Cassazione Civile, Sez. 3, 27 maggio 2019, n. 14363 - Infortunio in itinere e ristoro dei danni


 

Presidente: AMENDOLA ADELAIDE Relatore: GUIZZI STEFANO GIAIME Data pubblicazione: 27/05/2019

 

Fatto

 

1. F.D. ricorre, sulla base di sette motivi, per la cassazione della sentenza non definitiva n. 737/13, del 4 giugno 2013, e della sentenza definitiva n. 158/15, del 5 febbraio 2015, della Corte di Appello di Genova, che - accogliendo il gravame esperito dall'Ufficio Centrale Italiano S.c.a.r.l. (d'ora in poi, "UCI") contro la sentenza n. 67/08, del 28 marzo 2008, del Tribunale di Savona, sezione distaccata di Albenga, che aveva accolto integralmente la domanda risarcitoria del F.D. contro l'UCI e R.B.G. - ha dichiarato inammissibile la domanda attorea, nella parte in cui mirava al ristoro del danni da perdita dell'azienda e di redditi futuri, circoscrivendo, invece, la liquidazione del danno biologico, al medesimo riconosciuto, alla differenza tra quanto liquidato dal primo giudice (€ 464.834,32) e quanto già corrisposto, per lo stesso titolo, dall'INAIL, determinando, così, l'importo dovuto in misura di € 246.804,86, ponendo, infine, a carico dell'UCI le spese di ambo i gradi di giudizio, ma solo nella misura di un quarto, compensandole per la restante parte.
2. Riferisce, in punto di fatto, il ricorrente di aver adito il Tribunale savonese sul presupposto di essere stato vittima - il giorno 11 febbraio 2003, in Albenga - di un sinistro stradale, causato dalla condotta di guida del R.B.G..
Costui, infatti, fuggito da una struttura psichiatrica in Cannes, mentre era alla guida di un veicolo circolante in territorio italiano in possesso di certificato internazionale di circolazione ed assicurato per la responsabilità civile con la società "Le Probin", nel tentativo di sottrarsi a un posto di blocco, travolgeva il furgone condotto dal F.D., cagionando gravi danni alla sua persona.
2.1. Essendo, però, rimasti infruttuosi i tentativi di ottenere il risarcimento dei danni nei confronti della società RAS (compagnia incaricata dall'LICI), il F.D. si rivolgeva all'autorità giudiziaria, concludendo - nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado - per il "risarcimento dei danni tutti, biologico, morale, patrimoniale". Costituitosi in giudizio l'UCI, lo stesso non contestava la responsabilità esclusiva del R.B.G. nella causazione del sinistro, rilevando, però, che il sinistro occorso all'odierno ricorrente era stato qualificato dall'INAIL come incidente "in itinere", provvedendo, pertanto, il predetto Istituto - ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38 - a liquidare la somma di € 153.546,50. Ciò premesso, la convenuta costituita si diceva pronta a liquidare - a titolo di cd. "danno differenziale" - l'importo di € 100.000,00, che si riservava di offrire "banco iudicis", con versamento effettivamente compiuto il 10 dicembre 2004, ma accettato dal F.D. solo a titolo di acconto.
Deduce, altresì, l'odierno ricorrente di aver precisato - nella memoria ex art. 183 cod. proc. civ. - che in conseguenza dell'infortunio patito lo svolgiménto dell'attività di floricultóre, cui èra dedito, era divenuto "troppo pesante a seguito delle lesioni subite", tanto da costringerlo "a dismettere l'azienda agricola" che gestiva.
A propria volta, in occasione del medesimo incombente processuale, l'UCI dichiarava che l'INAIL aveva agito in rivalsa nei suoi confronti, per il recupero delle somme erogate all'odierno ricorrente (ed esattamente, € 84.345,38 per danno biologico, nonché di € 69.201,14 per danno patrimoniale), essendo, pertanto, intervenuta - con il predetto Istituto previdenziale - un accordo transattivo in forza del quale al medesimo era stata corrisposta la somma di € 125.000,00, sicché il F.D. aveva diritto a pretendere soltanto la liquidazione del "danno differenziale". 
Sempre l'odierno ricorrente riferisce, poi, di aver prodotto - con la memoria ex art. 184 cod. proc. civ. - documentazione comprovante la perdita dell'azienda di cui era titolare, articolando, sul punto, pure taluni capitoli di prova testimoniale.
Il processo proseguiva anche attraverso lo svolgimento di doppia CTU, l'una di natura medico-legale, l'altra volta ad accertare il valore dell'azienda perduta ed il danno patrimoniale da lucro cessante per la perdita di redditi futuri.
