entro cui l’ente può legittimamente svolgere la propria attività.

 

 

2.1.  L’art. 25-septies sulla responsabilità per reati infortunistici (omicidio colposo e lesioni colpose gravi e gravissime) introdotto dalla legge delega n. 123/2007

 

Dalla serie di modifiche del d.lgs. 231/2001, successive alla sua entrata in vigore, e finalizzate all’ampliamento del catalogo dei reati-presupposto, emerge un vero e proprio “codice penale della responsabilità degli enti”, nel quale trovano spazio numerose figure delittuose tra loro eterogenee. Nello specifico, giova ricordare che l’art. 9 della legge n. 123/2007 ha introdotto l’art. 25-septies, recante la previsione quali reati presupposto dei reati di omicidio e lesioni personali colpose con violazione di norme antinfortunistiche[19].

Tale articolo, rubricato “Omicidio colposo o lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro”, di fatto ha determinato l’ingresso della categoria dei reati colposi nel contesto di riferimento dei reati presupposto ex d.lgs. n. 231/2001, estendendo la responsabilità degli enti agli infortuni sul lavoro e alle malattie professionali. Il che indirizza e ribadisce l’attenzione dell’ordinamento verso la centralità del dovere di organizzazione del datore di lavoro, così come verso la c.d. colpa da organizzazione[20].

Di conseguenza nel “recinto” della responsabilità da reato degli enti si è inserito il modello normativo e il paradigma punitivo dei delitti colposi, apportando modifiche all’impalcatura della responsabilità degli enti collettivi, tramite l’introduzione di discipline diverse sia dal punto di vista strutturale che  funzionale.

Prima specifica differenza strutturale della materia  degli infortuni sul lavoro, rispetto agli altri settori in cui vige la responsabilità degli enti, concerne la compatibilità con i principi dell’ordinamento della legislazione della responsabilità d’impresa applicabile qualora sia stato commesso un reato colposo, atteso che gli altri reati del catalogo sono punibili solo a titolo di dolo. È noto come  nel primo caso (quello dei reati colposi), l’autore non vuole affatto che il reato venga in essere, tuttavia questo gli viene addebitato per negligenza, imprudenza, imperizia o in quanto ha violato delle specifiche “regole cautelari” che era in suo potere rispettare o far rispettare; nell’altro (quello del dolo), l’autore del reato è animato dalla precisa volontà di commetterlo.

Il  principale problema interpretativo è costituito dalle difficoltà del raccordo della non-volontarietà dell’evento coi criteri dell’interesse e del vantaggio, vale a dire coi requisiti oggettivi dell’imputazione del reato agli enti, poiché l’evento di reato (lesione o morte) non può mai di per sé realizzare un interesse dell’ente perseguito in via preventiva dall’agente, o costituire il vantaggio realizzato a favore dell’ente stesso, perché qualsiasi infortunio occorso ad un dipendente costituisce per il datore di lavoro un danno in termini economico-patrimoniali ed è certamente non voluto.

La dottrina maggioritaria[21] ha puntualizzato che l’interesse non va inteso come “intenzionalità finalistica” della condotta dell’autore del reato; così come, del resto, il vantaggio non sarebbe in apparenza compatibile con le lesioni o la morte accidentale di un prestatore di lavoro. Bensì consisterebbe nel risparmio di spesa che l’ente ha conseguito non adottando le necessarie cautele antinfortunistiche.

In tal senso rimangono rispettati i requisiti strutturali della colpa: i soggetti apicali o subordinati che commettendo il reato “innescano” la responsabilità dell’ente, pur non volendo né rappresentandosi l’infortunio, hanno posto in essere condotta omissiva consistente nel non adottare le cautele che avrebbero potuto scongiurare l’infortunio[22] al fine di conseguire detto risparmio di spesa per l’ente medesimo.

 

 

3. Quale asseverazione e quale ruolo degli organismi paritetici? Osservazioni sul meccanismo di selezione dei sindacati legittimati a costituirli ai sensi degli artt. 2, lett. ee) e 51 del T.U.

 

L’art. 51, comma 1, del d.lgs. n. 81/2008, nel riferirsi agli organismi paritetici costituiti a livello territoriale, richiama espressamente la definizione contenuta  nell’art. 2, comma 1, lett. ee) del medesimo decreto.

Sulla base del combinato disposto delle due norme, gli organismi paritetici abilitati a svolgere l’asseverazione devono essere necessariamente costituiti ad iniziativa di una o più associazioni di datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Quindi, nell’ipotesi in cui le associazioni non rechino la caratteristica della maggiore rappresentatività comparata a livello nazionale, difetterà la legittimazione all’esercizio delle prerogative riconosciute ex lege, nelle quali rientra l’asseverazione stessa.

Certamente non è fatto divieto di svolgere gli altri eventuali compiti[23] assegnati dalle parti costitutive, tuttavia il criterio della maggiore rappresentatività comparata funge da discrimine tra organismi abilitati, nel senso aderente al dettato del T.U., e i non abilitati a svolgere le attività contemplate dal d.lgs. n. 81/2008[24].

Su tale aspetto si sono soffermati sia le circolari del Ministro del lavoro e delle politiche sociali del 29 luglio 2011, n. 20, e del 5 giugno 2012, n. 13, sia le linee guida approvate dalla Conferenza Stato-Regioni il 25 luglio 2012 e l’accordo approvato dalla Conferenza Stato-Regioni il 7 luglio del 2016 in materia di formazione di RSPP e ASPP.

La prima circolare ribadisce - in coerenza con un consolidato indirizzo giurisprudenziale - come il requisito della rappresentatività dei sindacati che costituiscono gli organismi paritetici andrebbe verificato «secondo i consolidati principi giurisprudenziali in materia» soltanto qualora «il possesso del requisito sia in dubbio». È bene ricordare che al  riguardo la giurisprudenza di legittimità[25] indica, quali elementi connotanti il sindacato maggiormente rappresentativo, il possesso di una certa consistenza numerica, associato all’intercategorialità (in senso merceologico, ma anche di categoria professionale), allo sviluppo sull’intero territorio nazionale, alla partecipazione attiva e continuativa alla contrattazione collettiva, così come all’implicazione diretta nell’organizzazione di scioperi, al porsi come stabile interlocutore dei poteri pubblici in sede di concertazione o di dialogo sociale. Nelle suddetta circolare si  introduce, altresì, un ulteriore criterio di legittimazione dei sindacati alle costituzione degli organismi paritetici, vale a dire la firma del CCNL applicato in azienda. Va altresì considerato che, stando al d.lgs. n. 81/2008, l’organismo paritetico è  abilitato a svolgere le funzioni attribuite dal legislatore delegato del 2008 esclusivamente nel settore merceologico di riferimento in cui viene costituito e nell’ambito territoriale in cui è presente.

La circolare dell’anno successivo, relativa al settore edile, ha ribadito  tale indirizzo, elencando peraltro i CCNL sottoscritti dalle organizzazioni effettivamente detentrici del requisito della rappresentatività.

Attraverso le citate linee guida della Conferenza Stato-Regioni si compie un passo ulteriore: l’essere costituiti in seno ad associazioni, sindacali o datoriali, aderenti ad organizzazioni firmatarie di un contratto collettivo nazionale di lavoro viene posto quale criterio presuntivo della maggiore rappresentatività medesima, pur essendo necessario che la firma sia il risultato finale di una genuina partecipazione alla contrattazione. In ossequio al principio di pariteticità, vera e propria architrave assiologia degli enti bilaterali e degli organismi paritetici, tale criterio presuntivo deve essere posseduto tanto dalle associazioni datoriali quanto da quelle sindacali.

