Cassazione Civile, Sez. 1, 28 ottobre 2019, n. 27442 - Colpito al volto dal braccio meccanico di un macchinario. Onere della prova


 

Presidente: DIDONE ANTONIO Relatore: NAZZICONE LOREDANA Data pubblicazione: 28/10/2019

 

Fatto

 


Viene proposto ricorso, sulla base di tre motivi, contro il decreto del Tribunale di Vercelli del 12 maggio 2016, che ha respinto l'opposizione allo stato passivo della SILIA s.p.a. in amministrazione straordinaria, proposta da S.T. per far valere il proprio diritto al risarcimento del danno (cd. differenziale) da infortunio sul lavoro, occorsogli allorché egli si trovava nel reparto "schiumatura", quando un braccio meccanico del macchinario sovrastante lo aveva colpito al volto.
Ha ritenuto il giudice del merito che l'opposizione non dovesse essere accolta, in quanto essa difettava addirittura dell'allegazione degli elementi costitutivi della pretesa vantata. In particolare, il lavoratore si è limitato a narrare i fatti materiali, ma non ha allegato le regole cautelari di condotta, dalla cui violazione sarebbe derivato il danno patito, né l'inosservanza degli standards di sicurezza sul luogo di lavoro, né ha indicato quali condotte avrebbero dovuto essere poste in essere, o evitate, per scongiurare l'evento: in sostanza, secondo il Tribunale, l'opponente non ha allegato l'altrui inadempimento ed il nesso causale con il danno, mancando di assolvere all'onere sul medesimo gravante pur in presenza di una responsabilità contrattuale; a tal fine, non è sufficiente, secondo il giudice del merito, la mera allegazione del crollo di un braccio meccanico su cui egli stava lavorando.
Resiste con controricorso la procedura.
 

 

Diritto

 