All'esito dell'istruttoria, il giudice di prime cure accoglieva integralmente la domanda attorea, liquidando - a titolo di danno sia patrimoniale che non patrimoniale - l'importo di € 1.649.191,72, sicché il ricorrente riferisce di aver notificato, in data 8 aprile 2008, atto di precetto all'UCI, per il pagamento di quanto dovuto in base a sentenza, detratto l'acconto già da essa versato (€ 100.000,00) e le rendite INAIL percepite a quella data (ovvero, € 153.546,50 per indennizzo del danno biologico e patrimoniale, ed € 9.193,09 per inabilità temporanea assoluta).
La somma residua, "devalutata e rivalutata per il calcolo degli interessi e maggiorata delle spese legali liquidate dal Tribunale e delle spese di precetto", risultava, pertanto, pari ad € 1.657.097,14, dei quali l'UCI provvedeva al pagamento il 24 aprile 2008.
2.2. La sentenza del Tribunale di Savona era oggetto di gravame da parte dell'UCI.
La Corte di Appello di Genova, con la già ricordata sentenza non definitiva n. 737/13, dichiarava inammissibile la domanda di risarcimento del danno patrimoniale, ritenendo che il danno da perdita dell'azienda e quelli per la perdita di redditi futuri fossero "danni di tipo del tutto diverso di quelli allegati in precedenza", mai "fatti valere in causa", bensì "richiesti solo nella comparsa conclusionale". 
Inoltre, la medesima sentenza ha riconosciuto fondato il motivo di gravame dell'LICI, secondo cui il Tribunale non avrebbe tenuto conto, defalcandoli dal dovuto, degli importi già erogati dall'INAIL a titolo di risarcimento del danno biologico. La pronuncia del giudice di prime cure, infatti, dava atto che - in data 25 gennaio 2006 - l'Istituto previdenziale, accertato un peggioramento della inabilità del F.D., aveva riconosciuto una riduzione della capacità lavorativa pari al 65%. Orbene, poiché ai sensi del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, le somme erogate dall'INAIL costituiscono parziale copertura anche del danno biologico, risultava necessario accertare - sempre secondo la suddetta sentenza non definitiva della Corte ligure - quale fosse l'importo della rendita capitalizzata, erogata dall'INAIL successivamente alla revisione dei postumi dell'infortunio, di modo da detrarla da quanto dovuto dall'UCI in favore dell'odierno ricorrente. Tale somma, infatti, e non quella di € 125.000,00 oggetto di transazione tra INAIL ed UCI, doveva essere presa in considerazione ai fini del computo del "danno differenziale". Di qui, pertanto, anche la decisione del giudice di appello di rimettere la causa in istruttoria, per chiedere un'informativa all'INAIL sugli importi erogati al F.D..
Acquisita la richiesta informativa, la Corte genovese, con successiva sentenza definitiva n. 158/15, previamente ribadite le precedenti decisioni, nel prendere atto che l'INAIL indicava la rendita capitalizzata - corrispondente a un danno permanente quantificato, da ultimo, nella misura del 70% - in € 247.269,70, determinava il danno differenziale in C 246.804,86 (somma sulla quale aggiungere, ciò che qui, peraltro, non rileva, l'importo dovuto quale danno esistenziale).
3. Avverso le due sentenze della Corte ligure ha proposto ricorso per cassazione il F.D., sulla base di sette motivi. 
3.1. Con il primo motivo - che investe entrambe le sentenze ed è proposto ai sensi dell'art. 360, comma 1, nn. 3) e 4), cod. proc. civ. - si deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 99, 163 e 183 cod. proc. civ. (l'ultima norma, nel testo anteriore alle modifiche apportate dall'art. 2 del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80), nonché degli artt. 2043, 2054 e 2056 cod. civ., oltre che dell'art. 112 cod. proc. civ.
Si censura la declaratoria d'inammissibilità della domanda di risarcimento del danno patrimoniale, pronunciata dalla Corte genovese sul presupposto che il danno da perdita dell'azienda e quelli per la perdita di redditi futuri fosse stata proposta solo con la comparsa conclusionale.
Si tratta di pronuncia che, secondo il ricorrente, viola i principi di unitarietà del risarcimento ed infrazionabilità del giudizio di liquidazione, in forza dei quali la domanda risarcitoria relativa alla condotta del convenuto "riguarda necessariamente tutte le possibili voci di danno derivanti da detta condotta".