Quanto all’accordo del 2016, su richiamato, se, da un lato, pone di nuovo in primo piano la rappresentatività, dall’altro, statuisce che quest’ultima vada individuata ricorrendo ai canoni mutuati dalla giurisprudenza, con un non esplicito ma inequivocabile rinvio alla circolare ministeriale del 2011.

Giova ricordare come in tema di rappresentatività la  giurisprudenza ha, in definitiva, svolto un vero e proprio ruolo di supplenza[26] rispetto all’assenza di criteri legali, fermo restando che nessuno degli indici presuntivi di origine giurisprudenziale ha mai assunto, da solo, un ruolo determinate. Ciononostante, va valorizzata la circostanza che la rappresentatività richiesta per la costituzione degli organismi paritetici si colloca «sul piano nazionale», e pertanto le organizzazioni che abbiano una rappresentatività - pur significativa - sul piano territoriale, non possono ricondursi nell’alveo della pariteticità fatta propria dal d.lgs. n. 81/2008.

Il fatto che l’organismo paritetico possa esercitare le proprie prerogative solo nei confronti delle imprese nelle quali viene applicato il CCNL stipulato dalle organizzazioni costituenti l’organismo stesso (come l’art. 2, comma 1, lett. ee), d.lgs. n. 81/2008 e le stesse circolari interpretative sembrerebbero indicare), non viene, invece, imposto da alcuna norma di legge: cosicché potrebbe sostenersi che l’attività svolta dall’OP resti valida a prescindere dall’ambito in cui si esplica. Detto altrimenti, se il datore di lavoro applica un contratto collettivo stipulato dalle associazioni costituenti l’organismo paritetico, e se quest’ultimo viene disciplinato dal CCNL stesso, il datore sarà chiamato a rivolgersi a quel determinato organismo, ma in caso contrario incorrerebbe soltanto in conseguenze incidenti sul piano della responsabilità civile endoassociativa, senza intaccare validità ed efficacia dell’attività compiuta dall’organismo paritetico.  

 

 

4. L’asseverazione come strumento di valutazione di idoneità/conformità dei MOG ex art. 30 T.U. e della loro concreta efficacia

 

Come si è avuto modo di anticipare in precedenza, l’art. 30, d.lgs. n. 81/2008, commi 3 e ss., delinea i requisiti preordinati a rendere il MOG idoneo ad avere efficacia esimente della responsabilità amministrativa ex d.lgs. n. 231/2001, derivante dal verificarsi dei reati di omicidio colposo e di lesioni colpose gravi e gravissime commessi in violazione delle norme prevenzionistiche.

Ai sensi del comma 3 «il modello organizzativo deve in ogni caso prevedere, per quanto richiesto dalla natura e dimensioni dell’organizzazione e dal tipo di attività svolta, un’articolazione di funzioni che assicuri le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica, valutazione, gestione e controllo del rischio, nonché un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello».

I due “perni” della disposizione sono costituiti dall’articolazione delle funzioni e dal sistema sanzionatorio.

Per quanto riguarda il primo aspetto, l’espressione utilizzata sta a indicare la necessaria e idonea presenza in azienda di soggetti che complessivamente devono detenere competenze di «verifica, valutazione, gestione e controllo del rischio[27]».

Circa la parte concernente le sanzioni, la posizione dei lavoratori dipendenti non determina particolari incertezze, poiché è sufficiente la puntuale applicazione della disciplina sanzionatoria contenuta nel CCNL applicato ai rapporti di lavoro; con riferimento, invece, ad amministratori, fornitori, consulenti e lavoratori con contratti si natura non subordinata, c.d. atipici, (soggetti che pure potrebbero commettere reati nell’interesse dell’azienda), appare necessario inserire specifiche clausole nelle sedi contrattuali opportune, volte a comminare sanzioni pecuniarie, forme di sospensione e, nei casi di maggiore gravità, il recesso o la risoluzione contrattuale con allontanamento definitivo del soggetto.

In aggiunta, all’art. 30, comma 4, del d.lgs. n. 81/2008 viene previsto che «il modello organizzativo deve altresì prevedere un idoneo sistema di controllo sull’attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate. Il riesame e l’eventuale modifica del modello organizzativo devono essere adottati, quando siano scoperte violazioni significative delle norme relative alla prevenzione degli infortuni e all’igiene sul lavoro, ovvero in occasione di mutamenti nell’organizzazione e nell’attività in relazione al progresso scientifico e tecnologico».

Il sistema di controllo fa capo ad apposito organismo di vigilanza, con ruolo di propulsione alle eventuali  modifiche del MOG qualora si ravvisi inefficace di per sé o a causa di fattori esterni (es. modifiche all’organizzazione dell’azienda, variazioni nello “stato dell’arte” in materia di salute e sicurezza, ecc.).

Infine, il comma 5 dell’art. 30, d.lgs. n. 81/2008, prevede che «in sede di prima applicazione, i modelli di organizzazione aziendale definiti conformemente alle Linee guida UNI-INAIL per un sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro (SGSL) del 28 settembre 2001 o al British Standard OHSAS 18001:2007 si presumono conformi ai requisiti di cui al presente articolo per le parti corrispondenti. Agli stessi fini ulteriori modelli di organizzazione e gestione aziendale possono essere indicati dalla Commissione di cui all’art. 6».

La dottrina non ha mancato di evidenziare le criticità di quest’ultimo comma[28], giacché chiamato a “emettere” un giudizio sull’efficacia esimente del modello di organizzazione e gestione è solo il giudice penale, il cui giudizio non può essere influenzato da una certificazione data da terzi, peraltro neppure obbligatoria ex lege.

Il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, peraltro, mediante Circolare prot. 15/VI/0015816 dell’11 luglio 2011[29], ha ritenuto opportuno fornire chiarimenti sul sistema di controllo e sul sistema disciplinare previsti, rispettivamente, dai commi 4 e 3 dell’art. 30, d.lgs. n. 81/2008, elaborando una tabella ad hoc di correlazione tra i requisiti prescritti dalla norma in questione e le corrispondenti parti delle Linee guida UNI-INAIL e del BS OHSAS 18001:2007.

Ciò che la Circolare omette, e che merita di essere enfatizzato, è la circostanza per cui, mentre per gli adempimenti indicati nelle lettere da a) a g) dell’art. 30 non risulta complessa l’individuazione delle fonti a fondamento di ciascun obbligo posto, lo stesso non si può dire per le «periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure adottate», in quanto non si rinvengono norme di legge che prescrivano tali verifiche (né nel corpo del T.U., né altrove). In particolare, viene da chiedersi a quali procedure faccia riferimento la lettera h): se a quelle di cui alla lettera f); o alle procedure e istruzioni di lavoro in sicurezza alle quali devono attenersi i lavoratori; oppure alle procedure adottate per la valutazione dei rischi, sulla scorta di quelle standardizzate elaborate dalla Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, di cui all’art. 6, comma 8, lettera m-ter), del d.lgs. n. 81/2008; ovverosia alle procedure adottate per la prevenzione dei reati previsti dall’art. 25-septies del d.lgs. 231/2001.

Propendendo per la prima ipotesi, ossia optando per un’interpretazione sistematica della lettera h), resta pur sempre da sciogliere il nodo relativo alla fonte dell’obbligo di periodiche verifiche dell’applicazione e dell’efficacia delle procedure di lavoro in sicurezza adottate dall’ente, a cui devono attenersi i lavoratori. Obbligo da intendersi come rilevante nei sistemi di gestione e sicurezza sul lavoro, tant’è che nella tabella allegata alla citata Circolare ministeriale, in corrispondenza della lettera h), si trovano riferimenti specifici alle Linee guida UNI-INAIL:2001 e al BS OHSAS 18001:2007[30].

