Cassazione Civile, Sez. Lav., 31 maggio 2019, n. 15002 - Mancato versamento degli incassi e licenziamento. Non è possibile giustificare l'inadempimento adducendo ex post che la prestazione richiestagli è pericolosa per la propria integrità fisica


 

Presidente: BALESTRIERI FEDERICO Relatore: LEO GIUSEPPINA Data pubblicazione: 31/05/2019

 


Rilevato
che la Corte di Appello di Torino, con sentenza pubblicata in data 3.10.2016, rigettava il reclamo principale proposto da G.P., dipendente di D.P.S. Group S.r.l., avverso la pronunzia del Tribunale di Alessandria, con la quale, in sede di giudizio di opposizione, era stata confermata l'ordinanza emessa a seguito di impugnazione, ai sensi dell'art. 1, commi 47 e 48 della l. n. 92 del 2012, del licenziamento intimato al lavoratore, in data 31.1.2015, per giusta causa, consistente <<nel non avere provveduto nei giorni 22, 23 e 24 dicembre 2014 ad effettuare quotidianamente i versamenti degli incassi, cumulando nel punto vendita Trony, sito nel centro commerciale Panorama di Alessandria, la somma di euro 50.000,00 in contanti, che era stata poi oggetto di furto il giorno successivo, e nel non avere aggiornato i numeri di telefono del sistema di chiamata automatica di allarme antifurto, rendendo così vano anche l'ausilio del sistema stesso>>;
che, in accoglimento del reclamo incidentale proposto dalla società datrice, la medesima Corte condannava il G.P. al versamento, in favore della stessa, della somma di Euro 34.851,95 a titolo di risarcimento del danno; che per la cassazione della sentenza ricorre il lavoratore articolando sette motivi ulteriormente illustrati da memoria, cui resiste la D.P.S. Group S.r.l. con controricorso;
che il P.G. non ha formulato richieste
 

 