Nella specie, poi, il ricorrente assume di aver chiesto - sin dall'atto introduttivo il giudizio di primo grado - il "risarcimento dei danni tutti, biologico, morale, patrimoniale (...) subiti (...) in occasione e conseguenza del sinistro", indicando, in particolare, di essere "titolare di un'impresa di floricultura", ma di non essere "stato più in grado" - pur dopo la guarigione dalle lesioni subite - "di reggere gli intensi ritmi lavorativi" in precedenza osservati.
Ciò posto, il F.D. rammenta, inoltre, che ai fini dell'interpretazione della domanda occorre avere riguardo non solo alle deduzioni e conclusioni tratte dall'atto introduttivo del giudizio, "ma anche alla condotta processuale delle parti, nonché delle prescrizioni e specificazioni intervenute in corso di causa" (è citata Cass. Sez. 2, sent. 16 settembre 2004, n. 18653, R. 577133-01). Di conseguenza, la circostanza che esso abbia utilizzato le memorie ex artt. 183 e 184 cod. proc. civ. per riferire, dapprima, il fatto di svolgere, pur dopo la guarigione dalle lesioni riportate nell'incidente, "soltanto saltuariamente" la propria attività, e di essersi, pertanto, "ormai determinato, suo malgrado, a cedere l'azienda agricola, nonché di averla cessata nel settembre /ottobre 2005 (chiedendo, per giunta, di fornire sul punto prova testimoniale), confermerebbe che il "thema decidendum" ha sempre compreso il ristoro del danno da perdita dell'azienda e dei redditi futuri.
D'altra parte, in tal senso, deporrebbero le stesse difese dell'llCI, articolate anche in ordine alla non spettanza "del danno patrimoniale da incapacità lavorativa specifica permanente e temporanea" e, segnatamente, a quello derivante dalla perdita dell'azienda da parte del F.D., nonché lo svolgimento, accanto alla CTU medico-legale, di altra "tecnico-contabile", volta a determinare il valore dell'azienda che il ricorrente aveva dovuto cessare ed a quantificare il lucro cessante.
3.2. Con il secondo motivo - strettamente connesso a quello che precede e proposto ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ. - si deduce "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio".
Si censura la decisione della Corte di Appello, giacché il "fatto storico del progressivo aggravamento dei danni patrimoniali, fino alla perdita dell'azienda, più volte rappresentato dall'esponente nel processo, è stato del tutto trascurato", senza tacere del fatto che la sentenza impugnata sarebbe affetta da motivazione "perplessa e obiettivamente incomprensibile", nonché contraddistinta dal "contrasto tra affermazioni inconciliabili". Per un verso, infatti, essa ritiene ammissibile l'ampliamento della domanda a condizione che i danni di cui si chiede il ristoro trovino la loro fonte nella stessa "causa petendi" e presentino la medesima natura di quelli allegati in precedenza, salvo poi negare la ricorrenza di una simile evenienza nel caso di specie; per altro verso, la pronuncia da atto che il F.D., nella memoria ex art. 183 cod. proc. civ., assunse di aver cessato l'attività di floricultore in conseguenza dell'invalidità riportata, per poi affermare che la domanda risarcitoria relativa ai danni per la perdita dell'azienda e dei redditi futuri sarebbe stata formulata solo in comparsa conclusionale.
3.3. Con il terzo motivo - che investe entrambe le sentenze ed è proposto ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. - si deduce violazione e/o falsa applicazione dell'art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 e degli artt. 2043 e 2054 cod. civ.
Si contesta la sentenza impugnata laddove ha circoscritto il risarcimento del danno biologico nei limiti del cd. "danno differenziale", a dispetto del fatto che l'indennizzo accordato dall'INAIL al lavoratore per l'infortunio "in itinere" ed il risarcimento del danno accertato a carico del terzo responsabile "non sono sovrapponibili, avendo presupposti, finalità, nonché metodi di liquidazione differenti", avendo il primo natura, appunto, indennitaria ed essendo dovuto per il semplice verificarsi dell'infortunio, non richiedendone la configurabilità anche come fatto illecito. Lo confermerebbe, del resto, la circostanza che la rendita INAIL, diversamente dal risarcimento, non risulta dovuta agli eredi in caso di sinistro comportante il decesso del potenziale beneficiario.