Interessanti le implicazioni pratiche. Qualora il modello organizzativo fosse sottoposto al vaglio dell’autorità giudiziaria, chiamata a verificarne l’idoneità e l’adeguatezza ex art. 30, l’impresa che abbia volontariamente adottato il sistema di gestione della sicurezza del lavoro, delineato dalle predette Linee guida o nel BS OHSAS, sarà in condizione di dimostrare di aver adempiuto a quanto prescritto dalla lettera h). L’impresa priva di un sistema di gestione certificato probabilmente non sarà in grado di fare altrettanto, ciononostante potrà eccepire che quanto disposto dalla lettera h) non trova fondamento in alcuna norma di diritto positivo, apparendo piuttosto il frutto di una commistione tra obblighi giuridici in materia di sicurezza sul lavoro e norme tecniche di riferimento; commistione che però non può riverberarsi ai danni dell’ente sprovvisto di sistema di gestione “certificato”.

Ebbene, in conclusione, l’art. 30 individua nello specifico degli obiettivi e dei contenuti ulteriori rispetto a quelli ricavabili dagli articoli 6 e 7 del d.lgs. n. 231/2001. Questi ultimi, difatti, non forniscono delle dettagliate istruzioni organizzative ma indicano dei parametri di orientamento del giudice nell’appurare l’effettiva adeguatezza del MOG; quello, diversamente, costituisce un cospicuo compendio di indicazioni[31] sulla correttezza strutturale del MOG in merito alla prevenzione dei reati di cui all’art. 25-septies del d.lgs. n. 231/2001.

Da un punto di vista - si potrebbe dire - sostanziale, anticipando una tematica che si avrà modo di approfondire infra, il dettato normativo dell’art. 30 non comporta che il giudice compia una valutazione dell’idoneità del modello facendo esclusivo riferimento alle norme in materia di salute e sicurezza sul lavoro e alle procedure contenute nel documento di valutazione dei rischi (c.d. “DVR”), ma che, invece, conduca il proprio esame tenendo conto dei principi generali che devono regolare l’attività imprenditoriale, come pure del contesto concreto in cui l’impresa opera.

 

 

4.1 Confronto tra asseverazione e certificazione

 

Il dettato legislativo lascia trasparire il proposito di intendere l’asseverazione come un’attestazione con peculiarità che valgono a differenziarla, in virtù di un “minor connotato valutativo di rilievo pubblico”[32], rispetto alla certificazione, termine che si era impiegato nella bozza del decreto correttivo n. 106/2009, assegnando tale prerogativa alle commissioni di certificazione costituite presso gli enti bilaterali e le università ai sensi del d.lgs. n. 276/2003[33].

 La differenziazione è evidente anche per il fatto che, pur se in entrambi i casi non si pone un vincolo o un limite al potere giudiziario di verifica[34], a ritenere altrimenti non vi sarebbe stato alcun motivo d’introdurre tale ulteriore strumento[35], e l’attribuzione del potere di asseverare agli organismi paritetici non fa che confermare l’orientamento secondo cui occorre rifondare la concezione delle relazioni aziendali, sul versante della salute e sicurezza sul lavoro, in quanto connotata dal confronto e dalla collaborazione permanenti[36].

Richiamando i principi partecipativi europei presenti nella direttiva quadro n. 89/391/CEE e confermando le disposizioni introdotte nel d.lgs. n. 626/1994, attraverso la pariteticità, da un lato si perviene a sviluppare e consolidare la rete di relazioni aziendali, elemento-chiave per la partecipazione attiva di tutti gli attori della prevenzione[37]; dall’altro si introducono strumenti per operare efficacemente in tal senso. Questo è il perimetro entro cui si colloca l’asseverazione, quale attestazione da parte dell’organismo paritetico della bontà organizzativa e partecipativa di un’azienda.

Derivato da “certificare”[38], il concetto di “certificazione” consiste in un’autenticazione pubblica di documenti, in un’attestazione della correttezza delle procedure.

Sul piano strettamente normativo, mentre si può avere rilascio dell’asseverazione sia nell’ipotesi di adozione di un modello conforme alle Linee guida UNI-INAIL:2001 sia di uno standard BS OHSAS 18001:2007, si può viceversa procedere con la certificazione soltanto in quest’ultimo caso.

Assodato ciò, e che le regole valevoli per gli enti di certificazione non lambiscono anche  l’asseverazione[39], continua a non apparire del tutto netta la collocazione di quest’ultimo ulteriore “strumento di attestazione”, né rispetto alla auto-dichiarazione prodotta dalla stessa organizzazione, né con riguardo alla certificazione di un ente terzo[40].

Tuttavia, la circolare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 29 luglio 2011, n. 20, offre interessanti spunti di riflessione pure su questo versante, sebbene essa  costituisca l’occasione per fornire chiarimenti in merito all’attività di formazione che enti bilaterali e organismi paritetici sono chiamati a svolgere. Sulla premessa che il T.U. e s.m.i. pongono la bilateralità in primo piano «quale strumento di supporto alle imprese e lavoratori per una corretta gestione delle attività di prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali», attribuendo compiti e funzioni «individuati dall’art. 51 del provvedimento» (secondo i criteri esposti supra), in capo al datore di lavoro si pone l’obbligo di «chiedere […] collaborazione unicamente agli organismi […], in possesso dei requisiti di legge appena richiamati, sempre che sussistano gli ulteriori elementi - che devono essere entrambi presenti - individuati ex lege (art. 37, comma 12, del d.lgs. n. 81/2008), vale a dire che l’organismo operi nel settore di riferimento (es. edilizia) e non in un diverso settore e che sia presente nel territorio di riferimento e non in diverso contesto geografico».

Certamente tale circolare  fornisce una linea-guida nell’attesa di un ulteriore eventuale intervento chiarificatore  del legislatore, fermo restando che gli organismi asseveranti, al fine di verificare il rispetto dei requisiti  posti dall’art. 30 T.U., devono strutturare ed applicare un’attività di auditing[41].

Al momento, sul piano formale, certificazione ed asseverazione si muovono, dunque, su due binari paralleli. Tuttavia, non sembra irrealistico che tra i due istituti s’istituisca un vicendevole e proficuo dialogo, delineante forme di osmosi[42] de iure condendo.

 

 

4.2 La ratio partecipativa quale elemento caratterizzante l’asseverazione di cui all’art. 51, comma 3-bis, del T.U.

 

Il sistema istituzionale delineato dal decreto legislativo n. 81/2008 mira alla realizzazione di una governance su base tripartita (Stato, Regioni e Parti sociali) delle attività in materia di salute e sicurezza sul lavoro, in modo tale da consentire l’individuazione di indirizzi di attività e vigilanza uniformi su tutto il territorio nazionale, attraverso il potenziamento dell’azione di coordinamento non solo a livello periferico ma anche a livello centrale. Il fine è quello di rendere più efficace l’individuazione di obiettivi e programmi dell’azione pubblica per il miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza dei lavoratori, razionalizzando l’azione di vigilanza ed evitando la sovrapposizione e la duplicazione degli interventi dei soggetti istituzionalmente a ciò deputati, nel pieno rispetto delle competenze regionali[43].

Tali finalità sono state perseguite anche con le disposizioni correttive dettate dal d.lgs. n. 106 del 2009 che, in un’ottica di semplificazione, hanno mirato a rendere maggiormente effettiva la tutela della salute e sicurezza sui luoghi di lavoro, valorizzando i profili sostanziali della materia. Il tutto, secondo un approccio per obiettivi (e non già solo per regole), attraverso linee di intervento volte in particolare a creare attorno agli attori principali del sistema, i lavoratori e le imprese, una rete di soggetti, pubblici e privati, chiamati a sostenerli. In altre parole, la riforma ha inteso superare la prospettiva tradizionale in base alla quale gli attori della prevenzione sono i soggetti pubblici (Ministeri, ASL, enti previdenziali e così via), rispetto ai quali i soggetti del rapporto di lavoro (lavoratori e imprese) sono utenti/destinatari finali, nella convinzione che la prevenzione e la sicurezza sia fatta soltanto di regole e di controlli e non già - anche e soprattutto - di comportamenti concreti e quotidiani.