Considerato
che con il ricorso si deduce: 1) la violazione e falsa applicazione dell'art. 2087 c.c. per non avere la Corte di merito tenuto conto del fatto che la movimentazione di somme si denaro è attività potenzialmente pericolosa per il rischio che terzi pongano in essere aggressioni a scopo di rapina e che, quindi, il datore di lavoro deve apprestare sistemi di sicurezza, non adottati nel caso di specie, <<ponendo il lavoratore in uno stato di pericolo che i giudici di merito non hanno tenuto in considerazione>>; 2) la violazione e falsa applicazione degli artt. 1460 e 1375 c.c., per avere la Corte distrettuale erroneamente ritenuto che <<il ricorrente non avrebbe potuto opporre il suddetto inadempimento al datore di lavoro, in quanto egli non aveva mai contestato la pericolosità della mansione, come avrebbe dovuto fare in applicazione dell'art. 1375 c.c. e del dovere di correttezza che esso impone e che non potrebbe, quindi, invocare l'art. 1460 c.c. ex post non avendo adempiuto al proprio dovere per ragioni diverse dall'asserito inadempimento del datore di lavoro, che avrebbe dovuto essere oggetto di contestazione ex ante>>; 3) la violazione e falsa applicazione degli artt. 220 e 225 del CCNL Commercio in relazione all'art. 2106 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 1, c.p.c., e si censura il fatto che i giudici di seconda istanza avrebbero errato nel ritenere congrua la sanzione disciplinare irrogata, mentre avrebbero dovuto 
considerare che <<l'art. 225 CCNL prevedeva la multa per l'avere eseguito con negligenza il proprio lavoro, Il licenziamento per la grave violazione degli obblighi di cui all'art. 220 CCNL e la sospensione per l'avere recato danno alle cose (merce o materiali) con provata responsabilità>>; 4) la violazione dell'art. 2119 c.c., in riferimento all'art. 360, primo comma, nn. 3 e 5, c.p.c., per la mancata proporzionalità della sanzione rispetto alla condotta, per non avere i giudici di merito considerato che i fatti di cui si tratta <<non consentivano la sussunzione nella fattispecie legale dell'art. 2119 c.c.>>, In quanto il mancato versamento atteneva solo a due giorni e non a tre; e per non avere considerato che tale mancato versamento non era ascrivibile a dolo, ma a colpa; 5) la violazione dell'art. 1, comma 58, della l. n. 92 del 2012 per tardività del reclamo incidentale proposto dalla società datrice, in quanto la sentenza di primo grado è stata depositata il 29.6.2016 e comunicata il 30.6.2016 e la società ha depositato il reclamo il 24.8.2016, quindi oltre i trenta giorni: per la qual cosa, a parere del P., la Corte di merito avrebbe dovuto dichiararlo inammissibile; 6) la violazione e falsa applicazione dell'art. 1227 c.c., per avere I giudici di merito omesso di fare applicazione di tale norma e non avere considerato che la D.P.S. Group S.r.l. si era avvalsa, per la conservazione dei valori, di una piccola cassaforte asportabile a mano e non di una cassaforte a muro, concorrendo così nella condotta colposa che ha messo in pericolo il denaro che è stato poi oggetto di furto; 7) la violazione e falsa applicazione dell'art. 2697, primo comma, c.c., per avere la Corte territoriale erroneamente ritenuto provata l'entità del danno, senza che la società producesse quietanza dell'Importo ricevuto dalla Compagnia assicuratrice;
che il primo ed il secondo motivo - da trattare congiuntamente per evidenti ragioni di connessione - non sono meritevoli di accoglimento; al riguardo, è, infatti, da evidenziare che il ricorrente cita una serie di decisioni della Suprema Corte in ordine all'art. 2087 c.c. del tutto in conferenti nel caso di specie, in cui, come rettamente posto in evidenza dalla Corte di Appello, il G.P., non aveva mai contestato, prima del licenziamento, alla datrice di lavoro, la violazione di norme di sicurezza. Peraltro, i giudici di merito (v., in particolare, pagg. 6-8 della sentenza impugnata) hanno proceduto alla valutazione comparativa del comportamento del lavoratore e di quello della datrice di lavoro, conformemente all'Insegnamento della Corte di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 10553/2013; 21479/2005) ed hanno condivisibilmente affermato che la violazione dell'obbligo di correttezza è avvenuta da parte del lavoratore, il quale conosceva la disposizione aziendale, inviata via mail ai direttori di tutti i punti vendita, che imponeva il versamento quotidiano in banca o in cassa continua di tutti gli incassi del punto vendita ed aveva avuto raccomandazioni precise dal suo superiore circa la scrupolosa osservanza della disposizione, in particolare per il mese di dicembre, in cui gli incassi erano notevoli, dati gli acquisti inerenti al periodo prenatalizio; ciò nonostante, il lavoratore aveva omesso di versare i detti incassi e di predisporre il sistema di sicurezza. Pertanto, come correttamente sottolineato dalla Corte di Appello, non è possibile per il medesimo giustificare il suo reiterato inadempimento adducendo ex post, per la prima volta, di non avere osservato la prescrizione aziendale perché la prestazione richiestagli, a suo parere, era pericolosa per la sua integrità fisica; che il terzo motivo è inammissibile, innanzitutto perché formulato in violazione del principio, più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (cfr., ex multis, Cass. n. 14541/2014, cit.). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. n. 1435/2013; Cass. n. 23675/2013; Cass. n. 10551/2016). Nella fattispecie, invece, manca la specifica indicazione degli atti processuali e dei documenti su cui si fonda; in particolare, il ricorrente non ha riportato gli artt. 220 e 225 del CCNL Commercio, di cui si deduce la violazione, né ha prodotto il CCNL; per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di poter apprezzare la veridicità della doglianza svolta dal ricorrente. Il motivo, inoltre, nella sua articolazione, appare teso ad una nuova valutazione dei fatti, pacificamente estranea al giudizio di legittimità (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014), poiché si limita a contrapporre una diversa valutazione delle emergenze istruttorie, fatta dal ricorrente, rispetto a quella cui è pervenuta la Corte di merito (cfr., altresì, tra le molte, Cass. n. 7863/2012), in particolare, relativamente alla classificazione dell'infrazione di cui si tratta come grave o lieve, per le più o meno gravi conseguenze disciplinari che ne discendono; che il quarto motivo è inammissibile relativamente alla censura