3.4. Il quarto motivo - strettamente connesso a quello che precede e proposto ai sensi dell'art. 360, comma 1, nn. 3) e 5), cod. proc. civ. - deduce, sotto altro profilo rispetto a quello considerato dal precedente, violazione e/o falsa applicazione dell'art. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 e degli artt. 2043 e 2054 cod. civ., nonché "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio".
Nella denegata ipotesi in cui questa Corte dovesse confermare la necessità di detrarre la rendita INAIL dal risarcimento del danno, si ritiene che la detrazione debba operare nei limiti dell'importo di €125.000, oggetto di transazione tra l'Istituto previdenziale e l'UCI, giacché, diversamente opinando, quest'ultimo soggetto "si gioverebbe di un indebito vantaggio", giacché otterrebbe dall'odierno ricorrente "una somma maggiore rispetto a quanto restituito" ad INAIL.
D'altra parte, l'affermazione con cui la Corte territoriale ha giustificato l'integrale detrazione della rendita, e secondo cui "altro è il credito che il danneggiato aveva nei confronti dei danneggiante", ed "altro è l'importo che l'Istituto assicuratore ha accettato in via transattiva" costituirebbe, nuovamente, "motivazione meramente apparente".
3.5. Il quinto motivo - formulato ai sensi dell'art. 360, comma 1, nn. 3) e 5), cod. proc. civ. - ipotizza, sotto un ulteriore profilo, violazione e/o falsa applicazione dell'att. 13 del d.lgs. n. 38 del 2000 e degli artt. 2043 e 2054 cod. civ., nonché "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio".
Si censura, nuovamente, l'integrale decurtazione della rendita INAIL dal risarcimento, giacché - in base ad essa - l'UCI "si gioverebbe di un secondo indebito vantaggio". Esso, in particolare, sarebbe costituito dal fatto che la percentuale di invalidità riconosciuta dall'Istituto previdenziale al F.D. è stata innalzata, nel 2013, al 70%, mentre l'UCI ha corrisposto un risarcimento sulla base di una percentuale di invalidità permanente del 55% fissata dalla CTU medico-legale effettuata nel 2007.
Sul punto, peraltro, nulla sarebbe detto dalla sentenza impugnata, inficiata, pertanto, da omessa motivazione ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio.
3.6. Il sesto motivo - che investe la sola sentenza definitiva n. 158/15 ed è formulato ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. - ipotizza violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1243 e 2033 cod. civ., nonché dell'art. 336 cod. proc. civ.
Si censura la sentenza laddove stabilisce che il ricorrente è tenuto a restituire all'UCI la differenza fra € 1.657.097,00 - versata al F.D. in forza del già ricordato atto di precetto dell'8 aprile 2008 - e l'importo risultante dalla sommatoria di quanto già pagato dall'UCI a titolo di acconto (ovvero, € 100.000,00) e l'intera rendita INAIL a titolo di danno biologico e patrimoniale, senza considerare che il medesimo atto di precetto concerneva, invece, un importo complessivo dal quale era già stato detratto sia l'acconto suddetto che l'ammontare della rendita corrisposta dall'INAIL, ciò che determinerebbe, pertanto, un'indebita duplicazione delle somme da restituire.
3.7. Il settimo motivo - che investe anch'esso la sola sentenza definitiva n. 158/15 ed è formulato ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ. - ipotizza violazione e/o falsa applicazione dell'art. 28 del decreto del Ministero della giustizia 10 marzo 2014, n. 55.
La censura investe la liquidazione delle spese di lite, compiuta avuto riguardo ai crediti rivendicati in causa e, quindi, assumendo come scaglione di valore quello compreso tra € 501.000,00 ed € 1.500.000,00, secondo quanto stabilito dagli artt. 4 e ss. del d.m. 20 luglio 2012, n 140.
Essendo, tuttavia, entrato in vigore il 3 aprile 2014 il citato d.m. n. 55 del 2014, ed essendo le relative disposizioni, ai sensi dell'art. 28, applicabili alle liquidazioni successive alla sua entrata in vigore, la sentenza impugnata, in quanto depositata il giorno 5 febbraio 2015, avrebbe dovuto applicare le nuove disposizioni, segnatamente l'art. 6, alla stregua del quale si sarebbe ottenuta una diversa liquidazione in relazione ad entrambi i gradi di giudizio (ed esattamente € 36.144,03 - in luogo di € 20.250,00 - per il primo grado, nonché € 32.380,40 - in luogo € 24.300,00 - per quello di appello).
4. Sono rimasti intimati sia l'UCI che il R.B.G..
5. Il ricorrente ha presentato memoria, ex art. 378 cod. proc. civ., insistendo nelle proprie argomentazioni.
 