Ne deriva che, in tale contesto, l’azione dei soggetti pubblici istituzionali, ai diversi livelli di intervento, deve svolgersi non più soltanto in funzione meramente sanzionatoria e repressiva, quanto piuttosto quale strumento per la costruzione di una moderna cultura della prevenzione e della sicurezza, condivisa all’interno degli ambienti di lavoro nel comune interesse dei lavoratori e delle imprese. L’idea del coinvolgimento dei diversi soggetti, e soprattutto di un “approccio partecipativo” all’interno della stessa compagine aziendale, mira proprio a ciò, ossia a costruire una coscienza e una cultura per la quale l’obiettivo sicurezza è un obiettivo, non di un solo o di pochi soggetti (l’imprenditore su tutti), ma di tutti coloro che fanno parte dell’organizzazione, con compiti e con responsabilità specifiche.

Il che trova espressione pure nella composizione dell'organismo paritetico.

La stessa composizione paritetica - nel senso che è stato riferito in precedenza – consente, infatti, di cogliere la specificità di questo organismo, e delle sue attività (per le quali pure è richiesta una competenza tecnica, a norma del comma 3-bis dello stesso art. 51), rispetto all'attività di certificazione. E la stessa “terzietà”, che del pari caratterizza il soggetto in questione, assume una connotazione specifica, a partire dalla circostanza che gli organismi in parola «sono l’espressione congiunta delle due istanze di rappresentanza degli interessi che vengono in gioco[44]».

In questo modo la natura partecipativa degli organismi e delle attività tecniche di supporto alle imprese, tra le quali si colloca l’asseverazione stessa, rende la valutazione espressa dall’organismo paritetico un quid  più aderente alla specificità dell’organizzazione aziendale cui si riferisce. Sottesa al lavoro di tali organismi è una sorta di investitura da parte dei soggetti dei quali sono espressione, vale a dire le organizzazioni datoriali e le organizzazioni sindacali[45].

Del resto, come autorevolmente osservato, l’approccio partecipativo sotteso all’attività di asseverazione trova riscontro negli stessi indirizzi comunitari, oggi rafforzati nella cornice del “programma Europa 2020”[46].

 

 

5. Valutazione giudiziale di adeguatezza ed efficacia del MOG

 

Di primaria rilevanza risulta essere la questione concernente l’applicazione della disciplina recata dal d.lgs. n. 231/2001, valutata alla luce di quanto emerso in sede giurisprudenziale. Premessa l’impossibilità di prescindere da un costante raffronto del modello di organizzazione e di gestione con la concreta realtà aziendale, l’individuazione di un criterio di valutazione che l’organo giudicante deve adottare nell’esame sull’adeguatezza costituisce un aspetto assai delicato.

Diffuse sono le pronunce, soprattutto della Corte di Cassazione, che hanno giudicato inadeguati i MOG in concreto adottati: inadeguatezza espressa con riferimento sia alla mappatura dei rischi sia alla composizione e all’autonomia dell’organismo di vigilanza[47], seppur detta impostazione non trovi sempre riscontro nella giurisprudenza di merito.

Di rilievo, tra le altre, appare la sentenza pronunciata  sulla “vicenda Impregilo” dal Tribunale di Milano[48], che ha prosciolto la società imputata, poi confermata anche dal giudice di secondo grado.

La Corte d’Appello, in particolare, ha ritenuto sussistente l’esimente di cui all’art. 6 del d.lgs. n. 231/2001, dal momento che l’ente incolpato aveva introdotto ed efficacemente attuato al proprio interno (prima che i fatti di reato venissero posti in essere) un modello di organizzazione e gestione teso ad evitare la commissione di illeciti poi effettivamente verificatisi, «tanto che detti comportamenti si erano resi possibili solo grazie ad una violazione dei canoni di condotta stabiliti dalla stessa S.p.a.». In altri termini, stante l’adozione ed efficace attuazione del MOG da parte della società, la condotta posta in essere dai soggetti apicali ha comportato un’elusione fraudolenta del modello medesimo. Cosicché la Corte di Appello di Milano ha osservato che «il comportamento fraudolento in quanto tale non può essere impedito da nessun Modello organizzativo e in particolare nemmeno dal più diligente Organismo di vigilanza».

Appare essenziale verificare - e va ribadito -   il modello in quanto calato nella realtà aziendale, valutandone l’efficacia al momento della sua concreta adozione ed attuazione, poiché «occorre verificare la causa dell’elusione che ha agevolato la consumazione dei reati». Se ne ricava che l’esame dell’organizzazione dell’ente, da parte del giudice, non può prescindere dall’analisi della realtà aziendale in cui la stessa organizzazione acquisisce vitalità. E in tal senso merita rilevare come parte della giurisprudenza di merito sia incline ad impostare questa tipologia di analisi tenendo certamente conto dei principi stabiliti dal legislatore, ma altresì non dimenticando la varietà e il dinamismo che caratterizzano l’attività imprenditoriale. Come a dire che il giudice non possa astenersi né da un controllo approfondito delle regole di condotta imposte dall’ente, né dalla contestuale verifica della loro concreta declinazione nella prassi aziendale.

Infine, tornando alle pronunce della giurisprudenza di legittimità[49], ai fini della configurazione della responsabilità risulta dirimente pure il raffronto tra concrete modalità in cui si svolge il fatto di reato e la verifica della violazione della normativa in materia di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro cagionante l’infortunio, nell’ottica di verificare se, ex ante, abbia consentito il conseguimento di un vantaggio o vi fosse rispondenza all’interesse dell’ente (nel predetto senso di risparmio dei costi, ad es., di adeguamento dell’attrezzatura di lavoro). In caso positivo, devono ritenersi responsabili sia l’autore della trasgressione, sia l’ente di appartenenza.

 

 

6. Dibattito sulla efficacia esimente dell’asseverazione rispetto alla responsabilità amministrativa dell’ente ex d.lgs. n. 231/2001
 

L’obbligo di sicurezza gravante sul datore di lavoro va inteso in senso esteso, tale da ricomprendere non solo i precetti prevenzionistici nominati, ma anche quelli innominati: “tutto il possibile”, per dirla con la giurisprudenza[50] che ha interpretato l’art. 2087 c.c., a mente del quale - come noto - si richiede l’adozione delle «misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro».

Del resto dalla conformità ed efficace attuazione del MOG (art. 30, comma 1, del T.U.), al fine di conseguire un miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza dei prestatori di lavoro, in definitiva dipende l’efficacia esimente del modello stesso. A riprova del fatto che il legislatore delegato non richiede il mero rispetto di requisiti formali una tantum, vanno presi in esame i successivi commi 3 e 4 dell’art. 30, laddove si dispone che «il modello organizzativo deve in ogni caso prevedere […] un’articolazione di funzioni che assicuri le competenze tecniche e i poteri necessari per la verifica, valutazione, gestione e controllo del rischio» e per il «controllo sull’attuazione del medesimo modello e sul mantenimento nel tempo delle condizioni di idoneità delle misure adottate».

Un aspetto, in particolare, è oggetto di un vivo dibattuto dottrinale[51]: se l’asseverazione stessa consenta l’affidamento del datore di lavoro sulla bontà del modello e dunque organizzativa dell’impresa fino ad ulteriori innovazioni tecnologiche o riassetto organizzativo, potendosi di conseguenza escludere l’elemento soggettivo del reato in caso di successivo infortunio.

