Cassazione Penale, Sez. 4, 22 luglio 2019, n. 32511 - Infortunio mortale del titolare dell'impresa individuale subappaltatrice che cade dal ponteggio. Responsabilità del CSE


 

Presidente: PICCIALLI PATRIZIA Relatore: DI SALVO EMANUELE Data Udienza: 16/04/2019

 

Fatto

 


1. G.P., imputato, e le parti civili, B.G., G.G. e M.G., ricorrono per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale è stata confermata la pronuncia di condanna emessa in primo grado, in ordine al reato di cui all'art. 589 cod. pen. perché il G.P., in qualità di coordinatore per l'esecuzione dei lavori, non verificando l'applicazione delle disposizioni contenute nel piano di sicurezza e di coordinamento, nella parte in cui quest'ultimo prevedeva che il lavoratore evitasse di salire o scendere lungo i montanti del ponteggio ma utilizzasse le apposite scale, e non verificando che fosse installata la scala di collegamento tra il secondo e il terzo piano del ponteggio, contribuiva a cagionare la morte di G.E.L., titolare di un'impresa individuale subappaltatrice, il quale, non essendo presente la predetta scala di collegamento, scavalcato il parapetto del terzo piano, si calava verso il basso, salendo con un piede su una tavola fermapiedi metallica, che non reggeva il suo peso, e precipitando da un'altezza di metri 3,80. In Genova il 26 giugno 2012.
2, G.P. deduce violazione di legge e vizio di motivazione, non avendo la sentenza impugnata considerato il mancato utilizzo della cintura di sicurezza da parte della persona offesa, nel passaggio da un piano all'altro. La parte lesa, infatti, anziché avvalersi di un percorso sicuro, preferì calarsi, senza protezioni, dall'esterno di un'impalcatura, ponendo in essere un comportamento irragionevole e imprevedibile, in aperta violazione del divieto assoluto di scendere dall'esterno del ponteggi. La vittima era d'altronde un libero professionista, titolare di un'impresa individuale, con una pluridecennale esperienza nel campo dell'edilizia, istruito e formato, in maniera dettagliata, su tutte le cautele da adoperare e, in particolare, sul contenuto del POS, che vietava la condotta da lui tenuta e prevedeva espressamente l'utilizzo della cintura di sicurezza, con fune di trattenuta, onde il comportamento del G.E.L. è tale da interrompere il nesso di causalità.
2.1. La dosimetria della pena non ha tenuto conto delle specificità della posizione di garanzia rivestita dal ricorrente, che comportava obblighi di vigilanza minori e differenti rispetto a quelli del datore di lavoro, che è tenuto, a differenza del coordinatore per l'esecuzione, a una presenza in cantiere e a una sorveglianza più puntuale e stringente. Tanto più che al ricorrente non è stata contestata l'omissione dell'obbligo di sospendere i lavori o di segnalare al committente o al responsabile dei lavori determinate inosservanze. 
3. Le parti civili impugnano la sentenza nella parte in cui ha ravvisato un concorso di colpa del lavoratore nella misura dell'80 %, in quanto la condotta del soggetto passivo è stata imposta dalla situazione in cui quest'ultimo versava, addebitabile al datore di lavoro e ai responsabili della sicurezza, il cui comportamento, concretizzatosi nella violazione di norme antinfortunistiche e di regole di comune prudenza, costituisce l'unico fattore eziologico dell'evento dannoso. Il G.E.L. si è infatti calato all'esterno del ponteggio in conseguenza della necessità di abbreviare lo scomodo e non del tutto regolare percorso imposto dall'assenza della scala di collegamento tra i due piani del ponteggio e dell'ulteriore necessità di salire e scendere continuamente tra gli stessi piani, per esigenze di lavoro. Erroneamente è stato pertanto ravvisato il concorso di colpa del lavoratore.
3.1. Il giudice a quo non ha motivato neanche in ordine alla misura di quest'ultimo e, del resto, trattandosi di una mera questione di risarcimento del danno, il giudice penale non avrebbe dovuto esprimersi sul concorso di colpa del lavoratore e sulla misura di quest'ultimo, questioni da rimettersi alla valutazione del giudice civile.
Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.
 