articolata con il n. 5 del primo comma dell'art. 360 c.p.c.: è da premettere che, come sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 8053 del 2014), per effetto della riforma del 2012, per un verso, è denunciabile in Cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (tale anomalia si esaurisce nella <<mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico>>, nella <<motivazione apparente>>, nel <<contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili>> e nella <<motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile>>, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di <<sufficienza>> della motivazione); per l'altro verso, è stato introdotto nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Orbene, poiché la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata pubblicata, come riferito in narrativa, il 3.10.2016, nella fattispecie si applica, ratione temporis, il nuovo testo dell'art. 360, comma 1, n. 5), come sostituito dall'art. 54, comma 1, lettera b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ma, nel caso in esame, il motivo di ricorso che denuncia il vizio motivazionale relativamente alla dedotta omissione di un fatto storico (Cass. n. 21152/2014), con carattere di decisività, che è stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare non attiene, alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite, ad un vizio della sentenza <<così radicale da comportare>> in linea con <<quanto previsto dall'art. 132, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza per mancanza di motivazione>>; 
che il motivo è infondato relativamente alla censura sollevata come violazione di legge. Va, al riguardo, innanzitutto, osservato che la giusta causa di licenziamento è una nozione di legge che si viene ad inscrivere in un ambito di disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi "normativi" e di clausole generali (Generalklausel) - correttezza (art. 1175 c.c.); obbligo di fedeltà, lealtà, buona fede (art. 1375 c.c.); giusta causa, appunto (art. 2119 c.c.) - il cui contenuto, elastico ed indeterminato, richiede, nel momento giudiziale e sullo sfondo di quella che è stata definita la "spirale ermeneutica" (tra fatto e diritto), di essere integrato, colmato, sia sul piano della quaestio facti che della quaestio iuris, attraverso il contributo dell'interprete, mediante valutazioni e giudizi di valore desumibili dalla coscienza sociale o dal costume o dall'ordinamento giuridico o da regole proprie di determinate cerchie sociali o di particolari discipline o arti o professioni, alla cui stregua poter adeguatamente individuare e delibare altresì le circostanze più concludenti e più pertinenti rispetto a quelle regole, a quelle valutazioni, a quei giudizi di valore, e tali non solo da contribuire, mediante la loro sussunzione, alla prospettazione e configurabilità della tota res (realtà fattuale e regulae iuris), ma da consentire inoltre al giudice di pervenire, sulla scorta di detta complessa realtà, alla soluzione più conforme al diritto, oltre che più ragionevole e consona. Tali specificazioni del parametro normativo hanno natura di norma giuridica, come in più occasioni sottolineato da questa Corte, e la disapplicazione delle stesse è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. Pertanto, l'accertamento della ricorrenza, in concreto, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, è sindacabile nel giudizio di legittimità, a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli "standards" conformi ai valori dell'ordinamento esistenti nella realtà sociale (Cass. n. 25044/15; Cass. n. 8367/2014; Cass. n. 5095/11). E ciò, in quanto, il giudizio di legittimità deve estendersi pienamente, e non solo per i profili riguardanti la logicità e la completezza della motivazione, al modo in cui il giudice di merito abbia in concreto applicato una clausola generale, perché nel farlo compie, appunto, un'attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma, dando concretezza a quella parte mobile della stessa che il legislatore ha introdotto per consentire l'adeguamento ai mutamenti del contesto storico-sociale (Cass., S.U., n. 2572/2012).
Nel motivo di ricorso qui in esame, le censure formulate alla sentenza della Corte di Appello appaiono inconferenti, poiché non evidenziano in modo puntuale gli "standards" dai quali il Collegio di merito si sarebbe discostato. Non risulta, in sostanza, inciso da errores in iudicando l'iter decisionale della Corte di merito, poiché, coerentemente, viene messo in luce il comportamento, certamente lesivo del vincolo fiduciario, tenuto dal G.P., dal quale è derivato il furto perpetrato ai danni della società, a causa del comportamento omissivo del lavoratore, che, in tal modo, ha violato gli obblighi di correttezza e buona fede nell'attuazione della prestazione lavorativa;
che il quinto motivo non è fondato: al riguardo, va sottolineato che si tratta di questione nuova, in quanto non sollevata in sede di gravame; peraltro, questa Corte ha, in più occasioni, affermato (cfr., tra le altre, Cass. nn. 24258/2016; 18715/2016; 22415/2015) che <<Le esigenze acceleratorie previste dal rito Fornero riguardano l'impulso processuale e la struttura bifasica del procedimento di primo grado, mentre la disciplina processuale in tema di reclamo deve necessariamente integrarsi con quella prevista in tema di appello nel rito del lavoro, sicché, una volta proposto tempestivo reclamo principale, deve ritenersi che il reclamato ben possa proporre, anche ex art. 24 Cost. reclamo incidentale, nei termini di cui all'art. 436 c.p.c.>>, nella specie, all'evidenza, rispettati;
che il sesto motivo non è meritevole di accoglimento, perché, a prescindere dalla genericità della formulazione, attiene ad una questione mai proposta nei gradi di merito; che il settimo motivo è inammissibile, perché palesemente teso ad un nuovo esame del merito, estraneo al giudizio di legittimità; peraltro, non si evidenzia neppure con puntualità in quale parte della sentenza oggetto del presente giudizio l'art. 2697 c.c. sarebbe stato violato;
che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato;
che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;
che, avuto riguardo all'esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all'art. 13, comma 1 -quater, del d.P.R. n. 115 del 2002
 

 

P.Q.M.

 


La Corte rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso articolo 13.
Così deciso nella Adunanza camerale del 16 maggio 2018