Secondo una parte della dottrina, anche se la compiuta asseverazione da parte delle commissioni paritetiche tecnicamente competenti (istituite presso l’organismo paritetico) costituisce una «forma di implementazione delle esigenze di certezza del diritto […], in quanto la sua concreta attuazione garantisce l’adozione di un reale sistema di “riparto delle competenze”»[52], da essa non potrebbe derivarne un’aprioristica affermazione della sussistenza di un principio di affidamento datoriale e, pertanto, di esclusione  dell’elemento soggettivo del reato, e neppure della responsabilità del datore di lavoro, nel caso in cui si verifichi un successivo infortunio. Pur riscontrandosi un incremento degli standard protettivi, l’affermazione della responsabilità del datore di lavoro, come anche degli altri soggetti obbligati a rendere operativa la disciplina in materia di sicurezza sul lavoro, coesisterebbe con l’adozione e l’esatta attuazione del MOG[53]. Senz’altro gli organi di vigilanza possono tener conto della rilasciata asseverazione al fine di programmare la propria attività, ma si dovrebbe tenere presente «come la stessa asseverazione riguardi esclusivamente i modelli di cui all’art. 30 del d.lgs. n. 81/2008 e non l’avvenuto adempimento degli obblighi che gravano, a livello individuale, sul datore di lavoro e sugli altri soggetti del sistema prevenzionistico aziendale»[54]. Soltanto mediante l’accertamento giudiziale potrebbe addivenirsi ad un’esaustiva analisi della conformazione oggettiva del pericolo e dell’adeguatezza delle misure di tutela della sicurezza adottate in azienda[55].  Peraltro, l’art. 51 comma 3-bis del d.lgs. n. 81/2008 , il quale allude alla circostanza che gli organi di vigilanza possano «tener conto ai fini della programmazione delle proprie attività», va letto nel senso che la loro considerazione si riferisce non solo all’asseverazione, quanto alla più ampia attestazione delle attività e dei servizi includente l’asseverazione stessa[56].

Altra parte della dottrina invece è di contrario avviso, affermando che l’adozione ed efficace attuazione del MOG sia quantomeno in grado di escludere l’elemento soggettivo della colpa, necessario - insieme al nesso di causalità tra condotta datoriale ed evento - al fine di  configurare il reato previsto dal comma 1 dell’art. 589 c.p. Partendo dal dato normativo, dovrebbe darsi il giusto peso al dispositivo dell’art. 30 del d.lgs. n. 81/2008, a mente del quale l’ente paritetico è chiamato non solo all’adozione, ma anche all’efficace attuazione del modello di organizzazione e di gestione, ossia dovrebbe perseguire una verifica dell’efficienza del MOG all’interno del contesto aziendale di riferimento[57]. L’art. 30, letto in combinato disposto con l’art. 2, comma 1, lettera dd), del d.lgs. n. 81/2008, statuente l’idoneità dei modelli in parola «a prevenire i reati di cui agli articoli 589 e 590, comma 3, c.p., commessi con violazione delle norme antinfortunistiche e sulla tutela della salute sul lavoro», sarebbe in grado di fondare l’affidamento del datore di lavoro[58]. Da parte di taluni l’istituto dell’asseverazione viene considerato quale “standard ermeneutico” della norma dispositiva di cui all’art. 2087 c.c., orientante il giudice nella decisione del caso concreto[59]; altri esprimono perplessità circa la possibilità di pervenire ad accorgimenti in grado di prevenire qualsivoglia evenienza infortunistica[60], a fortiori se di carattere eccezionale e puramente casuale. In definitiva bisognerebbe considerare la rilevanza che l’asseverazione del MOG assume in sede di giudizio della responsabilità civile e penale, nel senso di inquadrala quale «oggetto di una considerazione (ed eventualmente confutazione) specifica nella motivazione della decisione del giudice»[61].

 

 

7.  Asseverazione e responsabilità individuali del datore e dei soggetti apicali: assenza di una presunzione, possibile incidenza sul grado di colpa
 

L’adozione dei MOG si colloca su un piano collettivo, distinto rispetto a quello delle responsabilità datoriali individuali, le quali scaturiscono dalla mancata ottemperanza alla normativa prevenzionistica da parte dei titolari di posizione di garanzia. In effetti, l’asseverazione non concerne l’esatto adempimento degli obblighi gravanti sul datore di lavoro, ma soltanto la corretta realizzazione dei MOG, la cui adozione ed efficace attuazione costituisce senz’altro un utile ausilio “organizzativo” per l’osservanza dei primi, senza che però sia soppiantato il fondamento delle correlate responsabilità, ai sensi dell’art. 2087 c.c.: in altre parole, le due sfere delineate risultano comunicanti, non coincidenti[62].

In questo senso si è anche espressa la giurisprudenza, secondo la quale neppure l’assenza di contestazioni da parte degli organi di vigilanza, in sede ispettiva, determina l’immunità dell’imprenditore dalle conseguenze derivanti dalla circostanza che egli stesso risulta primo destinatario delle norme antinfortunistiche[63].

Tale indirizzo, del resto, appare in linea col diritto europeo, ove il principio della responsabilità datoriale viene interpretato in modo stringente, potendo essere esclusa o limitata, ex art. 5 della Direttiva 89/391/CEE, soltanto «per fatti dovuti a circostanze […] estranee, eccezionali e imprevedibili, o a eventi eccezionali, le conseguenze dei quali sarebbero state comunque inevitabili, malgrado la diligenza osservata»[64].

Risulta chiara, come detto,  la scelta del legislatore italiano del 2008 di tracciare un modello di prevenzione di carattere partecipativo. Più nel dettaglio, si è inteso ascrivere all’asseverazione dei MOG una limitata valenza formale ma, al contempo, una notevole rilevanza sostanziale.

A livello formale (come evidenziato supra) c’è la possibilità che essa incida sulla programmazione dell’attività degli organismi di vigilanza. È però sul piano sostanziale che l’asseverazione gioca un ruolo decisivo, poiché rappresenta un perno della strategia della prevenzione aziendale in virtù della sua cifra paritetica, ossia grazie alla realizzazione di un coinvolgimento dei rappresentanti delle parti sociali[65], più affidabile, dal punto di vista del legislatore, in rapporto al fine prevenzionistico.

D’altra parte, tenendo presenti la cornice del d.lgs. n. 231/2001 e l’art. 30 del d.lgs. n. 81/2008, la Suprema Corte[66] ha statuito che «l’ente è responsabile ove la pubblica accusa provi che il soggetto che ricopra al suo interno sia posizioni apicali, sia subordinate, ha commesso il reato presupposto nell’interesse (inteso come proiezione finalistica dell’azione) o a vantaggio (inteso come potenziale ed effettiva utilità anche di carattere non patrimoniale ed accettabile in modo oggettivo) dell’ente», agganciandosi ai criteri di imputazione oggettiva della responsabilità dell’ente, previsti dall’art. 5 del d.lgs. n. 231/2001. I giudici di legittimità, poi, hanno statuito altri  due principi basilari: se la suddetta prova non viene conseguita o fallisce, «l’ente, anche se non ha adottato alcun modello di organizzazione e gestione idoneo a prevenire i reati, non può essere ritenuto responsabile di alcunché»; se, al contrario, la prova viene fornita, «l’unico modo per l’ente di sfuggire alla declaratoria di responsabilità per il reato presupposto, è quello di dimostrare di avere adottato un idoneo modello di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati».