 

Diritto

 


1. Le doglianze formulate sono infondate. Costituisce infatti ius receptum, nella giurisprudenza della suprema Corte, il principio secondo il quale, anche alla luce della novella del 2006, il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene pur sempre alla coerenza strutturale della decisione, di cui saggia l'oggettiva "tenuta", sotto il profilo logico-argomentativo, e quindi l'accettabilità razionale, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass., Sez. 3, n. 37006 del 27 -9-2006, Piras, Rv. 235508; Sez. 6, n. 23528 del 6-6-2006, Bonifazi, Rv. 234155). Ne deriva che il giudice di legittimità, nel momento del controllo della motivazione, non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti né deve condividerne la giustificazione ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento, atteso che l'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. non consente alla Corte di cassazione una diversa interpretazione delle prove. In altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e dell'osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova, non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento probatorio. Questo controllo è riservato al giudice di merito, essendo consentito alla Corte regolatrice esclusivamente l'apprezzamento della logicità della motivazione (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 3, n. 8570 del 14-1-2003, Rv. 223469; Sez. ter. , n. 36227 del 3-9-2004, Rinaldi; Sez. 5, n. 32688 del 5-7¬2004, Scarcella; Sez. 5, n.22771 del 15-4-2004, Antonelll).
1.1. Nel caso in disamina, il giudice a quo ha evidenziato che, per la specifica tipologia delle lavorazioni cui era addetto il G.E.L., era necessario passare con facilità da un piano all'altro dei ponteggi, ragion per cui il percorso prestabilito era disagevole, poiché interrompere la lavorazione per seguire un percorso diverso dal semplice scendere attraverso una botola rappresentava, per il lavoratore, una soluzione non pratica, cui il G.E.L. intese ovviare con la manovra, indubbiamente imprudente, che ne determinò il decesso. Appare però evidente - argomenta il giudice a quo - che i titolari delle posizioni di garanzia non potevano non considerare che, a quel punto della lavorazione, la scala interna, con botola, rivestiva carattere di indispensabilità, proprio per evitare, da parte dei lavoratori, un comportamento che non era certo abnorme e al di fuori di ogni prevedibilità. D'altronde, come riferito dal teste L., soggetto incaricato di eseguire le stesse attività del G.E.L., la cintura di sicurezza, messa a disposizione dall'impresa, non veniva utilizzata dai lavoratori, perché essi operavano all'interno delle impalcature ed era "tutto barricato", mentre la posa in opera di scala interna, con annessa botola di collegamento fra i plani secondo e terzo dei ponteggi, avrebbe di certo impedito l'evento, in quanto la presenza di tale strumento non avrebbe costretto la persona offesa, per evitare di percorrere altro Itinerario obiettivamente meno agevole, a calarsi all'esterno dei ponteggi. L'impianto argomentativo a sostegno del decisum è dunque puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame tutte le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede. Occorre, d'altronde, evidenziare, in questa sede, che il garante è tenuto a predisporre misure di cautela compatibili con le esigenze lavorative, in modo che il lavoratore possa concretamente fruirne, senza che ciò comporti un aggravio, in termini di fatica, di difficoltà, di tempo, delle modalità di espletamento del lavoro in misura tale da indurre il lavoratore a rinunciare alle predette cautele funzionalmente ad esigenze operative ma a discapito della sicurezza. 
1.2. Le conclusioni a cui è pervenuto il giudice a quo sono, d'altronde, del tutto conformi al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui compito del titolare della posizione di garanzia è evitare che si verifichino eventi lesivi dell'incolumità fisica intrinsecamente connaturati all'esercizio di talune attività lavorative, anche nell'ipotesi in cui siffatti rischi siano conseguenti ad eventuali negligenze, imprudenze e disattenzioni dei lavoratori subordinati, la cui Incolumità deve essere protetta con appropriate cautele. Il garante non può, infatti, invocare, a propria scusa, il principio di affidamento, assumendo che il comportamento del lavoratore era imprevedibile, poiché tale principio non opera nelle situazioni in cui sussiste una posizione di garanzia (Cass., Sez. 4., 22-10-1999, Grande, Rv. 214497). Il garante, dunque, ove abbia negligentemente omesso di attivarsi per impedire l'evento, non può invocare, quale causa di esenzione dalla colpa, l'errore sulla legittima aspettativa in ordine all'assenza di condotte Imprudenti, negligenti o imperite da parte dei lavoratori, poiché il rispetto della normativa antinfortunistica mira a salvaguardare l'incolumità del lavoratore anche dal rischi derivanti dalle sue stesse imprudenze e negligenze o dai suoi stessi errori, purché connessi allo svolgimento dell'attività lavorativa (Cass., Sez. 4, n. 18998 del 27-3-2009, Rv. 244005). Ne deriva che il titolare della posizione di garanzia è tenuto a valutare i rischi e a prevenirli e la sua condotta non è scriminata, in difetto della necessaria diligenza, prudenza e perizia, da eventuali responsabilità del lavoratori ( Cass., Sez. 4, n. 22622 del 29-4-2008, Rv. 240161).