1. - Con il primo motivo, il ricorrente deduce violazione o falsa applicazione dell'art. 101 l.f., in quanto, in sede di istanza di insinuazione tardiva, egli aveva prodotto la notizia di reato della Procura della Repubblica concernente il datore di lavoro, nonché dedotto le contravvenzioni comminate alla società e dalla medesima pagate, elementi da cui derivava la prova della condotta colposa, del nesso eziologico e del danno patito.
Con il secondo motivo, deduce la violazione o falsa applicazione degli artt. 2054 c.c. e 112 c.p.c., per violazione del principio di corrispondenza fra chiesto e pronunciato, per non avere il tribunale valorizzato i predetti elementi, nonché la certificazione Inail circa i postumi invalidanti.
Con il terzo motivo, deduce la violazione o falsa applicazione dell'art. 112 c.p.c., oltre a vizio di motivazione contraddittoria ed illogica, essendo il provvedimento del tribunale solo succintamente motivato, irrispettoso della norma menzionata e privo dell'attento esame dei documenti in atti, avendo egli ben chiarito, sin dal ricorso per insinuazione tardiva, che la società aveva violato le norme sulla sicurezza, punto sul quale il tribunale non si è pronunciato.
2. - I tre motivi, da esaminare congiuntamente in quanto affetti dai medesimi vizi, sono fondati.
2.1. - Come questa Corte ha da tempo chiarito (cfr. Cass. 26 aprile 2017, n. 10319), secondo i principi regolanti la materia, il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito a seguito di infortunio ha l'onere di provare il fatto costituente l'inadempimento e il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento e il danno; non anche la colpa del datore, nei cui confronti opera la presunzione posta dall'articolo 1218 c.c., il cui superamento comporta la prova dell'adozione di tutte le cautele necessarie ad evitare il danno, in relazione alle specificità del caso, ossia al tipo di operazione effettuata ed ai suoi rischi intrinseci, potendo al riguardo non risultare sufficiente la mera osservanza delle misure di protezione individuale imposte dalla legge (Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 19 luglio 2007, n. 16003).
Gli oneri a carico di ciascuna delle parti devono essere diversamente modulati, a seconda che le misure di sicurezza omesse siano espressamente e specificamente definite dalla legge (o da altra fonte ugualmente vincolante), in relazione ad una valutazione preventiva di rischi specifici, oppure debbano essere ricavate dallo stesso articolo 2087 c.c., che impone l'osservanza del generico obbligo di sicurezza: nel primo caso, riferibile alle misure di sicurezza cosiddette "nominate", la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell'insussistenza dell'inadempimento e del nesso eziologico tra quest'ultimo e il danno; nel secondo caso, relativo a misure di sicurezza cosiddette "innominate", la prova liberatoria a carico del datore di lavoro è invece generalmente correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza: imponendosi di norma al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, dagli standards di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe (Cass. 2 luglio 2014, n. 15082). 
Il datore di lavoro è, anzi, sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, anche qualora sia ascrivibile non soltanto ad una sua disattenzione, ma anche ad imperizia, negligenza e imprudenza: avendo questa Corte stabilito (Cass. 10 settembre 2009, n. 19494) che le norme dettate in tema di prevenzione degli infortuni sul lavoro, tese ad impedire l'insorgenza di situazioni pericolose, sono dirette a tutelare il lavoratore non solo dagli incidenti derivanti dalla sua disattenzione, ma anche da quelli ascrivibili ad imperizia, negligenza ed imprudenza dello stesso, con la conseguenza che il datore di lavoro è sempre responsabile dell'infortunio occorso al lavoratore, sia quando ometta di adottare le idonee misure protettive, sia quando non accerti e vigili che di queste misure venga fatto effettivamente uso da parte del dipendente, non potendo attribuirsi alcun effetto esimente, per l'imprenditore, all'eventuale concorso di colpa del lavoratore, la cui condotta può comportare, invece, l'esonero totale del medesimo imprenditore da ogni responsabilità solo quando presenti i caratteri dell'abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, necessariamente riferiti al procedimento lavorativo "tipico" ed alle direttive ricevute, così da porsi come causa esclusiva dell'evento.
Onde egli è totalmente esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del lavoratore assuma detti caratteri, tale appunto da integrare un'efficienza causale escludente (Cass. 17 febbraio 2009, n. 3786): così integrando il cd. "rischio elettivo", ossia una condotta personalissima del lavoratore, avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa o anche ad essa riconducibile, ma esercitata e intrapresa volontariamente in base a ragioni e motivazioni del tutto personali, al di fuori dell'attività lavorativa e prescindendo da essa, come tale 
idonea ad interrompere il nesso eziologico tra prestazione ed attività assicurata (Cass. 5 settembre 2014, n. 18786).
A ciò, si aggiunga che (cfr. Cass. 12 marzo 2018, n. 5957), nell'ipotesi in cui il danno sia stato determinato da cose che il datore di lavoro aveva in custodia - intesa come mera esistenza di un potere fisico ad altri riconosciuto dal proprietario - è richiesta, per la responsabilità prevista dall'art. 2051 c.c., la sussistenza di una relazione diretta fra la cosa e l'evento dannoso, ed il potere fisico del soggetto sulla cosa, da cui discende il di lui obbligo di controllare in modo da impedire che la cosa causi danni; nelle predette situazioni, sussiste una presunzione di colpa a carico del datore, che è nel contempo custode della cosa da cui il danno deriva, scaturente dalla concorrente applicabilità degli artt. 2051 e 2087 c.c., la quale può essere superata solo dalla dimostrazione dell'avvenuta adozione delle cautele antinfortunistiche ovvero dall'accertamento di un comportamento abnorme del lavoratore e, ove non sia in discussione la colpa di quest'ultimo, nel caso fortuito che si invera, ex art. 2051 c.c., nella natura imprevedibile ed inevitabile del fatto dannoso (v. pure Cass., sez. lav., 14 agosto 2004, n. 15919).
Addirittura, si è precisato (Cass., sez. lav., 18 giugno 2018, n. 16026) che il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 2087 c.c., è tenuto a prevenire anche le condizioni di rischio insite nella possibile negligenza, imprudenza o imperizia del lavoratore, dimostrando di aver messo in atto a tal fine ogni mezzo preventivo idoneo, con l'unico limite del c.d. rischio elettivo, da intendere come condotta personalissima del dipendente, intrapresa volontariamente e per motivazioni personali, al di fuori delle attività lavorative ed in modo da interrompere il nesso eziologico tra prestazione e attività assicurata.
2.2. - Nel caso di specie, dedotta dal lavoratore la concreta modalità dell'incidente - caduta sul medesimo di un braccio meccanico sovrastante, allorché egli svolgeva le proprie mansioni all'interno del reparto - sarebbe stato onere del datore di lavoro provare di aver posto in essere le misure idonee ad evitare il danno.
Invero, dedotto e non contestato trattarsi di cosa di cui il datore di lavoro aveva la custodia, era coinvolta la diretta applicazione, nel loro combinato disposto, degli artt. 2051 e 2087 c.c., in ragione della sussistenza del potere del soggetto sulla cosa e del conseguente obbligo di controllarla, in modo da impedire danni a terzi. Era, dunque, esistente, in detta situazione, una presunzione di responsabilità a carico del datore, che era nel contempo il custode della cosa cagione di danno, superabile, ad opera del medesimo, soltanto con la dimostrazione di avere adottato, tempestivamente e previamente, tutte quelle cautele antinfortunistiche che fossero richieste nel caso di specie, onde il fatto dannoso si sia verificato a causa del caso fortuito, quale evento imprevedibile ed inevitabile.
3. - Il decreto impugnato va dunque cassato e la causa rinviata innanzi al Tribunale di Vercelli, in diversa composizione, affinché, alla luce dei principi richiamati, decida la controversia. Al medesimo si demanda pure la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.
 

 

P.Q.M.

 


La Corte accoglie il ricorso, cassa la decisione impugnata e rinvia, anche per la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, innanzi al Tribunale di Vercelli, in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 18 settembre