 

 

8. Considerazioni conclusive
 

Dalla complessiva analisi della disciplina relativa all’asseverazione dei MOG emerge, quale leitmotiv, l’esigenza che gli operatori del diritto si rapportino costantemente al contesto aziendale al fine della valutazione circa l’adozione ed efficace attuazione del modello. Si tratta di un approccio per obiettivi di carattere “sostanzialistico”, teso cioè alla realizzazione di un sistema di prevenzione fondato non tanto sul formale rispetto una tantum di regole “calate dall’alto”, quanto su comportamenti concreti allineati al principio della massima sicurezza fattibile ex 2087 c.c., implicante un costante e dinamico aggiornamento dei sistemi di sicurezza preordinati a circoscrivere l’area del rischio insito nell’attività lavorativa.

Senz’altro si tratta di un istituto che incide in modo positivo sulla ripartizione intersoggettiva degli obblighi in materia di sicurezza, comportando pure un rafforzamento dell’istanza di certezza del diritto. Tuttavia, l’asseverazione  si sostanzia nell’attestazione dell’idoneità del singolo MOG in quanto indice sottoposto al vaglio dell’organo giudiziario, il quale è pur sempre detentore di un significativo margine di discrezionalità: ciò comporta che, nell’ambito della valutazione della sussistenza o meno dell’elemento soggettivo del reato, l’applicazione/attuazione del modello asseverato costituisce - di certo non l’unico bensì - uno degli indici che possono assumere rilievo ai predetti fini. Per quanto contiguo, il piano del MOG è distinto da quello costituito dal complesso di obblighi gravanti sul datore di lavoro, primo destinatario della normativa di sicurezza sul lavoro.

In chiusura può risultare proficuo un cenno ai molteplici effetti premiali, inseriti nella cornice del d.lgs. n. 231/2001, derivanti dalla compiuta realizzazione e applicazione dei modelli.

Con riferimento ai soggetti sottoposti all’altrui direzione, l’art. 7 stabilisce che va esclusa l’inosservanza degli obblighi di direzione o vigilanza qualora l’ente, precedentemente alla commissione del reato, abbia adottato ed efficacemente attuato un modello atto alla prevenzione dei reati della specie di quello verificatosi. Richiedendosi al comma 4, affinché si determini l’«efficace attuazione del modello», la sussistenza di «a) una verifica periodica e l’eventuale modifica dello stesso quando sono scoperte significative violazioni delle prescrizioni ovvero quando intervengono mutamenti nell’organizzazione o nell’attività; b) un sistema disciplinare idoneo a sanzionare il mancato rispetto delle misure indicate nel modello».

Ai sensi dell’art. 12, comma 2, del d.lgs. n. 231/2001 è prevista una riduzione di sanzione pecuniaria da un terzo alla metà se, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, l’ente abbia «adottato e reso operativo un modello organizzativo idoneo a prevenire reati della specie di quello verificatosi».

Tra le condizioni enunciate dall’art. 17 del d.lgs. n. 231/2001 affinché non trovino applicazione sanzioni interdittive, è previsto, anche in tal caso, che prima della dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado, si riscontri quella della eliminazione, da parte dell’ente, delle «carenze organizzative che hanno determinato il reato mediante l’adozione e l’attuazione di modelli organizzativi idonei a prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi». Inoltre, al realizzarsi degli adempimenti di cui al medesimo art. 17, ex art. 49 il giudice può sospendere eventuali misure cautelari, e altresì può revocarle in base al successivo art. 50.

Infine, l’art. 65 del d.lgs. n. 231/2001 dispone che, prima dell’apertura del dibattimento, «il giudice può disporre la sospensione del processo se l’ente chiede di provvedere alle attività di cui all’art. 17 e dimostra di essere stato nell’impossibilità di effettuarle prima».

 


[1] Il Treccani, vocabolario della lingua italiana, qualifica il correlato verbo “asseverare” (dal latino asseverare, composto dal prefisso ad- e dall’aggettivo severus «severo, solenne») come l’«affermare con decisione e sicurezza».

[2] Per il significato che l’istituto dell’asseverazione assume in altri contesti giuridici, mi sia consentito rinviare a P. Pascucci, L’asseverazione dei modelli di organizzazione e gestione, in I Working Papers di Olympus, n. 43/2015, 6; E. Ales e Aa.Vv., Sicurezza del lavoro e certezza del diritto - Le risposte, in A. Vallebona, Sicurezza del lavoro e certezza del diritto, in www.plusplus24lavoro.ilsole24ore.com, 2009, 3.

[3] Come evidenziato da A. Delogu, L’asseverazione dei modelli di organizzazione e di gestione della sicurezza sul lavoro di cui all’art. 30 del d.lgs. n. 81/2008: analisi e prospettive, in Diritto della Sicurezza sul Lavoro, n. 1/2018, 9.

[4] Di questo avviso M. Lai, Gli organismi paritetici, in M. Tiraboschi e L. Fantini (a cura di), Il testo unico di salute e sicurezza sul lavoro dopo il correttivo (d.lgs. n. 106/2009), Milano, 2009, 493.

[5] Sul punto v. A. Bondi, Diritto penale e sicurezza sul lavoro, persone ed enti, in P. Pascucci, P. Campanella (a cura di), La sicurezza sul lavoro nella galassia delle società di capitali, in I Working papers di Olympus, n. 44/2015, 49 ss.

[6] Cfr. A. Delogu, cit., 27.

[7] Cfr. Aa.Vv., MOG e 231/01: principi, aspetti legali e strumenti operativi : sistemi di gestione della salute e sicurezza sul lavoro e della tutela ambientale, Milano, Associazione ambiente e lavoro, 2016, 84.

[8] Le Regioni avevano espresso parere negativo in sede di Conferenza Stato-Regioni, come evidenziato da A. Andreani, I modelli di organizzazione e di gestione, in M. Persiani e M. Lepore (diretto da), Il nuovo diritto della sicurezza sul lavoro, UTET giuridica, Milanofiori Assago, 2012, 489.

[9] Espressione impiegata da P. Pascucci, L’asseverazione dei modelli di organizzazione e gestione, cit., 4. A. Delogu, cit., 13, propone un chiarimento da parte del legislatore, funzionale tanto all’interprete quanto all’operatore giuridico.

[10] Su cui v. più nel dettaglio infra.

[11] Ampia letteratura è stata dedicata al tema della responsabilità amministrativa, come disciplinata dal d.lgs. n. 231/2001. Tra i contributi più recenti, v. A. Perini, G. Amato, La responsabilità amministrativa delle società e degli enti: commento al D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Bologna, Zanichelli, 2014; M. Arena, La responsabilità amministrativa delle imprese: il D. Lgs. n. 231/2001: normativa, modelli organizzativi, temi d’attualità, Matelica, Nuova Giuridica, 2015; A.R. Carnà, I.A. Savini, La responsabilità amministrativa degli enti ex D.lgs. 231/2001: profili economico-aziendali, normativi, giurisprudenziali e comparativistici, Milano, Le fonti, 2015; S.M. Corso, Lavoro e responsabilità di impresa nel sistema del D. lgs. 8 giugno 2001, n. 231, Torino, Giappichelli, 2015; Aa.Vv., Responsabilità da reato delle aziende: modelli 231 e ambiente, Milanofiori Assago, Wolters Kluwer, 2016; F. Sbisà, Responsabilità amministrativa degli enti (d.lgs. 231/2001), Milanofiori Assago, Wolters Kluwer, 2017; C. Odorizzi, Modelli organizzativi 231: la responsabilità amministrativa e penale dopo la nuova Privacy europea, Milano, Il sole 24 ore, 2018.

[12] Cfr. Cass. pen., sez. II, 27 settembre 2006, n. 31989, in Cassazione penale, 2007, 2884.

[13] Cfr. Cass. pen., sez. V, 26 aprile 2012, n. 40380. V. pure Cass. pen., 9 gennaio 2018, n. 295.