 

Diritto

 


6. Il ricorso va accolto, sebbene in relazione al solo primo motivo.
6.1. Il primo motivo, come detto, è fondato.
6.1.1. Erronea è, infatti, la declaratoria di inammissibilità, in quanto "nuova", della domanda di risarcimento del danno patrimoniale lamentato dal F.D. e derivante dalla perdita tanto dell'azienda di floricoltura, di cui egli era titolare, quanto dei redditi futuri da essa ricavabili.
A tale esito, per vero, conduce già la semplice lettura delle conclusioni rassegnate dall'odierno ricorrente nell'atto introduttivo del giudizio di primo grado, ove si formulava domanda di risarcimento di "tutti i danni", menzionando espressamente quelli "patrimoniali", ed individuando quale "causa petendi" - tra l'altro - la circostanza costituita dalla titolarità "di un'impresa di floricultura", soggiungendo il F.D. di non essere "stato più in grado" (pur dopo la guarigione dalle lesioni subite) "di reggere gli intensi ritmi lavorativi" in precedenza osservati.
In presenza di simili risultanze, pertanto, è stato disatteso il principio giurisprudenziale - richiamato, del resto, dallo stesso ricorrente - secondo cui, "in tema di risarcimento dei danni da responsabilità civile, l'unitarietà del diritto al risarcimento e la normale non frazionabilità del giudizio di liquidazione comportano che, quando un soggetto agisca in giudizio per chiedere il risarcimento dei danni a lui cagionati da un dato comportamento del convenuto, la domanda si riferisce a tutte le possibili voci di danno originate da quella condotta", sicché eventuali specificazioni - nella specie, peraltro, neppure presenti, almeno con riferimento al danno patrimoniale - hanno "valore meramente esemplificativo dei vari profili di pregiudizio dei quali si intenda ottenere il ristoro, a meno che non si possa ragionevolmente ricavarne la volontà di escludere dal «petitum» le voci non menzionate" (da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 23 ottobre 2014, n. 22514, Rv. 633070-01; nello stesso senso già Cass. Sez. 3, sent. 31 agosto 2011, n. 17879, Rv. 619359-01; Cass. Sez. 3, sent. 17 dicembre 2009, n. 26505, Rv. 610499-01).
La conclusione si corrobora vieppiù alla luce del principio giurisprudenziale secondo cui, "in tema di responsabilità civile, la domanda di risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non, derivanti da un illecito aquiliano, esprime la volontà di riferirsi ad ogni possibile voce di danno, a differenza di quella che indichi specifiche e determinate voci, sicché, pur quando in citazione non vi sia alcun riferimento, si estende anche al lucro cessante" (tale dovendosi intendere il danno da perdita di redditi futuri), la cui richiesta "non può, pertanto, considerarsi domanda nuova, come tale inammissibile" (Cass. Sez. 3, sent. 10 aprile 2015, n. 7193, Rv. 635035-01). 
6.2. L'accoglimento del primo motivo comporta l'assorbimento non solo del secondo motivo, ma anche del sesto.
6.2.1. Difatti la cassazione, "in parte qua", della sentenza impugnata e, con essa, la necessità di decidere in ordine alla domanda di risarcimento del danno patrimoniale, in relazione alla perdita tanto dell'azienda che dei redditi futuri, comporterà - sia nell'ipotesi di accoglimento di quella domanda, che di rigetto della stessa - o una rideterminazione complessiva di quanto dovuto dall'UCI al F.D. (nella prima ipotesi), o una conferma della somma al medesimo già riconosciuta giudizialmente (nella seconda), e, dunque, in ogni caso la necessità di detrarre le somme già corrispostegli a titolo di acconto, ed esse soltanto.
6.3. I motivi terzo e quarto, invece, non sono fondati.
6.3.1. Dalla somma dovuta dall'UCI a titolo di risarcimento del danno biologico va detratto quanto erogato al ricorrente, dall'INAIL, ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, come ha, del resto, ribadito uno dei quattro recenti arresti delle Sezioni Unite di questa Corte intervenuti in tema di "compensatio lucri cum damno" (Cass. Sez. Un., sent. 22 maggio 2018, n. 12566, Rv. 648649-01).