1.3. Nemmeno può ravvisarsi, nella sequenza fattuale descritta nella motivazione della sentenza Impugnata, interruzione del nesso causale, giacché l'operatività dell'art. 41, comma 2, cod. pen. è circoscritta ai casi in cui la causa sopravvenuta Inneschi un rischio nuovo e del tutto incongruo rispetto al rischio originarlo, attivato dalla prima condotta (Cass., Sez. 4, n. 25689 del 3-5-2016, Rv. 267374; Sez. 4, n. 15493 del 10-3-2016, Pietramala, Rv. 266786; n. 43168 del 2013, Rv. 258085). Non può, pertanto, ritenersi causa sopravvenuta, da sola sufficiente a determinare l'evento, il comportamento imprudente di un soggetto, nella specie il lavoratore, che si riconnetta ad una condotta colposa altrui, nella specie a quella del coordinatore per l'esecuzione dei lavori (Cass., Sez. 4, n. 18800 del 13-4-2016, Rv. 267255; n. 17804 del 2015, Rv. 263581; n. 10626 del 2013, Rv.256391). L'Interruzione del nesso causale è infatti ravvisabile esclusivamente qualora il lavoratore ponga in essere una condotta del tutto esorbitante dalle procedure operative alle quali è addetto ed incompatibile con il sistema di lavorazione ovvero non osservi precise disposizioni antinfortunistiche. In questi casi, è configurabile la colpa dell'infortunato nella produzione dell'evento, con esclusione della responsabilità penale del titolare della posizione di garanzia (Cass., Sez 4, 27-2-1984, Monti, Rv. 164645; Sez 4, 11-2-1991, Lapi, Rv. 188202). Nel caso di specie, dalla motivazione della sentenza impugnata si desume che, se è indubbia la sussistenza di profili di colpa a carico del lavoratore, che ha compiuto un'operazione certamente imprudente, non può negarsi che quest'ultima sia stata dettata da precise esigenze operative ed anzi determinata da intenti, pienamente fisiologici, di agevolazione del lavoro.
2. Nemmeno il secondo motivo del ricorso del G.P. può ritenersi fondato. Le determinazioni del giudice di merito in ordine al trattamento sanzionatorio sono, infatti, insindacabili in cassazione ove siano sorrette da motivazione esente da vizi logico-giuridici. Nel caso di specie, la motivazione della sentenza impugnata è senz'altro da ritenersi adeguata, avendo la Corte territoriale fatto riferimento alla gravità del fatto e delle conseguenze derivatene, anche di natura familiare, atteso che il deceduto aveva due figlie.
3. E' infondata anche la prima doglianza del ricorso proposto dalle parti civili. Già in precedenza abbiamo visto come il giudice a quo abbia avuto modo di sottolineare l'imprudenza della manovra del lavoratore. La Corte d'appello ha infatti posto in rilievo, richiamando anche la ricostruzione del fatti enucleabile dalla sentenza di primo grado, che il G.E.L. era passato attraverso il ponteggio, dall'esterno, per calarsi dal terzo al secondo piano, e, nel momento di rientrare all'altezza del ponteggio di quest'ultimo piano, aveva appoggiato il piede su una tavola fermapiede, posta di taglio al plano di calpestio e deputata unicamente ad evitare la caduta di materiali fuori dal ponteggio, che aveva ceduto sotto il suo peso. Di qui la conclusione relativa alla congruità dell'attribuzione alla persona offesa di una percentuale di corresponsabilità nel sinistro mortale dell'80%.
L'apparato argomentativo a sostegno del decisum è dunque razionale, esente da aporie e da incongruenze logiche, aderente alle risultanze processuali acquisite ed analiticamente indicate dal giudice a quo e perciò Immeritevole di censura.
2.1. Manifestamente infondato è il secondo motivo del ricorso proposto dalle parti civili, rientrando appieno nel perimetro dell'indagine demandata alla sede penale la ricostruzione degli accadimenti oggetto della regiudicanda, l'individuazione di tutti i fattori eziologici che hanno esplicato influenza sul determinismo dell'evento e, conseguentemente, la focalizzazione delle relative responsabilità in capo a tutti i soggetti coinvolti e quindi anche alla persona offesa, il cui eventuale concorso di colpa va determinato dal giudice penale nell'an e nel quantum, rimanendo invece devoluta alla cognizione del giudice civile la quantificazione, su tali basi, del risarcimento spettante alla persona offesa o al danneggiato.
6. I ricorsi vanno dunque rigettati, con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
 

 

P.Q.M.
 

 

Rigetta il ricorso dell'imputato che condanna al pagamento delle spese processuali. Rigetta i ricorsi delle parti civili che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 16-4-2019.