[14] Così Trib. Milano, 28 aprile 2008, in Foro ambrosiano, 2008, 3, 329. Da ultimo, sulla nozione di vantaggio Cass. pen., 29 ottobre 2015, n. 43689.

[15] La giurisprudenza di merito, infatti, ha ritenuto che nei reati colposi «l’unico criterio ascrittivo applicabile nei confronti dell’ente è quello dell’interesse, elemento da porsi in relazione solamente alla condotta che ha prodotto l’evento del reato e non anche all’evento stesso». Trib. Cagliari, 4 luglio 2011, in Rivista dei dottori commercialisti, 2012, 4, 918.

[16] Cass. pen., sez. V, 4 marzo 2014, n. 10265.

[17] Assunto confermato dalla Relazione ministeriale al d.lgs. n. 231/2001, nel punto in cui afferma che «le imprescindibili garanzie del diritto penale devono essere estese anche ad altre forme di diritto sanzionatorio a contenuto punitivo, a prescindere dalle astratte “etichette” giuridiche che il legislatore vi apponga», facendo esplicito riferimento ad una «rinnovata concezione della colpevolezza in senso normativo (riprovevolezza)» che permetterebbe «oggi di adattare comodamente tale categoria alle realtà collettive».

[18] «Il sistema prevede la necessità che sussista la cosiddetta colpa di organizzazione dell’ente, basata sul non aver predisposto una serie di accorgimenti preventivi idonei ad evitare la commissione di uno dei reati presupposti: è il riscontro di tale deficit organizzativo che, quindi, consente l’imputazione all’ente dell’illecito penale realizzato nel suo ambito operativo». Così Cass. pen., sez. VI, 18 febbraio 2010, n. 27735, in Cassazione penale, 2011, 5, 1876.

[19] Sull’argomento si sono soffermati, tra gli altri, S. Bartolomucci, La metamorfosi normativa del modello penal-preventivo in obbligatorio e prevalidato: dalle prescrizioni regolamentari per gli emittenti S.T.A.R. al recente art. 30 t.u. sicurezza sul lavoro, in Rivista 231, 3/2008, 160; A. Mazzeranghi, Modelli organizzativi in materia di sicurezza sul lavoro: come interpretare in modo organico le disposizioni legislative, in Rivista 231, 4/2009, 43.

[20] Largamente utilizzata dalla stessa giurisprudenza, si tratta di una categoria concettuale sulla quale si sofferma S. Pesci, La sicurezza presso gli uffici giudiziari. Sistema sanzionatorio, Incontro organizzato dal Ministero della giustizia - Ispettorato generale, Lido di Ostia, 10 e 11 settembre 2008. Più diffusamente, sull’argomento cfr. D. Piva, La responsabilità del "vertice" per organizzazione difettosa, Iovene, Napoli, 2011.

[21] Ex multis, cfr. R. Del Punta, Diritto del lavoro, Giuffrè, Milano, 2017, 308 e ss.

[22] Rileva, a riguardo, che la giurisprudenza abbia ammesso, anche nella materia prevenzionistica, l’ipotesi del dolo eventuale, ovvero della colpa cosciente. Cfr. Trib. Torino, II Corte di Assise, 14 aprile 2011, n. 31095, sul caso Thyssenkrupp. Sulla vicenda è poi intervenuta Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343.

[23] Purché non in violazione di legge, né comportanti un intaccamento degli obblighi in materia di salute e sicurezza sul lavoro. Cfr. A. Delogu, cit., 19.

[24] V. Fondazione RubesTriva (a cura di), L’asseverazione dei modelli di organizzazione e gestione della sicurezza sul lavoro (MOG) - Questioni interpretative e applicative, 16.

[25] In particolare Cass. civ., sez. III, 30 marzo 1998, n. 3341.

[26] Numerose, all’indomani del noto referendum abrogativo del 1995, le pronunce giurisprudenziali di legittimità circa il requisito della rappresentatività, necessario ai fini della costituzione di r.s.a. ex art. 19 della legge n. 300/1970 e ai fini della selezione dei beneficiari dei diritti previsti nel titolo III della medesima legge.

Di rilievo la pronuncia della Corte costituzionale del 2013, con la quale, oltrepassando i propri precedenti del 1996 (cfr. Corte cost., 12 luglio 1996, n. 244), si è dichiarata l’incostituzionalità dell’art. 19 stat. lav. nella parte in cui esclude il diritto a costituire r.s.a. per il sindacato che, nonostante abbia preso parte alla trattativa, non abbia sottoscritto il contratto applicato nell’unità produttiva (Corte. cost., 23 luglio 2013, n. 231).

[27] Così in Aa.Vv., MOG e 231/01: principi, aspetti legali e strumenti operativi : sistemi di gestione della salute e sicurezza sul lavoro e della tutela ambientale, cit., 89. Si propone anche una riscrittura dell’ultima parte, del tenore «[…] per avere in azienda un modello esimente completo e realmente funzionante».

[28] Cfr. Aa.Vv., MOG e 231/01: principi, aspetti legali e strumenti operativi : sistemi di gestione della salute e sicurezza sul lavoro e della tutela ambientale, cit., 91.

[29] Per un dettagliato commento alla circolare del Ministero del Lavoro, v. A. Andreani, C. Frascheri, Limiti, opportunità e nuove frontiere dei MOG per la salute e sicurezza, in Igiene e sicurezza del lavoro, n. 10/2011.

[30] Trattasi, nel primo caso, di atti di indirizzo, la cui attuazione (per espressa enunciazione degli Enti emittenti) non è obbligo di legge ma una «decisione volontaria liberamente assunta». Nel secondo caso, si ha riguardo a una «specifica tecnica», ai sensi dell’art. 2, comma 1, lettera u), del d.lgs. n. 81/2008, approvata da un’organizzazione internazionale di normalizzazione, la cui osservanza non è parimenti obbligatoria.

[31] Per dirla con C. Fiorio (a cura di), La prova nel processo agli enti, Giappichelli, Torino, 2016, 45.

[32] Chiarificante espressione impiegata da M. Lai, cit., 499.

[33] Come indica C. Lazzari, Gli organismi paritetici nel decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in I Working Papers di Olympus, n. 21/2013, 10. Amplius A. Barboni e Aa. Vv., Mutamento dei modelli di organizzazione del lavoro, gestione della sicurezza, certificazione, in M. Tiraboschi, L. Fantini (a cura di), cit., 83 ss.

[34] Puntuale riferimento anche in A. Delogu, cit., 13.

[35] Logicamente, si sarebbe anche dovuto imporre il rispetto delle regole disciplinanti le funzioni degli enti di certificazione, ricavabili dalle norme volontarie nazionali ed internazionali. Così A. Andreani, I modelli di organizzazione e di gestione, cit., 492. Sul tema si soffermano anche R. Li Carusi, V. Nastasi, MOG: modelli di organizzazione e gestione della sicurezza sul lavoro: le procedure semplificate nelle piccole e medie imprese: conforme al Decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali 13 febbraio 2014: con esempio di MOG per impresa edile, Palermo, Grafill, 2014, 20-21.

[36] Su questa linea si colloca la Fondazione RubesTriva, cit., 11.

[37] Nello specifico l’art. 11, comma 1, della direttiva quadro n. 89/391/CEE scuote dalle fondamenta la concezione dei lavoratori quali meri titolari di un diritto da far valere nei confronti dell’azienda: «[…] è inoltre indispensabile che essi siano in grado di contribuire, con una partecipazione equilibrata, conformemente alle legislazioni e/o prassi nazionali all’adozione di necessarie misure di protezione».