6.3.1.1. La citata decisione, infatti, ha affermato "che, nell'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, la rendita INAIL costituisce una prestazione economica a contenuto indennitario erogata in funzione di copertura del pregiudizio (l'inabilità permanente generica, assoluta o parziale, e, a seguito della riforma apportata dal d.lgs. 23 febbraio 2000, n. 38, anche il danno alla salute) occorso al lavoratore in caso di infortunio sulle vie del lavoro", sicché essa, pur potendo "presentare delle differenze nei valori monetari rispetto al danno civilistico", comunque "soddisfa, neutralizzandola in parte, la medesima perdita al cui integrale ristoro mira la disciplina della responsabilità risarcitoria del terzo, autore del fatto illecito, al quale sia addebitabile l'infortunio «in itinere» subito dal lavoratore".
D'altra parte, poi, l'art. 1916 cod. civ. dispone che l'assicuratore che ha pagato l'indennità è surrogato, fino alla concorrenza dell'ammontare di essa, nei diritti dell'assicurato verso il terzo danneggiale" (dettando una previsione che, rammentano le Sezioni Unite, si applica "anche alle assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro e contro le disgrazie accidentali"), così come l'art. 142 cod. assicurazioni, per parte propria, "stabilisce che, qualora il danneggiato sia assistito da assicurazione sociale, l'ente gestore di questa abbia diritto di ottenere direttamente dall'impresa di assicurazione il rimborso delle spese sostenute per le prestazioni erogate al danneggiato ai sensi delle leggi e dei regolamenti che disciplinano detta assicurazione".
Orbene, quantunque tali norme regolino "rapporti intersoggettivi diversi" tra loro, le relative fattispecie sono connotate "da un elemento comune: la successione nel credito risarcitorio dell'assicurato/danneggiato, la quale attribuisce all'ente gestore dell'assicurazione sociale che abbia indennizzato la vittima la titolarità della pretesa nei confronti dei distinti soggetti obbligati, al fine di ottenere il rimborso tanto dei ratei già versati quanto del valore capitalizzato delle prestazioni future". Orbene, siffatto fenomeno successorio, esaminato dal punto di vista del danneggiato, "impedisce a costui di cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di rendita assicurativa con l'intero importo del risarcimento del danno dovutogli dal terzo, e di conseguire così due volte la riparazione del medesimo pregiudizio subito", sicché "le somme che il danneggiato si sia visto liquidare dall'INAIL a titolo di rendita per l'inabilità permanente vanno detratte dall'ammontare dovuto, allo stesso titolo, dal responsabile al predetto danneggiato". Infatti, per un verso, "mancando tale detrazione, il danneggiato verrebbe a conseguire un importo maggiore di quello a cui ha diritto"; per altro verso, poi, l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni si pone come "espressione del «favor» che la Costituzione e il legislatore hanno inteso accordare al lavoratore con l'addossare in ogni caso all'istituto le prestazioni previdenziali, le quali assumono perciò carattere di anticipazione rispetto all'assolvimento dell'obbligo a carico del responsabile (Corte cost., sentenza n. 134 del 1971)". Nondimeno, proprio perché l'indennità mantenga tale funzione (solo) di "anticipo" del futuro - eventuale - risarcimento, si palesa come necessario che "l'intervento del sistema di sicurezza sociale attraverso l'erogazione della prestazione assicurativa" non consenta "al lavoratore di reclamare un risarcimento superiore al danno effettivamente sofferto", permettendogli, "invece, di agire nei confronti del terzo, cui è addebitabile l'infortunio «in itinere», per ottenere la differenza tra il danno subito e quello indennizzato, allo stesso titolo, dall'INAIL"; di qui, pertanto, la perdita della "legittimazione all'azione risarcitoria per la quota corrispondente all'indennizzo assicurativo riscosso" (o riconosciuto in suo favore), ed il mantenimento, invece, del "diritto ad ottenere nei confronti del responsabile il residuo risarcimento ove il danno sia solo in parte coperto dalla detta prestazione assicurativa"(cfr. Cass. Sez. Un. sent. n. 12566 del 2018 cit.; su quest'ultimo aspetto anche Cass., Sez. 3, ord. 23 novembre 2017, n. 27869, Rv. 646646-01).