La stessa Cassazione si riferisce più volte alla “collettività dei lavoratori di ciascuna azienda” o addirittura alla “comunità di rischio”. Cfr. Cass. civ., sez. lav., 13 settembre 1982, n. 4874, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 1982, 525; Cass. civ., sez. lav., 5 dicembre 1980, n. 6339, in Il Foro italiano, 1980, c. 3001.

[38] Derivazione del latino tardo, certificare è composto da certus «certo» e facere «fare», stando al vocabolario Treccani.

[39] Cfr. A. Delogu, cit., 15.

[40] A tal proposito A. Andreani, cit., osserva che si pongono problemi anche per aziende multinazionali. Infatti, a causa della carenza di clausole di reciprocità, i MOG asseverati non sono validi all’estero.

[41] Quanto più confacenti alle Linee guida UNI EN ISO 19011:2003. Lo stesso A. Andreani, cit., ritiene non condivisibile la scelta del legislatore di porre, in definitiva, sullo stesso piano i due “sistemi auto-dichiarati” della certificazione e dell’asseverazione, anche perché si consente esclusivamente al secondo la possibilità di orientare l’attività di programmazione degli organi di vigilanza.

[42] P. Pascucci delinea tale prospettiva, prendendo le mosse dalla critica alla mancata attribuzione, alla Commissione consultiva permanente, della funzione di individuare criteri per valutare l’idoneità dei sistemi di controllo del MOG e dei criteri di qualificazione dei soggetti chiamati ad asseverare. Qui appare evidente l’aggancio ai consolidati principi alla base dei processi di certificazione dei sistemi di gestione. Cfr. P. Pascucci, L’asseverazione dei modelli di organizzazione e gestione, cit.

[43] V. anche P. Pennesi, Le azioni pubbliche, in G. Santoro Passarelli (a cura di), La nuova sicurezza in azienda, Ipsoa, Milano, 2008, 45 ss.

[44] In questi termini si esprime P. Pascucci, cit., 12.

[45] Sull’approccio partecipativo dei sistemi di controllo sui MOG in tema di sicurezza, v. L. Zoppoli, Il controllo collettivo sull’efficace attuazione del modello organizzativo diretto ad assicurare la sicurezza nei luoghi di lavoro, in I Working Papers di Olympus, n. 18/2012.

[46] Cfr. Fondazione RubesTriva, cit., 10 ss.

[47] Ex multis, cfr. Cass. pen., sez. un.,18 settembre 2014, n. 38343; Cass. pen., sez. VI, 19 luglio 2012, n. 1258.

[48] Trib. Milano, 17 novembre 2009, in Le Società, 2010, 473, con nota di C.E. Paliero, Responsabilità dell’ente e cause di esclusione della colpevolezza: decisione «lassista» o interpretazione costituzionalmente orientata?, e critica di V. Salafia, Per la prima volta il G.i.p Milano assolve una S.p.a. da responsabilità.

[49] In particolare, v. Cass. pen., sez. IV, 21 gennaio 2016, n. 2544.

[50] Cfr., ex plurimis, Corte cost., 25 luglio 1996, n. 312; Cass. civ., sez. lav., 10 gennaio 2007, n. 238; Cass. pen., sez. IV, 21 giugno 2006, n. 21442.

[51] Come rilevato da A. Vallebona, Sicurezza del lavoro e certezza del diritto, cit., 1. A monte della questione, l’autore si sofferma sulla posizione di forte incertezza del datore di lavoro, il quale, qualora incorra in un infortunio, rischia condanne civili e penali senza aver avuto la possibilità di conoscere ex ante le regole di condotta da rispettare, individuate solo ex post.

Sul tema, v. anche L. Fantini, A. Giuliani, Salute e sicurezza nei luoghi di lavoro, Giuffrè, Milano, 157 ss.

[52] Così E. Ales e Aa.Vv., Sicurezza del lavoro e certezza del diritto - Le risposte, in A. Vallebona, cit., 7.

[53] F. Basenghi, Sicurezza del lavoro e certezza del diritto - Risposte, cit., 8 ss., rinsalda la sua posizione osservando che l’asseverazione non comporta un’alterazione della natura giuridica del modello di organizzazione e, del resto, non implica un monitoraggio dinamico, bensì «costituisce l’esito di un processo in sé di tipo statico» riscontrandovi una criticità che la accomuna alla certificazione.

[54] In questo senso si esprimono P. Pascucci e G. Marra, Sicurezza del lavoro e certezza del diritto - Risposte, cit., 37.

[55] «Se mai, nei suoi limiti, l’atto dell’ente bilaterale può essere considerato dal giudice fra gli altri profili suscettibili di incidere sul suo convincimento» secondo E. Gragnoli, Sicurezza del lavoro e certezza del diritto - Risposte, cit., 23.

[56] Sul punto si esprimono L. Angiello e D. Bubbico, Sicurezza del lavoro e certezza del diritto - Risposte, cit., 8, i quali osservano che «pare logico ritenere che il datore di lavoro possa (e debba) fare affidamento sulle attestazioni rilasciate da predetti organi, soggetti terzi e competenti, che attestano la regolare attuazione delle disposizioni in tema di sicurezza».

[57] M. Martone, Sicurezza del lavoro e certezza del diritto - Risposte, cit., 32, allude ad un vero e proprio «pregio di assicurare al datore di lavoro adeguata certezza giuridica, sostituendo il controllo ex post del giudice - e, come tale, foriero di incertezza - con valutazione ex ante dell’organismo terzo».

[58] C. Pisani, Sicurezza del lavoro e certezza del diritto - Risposte, cit., 44, tuttavia, richiede la sussistenza di tre condizioni: pur risultando opportuno che il giudice faccia ricorso a tale standard, “tutto ciò vale sino alla diffusione nel settore di nuove misure e ad organizzazione immutata, senza successivi scostamenti da parte delle imprese rispetto alle misure asseverate». Sulle prime due si sofferma pure G. Proia, Sicurezza del lavoro e certezza del diritto - Risposte, cit., 45, quando scrive «salvo che nel lasso di tempo tra valutazione predetta e l’infortunio siano state apportate modifiche organizzative dall’imprenditore o si siano diffuse nel settore nuove misure tecnologiche idonee ad elevare gli standard di sicurezza», purché - aggiunge - la condotta dell’imprenditore non abbia condotto l’organismo paritetico ad «un’erronea valutazione» e il MOG asseverato non «sia stato colposamente o dolosamente alterato dal datore stesso».

[59] Su questa linea si colloca C. Romeo, Sicurezza del lavoro e certezza del diritto - Risposte, cit., 50.

[60] Così R. Del Punta, Sicurezza del lavoro e certezza del diritto - Risposte, cit., 16. Peraltro sarebbe da considerare che l’inadempimento «non dipende tanto dall’essere, o no, in colpa, quanto dall’impossibilità di provare l’impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile», come sottolinea M. Persiani, Sicurezza del lavoro e certezza del diritto - Risposte, cit., 40.

[61] Aspetto enfatizzato da P. Pascucci, cit., 13.

[62] In particolare, tra le tante, Cass. pen., sez. IV, 29 aprile 2003, n. 41985.

[63] Sul ruolo di primo piano assunto dal diritto sovranazionale si sofferma G. Natullo, Sicurezza del lavoro, Enciclopedia del diritto, Annali, IV, 2011, 579. La stessa Commissione europea, attraverso parere del 21 novembre 2012, ha invitato la Repubblica italiana ad intervenire sulla disciplina della delega, in quanto ritenuta non pienamente conforme.

[64] Oltre a contornare l’imprenditore da varie figure ausiliarie (medico competente, RLS, RSPP, ecc.), per dirla con P. Pascucci, cit., «si è anche scelto di individuare un ulteriore metodo di sostegno “esterno” alla stessa, vale a dire quello del supporto della pariteticità».

[65] Cass. pen., sez. II, 10 luglio 2015, n. 29512.