6.3.1.2. D'altra parte, non fondata è anche la pretesa (oggetto, in particolare, del quarto motivo) di circoscrivere l'operatività della "compensatio" nei limiti della somma oggetto di transazione tra INAIL e UCI, giacché, al netto del rilievo circa la (evidente) estraneità del ricorrente a tale contratto, siffatta pretesa non è in linea con il diritto del F.D. "ad ottenere nei confronti del responsabile il residuo risarcimento ove il danno sia solo in parte coperto dalla detta prestazione assicurativa", giacché l'accoglimento di detta pretesa varrebbe, invece, ad assicurargli quel "risarcimento ultracompensativo", che - pur nell'ambito di una concezione ormai "polifunzionale" del sistema della responsabilità civile - risulta ammissibile solo in presenza di un'espressa previsione di legge, anche al fine di escludere attribuzioni patrimoniali non sorrette da una adeguata "causa adquirendi" (cfr., in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. 5 luglio 2017, n. 16601).
6.4. Il quinto motivo è, invece, inammissibile.
6.4.1. Al netto, infatti, del rilievo che il "vantaggio" tratto dall'UCI dalla riconosciuta operatività del "defalco" si pone come una mera conseguenza fattuale dell'assenza di sincronia tra la liquidazione della rendita - nel 2013 - da parte dell'INAIL e la determinazione dell'entità del danno biologico operata (anteriormente) dal CTU, non sussistono le condizioni per ritenere integrato, neppure astrattamente, nessuno dei due vizi denunciati.
Quanto alla supposta ricorrenza dell'ipotesi contemplata dall'art. 360, comma 1, n. 3), cod. proc. civ., l'inammissibilità della censura va affermata in applicazione del principio secondo cui "il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è, invece, esterna all'esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta al sindacato di legittimità" (da ultimo, "ex multis", Cass. Sez. 1, ord. 13 ottobre 2017, n. 24155, Rv. 645538-03, nonché Cass. Sez. 3, ord. 13 marzo 2018, n. 6035, Rv. 648414-01).
Quanto, invece, all'omesso esame ex art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ., la censura deve ritenersi inammissibile sul presupposto che il ricorrente non si doveva limitare a dedurre quale fosse il fatto "omesso" e la sua "decisività", ma anche il "dato", testuale o extratestuale, da cui esso risulta esistente, nonché (ciò che non risulta avvenuto nel caso di specie) il "come" e il "quando" tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale (cfr., Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8054, Rv. 629831-01; in senso conforme, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, sent. 11 aprile 2017, n. 9253, Rv. 643845-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 10 agosto 2017, n. 19987, Rv. 645359-01).
6.5. Infine, il settimo motivo di ricorso resta assorbito.
6.5.1. Trova, infatti, applicazione il principio secondo cui la "cassazione della sentenza di appello travolge la pronuncia sulle spese di secondo grado, perché in tal senso espressamente disposto dall'art. 336, comma 1, cod. proc. civ., sicché il giudice del rinvio ha il potere di rinnovare totalmente la relativa regolamentazione alla stregua dell'esito finale della lite" (Cass. Sez. 3, sent. 14 marzo 2016, n. 4887, Rv. 639295-01).
 

 

P.Q.M.

 


La Corte accoglie il primo motivo di ricorso, dichiarando assorbiti il secondo, il sesto ed il settimo, respingendo il terzo, il quarto ed il quinto, cassa, in relazione, la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Genova, in diversa composizione, perché decida nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.
Così deciso in Roma, all'esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 22 ottobre 2018.